“La buona novella”: De André rivive con Cristiano e la Pfm

Due percorsi destinati a incontrarsi quelli della Premiata Forneria Marconi e di Cristiano De André. I tempi sono finalmente maturi per riproporre – quarant’anni dopo – lo storico concerto di Fabrizio De André con l’arrangiamento “made in Pfm”.

L’evento sarà all’Arena di Verona il 29 luglio, sarà equamente diviso da circa quaranta minuti di Cristiano (molti brani da Storia di un impiegato) e altrettanti della band di Franz Di Cioccio, per poi unire voce e strumenti nell’ora finale tutti insieme.

Ci sarà un unico palco – sottolineano i protagonisti alla presentazione per la stampa –, “ci è stato chiesto più volte dal pubblico di riportare quel tour unico ed emozionante e crediamo che sia arrivato il momento giusto”, chiosa Di Cioccio. “Quarant’anni fa quel tour ha cambiato la storia della musica italiana”, commenta Patrick Djivas: “All’epoca questo sforzo è stato riconosciuto da tutti, abbiamo arrangiato ogni brano di Fabrizio esattamente come lui componeva i testi, non si poteva modificare nemmeno un accordo”.

Di Cioccio apre il flusso dei ricordi: “Cristiano era un ragazzino, continuava a toccare i nostri strumenti, non stava mai fermo. Faceva i dispetti a suo padre. Adesso è un grandissimo musicista e – come noi – ha fatto un percorso e una ricerca con la musica di suo padre. Siamo figli della stessa storia, possiamo dire che noi della band siamo un po’ i suoi zii”.

Era il 1978 quando la Pfm si esibì con Fabrizio, ne fu tratto un album unico nel suo genere. La genesi la ricorda Di Cioccio: “Noi partecipammo all’incisione dell’album La buona novella, eravamo tutti capelloni e suonavamo spesso per altri artisti. Poi nel ’78 successe che suonavamo in due date vicine e Fabrizio venne a sentirci. Ma, non avendo la patente, chiese a un pastore di accompagnarlo. Ci ascoltò e venne in camerino a conoscerci, lui borghese ma ribelle come noi e pure visionario. Proponemmo l’idea di fare come in America, dove artisti di grande successo andavano in tour con i gruppi rock. Sapevamo che i puristi avrebbero storto il naso, noi dal progressive ci eravamo già spostati a Zappa e Wheater Report. Parlammo del progetto e ci disse: ‘Belin, è pericoloso. E proprio perché è pericoloso lo faremo’. È stato l’unico che ha avuto il coraggio di misurarsi con un gruppo che non aveva mai fatto un disco uguale all’altro”.

Cristiano nel 1996 portò in tour l’album Anime salve: “Quando canto mio padre non c’è malinconia ma la voglia di portarlo soprattutto alle nuove generazioni. Mio padre aveva una coerenza incredibile: attraverso la bellezza dell’arte non ha mai accettato compromessi, con l’occhio al mercato. Questa sua coerenza è diventata un appiglio esistenziale per i ragazzi che cercano qualcosa di più di un vestito alla moda o di Facebook o di quello che non hanno respirato a casa”.

Di Cioccio auspica che Cristiano e Lucio Fabbri – uno degli ospiti annunciati del concerto – possano “duettare” coi violini nel finale: “Sto solo cercando di farvi capire che vale pena di venirci a vedere, cazzo! Stiamo immaginando di tutto!”. Cristiano rivela una folgorazione per Fabbri: “Nel tour rimasi colpito dal modo di suonare il violino di Lucio e decisi di iscrivermi al Conservatorio nonostante mio padre non volesse. Lui avrebbe preferito che diventassi veterinario, magari facendo partorire le mucche nella casa in Sardegna”.

Il finale è per Di Cioccio, il più entusiasta e il più emozionato: “Abbiamo provato le canzoni e vi garantisco che sarà come avere sul palco Fabrizio”. Il concerto avrà il patrocinio della Fondazione De André con la presenza di Dori Ghezzi.

Eddie Vedder, l’ultimo sopravvissuto ai demoni

Il giorno in cui hanno distribuito il carisma, Eddie Vedder era in prima fila e beveva vino. Barolo, possibilmente. Giusto il luogo magico che lo ha visto protagonista lunedì al Collisioni Festival.

L’uomo che nacque icona grunge (e non solo grunge) per poi divenire cantastorie sui generis, unico sopravvissuto o quasi all’interno di quella ecatombe macabra che uno dopo l’altro ha portato via i Cobain, Staley e Cornell, ha suonato trenta brani. Due ore e mezza di musica benedetta. Pacifista ed ecologista convinto, Vedder non poteva che avere come uniche armi quelle che ha sempre avuto: voce e chitarra. A lui, chissà come, bastano.

Dentro 55 anni che par vivere benissimo, Eddie si muove con l’agio empatico e semplice di un vecchio amico che, a fine cena, prende la chitarra. E ogni tanto si perde in pensieri tutti suoi, proprio come i vecchi amici. Ci mette per esempio mezz’ora, o giù di lì, per raccontare la storia di una zanzara enorme che dopo averlo punto ha cominciato a volare sbarellando perché nel frattempo si era ubriacata, con tutto quel poco plasma e tanto alcol ingurgitato un attimo prima. È così felice di suonare nel cuore mirabile delle Langhe, con i balconi dei palazzi spioventi sul palco (“Mai suonato in vita mia così vicino a una cucina”), che azzarda un paragone tra New York e Barolo. Dev’essersi sentito proprio nel paese dei balocchi. Poi beve ancora vino, perfino “a canna” o peggio ancora dal bicchiere di carta: ed è forse l’unica sbavatura imperdonabile di una serata che, se avesse un voto, sarebbe un 8 pieno.

La capacità di Vedder di reggere il palco senza armature è quasi imbarazzante. È come se, per lunghi tratti, Eddie fosse fatto solo di nervi (neanche troppo tesi) e talento. Si inabissa di continuo, non senza un qual certo compiacimento, nelle viscere della sua materia pulsante naturalmente baritonale. Canta con grazia obliqua, a prescindere dalla canzone scelta. Ama stravolgere le scalette, infatti rispetto alla setlist di due giorni prima a Firenze cambia tanto. Tanto repertorio dei Pearl Jam, depurato dalla matrice più rock all’insegna di quel less is more che tanto adora. Ma pure scampoli della carriera solista: su tutti la colonna sonora di Into The Wild, disco che strazia e non concede salvezza alcuna.

E poi cover, che per Vedder sono più che altro omaggi. I Pink Floyd dell’amico Roger Waters, con cui una volta duettò meravigliosamente in Comfortably Numb e di cui ora ripropone l’inizio di Brain Damage. Tom Petty (I Won’t Back Down), di cui appare un ritratto sul maxischermo alle sue spalle. Warren Zevon, Cat Power, Wayne Cochran, gli Everly Brothers e l’amato Neil Young (la conclusiva Rockin’ In The Free World). Trova il tempo pure per azzardare Should I Stay or Should I go dei Clash. E l’incursione – con l’organo – dalle parti migliori del George Harrison solista, quello cioè di Isn’t a Pity, emoziona sul serio.

Dotato di toni e suoni fortemente suoi, Eddie somiglia solo a Eddie: ogni sua versione finisce giocoforza con l’appartenergli. Se proprio ci si volesse divertire a trovare punti di contatto, a tratti ricorda lo Springsteen che dava del tu al fantasma di Tom Joad e in altri contesti rimanda curiosamente a certe cose di Cat Stevens (di cui infatti riprende Don’t Be Shy).

Svariati e pressoché continui gli apici. I ceselli con i Red Limo String Quartet, che lo supportano in una decina di brani e che incentivano la magniloquente esplosione di Black. La sua personale battaglia con la chitarra in Porch, che – dopo un piccolo errore – lo costringe a fermarsi e quindi esigere il massimo dal brano, quasi a punirlo dell’onta del precedente errore. Il pre-finale con Glen Hansard, che aveva già impreziosito il pre-concerto e che rende ancora più intense Song Of Good Hope e Falling Slowly (composte proprio da Hansard). L’insostenibile – per tristezza e incanto – Society, di nuovo con Hansard. E Hard Sun, molto semplicemente uno dei brani (se cantati da Eddie) che andrebbero salvati dall’Apocalisse, giusto per ricordare alle specie che verranno dopo di noi come gli umani non fossero poi soltanto degli stronzi.

Nel suo cantare e incantare, Eddie Vedder sembra oggi un uomo pacificato. Sereno. Addirittura felice, che per un artista è quasi una sconcezza. Chissà dove nasconde i demoni, e se per caso ha scoperto l’abracadabra per farli vivere unicamente dentro quelle canzoni che li evocano.

Effetto Golunov su tutti gli arresti “per droga”

Mosca riparte da tre cifre e quattro parole: “228: cosa hai in tasca?”. È la domanda che di solito la polizia russa rivolge ai giovani prima di arrestarli, una frase che ora i ragazzi scrivono su cartelli bianchi, stretti a due mani. Il numero 228 è un adesivo sul sudato sedile della metro di Mosca. È su un cappellino o una maglia di quella manciata di ragazzini che rimangono a schiena dritta anche quando li afferrano per braccia e gambe gli omon, poliziotti antisommossa. Il 228 è l’articolo del codice penale russo che prevede una condanna fino a 20 anni di carcere per possesso, trasporto o produzione di droga. Ora 35 esponenti dell’Accademia della Scienza Ran chiedono di riformarlo. Se tutto è iniziato con il caso Golunov, tutto sta proseguendo perché ci sono migliaia di innocenti in cella per le false prove fabbricate dall’Fsb. Un giorno di lotta per la libertà di stampa è diventato una rivendicazione di riforma della giustizia mercoledì scorso intorno alla statua del cantautore sovietico Vladimir Vysotsky a Mosca. Centinaia gli arresti e tra loro il blogger anticorruzione Novalny. Il delo Golunov, il caso del giornalista arrestato con false accuse, da ingiustizia è diventato dibattito e ora si è trasformato in una protesta contro l’impunità delle divise, perché quel numero a tre cifre – 228 – contiene centinaia di altri numeri, casi irrisolti o inventati, ad ogni latitudine russa.

“Migliaia di persone marciscono in prigione con false accuse, sentiamo continuamente di innocenti arrestati”, sono i giovani nella società russa i primi “a percepire l’assurdità della legge 228”. Alla fondazione Andrey Rylkov questo spostamento dell’asse della protesta dalle celle alla piazza lo chiamano “effetto Golunov”: 100mila persone sono state arrestate per il 228 solo nel 2018.

Prima del giornalista, con le stesse accuse, sono stati arrestati Ojub Titev, a capo dell’Ong per i diritti umani Memorial, a Smolensk Tatiana Osipova, il giornalista Zhalaudi Geniev, Ruslan Kataev in Cecenia e perfino un membro del partito comunista di Mosca, Sergey Rezinkov.

Passi significativi verso passaggi cruciali, prima dalla “linea diretta” di Putin con i residenti del Paese, l’appuntamento telefonico annuale del presidente, mentre alla Duma più voci chiedono un ammorbidimento della legge. Due poltrone sono intanto rimaste vuote. Putin ha licenziato, esercitando oculatezza sotto suggerimento del suo ministro dell’Interno, due generali della polizia: Yury Devyatkin, del reparto antidroga di Mosca e il commissario Andrey Puchkov coinvolti nella vicenda del reporter. Il comitato investigativo del Cremlino – che risponde direttamente al presidente – ha cominciato ad indagare i suoi organi di polizia. Liberando il giornalista, il Cremlino rischia di aver scoperchiato il vaso di Pandora dei faldoni polverosi di indagini false.

Vantare un alto numero di arresti dopo investigazioni fittizie o ricevere mazzette sono i motivi per cui poliziotti ricorrono a quello che tutti chiamano narodnaya statya, articolo del popolo, proprio perché chiunque tra la popolazione può finire in cella o pagare per non farlo. Alcuni ragazzi sono stati adescati su Tinder con la promessa di un falso appuntamento e la richiesta di portare un po’ di erba in un luogo dove ad attenderli c’era però l’Fsb. Per far chiudere un occhio alla polizia hanno dovuto allungare una mazzetta di rubli, per farglieli chiudere entrambi una cifra che supera i mille dollari, raccontano molti adesso. Da quando Golunov è uscito di prigione, loro sono usciti allo scoperto.

Il “falco” che vuole a tutti i costi la guerra con l’Iran

Il dubbio d’essersi messo alla Casa Bianca un Dottor Stranamore da strapazzo, venne un mese fa anche a Donald Trump, che si lamentò in pubblico di quel consigliere per la Sicurezza nazionale che lo spingeva alla guerra con l’Iran. A Teheran, il dubbio è certezza: John Bolton “è ossessionato” dall’Iran, mostra un’ostilità “anormale” e promuove una propaganda anti-iraniana fondata su falsità.

A maggio, Trump aveva frenato il segretario alla Difesa ad interim Patrick Shanahan, che, su input di Bolton, gli proponeva di rafforzare lo spiegamento di truppe nel Golfo; ieri, ha dato via libera all’invio di mille soldati dopo che Teheran aveva annunciato che avrebbe violato, entro il mese, i limiti di uranio blandamente arricchito postigli dall’accordo sul nucleare del 2015.

I rinforzi si sommano a un altro invio di 1500 uomini già deciso. Le truppe – dice il Pentagono – avranno soprattutto compiti di sorveglianza e di protezione dei militari operativi nella Regione. E Mike Pompeo, segretario di Stato, ricorda che “il presidente non vuole la guerra con l’Iran”. Che ci sia un po’ di confusione a Washington e, probabilmente, di tiramolla fra falchi e colombe lo conferma l’annuncio, a sorpresa, che Shanahan non diventerà segretario alla Difesa: dopo sei mesi Trump lo scarica e sceglie Mark Esper, segretario all’Esercito, per rimpiazzare James ‘cane pazzo’ Mattis, dimessosi a dicembre perché in disaccordo con le scelte mediorientali della Casa Bianca. Succede al culmine dell’ennesima giornata di tensioni tra Washington e Teheran, mentre Russia e Cina, gli europei e l’Onu cercano di gettare acqua sul fuoco e di smorzare i toni. Secondo il NYT, gli sviluppi registratisi nell’ultimo anno, dopo l’uscita degli Usa dall’accordo sul nucleare con l’Iran e il fallimento del Vertice di Hanoi con il presidente nordcoreano Kim Jong-un, sono uno smacco per Trump: arrivato alla presidenza per risolvere le tensioni nucleari con l’Iran e la Corea del Nord, deve ora affrontare sfide analoghe a quelle sostenute dai suoi predecessori. Le tensioni con la Corea del Nord sono al momento sotto traccia, quelle con l’Iran sono acute. Il Pentagono ha pubblicato nuove foto dell’attacco della scorsa settimana a due petroliere nel Golfo dell’Oman. Il teorico del pugno di ferro con l’Iran è Bolton, ‘super-conservatore’ di lungo corso, richiamato in servizio, nel 2018, come Consigliere per la Sicurezza nazionale.

Mentre stava in panchina, Bolton ingaggiò la Cambridge Analytica nell’agosto 2014, pagando circa 1,2 milioni di dollari nei due anni successivi. Che uso abbia poi fatto dei dati ottenuti con la complicità più o meno consapevole di Facebook non è chiaro. Ma di chiaro, nei percorsi di Bolton, c’è ben poco. I baffoni spioventi gli coprono in parte la faccia rotonda, dietro cui si trincera il sorriso nervoso e grintoso di uno dei più bruschi e aggressivi diplomatici americani: John Bolton è tutto questo e poco più, fin da quando George W. Bush lo fece sottosegretario di Stato e lo mandò poi a rappresentare gli Usa all’Onu. Una nomina che il presidente dovette imporre al Senato, che non l’avrebbe mai approvata. Di Bolton, il portavoce del ministero degli esteri di Teheran, Bahram Ghasemi, ha detto di recente: “Soffre di allucinazioni croniche riguardo all’Iran e invece di correggere i suoi giudizi sbagliati, ha sempre cercato di trovare un modo per giustificare le sue previsioni errate”. In 15 mesi, Bolton ha già invocato un’azione militare contro la Corea del Nord, ha definito l’accordo nucleare con l’Iran “un massiccio smacco strategico” e ha avviato un ‘cambio di regime’ in Venezuela. Fortuna che, finora, i suoi propositi più bellicosi sono rimasti lettera morta.

Tripoli licenzia il generale Haftar

Per la House of Representatives (Camera dei Rappresentanti) in seduta a Tripoli Khalifa Haftar è un generale decaduto. Una decisione presa all’unanimità: quella carica – comandante generale dell’Esercito Libico – era stata creata a Tobruk dell’House of Representatives, nel 2015, un incarico ritagliato sulla figura di Haftar perché nella gerarchia militare libica fin dal 1951 quel grado non era mai esistito. In apparenza, una vittoria per il governo di al-Sarraj, a capo del Consiglio presidenziale libico che vuole delegittimare l’aggressione e uscire dallo stallo, perchè da quando Haftar ha lanciato l’offensiva sulla capitale, ai primi di aprile, in Libia si continua a combattere a fasi alterne.

Sono 691 i morti, compresi 41 civili, e 4.012 i feriti (135 civili), dall’inizio degli scontri; le cifre sono state fornite dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms); 94 mila gli sfollati secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari (Ocha), almeno fino al 10 giugno.

Al-Sarraj tenta anche la carta politica con la richiesta di un “forum” per porre fine alla crisi, una scelta che il suo governo ha condiviso anche con l’ambasciatore Giuseppe Buccino Grimaldi; il ministro degli Interni libico Fathi Bashagha lo ha incontrato due giorni fa a Tripoli. Bashagha ha ribadito all’ambasciatore italiano che “non ci può essere una soluzione militare in Libia”, e che il governo Sarraj è pronto “a dialogare con tutte le componenti sociali della Libia orientale” .

Che le speranze di giungere a compromessi senza altri spargimenti di sangue siano poche lo si capisce dalla reazione di Tobruk: “L’iniziativa del governo di concordia nazionale è un tentativo disperato” perché al-Sarraj “si è reso conto di essere stato abbandonato dalla comunità internazionale”; questo il parere di al-Thinni, primo ministro di Tobruk che ha affidato le sue conclusioni a Sky News Arabia: le forze fedeli a Tripoli “non riescono a resistere all’avanzata” dell’Esercito nazionale libico (Lna) e l’annuncio del capo del Consiglio presidenziale altro non è che “fumo negli occhi”. “L’iniziativa – ha ribadito al-Thinni – avrebbe avuto senso all’epoca della formazione del governo di concordia nazionale, nato dall’accordo di Skhirat firmato nel dicembre 2015”. Ma al-Sarraj non ha rispettato l’intesa sullo “scioglimento delle milizie”, le stesse che ora stanno proteggendo Tripoli.

Resta il dato di fatto: l’offensiva lanciata il 4 aprile da Haftar su Tripoli, è impantanata. Le sparatorie e i bombardamenti mettono a dura prova i civili, e provocano continui black-out di energia elettrica. Ieri nuovi scontri alla periferia sud, secondo il portale d’informazione filo-Haftar Libyan Address, l’Esercito nazionale libico sta mantenendo “le posizioni conquistate da 48 ore”. Questo tipo di informazioni contrasterebbero però con il quadro generale: Haftar avrebbe perso lo slancio e soprattutto, non venendo a capo in poco tempo dell’offensiva, sarebbe in imbarazzo anche con quella parte dell’Occidente e del Medio Oriente che lo sostiene. Ne è convinto l’ex ministro degli Esteri libico Aly Abuzaakouk che è stato intervistato da al Jazeera; Abuzaakouk conosce bene l’ufficiale libico per aver vissuto assieme a lui in esilio negli Stati Uniti e aver sofferto il pugno di ferro di Gheddafi. “È un uomo che crede di essere capace di controllare la Libia” – ha detto l’ex ministro, ma dal punto di vista delle alleanze interne “la base di appoggio di Haftar nell’est non è più come prima”, senza contare che le milizie si sono schierate in difesa di Tripoli. Haftar però ha ancora carte da giocare: “La comunità internazionale deve ammettere d’aver sostenuto Haftar con le armi, contravvenendo alla risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite; tutti sanno che ci sono armi provenienti dall’estero, almeno da Abu Dhabi e Egitto”.

Le botte agli operai e la polizia ai tempi dei decreti Sicurezza

C’è il caso delle proteste di Italpizza, industria di Modena in cui quasi tutti i dipendenti sono assunti da due cooperative che lavorano in appalto e dove nel 2015 i sindacati confederali accettarono un accordo molto penalizzante per i lavoratori. Questi ultimi oggi vorrebbero almeno recuperare il salario del contratto dell’industria alimentare (oggi gli viene applicato quello delle pulizie) e l’azienda ovviamente non vuole: da mesi, più volte a settimana, un reparto della celere consente ai proprietari di Italpizza l’ordinata gestione dell’industria caricando, quando serve, gli operai che protestano all’esterno; ieri, come si vede in un video diffuso online, un poliziotto per motivi oscuri ha preso per il collo un delegato del SI Cobas trascinandolo dietro una camionetta per esporgli, immaginiamo, il suo punto di vista sulla vertenza in atto.

Nel cremonese, invece, ci sono le proteste contro la Finiper, che controlla i supermercati Iper, innescate dal fatto che l’azienda si è rimangiata un accordo firmato in Prefettura mandando in mezzo a una strada 170 facchini, in sciopero da quasi un mese. Venerdì la polizia ha duramente caricato i lavoratori che manifestavano con le loro famiglie e un agente ha pensato bene di mostrare al signor Mansur Cankaya – facchino 56enne di origini turche, iscritto al sindacato Usb – una sua mossa di arti marziali: secondo la denuncia, gli ha stretto una gamba a forbice tra le sue e poi ci si è seduto sopra rompendogli il ginocchio; la foto dell’articolazione postata sui social da un delegato del sindacato fa accapponare la pelle.

Sono due episodi, altri se ne potrebbero citare, che raccontano un mondo: la responsabilità penale è sicuramente personale, e speriamo venga indagata dalla magistratura, quella politica è personale e di gruppo e chiama in causa il governo e, in primo luogo, il “ministro di polizia” Matteo Salvini, l’uomo che ha indicato la via alle forze dell’ordine. Nei due decreti Sicurezza, infatti, oltre ai provvedimenti sull’immigrazione, ci sono modifiche al codice penale che hanno come centro ideologico, per così dire, la criminalizzazione del conflitto sociale e quello sindacale in primo luogo: dalla reclusione da 2 a 12 anni – assai più di una violenza sessuale o una rapina – per i blocchi stradali e ferroviari (addio picchetti nella logistica) ai 4 anni di carcere per chi fa scoppiare petardi durante una manifestazione o le pene assurde per qualunque reato (persino l’innocua resistenza a pubblico ufficiale) commesso durante una protesta. La classe, recita il nome di questa rubrica, non è acqua e il classismo del governo gialloverde nemmeno: pare che la polizia, nonostante le interviste “anti-salviniane” del capo Franco Gabrielli, l’abbia capito.

Ecco perché i politici promettono manovre miracolose e i cittadini continuano a votarli

Il braccio di ferro fra istituzioni ed economisti non ha vincitori: che sia per ingraziarsi gli elettori, per mantenere la poltrona o semplicemente perché credono che le proprie scelte siano migliori, sempre più spesso i politici ignorano gli allarmi lanciati dagli esperti. Krugman contro Trump, le crisi in Argentina e Grecia, l’inflazione in Italia sono solo alcuni degli spunti per spiegare in modo semplice, ma non banale le complessità che l’economia vuole risolvere. “Nessun pasto è gratis” di Lorenzo Forni (Il Mulino) è un libro che analizza agilmente le politiche fiscali e monetarie internazionali, per dimostrare come i policy maker, siano essi in buona o cattiva fede, prima o poi dovranno affrontare i vincoli dell’economia reale. Una riflessione alla portata di tutti, nonché un invito al buonsenso dei contribuenti. Perché se un Paese spende più di quanto produce, alla fine qualcuno dovrà pur saldare il conto.

 

L’unica riforma fiscale: tassazione per condono

Dietro ai numeri da record della rottamazione-ter delle cartelle si nascondono alcuni rischi. Occorre dare atto del buon risultato dell’operazione in termini di richieste di accesso alla definizione agevolata. Secondo i dati dell’Agenzia delle Entrate, sono state presentate al 30 aprile oltre 1,7 milioni di domande di definizione, riguardanti quasi 13 milioni di cartelle per circa 38 miliardi di euro. Queste cifre potrebbero salire ancora, vista l’ulteriore proroga fino al 31 luglio per la domanda.

Anche se non è detto che saranno incassati tutti i carichi iscritti a ruolo oggetto di istanza di definizione agevolata (con pagamento del tributo – ridotto per i soggetti con un basso Isee – e abbuono di sanzioni e interessi moratori), è ragionevole ritenere che una buona parte degli stessi si tradurranno in effettivi incassi per l’erario: l’Agenzia delle Entrate si aspetta di incamerare rispettivamente 21 e 6,5 miliardi per la rottamazione e il “saldo e stralcio” per i soggetti in difficoltà economica.

Un successo, appunto, che non era scontato, trattandosi della terza reiterazione di un provvedimento che pareva aver quasi esaurito il suo potenziale: l’allungamento fino a cinque anni dei termini per il pagamento, rispetto a quelli più ravvicinati delle precedenti versioni della rottamazione delle cartelle (decreti legge 193/2016 e 148/2017), ha reso più appetibile la nuova occasione di definizione agevolata.

Questa modalità di riscossione di somme e tributi iscritti a ruolo a seguito del mancato versamento spontaneo da parte del contribuente, tuttavia, è sempre più strutturale. Riproposta ogni anno dal 2016, la definizione agevolata sta assumendo connotati di sistema, tanto che è oggetto di continue proroghe e se ne auspica l’estensione ai carichi affidati agli agenti della riscossione nel 2018 (dopo che in precedenza era stata allargata alle cartelle 2016 e poi a quelle 2017).

In modo surrettizio, insomma, la definizione agevolata dei ruoli si sta trasformando da strumento di finanza straordinaria nominalmente legato a una situazione di crisi economica, a modalità ordinaria di riscossione, che alimenta nei contribuenti un’aspettativa dalle conseguenze deleterie: quella per cui il mancato versamento delle imposte dovute resterà senza conseguenze, potendo sempre il pagamento essere effettuato, in futuro, in comode rate senza interessi o sanzioni, e addirittura in certi casi con un parziale abbattimento del tributo dovuto.

Ad aggravare la situazione, sul piano dell’uguaglianza e dell’equità nella ripartizione dei carichi pubblici, vi è il fatto che del pagamento rateizzato si avvantaggiano selettivamente gli autonomi e in generale i soggetti che non subiscono il prelievo alla fonte, i quali, a differenza di altri autonomi o dei dipendenti che ricevono emolumenti al netto delle ritenute operate dal committente o datore di lavoro (pay-as-you-earn), possono non soltanto decidere quanto dichiarare, ma altresì se e in che tempi pagare.

I vari provvedimenti sulla definizione agevolata delle cartelle dal 2016 rischiano così di consolidare “l’affermarsi di condotte fiscali che si risolvono nel mancato versamento delle imposte evidenziate nelle dichiarazioni tributarie, spesso unite a comportamenti finalizzati a una preordinata insolvenza… Il fenomeno delle imposte dichiarate e non versate si riconnette a un altro aspetto peculiare nel funzionamento del sistema fiscale italiano, quello delle rateazioni dei debiti d’imposta, che costituisce ormai un nuovo canale di erogazione del credito, pur in assenza di garanzie e di valutazioni prognostiche sulle future capacità dei debitori, con l’effetto di differire nel tempo la presa d’atto di insolvenze prevedibili” (così si legge nella Relazione della Corte dei Conti sul rendiconto generale dello Stato 2017).

Di fronte a una diffusa propensione a forme di “evasione da riscossione”, connesse al mancato versamento spontaneo di imposte dichiarate (underpayment gap), il reiterato ricorso del legislatore alla “rottamazione” delle cartelle costituisce per i contribuenti un oggettivo incentivo a perseverare in comportamenti opportunistici il cui disvalore non è più percepito, e rischia altresì di stendere un velo di opacità sulla reale efficacia delle azioni esecutive dell’Agenzia della riscossione, che la presentazione dell’istanza di rottamazione ha peraltro l’effetto di sospendere. La stagione delle rottamazioni dei ruoli potrebbe produrre alcuni frutti avvelenati, tra cui un aumento dei carichi inesigibili.

Le sistematiche definizioni agevolate dei ruoli, insieme ad altre forme di sanatoria su imponibili non dichiarati senza sosta ventilate (da ultimo, quella sui contanti depositati nelle cassette di sicurezza), sembrano confermare la teoria della “tassazione per condono”, sostitutiva degli ordinari controlli fiscali.

Il lato oscuro di tali misure è che le stesse, anche quando hanno successo nell’immediato consentendo un recupero di entrate, finiscono, se ripetute più e più volte, per generare nella platea degli obbligati il convincimento che, anziché adempiere spontaneamente, convenga mimetizzarsi e rendersi inadempienti salvo poi lucrare sui provvedimenti di condono ai quali il legislatore, come un tossicodipendente, non riesce più a rinunciare.

Esuberi Vodafone, “Noi, dipendenti dei negozi, siamo stati discriminati”

L’accordo sottoscritto con i sindacati lo scorso 4 aprile, ha scongiurato 1.130 esuberi su 6.500 dipendenti di Vodafone, grazie a una maxi- ristrutturazione che vede la messa in solidarietà per 4.870 lavoratori, il ricorso alla mobilità volontaria e incentivata per 570 e riconversioni professionali per 320 dipendenti. Con un piano di assunzioni per 300 persone in prossimi tre anni. Ma nell’accordo sono previste due differenti procedure: una per i dipendenti di Vodafone Italia e una per quelli di Vodafone Gestioni, vale a dire per i 54 dipendenti che lavorano nei negozi. “Per noi – spiega al Fatto uno di questi lavoratori – è prevista solo un’uscita volontaria accettando l’incentivo all’esodo con 36 mesi di buonuscita, pena la ricollocazione presso un partner commerciale privato e a determinate condizioni penalizzanti. Insomma, una discriminazione nei confronti di 54 dipendenti che hanno almeno 15 anni di anzianità in Vodafone e che sono passati a lavorare nei negozi dopo un job posting indetto dalla stessa azienda”. Il timore è chiaro. I negozi diretti stanno iniziando a chiudere (è già accaduto a Napoli): il 22 giugno si abbasseranno le serrande a Verona e Palermo, il 26 toccherà a Roma e Milano. E se il dipendente non accetterà né l’esodo né la ricollocazione, ben presto non avrà più un lavoro, anche se riceverà regolarmente lo stipendio. “La mobilità – replica Vodafone – è volontaria anche per i 54 dipendenti dei negozi, per i quali l’azienda si è adoperata per individuare opportunità di ricollocazione con assunzione a tempo indeterminato senza periodo di prova presso terze parti che prevedono il mantenimento dei trattamenti economici e normativi equivalenti e della sede di lavoro”. “Non abbiamo lasciato indietro nessuno ed è nota la questione della gestione dei negozi”, tranquillizza Giuseppe Francesco della Slc Cgil. “Il 26 giugno – spiega – ci sarà il primo incontro di verifica con l’azienda per fare la conta delle prime adesioni all’esodo. E in quel tavolo faremo anche il punto sui 54 dipendenti dei negozi”. Intanto le voci si rincorrono, come quella di una possibile chiusura di Vodafone Gestioni.

Il futuro dell’economia è rivelato dallo spread

Il discorso di Mario Draghi al forum della Banca centrale europea a Sintra ha rivelato una notevole attenzione alle implicazioni per le economie reali delle fluttuazioni dei prezzi delle attività finanziarie. Questa preoccupazione non è condivisa dalla nostra politica domestica, in Italia, che identifica una distinzione tra il preoccuparsi dello spread e il preoccuparsi del benessere degli italiani.

I dati ci dicono invece che le fluttuazioni dello spread prevedono l’andamento dell’economia reale e del tasso di disoccupazione: quando lo spread aumenta, in Italia aumentano i disoccupati. La figura a corredo di questo articolo illustra chiaramente questa tendenza nei dati dal 2006 in poi mostrando come fluttuazioni nello spread anticipino le fluttuazioni del tasso di disoccupazione con un effetto persistente nel tempo.

Perché? Una razionalizzazione di questo fenomeno ci viene offerta nel bel libro di Roger Farmer intitolato Prosperity for all (Oxford University Press, 2017). Le recessioni (soprattutto quelle profonde) sono causate da crisi di fiducia nel sistema finanziario. La crisi del 2008 e quella successiva del debito europeo sono state accompagnate da crolli dei mercati che hanno ridotto drasticamente la ricchezza delle famiglie. Alla caduta della ricchezza si è associata una caduta della spesa, le aziende hanno licenziato lavoratori e hanno ridotto la produzione di beni. Con la riduzione drastica della produzione, si sono ridotti i profitti. All’effetto della crisi di fiducia sul capitale dei risparmiatori si è associato in Europa l’effetto della crisi di fiducia sul capitale bancario.

Quando i titoli di Stato sono una parte rilevante degli attivi bancari, un crollo dei loro prezzi comporta una riduzione del capitale ed una conseguente riduzione della capacità del sistema bancario di fare prestiti alle aziende e mutui alle famiglie. La crisi di fiducia dei mercati finanziari, che comporta un crollo dei prezzi, produce una profezia che si auto-avvera.

Alla radice della relazione tra il tasso di disoccupazione e l’andamento dei mercati finanziari sta il fatto che i dati non indicano la presenza di un tasso di disoccupazione “di equilibrio” attorno al quale il tasso osservato tende a fluttuare (il tasso medio di disoccupazione in Italia tra il 2006 e oggi è stato circa del 9 per cento ma il tasso di disoccupazione osservato è stato uguale al tasso medio solo una volta in tutto il campione osservato). L’ipotesi che esistano molti tassi di disoccupazione di equilibrio e che quello rilevante sia selezionato dall’andamento dei mercati finanziari è invece coerente con i dati.

I mercati finanziari contano e choc ai prezzi delle attività finanziarie hanno un effetto reale permanente sul tasso di disoccupazione. Esistono due tipi di choc ai prezzi delle attività finanziarie: quelli fondamentali e quelli non-fondamentali. Gli choc fondamentali rivelano nuove informazioni sull’andamento variabili che determinano il prezzo delle attività finanziarie (si pensi al caso della relazione tra fondamentali fiscali e macroeconomici e spread), gli choc non-fondamentali influenzano direttamente le aspettative senza dare indicazioni precise sull’andamento dei fondamentali. Basta pensare all’effetto delle famose parole whatever it takes pronunciate da Mario Draghi nel 2012 per segnalare ai mercati la determinazione della Bce nella difesa dell’euro, o alle dichiarazioni coerenti dei politici portoghesi sull’importanza di stabilizzare il debito pubblico, che hanno contribuito a portare lo spread tra i titoli portoghesi e quelli tedeschi sotto i 100 punti base.

La finanza conta per determinare l’equilibrio macroeconomico e le parole dei politici contano per determinare l’andamento dei mercati finanziari.

*Professore ordinario di Economia e direttore del Dipartimento di Finanza, Università Bocconi