Trump, il bullo che si vede padrino

Nei media più critici, l’accostamento di Donald Trump a un boss della mafia è diventato quasi un luogo comune, ma fa comunque una certa impressione vedere stampata sul Financial Times la faccia di Trump con gli stessi lineamenti di Marlon Brando ne Il Padrino.

“Il suo modo di condurre la politica estera, la sua enfasi sulle relazioni personali tra i boss, il senso che ci si può fidare solo dei membri della famiglia (…) l’inclinazione a fare offerte che non possono essere rifiutate” sarebbero la quintessenza dello stile di governo di un ex palazzinaro e proprietario di casinò diventato presidente degli Stati Uniti(FT, 10.6.2019).

Da un punto di vista “tecnico” Trump in realtà assomiglia più a un bullo metropolitano che a un autentico Don Vito Corleone.

Ho descritto altrove, per bocca di Tommaso Buscetta, la tragica fine per mano mafiosa di una stella filante della malavita milanese degli anni 60 come Francis Turatello, padrone anche lui di casinò (clandestini) (Addio Cosa Nostra, Chiarelettere). La sua sfida a Cosa Nostra terminò in un supercarcere della Sardegna a causa di un alterco avvenuto cinque anni prima in una bisca con Alfredo Bono, un vero uomo d’onore.

Trump sta all’odierno deep state americano come Turatello sta a Bono: appartengono alla stessa matrice sopraffattoria, ma con profili divergenti. L’impero americano, come Cosa Nostra, è un freddo manufatto egemonico. Un presidente alla Don Vito non si perde in stravaganze e in eccessi bullisti. Un presidente davvero mafioso reclama obbedienza dal resto del mondo perché pretende di fornire un bene comune supremo, la tutela da un nemico mortale. È questa l’offerta che non può essere declinata.

Ma l’affinità tra il potere americano degli ultimi decenni con il metodo mafioso di dominio si estende anche a un altro aspetto cruciale: entrambi pretendono di proteggere da minacce che essi stessi hanno creato.

Dopo la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti hanno avanzato ai Paesi alleati un’offerta di stabilità e di pace garantita da un’offerta di difesa contro un nemico ritenuto molto potente: l’ Unione Sovietica, portatrice di una proposta di governo mondiale alternativa ed espansionista.

Il pericolo si è rivelato enormemente gonfiato, perché la superiorità economica e militare degli Usa è stata schiacciante fin dall’inizio, e perché i piani sovietici di un’invasione dell’Europa occidentale non si sono mai trovati, neppure dopo il crollo del comunismo, l’apertura degli archivi e la moltiplicazione delle testimonianze.

Ma per quanto esagerata, la minaccia da cui dipendeva la protezione offerta dagli Stati Uniti venne ritenuta credibile, e i missili sovietici puntati contro l’Europa la trasformarono in una classica profezia che si autoadempie.

I Paesi europei parteciparono perciò di buon grado alla costituzione di una forza armata multinazionale a guida americana, la Nato, per difendersi da una possibile invasione.

Il prezzo del servizio di protezione offerto dagli Usa, d’altra parte, era imbattibile. Non c’era alcuna tassazione diretta. Tutto ciò che veniva chiesto agli alleati era di adottare il dollaro come valuta degli scambi con l’estero, accettare quelle limitazioni di sovranità che erano indispensabili per l’esercizio della tutela, ed agganciarsi al carro americano in politica estera.

Ma già prima del crollo del comunismo, all’inizio degli anni 80, l’Amministrazione Reagan iniziò la trasformazione della protezione legittima in una tipica estorsione mafiosa, dove chi offre il servizio è anche il soggetto che crea la minaccia. Venne messo in piedi un colossale programma di riarmo contro un’inesistente supremazia militare sovietica, accompagnato da un’offensiva nel Terzo mondo che si svolse arruolando una serie di tiranni locali, tra i quali Saddam Hussein, assieme a varie entità del fondamentalismo sunnita che sarebbero diventati poi il saudismo wahabita, Osama bin Laden, i talebani, al Qaeda, l’Isis e simili.

Dopo il 1989 è venuto meno il bisogno del gendarme mondiale, ma la pretesa di protezione americana è proseguita. Consapevolmente o meno, ma in perfetto stile Cosa Nostra, gli Stati Uniti avevano creato negli anni 80 i pericoli da cui hanno preteso di difenderci nei decenni successivi e fino adesso.

Tutto ciò a scapito del soft power, l’autorità morale goduta dagli Usa in passato, e a vantaggio dei due pilastri attuali dell’impero: il dollaro e la forza armata.

Ci si può allora meravigliare se si è ormai consolidata un’opinione negativa sul ruolo che gli Stati Uniti giocano nel mondo? Secondo il sondaggio ripetuto dal Pew Center sin dal 2013, i cittadini di 68 Paesi considerano gli Stati Uniti come la più grande minaccia alla sicurezza mondiale.

Targa per Impastato vandalizzata dopo appena 24 ore

Un “segnale inquietante”. Di più. “Una minaccia, come dire ‘qui comandiamo noi’”. Giovanni Impastato non nasconde l’amarezza. La targa dedicata al fratello Peppino, ucciso da Cosa Nostra il 9 maggio 1978, collocata appena due giorni fa in una villetta nel quartiere Cep di Palermo è stata già vandalizzata dopo neppure 24 ore. “Non credo si sia trattato semplicemente di una bravata – spiega Giovanni Impastato –, soprattutto perché è accaduto a distanza di poche ore dalla sua sistemazione”. Per Impastato al contrario è stato un “preciso messaggio: ‘Voi qui non dovete stare, la piazza deve restare nel degrado’”. Alla cerimonia organizzata nella villetta dedicata al fondatore di Radio Aut c’era anche lui, insieme alle istituzioni del quartiere e ai rappresentanti della scuola Giuliana Saladino, che hanno “adottato” lo spazio verde. Dopo la bonifica dell’area e la sua sistemazione è stata collocata la targa in memoria di Peppino. Una cerimonia “non troppo partecipata” dai cittadini, dice adesso Giovanni Impastato: “C’è ancora molto lavoro da fare in questo quartiere che, come spesso accade nelle periferie, vive in una condizione di abbandono: la cultura della legalità ancora non è attecchita del tutto”.

Del Gaudio “peggio” di Verdini: 10 milioni per danno erariale

Tra i disastri di alcune scellerate gestioni dei finanziamenti pubblici all’editoria, che il sottosegretario M5s Vito Crimi intende azzerare nel 2022 attraverso tagli progressivi, si segnala a Castellammare di Stabia (Napoli) un imprenditore-giornalista che avrebbe fatto più danni alle casse dello Stato di Denis Verdini. Si chiama Giuseppe Del Gaudio, è stato il direttore e il dominus del quotidiano Metropolis e vince sull’ex senatore di Ala per circa 300 mila euro: in due avrebbero accumulato danni erariali per quasi 19 milioni di euro. A febbraio la Corte dei conti ha congelato a Verdini (e all’ex parlamentare Massimo Parisi) beni per 9 milioni e 100 mila euro, contestando una presunta truffa legata ai finanziamenti ricevuti dalla Società Editoriale Toscana (Ste), che pubblicava Il Giornale della Toscana. Ma Del Gaudio nel napoletano sarebbe riuscito ad andare oltre. Una recente sentenza di primo grado della Corte dei conti del Lazio lo ha condannato a risarcire circa 9 milioni e 400 mila euro. A questa cifra monstre si è arrivati con la riscossione indebita dei contributi pubblici per l’editoria cooperativa in favore di Stampa Democratica scrl negli anni dal 2007 al 2014. La stangata si fonda sugli atti delle indagini della Guardia di Finanza di Napoli confluiti in un processo per bancarotta fraudolenta. Raccontano storie di verbali di consigli di amministrazione e di assemblee dei soci con firme false o in bianco, e prestiti personali chiesti all’insaputa dei soci e dirottati nelle casse esangui di una azienda che era una coop solo formalmente. Di fatto, secondo gli investigatori, era l’impresa individuale di Del Gaudio. Che dirottò gran parte dei fondi nella costola Mc Media spa, la società di Metropolis Tv, di scarsissima fortuna e poi fallita. Che non aveva diritto a finanziamenti pubblici. Di qui la condanna. Ora Metropolis, dopo la messa in liquidazione coatta di Stampa Democratica scrl, va in edicola grazie a un’altra coop, nata con l’estromissione di Del Gaudio.

Per il Cara del “nuovo Buzzi” gestito dalla ’ndrangheta 17 anni al capo delle Misericordie

Adesso c’è una sentenza di primo grado che certifica come il Cara di Isola Capo Rizzuto, gestito dalla Confraternita delle Misericordie, sia stato infiltrato dalla ’ndrangheta. Con il rito abbreviato, il processo “Jonny” si è concluso a Catanzaro con 65 condanne, 18 assoluzioni e 2 proscioglimenti per intervenuta prescrizione.

Ha retto l’impianto accusatorio della Dda guidata da Nicola Gratteri. Una valanga di anni di carcere. Su richiesta dei procuratori aggiunti Vincenzo Luberto e Vincenzo Capomolla e dei pm Domenico Guarascio e Debora Rizza, infatti, il gup ha condannato a 17 anni e 4 mesi l’ex governatore regionale delle Misericordie Leonardo Sacco accusato di associazione mafiosa.

Per gli inquirenti era lui il terminale affaristico delle cosche di Isola Capo Rizzuto, il “nuovo Buzzi” che ha consentito alla ’ndrangheta di spartirsi i soldi per l’accoglienza. Stando alle carte dell’operazione “Jonny”, infatti, gli uomini del clan Arena hanno messo le mani sul fiume di denaro che prefettura e ministero dell’Interno assegnavano alla Misericordia e al suo governatore Leonardo Sacco, arrestato nel maggio 2017 assieme ad altre 67 persone. In 10 anni, dalle sue mani sono passati circa 100milioni di euro. Di questi, secondo gli inquirenti, 32 sono serviti a riempire la “bacinella” della ’ndrangheta che, grazie a Sacco, aveva garantiti anche numerosi posti di lavoro. Fatture gonfiate e pasti insufficienti per tutti gli ospiti del centro di accoglienza. Ma anche gare d’appalto assegnate alla società “Quadrifoglio srl”, definita dai magistrati la “cassaforte del clan” e riconducibile agli imprenditori Antonio e Ferdinando Poerio, il primo condannato a 20 anni di carcere mentre il secondo a 19 anni e 4 mesi. Solo nel 2013 nelle loro tasche e in quelle di Leonardo Sacco sarebbero finiti ingiusti profitti per oltre 450mila euro.

Le mani di Gomorra sul Morandi: “Si fa una società ex novo e sistemiamo un po’ le situazioni”

L’azienda Tecnodem Srl di Napoli, che avrebbe dovuto occuparsi dei lavori di abbattimento del Ponte Morandi, era stata estromessa a maggio da un subappalto di 100 mila euro relativo appunto alla demolizione. Ieri si è capito perché con i due arresti dell’amministratore di fatto della ditta Ferdinando Varlese, ritenuto contiguo a elementi inseriti in organizzazioni camorriste, e Consiglia Marigliano considerata prestanome nella stessa società. L’indagine è diretta dalla Dda di Genova: Varlese, effettivo amministratore, era già stato condannato per associazione a delinquere in un procedimento nel quale erano coinvolti affiliati al clan “Misso, Mazzarella-Sarno”, appartenenti all’organizzazione camorrista “Nuova Famiglia” e per estorsione tentata in concorso, con l’aggravante di aver commesso il fatto con “modalità mafiose” (in un altro procedimento da cui emergevano circostanziati rapporti dell’uomo con il sodalizio camorristico “D’Amico”, cui risulta legato da stretti rapporti di parentela). L’imprenditore è vicino al clan Rinaldi in lotta con il clan Mazzarella per comandare il Rione Villa di Napoli: i familiari sarebbero a loro volta legati a Luigi Mignano, il boss ucciso lo scorso 9 aprile davanti la scuola del nipotino. E proprio Varlese si stava riorganizzando con i figli per rimettere insieme una nuova società dopo l’interdittiva antimafia. Così ne parla prima con la figlia: “…ora adesso sistemiamo questa cosa… poi ci prendiamo un caffè… ragioniamo un attimo… allora prendi e gestisci tu… gestisci tu… attraverso… per esempio che ti devo dire… Ramona… staa… Eleonora… ee… ‘sto cugino di Eleonora… e si va avanti… io ci sono sempre…”. Poi parla con l’altro figlio: “…stiamo cercando di mettere un po’ queste cose a posto qua e di rinnovare tutto come siamo rimasti d’accordo… vediamo di fare tutto ex novo ha capito o no… diciamo… con Marco amministratore nuovo, mo cerchiamo di andare avanti poi fammi mettere a posto un po’ le situazioni… ha capito com’è… poi ti faccio sapere… poi ti ho detto facciamo una società nuova e… iniziamo ok?”.

Aggressione ai ragazzi del Cinema America. Sotto accusa 4 camerati legati a CasaPound

Li hanno prima pedinati per i vicoli di Trastevere. Solo quando si sono fermati, li hanno affrontati. A quel punto uno di loro ha sferrato un pugno ed è scoppiata la rissa. Appartengono al Blocco Studentesco, l’organizzazione legata a CasaPound, i quattro giovani identificati ieri per l’aggressione, avvenuta sabato sera nel rione romano di Trastevere, ai danni di Yasir, Valerio, Stefano e David, quattro ragazzi fra i 19 e i 21 anni, due dei quali sfoggiavano la maglietta del Piccolo Cinema America. Una specie di spedizione punitiva che presenta tutte le caratteristiche della premeditazione. Tre dei presunti aggressori sono quasi coetanei delle vittime e hanno fra i 21 e i 23 anni, mentre un quarto sospettato ha 38 anni. La loro militanza nel movimento di estrema destra rappresenterebbe per chi indaga un ulteriore elemento di conferma del movente politico ribadito nella denuncia alle autorità. Per ora, i quattro restano solo “sospettati”, in attesa di istruzioni da parte della Procura.

A fare nuova luce sulla ricostruzione dei fatti ci sono due video, acquisiti dai carabinieri della stazione Trastevere da altrettante telecamere di sorveglianza. Nel primo filmato, si vedono chiaramente i quattro presunti aggressori pedinare le loro vittime per una strada limitrofa a quella della rissa, via di San Francesco a Ripa; nella seconda sequenza, ci sono i due gruppi che parlottano e poi uno dei quattro “pedinatori” che rifila un pugno ai giovani, con una rissa che si conclude quasi subito con la fuga delle vittime e, successivamente, degli aggressori. Secondo gli inquirenti, i due video messi insieme – non consecutivi – lascerebbero pensare alla premeditazione. Non è ancora chiaro, ovviamente, cosa sia accaduto prima di quell’episodio e non c’è ancora conferma sullo scambio verbale fra i due gruppi. Intanto, nella serata di ieri i militari, coadiuvati dalla Digos, si sono recati nelle abitazioni degli identificati, nel quartiere Casalotti – periferia ovest della città – per effettuare perquisizioni a caccia di elementi utili a confermare i sospetti. Le ricerche sono continuate fino alla tarda serata di ieri. Secondo quanto si è potuto apprendere, gli inquirenti avrebbero trovato alcuni elementi che confermerebbero la fede politica di estrema destra degli aggressori. Soprattutto, sono stati trovati i vestiti indossati la sera dell’agguato.

“Gli altri chiacchierano, ministero e forze dell’ordine fanno i fatti”, ha twittato ieri pomeriggio il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, mentre le perquisizioni erano ancora in corso. Per poi aggiungere: “Felice che la polizia abbia identificato alcuni dei presunti aggressori di Roma, che avevano malmenato un gruppo di giovani con la maglietta del cinema America. Nessuna tolleranza per i violenti”. In giornata era anche montato un caso sui numerosi commenti di solidarietà agli aggressori postati sui principali social network, addirittura con l’hashtag #iostoconipicchiatori. “Imparate a difendervi. Smettete di piangere. E soprattutto non andate in Questura poi”, si legge in un post. Frase che ha colpito molto Valerio Carocci, giovane patron del Cinema America: “I ragazzi hanno fatto bene a denunciare. È stato un atto eroico”, ha detto, ringraziando anche le forze dell’ordine.

Sea Watch, respinto il ricorso. Ma lo sa soltanto il Viminale

Dal Ministero dell’Interno hanno fatto sapere, alle 15:14 di ieri, che il Tar del Lazio ha respinto il ricorso urgente degli avvocati della Ong Sea Watch, la cui imbarcazione Sea Watch 3 è ferma da sei giorni a 16 miglia da Lampedusa con 43 migranti. La Ong tedesca ha impugnato il provvedimento di Matteo Salvini, controfirmato dai ministri M5s Elisabetta Trenta (Difesa) e Danilo Toninelli (Trasporti) ai sensi del decreto Sicurezza bis, che intima al comandante di non entrare nelle acque italiane perché il passaggio è considerato “non inoffensivo”: la violazione comporta multe fino a 50 mila euro e la confisca della nave. Tra i motivi dell’impugnazione c’è il principio del “porto sicuro”, il ricorso cita l’Ue, le agenzie Onu e perfino una dichiarazione di Salvini che nega questa qualità ai porti libici. Gli avvocati Antonello Ciervo e Lucia Gennari hanno dichiarato fino a ieri sera di non aver ricevuto il provvedimento, noto solo al Viminale. La presidente della sezione I ter del Tar, Germana Panzironi, non ha voluto dare spiegazioni al Fatto. Ad Agrigento, dopo lo sbarco di bambini e donne incinte, è stato aperto il consueto fascicolo contro ignoti per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare.

Il torneo nel deserto (di calcio e di diritti)

Mosca, 15 luglio 2018: il giorno della finale mondiale nella capitale c’era un lussureggiante padiglione dedicato al Qatar, dove zelanti dirigenti mostravano le meraviglie della prossima edizione. Sembrava un piccolo angolo di paradiso, era un’enorme foglia di fico sull’inferno di Qatar 2022: morti, diritti umani violati, calendari stravolti, costi spropositati, rischia di essere il Mondiale più controverso della storia del calcio contemporaneo. E non solo per la corruzione nel processo di assegnazione.

Gli emiri hanno fatto carte false (letteralmente) per avere il torneo, potente strumento di consenso: è stato un trionfo per Putin, potrà esserlo anche per loro. Se possibile, però, il Qatar presenta ancora più problemi della Russia: secondo la denuncia di Amnesty International, da quando la manifestazione è stata assegnata circa 1.200 operai sono morti nei cantieri, dove i lavoratori (quasi tutti immigrati asiatici) lavorano schiavizzati, fra turni massacranti, salari irrisori e condizioni di sicurezza insufficienti.

I diritti umani da quelle parti sono quasi un optional: l’omosessualità è illegale e punita con la pena di morte. “I tifosi gay faranno meglio ad astenersi dal sesso”, aveva liquidato la questione l’ex presidente Fifa Sepp Blatter. Le donne sono ammesse allo stadio ma devono attenersi a un rigido “dress code”, come del resto gli uomini. Sarà un mondiale diverso. Forse non sarà quasi un mondiale: i tifosi amano bere, far festa, divertirsi. Lì anche farsi una birra sarà complicato (sono in appositi settori, in strada il consumo è proibito). E poi c’è un dettaglio fondamentale: i Mondiali 2022 per la prima volta nella storia si giocheranno d’inverno, con la finale sotto Natale. Bisognerà rifare i calendari, smontare campionati e Champions, stravolgere le abitudini. Qualsiasi appassionato di pallone si chiederebbe chi mai avrebbe potuto pensare di assegnare un evento del genere al Qatar e giocare il torneo in queste condizioni. Gli scandali e le inchieste hanno già dato una risposta.

“È stato corrotto dal Qatar”. Platini fermato in Francia

Michel Platini, ex presidente Uefa, è stato fermato e interrogato ieri a Nanterre in Francia. È accusato di corruzione, traffico di influenze e ricettazione di traffico di inflienze in merito all’inchiesta sull’assegnazione al Qatar dei Mondiali 2022. Indagato anche l’ex segretario generale dell’Eliseo e braccio destro di Nikolas Sarkozy, Claude Gueant.

L’assegnazione del Mondiale al Qatar risale al 2 dicembre 2010, quando a sorpresa i 24 membri del comitato esecutivo Fifa preferirono l’Emirato ad Australia, Corea del Sud e, soprattutto, Stati Uniti. Già all’indomani del voto Sunday Times e Bbc evocarono lo spettro della corruzione, sospetto poi confermato dal fatto che dei 24 membri dell’allora comitato esecutivo, ben 16, sono stati poi radiati, sospesi o messi sotto inchiesta.

Gli inquirenti d’Oltralpe intendono capire quale sia stato il ruolo della Francia. L’inchiesta si concentra in particolare sul famoso incontro segreto all’Eliseo (rivelato nel 2013 da France Football e dal mensile So Foot) del 23 novembre 2010, nove giorni prima del voto Fifa, quando Nicolas Sarkozy invitò a cena Tamin al-Thani, allora principe ereditario del Qatar, oggi emiro e Michel Platini, allora presidente Uefa e vicepresidente Fifa. Secondo France Football “nel corso della riunione si sarebbe parlato dell’acquisto da parte dell’emiro del Paris Saint Germain (Psg), della partecipazione azionaria nel gruppo Lagardère e di un canale di sport (BeIN Sports) per far concorrenza a Canal+”. Il tutto in cambio della promessa di Platini “di non votare Usa ma Qatar”. Sei mesi dopo la cena, nel giugno 2011, l’Emiro acquistò il Psg ed esportò in Francia BeIN Sports.

L’ex numero 10 della Juventus ha respinto ogni accusa (“Non ha niente da rimproverarsi e afferma di essere totalmente estraneo ai fatti – si legge in un comunicato dei suoi collaboratori – è stato ascoltato come testimone e non arrestato, ha risposto con serenità e precisione a tutte le domande”). Ma ci sono altri elementi alla base dell’accusa di corruzione. Un anno dopo quella cena, il figlio di Platini, Laurent, fu assunto dalla qatariota Burda Sport, società appartenente al fondo che detiene il Psg. Laurent fu poi promosso direttore generale e, nel 2016, assunto nel gruppo Lagardére.

Michel Platini si mostrò peraltro molto compiacente con il Qatar da presidente Uefa. Padre del fair play finanziario, sistema che avrebbe dovuto impedire ai club di vivere al di sopra dei propri mezzi, coprì l’enorme frode del Psg, che beneficiò di 1,8 miliardi di euro di sovvenzioni dissimulate attraverso contratti sopravvalutati con gli sponsor qatarioti.

Un altro elemento indebolisce la posizione di Platini: il versamento di 2 milioni di franchi svizzeri (1,8 milioni di euro) eseguito a suo favore il 1° febbraio 2011 dalla Fifa. Questo pagamento, riguardo al quale la giustizia svizzera e la Fifa hanno aperto inchieste nel 2015, costrinse Platini a dimettersi dalla Uefa nel maggio 2016 e gli ha chiuso le porte alla candidatura in Fifa.

Platini ha sempre sostenuto che fosse il compenso a lui dovuto in quanto consigliere tecnico del presidente della Fifa Sepp Blatter tra il 1998 e il 2002, parlando però di “accordo orale” a integrazione del contratto e presentando una fattura al direttore finanziario della Fifa il 17 gennaio 2011, una decina di anni dopo le sue consulenze.

L’ex numero 10 dei Bleus è stato assolto dalla giustizia elvetica, ma è stato sospeso dal comitato etico della Fifa, sospensione confermata per quattro anni dal Tribunale arbitrale dello sport (Tas) nel maggio 2016.

Per giustificare i dieci anni trascorsi tra le sue missioni e il loro pagamento, Platini spiegò al Tas di essersi fatto vivo dopo aver constatato il miglioramento della situazione finanziaria della Fifa. Il pagamento è stato effettuato con una leggerezza fuori dal comune, ha però rilevato il Tas. Fa poi riflettere anche la tempistica, due mesi dopo l’assegnazione dei Mondiali al Qatar. In particolare dopo che, il 10 marzo 2019, il Sunday Times rivelò l’esistenza di un accordo confidenziale tra Fifa e Al Jazeera (di proprietà del Qatar), firmato da Sepp Blatter e dal patron del PSG Nasser al-Khelaïfi, all’epoca dirigente della tv qatariota, che prevedo l’acquisto dei diritti tv delle future edizioni dei Mondiali da parte di Al Jazeera per 300 milioni di dollari, più un bonus di 100 milioni di dollari pagabile solo in caso di assegnazione al Qatar dell’edizione 2022.

Il “premio a vincere” offerto dal Qatar, contrario agli statuti della Fifa, estende per la prima volta i sospetti di corruzione sulla Fifa come istituzione e sul suo presidente Blatter.

Michel Platini ha ricevuto il suo “pagamento differito” di 1,8 milioni di euro nel febbraio del 2011, appena due mesi dopo la vittoria del Qatar e il pagamento del premio di 100 milioni alla Fifa.

È una semplice coincidenza o c’è forse un legame tra questo versamento e il voto di Platini per il Qatar?

Saga Todini: pianti, accuse di stalking e milioni svaniti

Berlusconi la volle in Europa e poi alla Rai, Renzi la chiamò a guidare le Poste. Il pubblico la conosce come ospite fisso a Ballarò nei panni della radiosa e riccioluta paladina del libero mercato. Per sua madre, però, Luisa Todini è una stalker e come tale l’ha denunciata: “Luisa si dipinge come una grande imprenditrice, ma è indebitata fino al collo. Ha prosciugato il suo patrimonio e vuole aggredire il mio, facendomi passare per incapace di intendere e volere. L’autorità giudiziaria mi protegga dalla violenza di mia figlia”. Così l’esposto della vedova Maria Rita Clementi, ultimo atto di un intrigo dinastico a molti zeri che il Fatto racconta per la prima volta e che solo un giudice potrà districare, accertando chi ne sia realmente vittima. Perché la versione dell’imprenditrice è del tutto diversa, e racconta di un patrimonio dilapidato dal fratello e di una madre confusa in balia di legali senza scrupoli.

 

Il trust alle Isole Cook e la guerra di carta

La storia ruota attorno a un trust familiare che la signora Clementi, 78 anni, ha costituito un anno fa a vantaggio e tutela di entrambi i figli in parti uguali. La decisione, secondo la madre e i suoi legali, non piace alla figlia alle prese con un “bisogno impellente di liquidità”. Ragion per cui a inizio 2018 Luisa Todini fa istanza di nomina di un amministratore di sostegno nei panni di se stessa, che viene però rigettata dal giudice tutelare una prima volta a gennaio ed è appesa al ricorso che andrà in udienza domani, presso la prima sezione civile del Tribunale di Roma. A luglio 2018 presenta anche una denuncia per circonvenzione di incapace contro il fratello Stefano su cui pende la richiesta di archiviazione, perché i reati tra familiari non commessi con violenza sono depenalizzati. Il colpo di scena arriva ad aprile, quando è la madre a denunciare la figlia.

L’anziana – assistita dal penalista Alessandro Sammarco – riferisce di visite mediche e test neuropsicologici orchestrati “con l’inganno” da Luisa allo scopo di provare la sua incapacità, di come sia arrivata a offrire vantaggi economici al medico di famiglia perché la certificasse. E questo “pur avendole ceduto su un piatto d’argento, attraverso il trust, l’impero che ho creato e che a differenza dei miei figli ho mantenuto integro, anche perché l’unico decremento patrimoniale che ho avuto è costituito dalle donazioni e dai prestiti che gli ho fatto”. Poi la stilettata: “Tutti sanno che la Todini Costruzioni Spa, da Luisa ereditata dal padre, nelle sue mani ha maturato oltre 400 milioni di debiti. Grazie all’intervento del suo amico Berlusconi non è fallita, ma è stata acquistata da Salini. Oggi mi sento braccata, oggetto di una intimidazione costante finalizzata al solo scopo di farmi cedere alle sue pretese economiche”. E ancora: “Depositato il ricorso, mia figlia ha scritto a tutte le mie banche per bloccare i conti, con Bnl c’è addirittura riuscita, al punto che ho fatto causa alla banca. Per fare ciò, ovviamente, Luisa fa leva sulle sue conoscenze sia in ambito imprenditoriale e finanziario, che politico”. Carte dal fondo del pozzo in cui è precipitata la dinastia italiana dei Todini, un tempo fulgido esempio della bottega che si fa impero.

Anche Luisa Todini ha le sue, e raccontano però un’altra storia. “Sono 18 anni che mi batto perché il patrimonio costruito da mio padre non venga dilapidato”, dice in lacrime. “Alla sua morte, mia madre ha ereditato 65 milioni tra immobili, depositi bancari e investimenti finanziari. Mio fratello ha dilapidato la sua parte, non è in grado di amministrare neanche se stesso e si appoggia completamente a lei che soffre di disturbo bipolare e spesso è in stato confusionale. Se del patrimonio restano 10 milioni, è tanto”. Ha chiesto l’amministratore per ripianare i suoi debiti? “Ma questo è assurdo! Ho rilevato da mio fratello le aziende dell’Umbria col nome di famiglia gravate da 24 milioni di debiti. Gli ho risparmiato la bancarotta e ho fatto anche un mezzo miracolo a rimetterle in equilibrio. Ho richiesto l’amministratore di sostegno per mia madre come misura di protezione nel suo interesse: di questo passo, non le rimarrà niente e lei ha bisogno di aiuto. Sa cosa è successo?”. E qui l’intrigo è da romanzo.

 

“È in balia di quei legali che ci lucrano”

“Quando ho depositato la richiesta mia madre è stata sottratta tre volte dai suoi legali alla perizia disposta dal giudice tutelare, e l’indomani è stata condotta davanti a un notaio a costituire un trust decennale irrevocabile basato alle Isole Cook proprio allo scopo di impedire la nomina di un amministratore. I beneficiari siamo io e mio fratello, ma gli amministratori con firma singola sui conti sono gli stessi Sammarco e Giuseppe Ciaccheri, legale e consulente di fiducia di Stefano. Si sono attribuiti un compenso di 40 mila euro l’anno, in pratica si sono garantiti 800 mila euro in dieci anni. Alla disponente spetta un vitalizio di 50 mila euro al mese, ma con una carta che non vale nulla perché mia madre non è beneficiaria del trust. L’atto, non per caso, specifica che se uno dei beneficiari indicati fa qualcosa per limitare il potere dispositivo di mia madre perde tutto”.

Come sta andando il trust? “Non me lo dicono, ma la prima cosa che han fatto è portare i soldi in Svizzera all’insaputa di mia madre, salvo poi riportarli in Italia perché costava troppo. Intanto hanno speso 400 mila euro tra tasse e trust. Io chiedo solo che mia madre abbia a disposizione quel che resta del patrimonio da cui è stata espropriata. Se volessi spillare soldi non chiederei una misura di protezione per cui non si muove uno spillo senza supervisione di un giudice. Arrivo anche a dire che sia indicato Sammarco, così non può far danni”.

Domani il giudice è chiamato ancora a esprimersi sulle capacità della signora Clementi. Il 23 ottobre 2018 agli inquirenti dichiarava: “Sono stata ingannata e raggirata dai miei legali che con il trust sono entrati in possesso dei miei beni”. Sei mesi dopo nella denuncia che firma insieme a loro contro la figlia dichiara: “Con l’inganno Luisa mi ha convinta, mandandomi in confusione e facendomi preoccupare, a recarmi alla Gdf per esprimere dubbi sul trust che avevo costituito proprio per proteggermi dall’aggressione patrimoniale da lei scatenata”. L’ultimo sms: “Mi dispiace tanto di averti denunciata, ma ero abbattuta per quel che stava succedendo”.