Draghi fa infuriare Trump, ma il vero bersaglio è Berlino

Non è il “wathever it takes” pronunciato a Londra nel 2012, ma il discorso che ieri Mario Draghi ha tenuto al Forum di Sintra (Portogallo) avrà un impatto rilevante sul futuro della zona euro. Nell’ultima riunione del Consiglio, il 6 giugno, il presidente della Bce aveva annunciato che il periodo dei tassi bassissimi proseguirà a lungo e lanciato nuove aste di liquidità a costo zero per le banche (Tltro) facendo calare gli spread. Ieri è andato oltre, lasciando intendere che il crollo delle aspettative di inflazione nell’eurozona – il mandato di Francoforte è di tenerla poco sotto il 2% (oggi quella “core” è allo 0,8%) – potrebbe spingere a un nuovo intervento, sotto forma di taglio dei tassi, già negativi, o perfino a riaprire il Quantitative easing, il programma di acquisti massicci di titoli dei debiti pubblici chiuso a dicembre 2018. In sostanza, ha ipotecato il mandato del suo successore.

Lo spread è sceso sotto i 240 punti base, minimo da marzo scorso. L’annuncio ha svalutato subito l’euro sul dollaro e il presidente Usa Donald Trump ha reagito furioso: “Così rende più facile per l’Ue competere in modo sleale con gli Usa. Sono anni che fanno come la Cina”. È la seconda volta in due settimane che Trump accusa la Bce di far calare l’euro per avere un ingiusto vantaggio commerciale. In passato il presidente Usa (come il predecessore) ha accusato l’Unione europea e la Cina di manipolazione monetaria.

“Il nostro obiettivo non è il tasso di cambio”, ha replicato Draghi. E in effetti, al netto delle ragioni del tycoon americano, il suo discorso ha una portata più ampia e affonda nella cronica incapacità della Bce di centrare il target d’inflazione in un’area valutaria, quella dell’euro, strutturalmente deflazionistica, con tutte le conseguenze negative che questo ha sulla crescita dei salari e la sostenibilità dei debiti dei Paesi più fragili.

Appena insediato a novembre 2011, Draghi ha tagliato i tassi di interesse dopo il disastroso rialzo deciso dal predecessore, Jean Claude Trichet al culmine della crisi finanziaria. Poi ha varato le aste di liquidità (Tltro). Nel momento di massima tensione della crisi europea ha pronunciato il famoso “faremo qualunque cosa serva per preservare la moneta unica” che ha evitato il collasso dell’eurozona. Quando la recessione causata dalla stretta fiscale imposta ai Paesi dell’area euro tra il 2011 e il 2013 ha travolto i bilanci, la Bce ha portato i tassi in zona negativa (giugno 2014). Nel 2015 il crollo del prezzo del petrolio ha ipotecato le speranze di far salire l’indice dei prezzi e spinto la Bce a varare il Qe (con acquisti per 2.500 miliardi). Nonostante tutto questo, oggi le aspettative di inflazione sono al minimo storico.

Su questo piano, la Bce ha fallito il suo mandato pur avendo tenuto insieme i cocci dell’eurozona. Ieri Draghi l’ha messa così: gli strumenti usati hanno centrato l’obiettivo di trasmissione della politica monetaria, ma la politica fiscale dei Paesi “non ha svolto il suo ruolo”. L’accusa è rivolta ai Paesi del blocco nordico, Germania in testa, che persistono nel mantenere enormi surplus commerciali e politiche fiscali restrittive (pur avendo margini di bilancio), scaricando il peso degli aggiustamenti sui Paesi più fragili. Si chiama austerità. “Negli ultimi 10 anni – ha spiegato Draghi – il peso dell’adeguamento macroeconomico è diminuito in modo sproporzionato rispetto alla politica monetaria. Abbiamo persino visto casi in cui la politica fiscale è stata prociclica e ha contrastato lo stimolo monetario”. È l’ennesimo messaggio a Berlino, mentre entra nel vivo la partita per il suo successore. Il presidente della Bce lascerà a ottobre, non esprime preferenze ma il suo discorso è incompatibile con l’ipotesi che gli subentri il numero uno della Bundesbank, Jens Weidmann, o chi ha fatto blocco con il tedesco contro tutte le misure straordinarie varate in questi anni.

Finti autonomi, pensionati benestanti e dirigenti: chi vince con la mini flat tax

La legge istitutiva della mini flat tax per i professionisti e per le piccole imprese individuali è entrata in vigore il primo gennaio scorso. Aliquota Irpef unica al 15%, niente Iva e ritenuta d’acconto da pagare e costi abbattuti a forfait sono il piatto forte del nuovo regime fiscale a cui può accedere chi ha realizzato ricavi sotto i 65 mila euro annui. In base ai dati forniti dall’Osservatorio del ministero dell’Economia sulle nuove attivazioni registrate nel primo trimestre dell’anno stiamo assistendo a un vero e proprio boom delle partite Iva. Sono 104.456 i soggetti che hanno aderito al regime forfettario, pari a più della metà del totale delle nuove aperture (53,3%), con un aumento di adesioni di ben il 40% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In base alla classificazione per settore produttivo, le attività professionali vantano il maggior numero di aperture di partite Iva (20,2% del totale), seguite dal commercio (17,8%) e dalle costruzioni (9,1%). Rispetto al primo trimestre del 2018 le forme societarie presentano significativi cali: -17,2% per le società di persone e -8,5% per le società di capitali. Poi da gennaio 2020 il tetto dei ricavi si alzerà a 100 mila euro, ma i costi dovranno essere documentati per essere detratti dall’imponibile.

Per quest’anno, la legge istitutiva prevede che a far fede sia il fatturato del 2018. Una clausola che ha spinto, chi ha potuto, a rimandare la fatturazione delle prestazioni a ridosso del 31 dicembre 2018 a quest’anno. Ma non è stata l’unica distorsione portata dalla nuova imposta piatta. Il ragionier Agostino (lo chiameremo così) presta la sua opera come commercialista nello studio intestato alla moglie. La norma stabilisce che dal 2019 non si può essere ammessi agli sconti d’imposta se si controllano direttamente o indirettamente società a responsabilità limitata o associazioni in partecipazione, riconducibili all’attività autonoma intrapresa. Allora il professionista si è messo davanti alla tastiera e ha interpellato direttamente l’Agenzia delle entrate. Gli associati negli studi professionali – architetti, avvocati, commercialisti in prima fila – sono stati finora tra coloro che hanno aderito con maggior entusiasmo al nuovo regime forfettario. Il meccanismo è semplice: i costi vengono dedotti dall’imponibile del titolare dello studio obbligato a rimanere nel regime Iva ordinario e gli associati si trasferiscono armi e bagagli nel paradiso “flat”.

Ha brindato al nuovo anno anche il vasto mondo di pensionati benestanti, funzionari e dirigenti ministeriali. Il governo ha eliminato la clausola “anti elusiva” voluta nel 2015 dal governo Renzi che impediva ai soggetti titolari di redditi da lavoro dipendente o pensione sopra i 30 mila euro di poter accedere all’aliquota fissa per gli eventuali redditi da lavoro autonomo. E così un professionista con un reddito di 130 mila euro non può accedere all’aliquota agevolata, ma un pensionato con 80 mila euro di pensione che cumuli consulenze per 50 mila euro, può pagare su quest’ultimo reddito il 15% invece della normale aliquota Irpef del 43%.

Tra i nuovi beneficiari degli sconti fiscali troviamo anche i titolari delle cosiddette false partite Iva e i loro datori di lavoro. Sono coloro che prestano la loro opera come lavoratori dipendenti ma che, nei confronti del fisco, della previdenza e dei contratti collettivi, figurano inquadrati nel più conveniente popolo delle partita Iva. “Per loro il taglio di aliquota fiscale è stato sostanzioso e anche il prelievo previdenziale praticato dalle casse professionali a cui si aderisce è molto più vantaggioso rispetto all’Inps, ma la flat tax si è portata via anche i diritti che i contratti comportano: ferie, maternità, malattia, stabilità del rapporto”, fa osservare il responsabile per le politiche fiscali della Cgil, Cristian Perniciano. “Queste norme incentivano il professionista a non assumere e a non ingrandire la sua attività – aggiunge Perniciano – ma di fatto avvantaggiano anche il suo dipendente: su un lordo di 65 mila euro con il regime ordinario, gli rimarrebbero in busta paga 38 mila euro. Ma se passa alla flat tax se ne ritroverebbe 45 mila, con un risparmio per il datore di lavoro sulla quota contributiva di 15 mila euro”. “Se sei un professionista vero e una struttura organizzativa articolata ti conviene il regime ordinario”, spiega, dati alla mano, il responsabile dell’ufficio per le politiche fiscali della Cna, Claudio Carpentieri, che valuta nel complesso positivamente la cura choc applicata dalla Lega. Ma di cui beneficiano, secondo la Cna, solo autonomi con ricavi superiori ai 15-20 mila euro, a seconda delle categorie.

Secondo i calcoli dell’ufficio studi di Lef (l’associazione per la legalità e l’equità fiscale), la flat tax per gli autonomi sembra fatta esclusivamente per avvantaggiare le fasce di ricavi più alte. Complessivamente su 1,7 milioni di contribuenti che potrebbero ricadere nell’aliquota unica, oltre 800 mila (oltre il 45%) non hanno convenienza a rinunciare al sistema delle detrazioni e delle deduzioni previsto dal regime ordinario. Il fatto che un così elevato numero di soggetti indipendenti con volume d’affari inferiore ai 65 mila euro non riceva sostanziali vantaggi dall’introduzione dell’aliquota unica è un problema strutturale della norma, che in termini applicativi produce l’effetto opposto di quello ottenuto con la progressività. Per quanto riguarda il nostro ragionier Agostino, la risposta dell’Agenzia delle Entrate è stata salomonica: per il 2019 un contribuente in possesso dei requisiti previsti dalla legge può accedere al regime forfetario anche se controlla indirettamente una Srl, di cui è anche amministratore. Per il 2020 si vedrà.

La politica del tasso di interesse

Tra le tante eredità del Novecento che ci stiamo lasciando alle spalle, c’è l’idea che le Banche centrali debbano essere indipendenti dalla politica. Mario Draghi, nel suo discorso di ieri, ha ricordato che la Bce può ancora tagliare i tassi per sostenere una ripresa europea mai decollata. La forza delle sue parole deriva dall’indipendenza e tale indipendenza, lui lo ha ricordato più volte, si legittima proprio perché limitata a un mandato molto specifico: difendere la stabilità dell’euro e tenere l’inflazione stabile intorno al 2 per cento. Un mandato più ampio, come quello che tanti invocano di sostegno alla crescita e alla politica fiscale, sarebbe impossibile da affidare a un’istituzione che risponde solo ai trattati Ue e non agli elettori. Mentre Draghi parlava, Bloomberg rivelava che la Casa Bianca di Donald Trump, a dicembre, ha valutato la possibilità di demansionare il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell: non potendolo licenziare, Trump pensava di privarlo della qualifica di presidente. Non è successo anche perché sarebbe stato inutile: il presidente non avrebbe avuto il potere di togliergli la guida del comitato che fissa i tassi di interesse, cioè l’oggetto del contendere. Per ribadire che vuole una politica monetaria subordinata alle ragioni del potere politico, Trump ha anche attaccato Draghi (un euro indebolito penalizza le esportazioni americane).

Giustificare banche centrali indipendenti non è facile: bisogna avere il ricordo fresco delle dolorose ferite dell’inflazione, dei danni che l’instabilità monetaria può causare a singoli risparmiatori e interi Paesi per delegare a tecnici privi di legittimazione diretta il controllo di una parte tanto vitale delle nostre scelte collettive. Ora quel ricordo è lontano, le banche centrali sono rimaste vittima del loro successo. Hanno fermato l’inflazione, ora politica ed elettori vogliono che stimolino la crescita. I pericoli di cercare consenso elettorale attraverso il doping monetario però sono rimasti gli stessi. Meglio non dimenticarlo.

Facebook lancia Libra. Così il social diventa una (cripto) banca

Funzionerà più o meno così: un utente qualsiasi potrà accedere a un exchange o a una piattaforma apposita, pagare con la carta per acquistare le Libra, le nuove criptovalute lanciate dalla Libra Association, e poi potrà conservarle in un portafoglio online di Facebook, che si chiamerà Calibra, dal quale – come avviene per i conti in banca – potrà inviarle o riceverle anche via Whatsapp o Messenger o app. Ovviamente pagando una commissione che Mark Zuckerberg ieri ha assicurato sarà low cost, parallelamente però all’intenzione di sviluppare servizi sempre più avanzati per il business. Poi le si potrà ricambiare in moneta fiat sulla stessa piattaforma.

Il social network non si smentisce: prende le infinite potenzialità di libertà del web e le incasella nelle regole del mercato. Ieri, dopo settimane di voci, è arrivato l’annuncio ufficiale della creazione entro il 2020 di questa criptovaluta che si reggerà su una rete di 28 operatori (da Visa a Mastercard e Paypal, da Uber a Spotify, da eBay a società specializzate nel settore blockchain come Coinbase e Xapo ma anche telco come Vodafone e Iliad), che mira a coinvolgerne almeno cento e che dovrebbe servire a far scambiare più facilmente le criptovalute, quindi soldi, tra gli utenti o tra venditori e acquirenti senza l’intermediazione dei sistemi di pagamento. La tecnologia blockchain (la stessa su cui si basano i bitcoin) certificherà le transazioni e assicurerà scambi immediati a costi più bassi. Facebook lancia allora il suo bitcoin? No. Libra è tecnicamente definita una stablecoin, ovvero una moneta virtuale stabile perché il suo valore non è condizionato dalla domanda e dall’offerta (come avviene invece per le criptovalute in circolo finora, favorendo così la speculazione) ma è ancorato ad asset reali stabili come le monete dei diversi Paesi, il dollaro o l’euro ad esempio, ma anche a depositi bancari e titoli di Stato di Paesi considerati stabili. In questo modo l’utente la comprerà e venderà tendenzialmente allo stesso prezzo e l’unico motivo per farlo sarà utilizzare una moneta virtuale da una app senza dover ricorrere ai contanti o alla carta di credito. Chi investe, potrà guadagnare dalle commissioni sulle transizioni e le banche potrebbero a un certo punto essere invogliate a diventare partner anziché concorrenti. Ciò a cui punta Menlo Park, infatti, è la capillarità, e se si considerano i partner coinvolti è chiaro che, almeno per quanto riguarda i servizi digitali, il potenziale c’è. Alle banche resterebbe il nocciolo duro della popolazione più anziana, ma potrebbero aprirsi nuove prospettive con gli utenti che non hanno un conto. A meno che non decidano di fare la guerra a Zuckerberg: difficile, visto che un’alleanza di una portata simile è impensabile.

La nuova criptomoneta fa capo a una associazione non profit di 28 entità, con sede in Svizzera e dal nome Libra Association. “L’associazione – si legge nel White Paper di presentazione – è pensata per facilitare le operazioni di Libra, per gestire la riserva che mantiene stabile il valore della valuta e per coordinare gli accordi tra i suoi stakeholder”. Ogni membro detiene un nodo della rete blockchain di Libra (quindi ognuno dei ‘registri’ su cui viene salvata e quindi certificata in modo indelebile la transazione nel momento in cui avviene) ed elegge un rappresentante nel consiglio dell’associazione, che prende le decisioni per votazione. Ciascun membro fondatore non può detenere più di un voto o dell’1% del totale dei voti”. Il sistema – ideato e realizzato da David Marcus, ex presidente di PayPal, direttore dell’unità Facebook Messenger e dal 2017 anche membro del consiglio di amministrazione di Coinbase, uno dei maggiori exchange e fornitori di servizi di criptovalute – si regge quindi su una riserva nutrita da due fonti: gli investitori iniziali e gli utenti di Libra. L’associazione distribuirà incentivi in moneta Libra ai membri fondatori per incoraggiarne l’adozione, mentre la creazione di nuove monete Libra avverrà in base alla domanda. La cosiddetta riserva sarà poi investita in attività “a basso rischio” che “produrranno interessi nel tempo” e le cui entrate sosterranno “innanzitutto le spese operative” e finanzieranno “crescita e sviluppo dell’ecosistema, organizzazioni non profit e multilaterali, ricerca ingegneristica”. Solo dopo, secondo il piano, parte del rimanente rendimento andrà a pagare i dividendi ai primi investitori. “Poiché le attività nella riserva sono a basso rischio e basso rendimento, i rendimenti per i primi investitori si concretizzeranno solo se la rete avrà successo e la riserva crescerà in misura sostanziale”, si legge. Secondo quanto trapelato, ogni azienda finora ha investito 10 milioni di dollari. L’obiettivo di Zuckerberg è arrivare a un miliardo. Curiosità: dalle immagini a titolo di esempio pubblicate sul blog di Facebook il cambio Libra/Dollaro è indicato 1 a 1,0493.

Bisognava capirlo: le mosse per acquisire la licenza bancaria (le stesse che hanno spinto anche Google e Amazon a fare passi simili e a pensare strumenti finanziari propri per gli utenti) sono una alternativa a fronte della sempre maggiore pressione sulla privacy e su un modello di business che l’ha minacciata senza sosta. Ora, la crittografia della blockchain (oltre alla rassicurazione di una netta divisione tra le informazioni di Facebook e quelle legate a Libra e Calibra) dovrebbe aver risolto questo problema. Restano le pressioni dell’antitrust Usa, ma anche in questo caso, con la compartecipazione di altre società, il disegno pare perfetto. La guerra di Zuckerberg è solo all’inizio.

Camilleri, il “forte” Tiresia che prende in giro la morte

Uno con la fantasia aperta come lui in queste ore – nel suo transito – non può che andarsene per i fatti propri che, nel caso specifico, son quelli del vecchio Andrea Camilleri. E scusate se è poco.

Uno come lui – 93 anni – uno che da cieco ha visto ancora meglio, uno che si carica tutti i suoi acciacchi e può fare qualunque cosa, pure innamorarsi, può perfino prendersi a braccetto la morte. Chiamarla a sé la morte, questo può fare, e farle fare uno di quei giri mirabolanti di ragionamenti in cui – come in una mano di ramino, come nel riavvolgere dell’impasto degli arancini – non si perde mai il filo, tanto l’ingranaggio del suo racconto è perfetto come un orologio.

Se ci fate caso, ovunque ci siano vecchi seduti a chiacchierare tra loro – all’ombra, davanti a un circolo in estate – c’è la morte. Osservateli seduti nei caffè, a corteggiare ancora le amiche e consumare leccornie delicate tipo semenza tostata, bibite zuccherate ma anche qualche birra, ebbene, fateci caso: accomodata con loro, sempre discreta, c’è sempre la morte. A volte è anche dispettosa, la Morte: “Ma che cosa festeggi i compleanni, che diverti a fare – è proprio lei a parlare – se alla fine arrivo io e ti porto via?”.

Camilleri – come tutti gli uomini autentici – ha il senso del principio, del durante e dell’uscita di scena e allora pare di sentirla la sua voce, ferma, risponderle a tono alla signora Morte e quindi dirle: “E chi ti dice che non stia festeggiando proprio te, stronza!”. Quel saper arrivare da lontano – da un’infanzia felice – guadagnandosi le medaglie della vecchiaia, e l’attesa del transito, è l’arte di una ben precisa educazione sentimentale. È quella in cui i bambini capovolgono i sogni e la legge stessa della natura.

Chi nasce in certi posti – la Sicilia è uno di questi – non vede l’ora di diventare vecchio. Il passo di corsa diventa quello della camminata, le cartucce a disposizione si esauriscono sparando e poi sparando ancora, i capelli diventano bianchi e tali restano, e non c’è cosmesi che possa riavvolgere il tempo e portare tutto indietro.

È la famosa età ambita da chi se ne fotte delle teorie – di qualunque senectute – e sa così è e non altrimenti. La notte, infatti, si prende il giorno; ci si affretta a diventare vecchi e il contrappasso è presto risolto: se ne guadagna in prestigio, in rispetto e nell’estensione stessa delle spalle, larghe abbastanza per caricarsi la vita degli altri e a tutti quanti – anche alle cose inutili, ai tanti tra loro – fargliela leggera.

Uno come lui è proprio un bambino di quelli che si ricordano esclusivamente solo di ciò che deve ancora accadere, per farne proprio il deposito delle cose perdute.

“Quando ero grande”, capita di sentir dire ai piccolini seduti in cerchio tra i loro giochi, “avevo un asino bello assai, e avevo anche una campagna con tanti alberi di melograno, e poi ancora avevo una fontana con la vasca larga per farci i tuffi… e avevo un figlio piccolo cui davo il permesso di sparare e di guidare la Giulietta perché quando io ero grande, avevo un fucile e pure la macchina”.

Uno come lui, vecchissimo – capofamiglia e patriarca di una nidiata di devoti – è un tale bimbo. E lo è ancora adesso che il bollettino medico lo definisce “non cosciente” in ragione di quella forgia, la felicità, che vuole tutti in gara verso il traguardo della vecchiaia per vederne l’effetto che fa da lontano, quando si chiama la vita e morte, invece – come in Vitti ‘na Crozza – solo Morte risponde.

Ed è proprio come quando si sta seduti in mezzo al manicomio di gioia – quando tutti portano una carezza, un augurio e un dono al più vecchio tra i vecchi – e lei, dispettosa, anzi, stronza, rumina qualche acidità.

Un tale bimbo impara dai propri vecchi l’arte dell’arrivare da lontano. Ed è da loro che s’impara a rispondere a tono alla vecchiaia, e dopodiché anche alla morte.

Chi si presenta da lontano, ritagliando lo spazio dove solo da vecchi, a passettini brevi – gattonando anche, aggrappandosi all’amore dei propri cari – si rincontrano i sorrisi, i baci e i bisbigli della felicità.

Un tale bimbo è uno la cui carne gli si asciuga addosso come fosse legno.

Osservatelo: sulla pelle vi si depositano i tratti scartavetrati di chissà quante ruggini, gli occhi si spengono e però il pensiero – la tenacia di un cervello mirabolante sempre di ragionamenti – come un ruggito riesce a rimbombare nella caverna dell’eterno.

Certo, Morte si presenta, ma lui risponde. A tono.

Mail Box

 

Matteo, tu vuò fa l’Americano. Ma poi devi governare l’Italia

Mi domando quale attendibilità possa avere un uomo politico che cambia posizione a seconda di dove si viene a trovare. Mi riferisco a Matteo Salvini, attualmente impegnato a “fa’ l’americano”, ora che si trova negli USA, ma che tutti ricordiamo per le frasi al miele verso Putin e la Santa Madre Russia, quando lo ricevettero al Cremlino non più di qualche mese fa. E che dire del suo apprezzamento per la cosiddetta “Nuova Via della Seta”, per accattivarsi le simpatie di Pechino?

È vero che ormai, vista l’inconsistenza del M5S, Salvini è il politico di riferimento, ma, soprattutto in politica estera, non si può fare il giochino che gli riesce così facilmente a casa nostra. Deve tenere presente che le amorevoli dichiarazioni verso Trump e la sua politica egemonica, sono viste come fumo negli occhi sia dai Paesi dell’Unione europea, sia dalla Russia che dalla Cina.

E mi chiedo: ma il vicepremier le avrà concordate certe dichiarazioni con i suoi alleati di governo?

Mauro Chiostri

 

Salvini difende la Costituzione… però forse non l’ha mai letta

Gentile Travaglio,

che senso ha attaccare Salvini dalla mattina alla sera? Un domani si tornerà a votare e in conclusione, che cosa dovrebbe fare se non portare acqua al suo mulino o al Pd?

Ma ringraziamolo ‘sto Salvini, che ci ha aiutati a salvare la nostra Costituzione!

Antonio Quota

 

Caro Antonio,

ci ha aiutati a salvarla, ma non l’ha mai letta, temo.

M. Trav.

 

Evasione fiscale e povertà, due problemi speculari

Per i grandi e medi evasori non bisogna pensare solo alle manette. Occorrerebbe requisire i beni che hanno accumulato rubando, per poi poterli subito utilizzare per risolvere il problema devastante della povertà.

E magari anche per le altre pressanti esigenze sociali di questo nostro Paese. Il carcere va utilizzato per coloro che hanno esportato i beni nei paradisi fiscali, proponendosi però di non rilasciarli sino a quando non riporteranno a casa la refurtiva. Un atto di giustizia, perchè, intanto io continuo a pagare il 23% su una pensione di infermiere e con due figli laureati e senza lavoro.

S. Bitti

 

Migranti, nell’Unione vige il “due pesi e due misure”

Se corrispondesse a verità che la Germania ha rimandato in Italia 1200 migranti legati e sedati, ci troveremmo davanti ad un problema politico e sociale enorme.

Ma come, l’Italia non può rimandare ai paesi di origine neppure un migrante irregolare alla volta, senza accordi bilaterali e senza incorrere nelle contumelie della UE, della Vaticano, delle ONG e dell’orbe terracqueo, e i tedeschi si permetterebbero di compiere un tale affronto?

E noi chi saremmo, gli zerbini dell’Europa?

Nessuno Stato è perfetto: la Francia sforerà quest’anno il rapporto deficit/Pil al 3,4%, la Germania sforerà al rialzo al 7% contro il 6% del limite della bilancia commerciale import/export, e in Ue tutti zitti; e noi dovremmo rinunciare a quota 100 e reddito di cittadinanza, leggi dello Stato, perché lo ordinano loro?

Forse l’Unione Europea non funziona come dovrebbe, e la gente lo ha già capito, ma c’è ancora tempo per porvi rimedio.

Enrico Costantini

 

DIRITTO DI REPLICA

Con riferimento all’articolo pubblicato ieri, Edesur, società del Gruppo Enel che gestisce la rete di distribuzione nella regione sud di Buenos Aires, intende fornire alcune precisazioni. Il blackout che, nella giornata di domenica, ha interessato Argentina e Uruguay è stato causato, come confermato dalla Secretaría de Gobierno de Energía argentina, da un disservizio al sistema di interconnessione del Paese (SADI), rete in alta tensione non gestita da Edesur né da altre aziende distributrici in Argentina, le cui cause sono attualmente in corso di investigazione da parte delle istituzioni argentine.

Il fuori servizio del sistema di interconnessione ha determinato la disalimentazione a monte per tutte le imprese di distribuzione elettrica argentine, tra le quali Edesur ed Edenor (altra società di distribuzione, non gestita dal Gruppo Enel, che fornisce elettricità nella parte nord della città di Buenos Aires). Edesur, che con le sue reti distribuisce elettricità a 2,5 milioni di clienti nella zona meridionale di Buenos Aires, è stata una delle prime aziende a comunicare, ai propri clienti, l’origine del blackout e a fornire costanti aggiornamenti circa il processo di ripristino del servizio a seguito del progressivo ritorno in esercizio del sistema di interconnessione.

Si intende inoltre precisare che, contrariamente a quanto riportato nell’articolo, Edesur è entrata a far parte del Gruppo Enel soltanto nel 2009, in conseguenza dell’acquisizione, da parte della società italiana, dell’utility spagnola Endesa la quale, a sua volta, già controllava Edesur.

Carlos Alberto Mendes Pereira, Responsabile Relazioni con i Media Comunicazione Italia

Esercito europeo. Meglio sotto i tedeschi che sotto l’imperialismo americano

 

Ho letto con stupore l’articolo di Massimo Fini, persona intelligente e colta, a favore dell’esercito europeo. L’articolo mi sembra un po’ schematico. Manca un’analisi realistica dell’Ue e della sua struttura antidemocratica sotto l’egemonia tedesca. I fatti di questi giorni con lo scontro tra il nostro governo e la Commissione europea sono lì a testimoniarlo. L’odierna Europa vive sotto lo sperone di ferro germanico, che detta le regole e le decisioni fondamentali. Schmidt sosteneva che “Sovrano è colui che decide dello stato d’eccezione”. La storia dell’Ue degli ultimi 30 anni ci dice che la Germania, il Paese più grande, popolato, ricco e avanzato, ha imposto la propria impronta imperiale sul resto del continente. Fini condivide una caratteristica comune a molti intellettuali antiamericani: la germanofilia. Anch’io la condivido, ma per fortuna le origini yankee di mio nonno materno mi impediscono di guardare gli Stati Uniti con livore e di vederne invece la realtà materiale e di evitare i pregiudizi ideologici. Inoltre, personalmente se mi si ponesse di fronte alla scelta di preferire uno tra Germania e Usa, il sottoscritto non avrebbe esitazione nello scegliere gli yankee.

Vincenzo Magi

 

La mia predilezione va alle “piccole patrie”, cioè ai comuni, ai ducati, ai Granducati, alle Repubbliche marinare dell’Italia preunitaria e, scendendo a ritroso verso i cosiddetti “secoli bui” del Medioevo, al feudo. Erano tutte comunità che potevano decidere del proprio destino. Ma nella situazione attuale, mentre siamo preda di una globalizzazione assassina supportata da una finanza internazionale che non ha certamente il suo centro in Europa ma sta anonimamente nell’etere, questo ritorno all’indietro non è, per ora, immaginabile. Io credo quindi che una soluzione intermedia, e realistica, sia un’Europa unita. Quest’Europa è sempre stata osteggiata dagli americani. Io sento di essere un europeo e non di far parte dell’Occidente, termine che già di per sé solo mi fa venire i brividi perché ricorda i grandi agglomerati anonimi descritti da Orwell in “1984”. Inoltre gli Stati Uniti negli ultimi vent’anni, facendo arbitrariamente della Nato il braccio armato dell’Onu, hanno trascinato l’Europa in guerre, Serbia, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, le cui conseguenze devastanti si sono riversate sui Paesi del Vecchio continente. Se l’Italia, per la sua irrilevanza, deve sottostare a qualcuno, preferisco che lo sia della Germania, che interpreta al massimo livello la cultura europea a cominciare da quella greca, piuttosto che dell’imperialismo infantile, globale e assassino degli americani di oggi.

Massimo Fini

Mario D ce l’ha con Angela M, ma fa incazzare Donald T

Mario D, un po’ come Umberto D, ha problemi economici. Riassunto: l’inflazione non va al 2%, che sarebbe il suo obiettivo, nonostante i fantastiliardi “stampati” perché i Paesi core dell’Eurozona (Germania & C.) continuano a fare deflazione per tenersi i surplus commerciali. Nelle parole di Mario Draghi: “In un decennio l’aggiustamento macroeconomico è toccato sproporzionatamente alla politica monetaria. Ci sono persino casi in cui la politica fiscale è stata pro-ciclica andando in direzione contraria allo stimolo monetario”. E quindi? Visto che a Berlino insistono a fischiettare, la Bce forse taglierà ancora i tassi e farà un altro Quantitative easing sperando in più inflazione. L’annuncio ha avuto effetti contenuti: le Borse sono andate su, l’euro e gli spread giù (il Btp ieri rendeva il 2,1% dimostrando quale ridicola sciarada sia il “mercato” dei titoli di Stato europei). Al bazooka della Bce non crede più nessuno, però di due cose va tenuto conto: Draghi ha depresso le banche, che coi tassi a zero non guadagnano, e fatto incazzare Donald Trump (“i mercati europei sono cresciuti dopo le dichiarazioni, ingiuste per gli Usa, fatte oggi da Mario D!”). Un euro svalutato favorisce le imprese dell’Eurozona, che è già nel mirino della Casa Bianca per il suo surplus commerciale: “Lo fanno da anni con la Cina e altri”. Riassumendo, Mario D prova a tenere in piedi la baracca, però andare alla guerra con Donald T mentre Berlino rema contro, il sistema bancario agonizza e nessuno ti crede non è, diciamo, una buona posizione strategica.

Matrimonio, Imu, calcio: autosospenditi pure tu, è di moda e non impegna

Purtroppo, il convegno su “L’istituto giuridico dell’autosospensione – Confini legali, etici e morali” è stato rinviato perché tutti i relatori si sono autosospesi e nessuno sapeva cosa dire. Quindi andremo felicemente a tentoni con le nostre piccole forze, cercando di precisare i contorni di questa pena autoinflitta, di questa autoflagellazione un po’ mimetica che va di gran moda. Dai, su, se non sei autosospeso da qualcosa, oggi come oggi, non sei nessuno, è una cosa trendy.

Ultimo clamoroso episodio, come si sa, quello di Luca Lotti, un imputato che andava di notte a discutere le nomine nella procura che lo ha indagato. Non è una cosa carina, ma si dice che non abbia violato nessuna legge. Cioè, per esempio, se dici alla fidanzata “Andiamo a fare una gita” e poi l’abbandoni in un bosco sperduto e te ne torni a casa da solo, non hai infranto nessuna legge, ma qualcuno potrebbe incazzarsi lo stesso. In quel caso, suggerisco: autosospensione. Oppure dici che hai parlato di qualcosa con Mattarella, e quando Mattarella dice che non è vero, e che stai millantando… suggerisco: autosospensione dal guardarsi allo specchio.

Autosospendersi è comodo, non impegna più di tanto, e può persino servire a fare un figurone in società, ammesso di vivere in una società di deficienti in sollucchero: “Uh, si è autosospeso! Che coraggio! Che tempra!”.

In più, ci sono molti tipi di autosospensione: quella un po’ offesa (“Fintanto che non sarà tutto chiaro mi autosospendo!”, modello sindaco di Milano Sala) che suona un po’ come “Non mi meritate!” ed equivale a sbattere la porta uscendo dalla stanza. Oppure c’è l’autosospensione difensiva, tipo il sottosegretario Siri che la propose come ultimo disperato tentativo al posto delle dimissioni (che è un po’ come proporre di farsi due settimane alle Maldive invece che due mesi in miniera, niente male).

Unico problema: ci si autosospende da qualcosa. Da una carica. Da una funzione. Da un ruolo. Guidavo il tram, mi autosospendo, non guido più il tram.

Risulta invece difficile capire da cosa si sia autosospeso Luca Lotti, non avendo cariche, né ruoli, né funzioni note e ufficiali. Si è autosospeso dal Pd, bene, però sarebbe bello sapere cosa significa. Non paga più la tessera? Non va alle riunioni? È davvero pensabile che un importante capocorrente come Luca Lotti (secondo la vulgata dei giornali controllerebbe 40-50 deputati) smetta di incontrare, brigare, sollecitare, consigliare, tessere strategie e ricamare tattiche, incontrare colleghi? Va nel gruppo misto? Escursioni in montagna? Torneo di golf?

Generalmente, il nobile gesto di autosospendersi è compiuto a garanzia dell’istituto da cui ci si autosospende. Per esempio se un iscritto al circolo del bridge uccide sei persone, sarebbe carino da parte sua autosospendersi, come dire: sono io il mostro, il nobile circolo del bridge non c’entra niente.

A quel punto, quelli del circolo del bridge si chiudono in un triste silenzio. Invece nel Pd all’autosospensione di Lotti si sono alzate voci esultanti: “Che coraggio! Si è autosospeso! Che leone!”.

Suggerirei alla politica qualche cautela. Se la cosa prende piede nella vita normale non se ne esce più. Gente che si autosospende dalle rogne, dalle seccature, dal pagamento dell’Imu, da tifoso del Milan, da moglie, da marito. E naturalmente l’autosospensione (“auto”) è una cosa autonoma, personale. Come uno si è autosospeso può sempre decidere di autosospendere l’autosospensione e di tornare. Si faceva da bambini gridando “arimo!”, che era una versione popolare di “arimortis” e che significava: sospendere per un attimo il gioco, le regole, i tempi, i modi, insomma una specie di time-out. Però, vuoi mettere il pathos? Il fulgore di un gesto elegante, nobile, che offre il petto alle pallottole, dignitoso. Mi autosospendo! Addio!

Insulti a Camilleri, quattro webeti non fanno notizia

Ieri sui siti che riportavano le allarmanti notizie sul ricovero di Andrea Camilleri, si potevano leggere anche le cronache di quanto accadeva a proposito di questo triste episodio sui social network. Brevemente: accanto alle numerosissime manifestazioni d’affetto, vicinanza alla famiglia e solidarietà al maestro siciliano, qualche idiota ha pensato bene di insultare un uomo di 93 anni ricoverato in rianimazione. Motivo? Qualche giorno fa Camilleri era stato ospite di Massimo Giannini a Circo Massimo su Radio Capital. E aveva espresso, come sempre ha fatto, anche alcune opinioni sulla situazione politica attuale.

A una domanda sul crocifisso impugnato da Salvini al famoso comizio ha detto: “Mi dà un senso di vomito”. Il vicepremier gli aveva risposto con i consueti modi liquidatori e sprezzanti (“pensi a scrivere”), ignorando che il ruolo degli intellettuali in un Paese democratico non si riduce allo scrivere romanzi, per quanto belli. Non chiederemo a Salvini di occuparsi della salute della nostra democrazia, che passa attraverso la critica vigile e non il servo encomio, dal momento che ha già tanto da fare con i gabbiani e la complessa geografia delle città americane.

Comunque sia,qualche webete, come lo chiamerebbe Enrico Mentana, ha postato insulti a Camilleri di irriferibile tenore e immediatamente questo fatto circostanziato è diventato un titolo sui maggiori siti. Monitorando i social però, si scopre che trattasi di quattro scappati di casa, in possesso peraltro di scarse nozioni di grammatica: valeva la pena di dar loro così tanto spazio? L’effetto amplificatore – una volta nei giornali se ne parlava molto – non è un deterrente abbastanza convincente? Dopotutto non parliamo di milioni (e nemmeno di migliaia) di persone, ma di una manciata di individui. Forse ciò che fa diventare questi pochi stupidi una notizia è l’orrore che suscitano (in questo caso oggettivo: come si può offendere o canzonare un uomo di 93 anni in coma?). Ovviamente conta il fatto che questi incommentabili commentatori siano riconducibili a quella fetta di opinione pubblica comunemente nota come “fan di Salvini”. Questa polarizzazione dello scontro, va detto, è oltremodo incomprensibile: più i partiti di tutto l’arco costituzionale si svuotano di idee, prestigio e autorevolezza, più le opposte fazioni si accalorano in loro difesa. Una situazione bizzarra.

Tolto di mezzo il côté politico, resta il ruolo dei media che si dovrebbe esercitare con maggior vigilanza. Gli organi di informazione ormai attingono ai social network come fonte d’ispirazione o fonte e basta, quasi che avessero bisogno della legittimazione di quel mondo. Da un lato è chiaro, è stato detto e ripetuto, che i social raccolgono (anche) la feccia della feccia; dall’altro quella feccia esercita un potere (e lo esercita in quanto feccia, non in quanto fenomeno di massa). Spesso le cose che leggiamo e che ci fanno rabbrividire riguardano, come nel caso di Camilleri, un pugno di individui. È forse l’attrazione per l’orribile? Per l’indicibile? Per il lato oscuro dell’umano? Forse, ma più probabilmente è pigrizia. Ci vuole concentrazione per definire i confini del dibattito pubblico e in questo momento – per assurdo, perché si tratta della missione dell’informazione – il sistema dei media sembra meno incline a mediare, accontentandosi di raccontare cose a cui la maggioranza ha già accesso. Così però si condanna all’irrilevanza. Non solo intellettuale.