Csm, per Palamara chiesta la sospensione anche dallo stipendio

Luca Palamara sempre più nei guai. Per il pm romano indagato a Perugia per corruzione, Il 2 luglio la sezione disciplinare del Csm deciderà se accogliere la richiesta di sospensione dalle funzioni e dallo stipendio avanzata dal Pg della Cassazione Riccardo Fuzio che lo ha già incolpato per violazione “dei doveri di correttezza ed equilibrio, tenendo un comportamento gravemente scorretto” verso i canidadti per il posto di procuratore di Roma. Il riferimento è all’ormai noto incontro notturno con Cosimo Ferri e Luca Lotti, del Pd e 5 togati del Csm, di cui 4 ormai ex consiglieri, durante il quale si studiava la strategia per far nominare Marcello Viola, pg di Firenza, a Roma. A proposito di nomine, si è ritarto dalla corsa a procuratore di Torino il pg di Reggio Calabria Dino Petralia, di Area, progressisti. Anche a lui si era riferito Palamara quando ha sostenuto che in tanti candidati lo avrebbero chiamato per un appoggio. C’è pure un’intercettazione in cui l’ex Csm Spina ipotizza, ma senza avere seguito, di chiedere al vicepresidente Ermini di convincere il capogruppo di Area al Csm, Cascini a votare per Viola, in cambio del voto per Petralia su Torino.

Dalle pulizie al pallone

Claudio Lotito ha 58 anni, dal 2004 è proprietario e presidente della Società sportiva Lazio, già quotata in Borsa ma sull’orlo del fallimento dopo i trionfi dell’era Cragnotti. Ottenne all’epoca una rateizzazione molto favorevole dell’ingente debito fiscale. Dal 2011, con il costruttore e cognato Marco Mezzaroma, è proprietario anche della Salernitana che gioca in Serie B. Con la Lazio ha vinto tre Coppe Italia e due Supercoppe italianeMaturità classica, laurea in Pedagogia, Lotito ha le principali attività extracalcistiche nelle imprese di pulizia e vigilanza privata, che specie in passato vivevano soprattutto di appalti pubblici Era stato arrestato nel 1993 in un’inchiesta su appalti della Regione Lazio ma ne è uscito pulito. Ha beneficiato della prescrizione per Calciopoli (però è stato squalificato per 4 mesi dalla giustizia sportiva) e in un processo per aggiotaggio. È indagato in una maxinchiesta sulle multe stradali cancellate a RomaConsigliere Federcalcio nel 2009, poi sospeso e rieletto nel 2013 e nel 2018

“Io al Senato? Mi ispirerò alla Repubblica di Platone”

“L’importante è che lei riporti pedissequamente le parole che dico. Il dovere del giornalista, e glielo riferisce uno che da giovane ha fatto anche questo mestiere, è di rendere una cronaca pedissequa dei fatti. Lo dice il codice deontologico. Lei si attenga al codice”.

Senatore Lotito.

Non giudichi e non pregiudichi.

Il Senato segna un’altra tappa rilevante della sua carriera finora solo imprenditoriale. Entra di prepotenza nell’élite politica.

Due cose già non vanno bene: lei mi definisce prepotente.

Prepotenza come metafora. Entra con decisione nel campo che finora gli era escluso.

Con decisione, con forza. In questo senso?

Senatore.

Chi gliel’ha detto che ci sarà questa nomina? Io me lo auguro ma non so nulla.

Oramai la strada è spianata: la Giunta per le elezioni del Senato è sul punto di accogliere il suo ricorso.

Sono stato stimolato a candidarmi da amici e l’ho fatto, come sa, per il bene comune. Il mio riferimento è ai doveri dell’uomo giusto e saggio, alla Repubblica di Platone.

Malelingue ritengono che il suo obiettivo sia agguantare l’immunità parlamentare, uno scudo speciale per un imprenditore speciale.

Non ho bisogno, non ho preoccupazioni, non ho di questi problemi. Se lei, e di nuovo siamo al punto di partenza, ha voglia di lasciar perdere i pregiudizi e andare ai fatti le sarei grato.

Dopo la Lazio c’è Alitalia. E dopo l’Alitalia c’è l’Italia.

Presi la Lazio, oramai 15 anni fa, con 550 milioni di debiti. Risanata? Risanata.

Alitalia è pure peggio.

Un milione e rotti di euro di perdite quotidiane, un’azienda ai minimi termini. In Italia c’è una moltitudine di prenditori. E un sacco di magnager. Scriva bene: prenditori e non imprenditori, magnager, non manager.

Nessuno col sale in zucca si avvicinerebbe a un morto che cammina.

Mi piacciono gli sport estremi, non so fare altro che lavorare. Ho tanto da fare che posso dormire solo tre ore a notte. Faccio cose, anche di notte.

Infatti con i giudici ha fatto incontri in notturna per risparmiare sulle ore di luce.

Questa non è una domanda, è solo la sintesi del suo pregiudizio. Se mi ha già giudicato, non serve che le risponda.

Era una considerazione fattuale. Quindi pedissequa.

Prima di inoltrarmi sulla strada della risposta e chiarire definitivamente la inviterei anche a valutare se il nostro confronto dialettico non debba arricchirsi di qualche elemento di introspezione psicologica.

Ogni intervista tende a esplorare l’animo, a indagare il sentimento, cavarne una suggestione.

Senza fermarsi all’apparenza, al folclore di frasi fatte. Per esempio Lotirchio.

Lei che ci faceva di notte a tavola con i giudici?

Ma quale tavola! Ma quale notte! Erano convivi, incontri, cene alle quali come ho già detto ero invitato. C’erano nomi di altissimo prestigio. Dovevo essere preoccupato? E di cosa? Poi, diciamocelo, il tono della conversazione letto su un brogliaccio è assai diverso dalle sfumature della voce. Non dà il senso, scuote il tono, ruba l’ironia.

Certo che Lotito è uomo dalle mille risorse…

Se Lotito fa mille cose è perché lavora tantissimo. Non ha hobby. Ventuno ore al giorno.

Lei soffre d’insonnia?

No, caro. Io proprio non posso dormire oltre, ho troppo da fare. Quindi per una evenienza aritmetica faccio più cose di quanto gli altri riescano a fare. E mi porto avanti.

Lei sente profumo di business anche in Alitalia…

Sento che non è un’azienda morta, prima di dichiarare il fine vita si può provare a fare qualcosa.

Se la prendesse lei cosa farebbe?

Conterei anche le matite. Mi farei una brandina in azienda, perché certo uno non può andare a dormire a casa sennò perde tempo.

Con la Lazio fece così.

Mi chiusi là dentro e giorno e notte a sfogliare le voci di costo e limare.

Alitalia sta messa peggio…

Immagino che i dipendenti dovrebbero fare anche un po’ di training autogeno. Una scossa psicologica. Qualcosa che li convinca a credere in Alitalia, li attrezzi, li faccia sorridere alla vita e dare il massimo sul lavoro.

Non c’è luogo dove non spunti Lotito…

Sono impegnato in varie categorie merceologiche.

Con la Lazio ha infiocchettato i debiti da par suo. Una dilazione col fisco per pagare in 23 anni ciò che doveva sull’unghia. Solo Matteo Salvini è riuscito a far meglio di lei con i debiti della Lega.

Ho utilizzato le norme e pago puntuale. E non mi sono mai messo in tasca un gettone di presenza, mai dato un emolumento come presidente. Ora la Lazio è costruita sul cemento armato.

È la Roma che sta attraversando un periodo bruttissimo. Ha sentito Totti?

Non ho sentito.

Lotito è reticente.

Non mi immischio.

Dica qualcosa ai cugini lupacchiotti…

Anch’io sono passato tra mille contestazioni, è stata dura ma ce l’ho fatta.

Lei al Senato, e chi l’avrebbe detto?

Apprendo da lei.

Secondo me farà come l’onorevole Angelucci. Non passerà dal Parlamento nemmeno per ritirare l’indennità. Basta il bonifico.

Se mi impegno in qualcosa non mollo.

Prima Alitalia, poi l’Italia.

Serve una politica economica salda, solida. Basta col virtuale, basta con la comunicazione fine a se stessa. Cambiare registro.

Cambiare l’Italia.

Adesso ho da fare.

“Salvini stia attento: Trump ascolta solo Trump, ma occhio a Bannon”

“Ho detto a Trump: mi hai reso famoso come Melania e Ivanka e senza neppure costringermi a venire a letto con te”. Anthony Scaramucci, 55 anni, vanta un record: è stato direttore della comunicazione per soli undici giorni, tra il 21 e il 31 luglio 2017. Donald Trump lo ha assunto, e Trump lo ha licenziato. Nessuno più di lui può spiegare come ragiona il presidente degli Stati Uniti che Matteo Salvini vuole così disperatamente compiacere durante il suo viaggio negli Stati Uniti (il leader leghista sa che per coltivare ambizioni da premier serve l’appoggio della Casa Bianca).

Scaramucci viene da una famiglia di immigrati italiani, studia ad Harvard, lavora in Goldman Sachs, apre il suo fondo di investimento SkyBridge. Negli anni finanzia un po’ tutti, soprattutto candidati democratici. Anche Barack Obama. Poi incontra Trump, diventa uno dei pochi a scommettere su di lui, lo sostiene contro l’establishment del Partito Repubblicano.

Nel 2017 la Casa Bianca trumpiana è nel caos, il presidente gli chiede di dirigere la comunicazione. Scaramucci si fa subito due nemici potenti: l’allora capo dello staff Reince Priebus e il super consigliere Steve Bannon. E poi, nei suoi primi e ultimi giorni, Scaramucci commette un errore. Quando il New Yorker pubblica un retroscena troppo informato, chiama il giornalista autore del pezzo, un antico conoscente, Ryan Lizza. Scaramucci chiede di sapere la fonte, minaccia di licenziare il suo intero staff di 35 persone se non trova il colpevole, insulta, impreca. Si dimentica di chiarire al giornalista che la telefonata è off the record, lui pubblica tutto e Scaramucci viene licenziato. Tornato in finanza, ora gira il mondo per affari e le tv come esperto di Trump. Scaramucci in questi giorni è in Italia, ha presentato il suo libro Trump, il presidente del popolo, con Ernesto Di Giovanni della società di lobbying e relazioni istituzionali Utopia.

Anthony Scaramucci, Salvini vuole compiacere Trump. Ma chi è che può influenzare le opinioni del presidente?

C’è una sola persona che ha influenza su Trump: Trump. Se qualcuno ti racconta di avere un qualche influsso sul presidente, sta mentendo. E se Trump legge sui giornali che un suo consigliere si vanta di aver spinto la Casa Bianca verso destra, lui si butta a sinistra. E viceversa.

Steve Bannon è molto popolare in Italia, sostiene la Lega e tutti i movimenti sovranisti, ha anche una specie di scuola nel Lazio. Perché è ancora così influente anche fuori dalla Casa Bianca?

Lei crede in Dio? Io ho ritrovato la fede quando ho conosciuto Steve Bannon: è molto intelligente, ha grande carisma, ma Dio lo ha fatto così fottutamente brutto per salvare la civiltà occidentale. Se fosse stato bello, avrebbe potuto fare danni disastrosi con il suo talento, il suo complesso messianico. La bruttezza di Steve è la prova che Dio esiste. Ma nessuno ha reso Trump presidente, neanche Bannon. Trump ha battuto 17 candidati repubblicani alle primarie prima che Bannon si aggregasse alla campagna nell’agosto del 2016.

Salvini vuole copiare il taglio delle tasse di Trump, in versione flat tax, ma sembra imitare anche un certo eloquio aggressivo e senza filtri del presidente. Quello stile continua a funzionare anche sul lungo periodo?

Il politico classico negli Stati Uniti è ossessionato dall’essere politicamente corretto, quando parla non vuole offendere nessuno. Trump è una palla da bowling arancione che abbatte tutto quel che trova sulla sua strada, in particolare quei birilli dei candidati democratici.

Trump può vincere ancora nel 2020?

Non vedo come possano batterlo. Basta ripensare a questo periodo dell’anno nel 2015: Jeb Bush era al 22 per cento nei sondaggi, Trump all’1. E Trump ha vinto. Oggi i democratici Joe Biden e Bernie Sanders vanno bene nei sondaggi. Ma Trump è presidente, loro non hanno neppure la nomination. Inoltre Trump questa volta ha soldi da spendere, arriverà almeno a un miliardo: ha già prenotato tutti i banner pubblicitari su siti popolari come Drudge Report per i mesi decisivi. E l’economia continua a crescere.

Negli Stati Uniti, come in Italia, c’è la stessa reazione ai successi di Trump e di Salvini. Gli intellettuali progressisti non capiscono perché gli elettori votino personaggi così.

Ho studiato ad Harvard, conosco l’ipocrisia dei liberal. Invocano l’apertura mentale, la tolleranza, i diritti per i gay, la libertà di scelta sull’aborto. Ma quando si arriva alle preferenze politiche, non ammettono alcuna diversità. Ai miei amici liberal dico sempre: ‘Sto con Trump forse perché ho una disabilità mentale’, voglio vedere se almeno così mi trattano con lo stesso rispetto che mi dimostrerebbero se avessi altre disabilità, per esempio se fossi su una sedia a rotelle.

Rai, oggi il voto su Foa: tra i grillini passa la linea dura

Sembra dunque arrivato il giorno del voto su Marcello Foa e la sua presunta incompatibilità tra la presidenza della Rai e di Raicom. Decisiva, da questo punto di vista, la ritrovata compattezza del M5S (e di Primo Di Nicola con Gianluigi Paragone) sulla loro risoluzione iniziale, che invita a Foa di lasciare l’incarico nella consociata per motivi, appunto, d’incompatibilità. Ieri nell’ufficio di presidenza i pentastellati hanno annunciato il voto sulla mozione, senza però alcun tipo di emendamento leghista, ovvero quelle modifiche che, se accettate, avrebbero svuotato la mozione.

Per cui questa mattina alle 8.30 si voterà prima la mozione del Pd, appoggiata da dem e LeU, senza M5S. Poi si passerà agli emendamenti leghisti, con probabile bocciatura. Infine si voterà la mozione pentastellata su cui dovrebbero convergere i voti di Pd e Leu, raggiungendo così i 23 voti (su 40) necessari per far passare la risoluzione, con il parere contrario di Lega e Fdi (FI si asterrà). Ma, visti i precedenti, meglio andarci coi piedi di piombo.

Tria prende le forbici: “Faremo tagli”

Ieri il ministro dell’Economia Giovanni Tria – autorevole rappresentante del partito del Quirinale, terzo azionista della maggioranza – ieri era a Londra dai famosi investitori internazionali. Sarà per la platea, ma il nostro ha buttato lì una frase ingiustamente trascurata dal pur vivace dibattito pubblico italiano.

Eccola: il governo è intenzionato a “sostituire misure fiscali con cui a legislazione vigente è stato garantito il mantenimento di quel livello deficit con altre misure dal lato spesa”, passando “da una politica di contenimento del deficit basata sull’incremento delle tasse a una basata sul contenimento spesa corrente”. Insomma, l’Iva non aumenterà (“bisogna fare una norma che arriverà col Bilancio 2020”), ma “c’è un impegno del governo a sostituire l’incremento di tasse con tagli di spesa”.

Se il lettore avverte come un’aria di già sentito ha perfettamente ragione: siamo più o meno alle fantascientifiche spending review dei bei tempi andati, una frase che non sfigurerebbe in bocca all’ex commissario Carlo Cottarelli. Per capirci, al di là della tempistica con cui questo impegno del ministro Tria (e di altri?) verrà attuato, parliamo di tagli di spesa pubblica – la cui natura recessiva è nota a tutti, primo lo stesso ministro – per quasi 30 miliardi a regime (cioè ogni anno). Dotato di grosse forbici, insomma, Tria e il partito del Colle che poi è quello di Bruxelles sta vendendo ai famosi investitori internazionali un consolidamento fiscale di quasi due punti di Pil.

Roba da Mario Monti, su cui non risultano commenti della maggioranza. “Cercheremo di ottenere un accordo con la Commissione Ue: questo governo è più prudente di prima, non ascoltate il rumore elettorale”, è l’invito dell’ex professore ai “mercati” londinesi. Invito obbligatorio, tanto più dopo le parole – il monito, dicono quelli bravi – di Sergio Mattarella: “Assicurare la solidità dei conti è essenziale per la tutela del risparmio e l’accesso al credito, per sostenere l’economia reale e lo sviluppo di nuovi progetti, per creare lavoro di qualità e una crescita inclusiva”.

Sul punto, va detto, s’è irritato Matteo Salvini che ha replicato al Colle che “i conti sono in disordine perché abbiamo applicato per troppi anni le regole della precarietà, dell’austerità e dei tagli imposti dall’Europa” e spiegato a Tria che “chi vuole fare il ministro di questa squadra sa che il taglio delle tasse è la priorità”: “Non mi pagano lo stipendio per dire ‘sì, signor padrone’ in un ufficio di Bruxelles”.

Da segnalare, infine, l’ennesimo battibecco sui minibot: per Tria sono “illegali e non necessari” perché ormai la P.A. paga nei tempi previsti; per il loro ideatore Claudio Borghi (Lega), “il ministro non li ha capiti” e comunque “deve fare quel che il programma di governo, che ha visto e sottoscritto, dice”.

“Di Battista è l’attaccante del M5S. Ha dato voce a moltissimi di noi”

Il veterano predica unità o almeno l’armistizio, tra i due volti che ora sembrano in guerra, tra l’ex trascinatore Alessandro Di Battista e il capo fiaccato dal voto del 26 maggio, Luigi Di Maio: “Alessandro non vuole affatto sostituire Luigi, devono lavorare assieme”. Però Max Bugani, socio dell’associazione Rousseau, amico di Beppe Grillo e Davide Casaleggio, vicecapo della segreteria di Di Maio a Palazzo Chigi, lo dice dritto: “Di Battista è il nostro numero nove, l’attaccante. E ci serve per fare gol”.

Le sue critiche nel libro Politicamente scorretto hanno dato fastidio a moltissimi di voi. Di Battista parla di un M5S che “ha avuto paura di prendere posizioni scomode” e di “burocrati rinchiusi nei ministeri”. Condivide?

Ha usato parole molto dure, ma Alessandro è una voce importante del M5S. Nel momento in cui dice certe cose dà sfogo a quello che pensano tantissimi elettori e iscritti che aspettavano quelle parole, e che finora erano stati un po’ in apnea.

C’è malessere nei suoi confronti. Temono voglia togliere il posto a Di Maio.

Non ha mai pensato di sostituire Luigi. Chi lo dice non conosce Alessandro.

Che ruolo dovrebbe avere Di Battista?

Questo si può vedere, in base alla situazione. Ma di certo ci serve.

Di Maio gli ha risposto a muso duro: “Se Alessandro torna a lavorare per il M5S siamo felici, è più utile chi lavora che gli opinionisti”.

Sono due persone di spessore, con caratteri forti. Ma non sono alternativi, sono complementari.

Di Maio deve restare al suo posto nonostante il 17 per cento?

Assolutamente sì.

Però qualcosa, anzi molto, avrà sbagliato, no?

Il problema principale è che noi dopo tanti di opposizione ci siamo ritrovati al governo. E questa è necessariamente una fase di trapasso. Anche per Berlinguer sarebbe stato difficile far capire ai suoi elettori un’alleanza con la Dc.

Ci saranno altre cause.

Per dieci anni c’è stata un’onda anti-casta che noi abbiamo cavalcato, creata innanzitutto da Grillo. Negli ultimi due anni invece si è parlato solo di immigrazione. C’è un’altra aria nel Paese, e Salvini la sta cavalcando. Dopodiché il M5S è una forza rivoluzionaria, e a un’Europa conservatrice questo non va bene. Temono che il Movimento sia d’esempio ad altri.

La Lega provoca sui vostri temi forti. Di Battista sostiene che non si possa dire sì al Tav, e pretende che venga revocata la concessione ad Autostrade. È d’accordo?

La partita è complessa, governiamo con una forza legata ai poteri forti. Ma su certi punti noi non possiamo cedere. Siamo all’anno zero, a un punto di svolta del Movimento, quindi dobbiamo mantenere la nostra identità.

Avrete davvero la forza? Sembrate terrorizzati dal voto anticipato.

Abbiamo quella forza. E comunque ora sarà fondamentale la riorganizzazione, perché non può essere tutto sulle spalle di Di Maio, che ha fatto il massimo per una forza politica senza struttura.

Salvini vuole andare a votare a settembre?

Non lo so. Se vuole creare una nuova maggioranza, deve ricordare che si ritroverebbe un’opposizione di 300 eletti 5Stelle, e non lo augurerei neppure a Matteo Renzi. Se invece vuole tornare al voto deve capire che con le urne si aprirebbe una nuova partita. Se volesse fare un governo con Siri, Arata e Verdini per noi sarebbe la situazione migliore per tornare a crescere.

Grillo giorni fa ha scritto un intervento duro sul Fatto, ribadendo il no al Tav. Ora è meno lontano dal M5S rispetto a qualche tempo fa?

Beppe non se ne è mai andato, e non mi sento di chiedergli nulla di più, perché per 15 anni ha dato tutto se stesso al Movimento. Gli va detto solo grazie, a prescindere. Se volesse tornare in prima linea bisognerebbe solo dirgli un grazie più grande.

Ora c’è in ballo la sopravvivenza del M5S?

In base alla riorganizzazione capiremo quale sarà la rotta. Dobbiamo innanzitutto tornare più solidi e credibili sui territori, laddove ci sono state situazioni di caos

Aprendo anche ad alleanze, per esempio al Pd? In autunno si vota nella sua regione, in Emilia Romagna.

Conosco bene il partito emiliano, ed è un Pd di potere, di controllo sistematico su ogni cosa. E poi non vedo segnali. Continuano a contestare il reddito di cittadinanza.

Fraccaro attacca la Stefani: “Ha deciso nomine arbitrarie”

Nel governo si apre anche un fronte Trentino-Alto Adige. La lite è tra due ministri, la leghista Erika Stefani (Affari Regionali e Autonomie) e il grillino Riccardo Fraccaro (Rapporti con il Parlamento). La questione è la seguente: Stefani ha scelto, senza consultare gli alleati, i 6 rappresentanti dello Stato di nomina governativa nella Commissioni paritetica dei Dodici per l’attuazione dello statuto di autonomia del Trentino. Fraccaro ha reagito in modo furibondo: “Sono nomine di chiara estrazione politica”, secondo il Cinque Stelle. Inoltre “il provvedimento è stato assunto dal Ministro senza ricorrere a quel metodo collegiale che è un punto di forza del governo del cambiamento”. Uno strappo – continua Fraccaro – che finirà per rallentare l’iter dell’autonomia: “Le nomine dei componenti, di chiara estrazione partitica, non rispecchiano in alcun modo la necessità di assegnare alle Commissioni personalità di qualità e alto profilo. La violazione del principio di collegialità, pertanto, non potrà che produrre ripercussioni negative sull’attività delle Commissioni e sulla considerazione del loro lavoro da parte della compagine di governo”.

Direzione dem: tutti sorvolano su “Luca”, i pm e Palamara

Come ogni direzione del Pd che si rispetti, gli stracci volano prima e sono pronti a ricominciano a volare un attimo dopo. Ma la rappresentazione è ancora una volta quella di un partito chiuso in una dinamica di guerre intestine che si nutrono di un logoramento continuo, con scontri quotidiani sui giornali e rotture che non arrivano mai in fondo. Sarà pure per questo che di Luca Lotti (assente, come Matteo Renzi) si parla il minimo indispensabile. Zingaretti lo ringrazia per l’assunzione di responsabilità, poi riparte con l’appello all’unità. E con una formula conciliante parla pure della segreteria senza minoranze: “Non c’è stata alcuna volontà di esclusione. Abbiamo valutato collegialmente che non esistevano le condizioni politiche per un pieno coinvolgimento delle minoranze congressuali”.

Per Base Riformista l’intervento più rappresentativo è quello di Lorenzo Guerini, il mediatore per eccellenza, quello che un domani potrebbe traghettare tutta la corrente se non proprio dentro la maggioranza, quasi. Che infatti sfuma su Zingaretti, ma attacca Carlo Calenda: “È un protagonista ma gran parte dei suoi voti sono del Pd. Non credo a posizioni politicistiche. La parola che deve uscire da questa direzione è che il Pd non deve smarrire la sua vocazione maggioritaria”. Sarà per questa definizione, sarà per la scelta del bersaglio, ma si prende il plauso di Goffredo Bettini, che – secondo un tweet della Prestipino – avrebbe detto di Calenda, “mi fa venire il mal di testa solo a vederlo”. E l’altro: “Liberando Zingaretti dai discorsi di Bettini, faremmo già un passo avanti significativo”. In tutto questo, lui non evita la metafora del giorno per tenere un filo con M5s: “Bisogna a fare l’amnistia per gli elettori dei Cinque Stelle, come fece Togliatti nel ’46”. Ma sempre di elettori si parla. Nessun voto alla relazione, per evitare spaccature. Br si riunisce la sera. Lotti c’è. Le mosse future, da decidere.

“Csm e Lotti: un danno cosmico per il Pd”

Il viso s’accende all’improvviso di rosso e il tono della voce sale, incazzato. “Io non ho mai parlato con un magistrato in vita mia, ma scherziamo? Questa storia di Lotti e del Csm è un danno di proporzioni cosmiche per la politica e la giustizia, che non si può banalizzare né minimizzare. Il cittadino normale, quello che può mettersi solo in braccio alla Madonna per un processo, che deve pensare?”. Eppoi: “Di questo passo tra un altro po’ Zingaretti dovrà chiedere scusa a Lotti”. Applausi.

Libreria Mondadori nel quartiere Prati, a Roma. Pier Luigi Bersani affronta l’ultimo guaio del Pd scolorito di Nicola Zingaretti con parecchia foga. Del resto, l’ex segretario dei dem, indi fondatore di Articolo 1, ha sempre sostenuto che nella golden age del renzismo e del Giglio Magico ci fossero “troppe cose in pochi chilometri quadrati” in Toscana, tra Renzi, Boschi, Carrai e Lotti. “Non hanno fatto altro che trasferire il loro sistema di relazioni trasversale toscano nella politica nazionale e romana. Ma se tu finisci quasi per chiedere scusa a Lotti allora dobbiamo riscrivere l’articolo 54 della Costituzione, non più assolvere le funzioni pubbliche con disciplina e onore ma invece come ‘cavolo vuoi tu’”. Applausi.

La libreria è affollatissima. Si presenta Titanic. Come Renzi ha affondato la sinistra di Chiara Geloni, edito da PaperFirst. Ex di Europa e Youdem (la tv del Pd), Geloni ha collaborato per anni con Bersani e il libro contiene numerosi episodi inediti e drammatici sugli anni renziani del Pd, dal 2014 al 2018. Con lei e Bersani, alla presentazione, c’è anche Marco Follini, storico centrista, moderati da Fabrizio d’Esposito del Fatto.

L’ex segretario dem ritorna sul fatale 2013. E non per la fatidica storia dei 101 che silurarono Prodi al Colle e la leadership bersaniana. La questione è l’interventismo di Napolitano sul pre-incarico a Bersani e la successiva richiesta al M5S di far partire il suo governo: “Ancora oggi mi chiedo: ma sono ancora incaricato?”. Risate.

Formalmente, infatti, Re Giorgio non gli disse nulla. “Io non glielo chiesi, al contrario se lui me l’avesse chiesto io mi sarei presentato alle Camere con il governo. In realtà su questa ipotesi ero da solo. Non solo Napolitano ma anche dentro il Pd tutti volevano il governo con Berlusconi. Per questo mi tirai indietro e chiesi a Enrico Letta di farlo. I conti con l’interventismo del Colle? Napolitano appartiene a quel filone nobile del migliorismo per cui hanno sempre ragione gli altri”.