Non è il “wathever it takes” pronunciato a Londra nel 2012, ma il discorso che ieri Mario Draghi ha tenuto al Forum di Sintra (Portogallo) avrà un impatto rilevante sul futuro della zona euro. Nell’ultima riunione del Consiglio, il 6 giugno, il presidente della Bce aveva annunciato che il periodo dei tassi bassissimi proseguirà a lungo e lanciato nuove aste di liquidità a costo zero per le banche (Tltro) facendo calare gli spread. Ieri è andato oltre, lasciando intendere che il crollo delle aspettative di inflazione nell’eurozona – il mandato di Francoforte è di tenerla poco sotto il 2% (oggi quella “core” è allo 0,8%) – potrebbe spingere a un nuovo intervento, sotto forma di taglio dei tassi, già negativi, o perfino a riaprire il Quantitative easing, il programma di acquisti massicci di titoli dei debiti pubblici chiuso a dicembre 2018. In sostanza, ha ipotecato il mandato del suo successore.
Lo spread è sceso sotto i 240 punti base, minimo da marzo scorso. L’annuncio ha svalutato subito l’euro sul dollaro e il presidente Usa Donald Trump ha reagito furioso: “Così rende più facile per l’Ue competere in modo sleale con gli Usa. Sono anni che fanno come la Cina”. È la seconda volta in due settimane che Trump accusa la Bce di far calare l’euro per avere un ingiusto vantaggio commerciale. In passato il presidente Usa (come il predecessore) ha accusato l’Unione europea e la Cina di manipolazione monetaria.
“Il nostro obiettivo non è il tasso di cambio”, ha replicato Draghi. E in effetti, al netto delle ragioni del tycoon americano, il suo discorso ha una portata più ampia e affonda nella cronica incapacità della Bce di centrare il target d’inflazione in un’area valutaria, quella dell’euro, strutturalmente deflazionistica, con tutte le conseguenze negative che questo ha sulla crescita dei salari e la sostenibilità dei debiti dei Paesi più fragili.
Appena insediato a novembre 2011, Draghi ha tagliato i tassi di interesse dopo il disastroso rialzo deciso dal predecessore, Jean Claude Trichet al culmine della crisi finanziaria. Poi ha varato le aste di liquidità (Tltro). Nel momento di massima tensione della crisi europea ha pronunciato il famoso “faremo qualunque cosa serva per preservare la moneta unica” che ha evitato il collasso dell’eurozona. Quando la recessione causata dalla stretta fiscale imposta ai Paesi dell’area euro tra il 2011 e il 2013 ha travolto i bilanci, la Bce ha portato i tassi in zona negativa (giugno 2014). Nel 2015 il crollo del prezzo del petrolio ha ipotecato le speranze di far salire l’indice dei prezzi e spinto la Bce a varare il Qe (con acquisti per 2.500 miliardi). Nonostante tutto questo, oggi le aspettative di inflazione sono al minimo storico.
Su questo piano, la Bce ha fallito il suo mandato pur avendo tenuto insieme i cocci dell’eurozona. Ieri Draghi l’ha messa così: gli strumenti usati hanno centrato l’obiettivo di trasmissione della politica monetaria, ma la politica fiscale dei Paesi “non ha svolto il suo ruolo”. L’accusa è rivolta ai Paesi del blocco nordico, Germania in testa, che persistono nel mantenere enormi surplus commerciali e politiche fiscali restrittive (pur avendo margini di bilancio), scaricando il peso degli aggiustamenti sui Paesi più fragili. Si chiama austerità. “Negli ultimi 10 anni – ha spiegato Draghi – il peso dell’adeguamento macroeconomico è diminuito in modo sproporzionato rispetto alla politica monetaria. Abbiamo persino visto casi in cui la politica fiscale è stata prociclica e ha contrastato lo stimolo monetario”. È l’ennesimo messaggio a Berlino, mentre entra nel vivo la partita per il suo successore. Il presidente della Bce lascerà a ottobre, non esprime preferenze ma il suo discorso è incompatibile con l’ipotesi che gli subentri il numero uno della Bundesbank, Jens Weidmann, o chi ha fatto blocco con il tedesco contro tutte le misure straordinarie varate in questi anni.