“Il Jobs act va ridiscusso. È l’ora della discontinuità”

“L’abolizione dell’articolo 18 è stato un errore al di là del merito, per la valenza simbolica che ha avuto. Questa è la mia idea, ma serve una discussione ampia che guardi al futuro”. Peppe Provenzano, saldamente a sinistra, è il nuovo responsabile Lavoro del Pd di Zingaretti. E ha le idee molto chiare su dove dovrebbe andare il partito: “Il lavoro è il grande assente dalle politiche del governo. Per noi, è un tema identitario. Il compito storico della sinistra è non rassegnarsi alla fine del lavoro. Questa evoluzione del capitalismo lo distrugge in tutte le sue forme: autonomo, dipendente, cooperativo. Dobbiamo tornare a parlare con gli operai e con chi fa i nuovi lavori e lavoretti: democratizzare l’algoritmo, orientare l’innovazione al miglioramento delle condizioni del lavoro. Farne strumento di emancipazione e uguaglianza sociale”.

Come valuta il reddito di cittadinanza?

È una risposta sbagliata a una domanda giusta, proprio perché confonde il lavoro con una politica del reddito. La priorità è il lavoro che non c’è: serve un grande piano di investimenti pubblici. Stiamo lavorando a un Green New Deal, che dovrebbe portare 50 miliardi di investimenti per la conversione ecologica.

E il taglio delle tasse, bandiera di Salvini?

La flat tax compie la più grave delle ingiustizie e rischia di determinare un taglio dei servizi. Noi proponiamo 15 miliardi di taglio al cuneo fiscale tutto a vantaggio del lavoro.

In Parlamento si discute di salario minimo.

La proposta del Pd è migliore di quella dei 5 Stelle. Confrontiamole. Fissarsi esclusivamente sui 9 euro l’ora rischia di scardinare la contrattazione. Bisogna estendere a tutti il valore legale dei contratti collettivi dei sindacati maggiormente rappresentativi. Contro lo sfruttamento, servono più controlli.

Il Jobs act va mantenuto?

Dovremmo guardare a un codice dei contratti semplificato, che estenda tutele e garanzie al di là delle forme contrattuali, che pure vanno disboscate. Non l’ha fatto neanche il decreto dignità. Vanno rivisti entrambi, guardando al futuro. Serve uno Statuto dei nuovi lavori e dei lavoratori.

Ma un dialogo con i Cinque Stelle è possibile?

Alleandosi con la Lega hanno venduto l’anima: se fosse stato un partito con una parvenza di democrazia, dopo le Europee avrebbe cacciato Di Maio. Altra cosa riguarda gli elettori di sinistra che hanno scelto M5S in passato: possono essere ripresi se si rimette al centro l’agenda sociale.

E dopo le elezioni?

Ci vadano intanto.

Zingaretti è stato poco incisivo sul caso Lotti?

Ha parlato di comportamento politicamente inopportuno e lui si è autosospeso. Si è fatta chiarezza.

Eppure resta uno dei leader della corrente maggioritaria nei gruppi parlamentari.

I gruppi non si cambiano con un congresso.

Il Pd di Zingaretti stenta a trovare un’identità.

Zingaretti è segretario da tre mesi, ci sono state le Europee: ha costruito una lista unitaria, l’embrione dell’alternativa. Bisogna mettere al centro diseguaglianze, lavoro, ambiente.

La strada è quella giusta?

Fino a qui abbiamo messo al centro l’unità, ora serve anche la discontinuità.

Cosa pensa dell’operazione Calenda?

Il tema esiste: presidiare il centro e impedire che l’elettorato sprofondi a destra. Ma non può essere compito del Pd. Il centro si è ridotto, l’elettorato radicalizzato. Dobbiamo tornare alla distinzione tra destra e sinistra. Chi è nato dicendo di non essere né di destra, né di sinistra finisce per portare acqua al mulino della nuova destra. Come il M5S.

Giustizia, oggi vertice con Bonafede: Salvini ci sarà, Di Maio forse

Della giustizia discuteranno domani notte, dopo il Consiglio dei ministri fissato per le 20. Un vertice che si preannuncia delicato, quello a Palazzo Chigi con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e quella della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno, la responsabile Giustizia della Lega. Pare certa anche la presenza del leader del Carroccio Matteo Salvini, mentre i 5Stelle descrivono come “probabile” quella dell’altro vicepremier, Luigi Di Maio. Sul tavolo, la riforma della giustizia già preparata da Bonafede, e altri temi caldi come le intercettazioni e la riforma del Csm. E Salvini ha animato la vigilia con un annuncio: “Sull’inversione dell’onere della prova presenteremo un disegno di legge che farà partire qualche discussione”. Il Guardasigilli del M5S ha invece parlato a Porta a Porta: “Uno degli aspetti più importanti è porre un muro invalicabile tra magistratura e politica: non è possibile che un magistrato che va a fare politica possa tornare a fare il magistrato. Sarebbe bello che ogni forza politica si impegnasse a non candidare magistrati. Il Movimento non perderebbe un attimo”.

Istat: i poveri assoluti restano 5 milioni, quasi 1,3 sono minori

Stabili ma preoccupantii numeri sulla povertà in Italia. Nel 2018, dopo tre anni in continua crescita, le famiglie che l’Istat classifica nella fascia di povertà assoluta sono oltre 1,8 milioni, e comprendono 5 milioni di persone – più dell’8% degli italiani – dei quali 1,26 milioni hanno meno di 18 anni.

Dati angoscianti, se si considera che la povertà è raddoppiata rispetto ai livelli pre crisi: nel 2005 le famiglie in necessità erano solo il 3,6%. La povertà assoluta è calcolata in base a un paniere di beni e servizi considerati essenziali per condurre una vita accettabile, ma il calcolo tiene conto anche della ripartizione geografica: in ogni caso ancora una volta il Sud resta il fanalino di coda, le famiglie povere sono il 10%, il doppio rispetto al Nord e al Centro. Ovviamente gli stranieri sono percentualmente più colpiti: oltre il 30% di chi arriva dall’estero è in povertà assoluta, mentre gli italiani superano di poco il 6%.

Oltre a chi è “assolutamente” povero, Istat calcola anche chi lo è “relativamente” (cioè è appena più “ricco” di un povero assoluto): sono poco più di 3 milioni di famiglie (l’11,8% del totale), vale a dire quasi 9 milioni di persone (il 15% della popolazione).

Pd, autopsia di un partito: copione in tre atti

Ma quelli del Pd, intendiamo i pezzi grossi, hanno ancora uno spin doctor? E se sì, chi è il criminale che lunedì sera ha mandato Ettore Rosato allo sbaraglio a Otto e mezzo, con l’unica indicazione di ostentare una faccia di bronzo e buttarla in caciara in modo da fare innervosire tutti i convenuti, da Cacciari ai cameramen fino al ragazzo che aggiusta il distributore del caffè, così da far dimenticare il principale motivo per cui era stato invitato?

Il tema della puntata era ovviamente il caso Lotti. Alla prima domanda di Lilli Gruber (“C’è, nel Pd, imbarazzo per la condotta di Lotti?”), Rosato sfodera quel sorriso che milioni di esseri umani nella Storia hanno visto affiorare sulla faccia dei potenti, quel ghigno che comunica in un millisecondo il totale senso di impunità, la sprezzatura non certo aristocratica, piuttosto burocratica, di chi si sente protetto dalla sua funzione, non necessariamente prestigiosa (l’ostentano pure gli uscieri di Kafka, per dire). Poi Rosato segue un copione in tre atti: 1) Così fan tutti: “Incontrarsi per discutere le nomine accade da 70 anni”, ergo “occorre una riforma del Csm”. 2) Spostare su Zingaretti: “Non trovo in lui la capacità di fare leadership” . 3) Spostare sui giornalisti: “Voi vi siete persi la cultura del dibattito interno. Vi siete salvinizzati”. Tralasciando l’ultimo punto, che caverebbe anche ai più miti le botte dalle mani (Rosato era tra quelli che applaudivano il Rambetto toscano quando minacciava di usare il lanciafiamme contro “il dibattito interno”), i primi due, la surreale sfrontatezza dei primi due nel momento in cui una delle facce più rappresentative del renzismo viene beccato a decidersi le nomine delle Procure che indagano su di lui, sono la Tac, anzi l’autopsia, di questo partito di piccoli uscieri arroganti. Se Bruno Vespa volesse dedicare una puntata all’efferato massacro del Pd, dovrebbe invitare Rosato e metterlo al posto del plastico della casa di Cogne.

“Non è il massimo, ma meglio di come sto”. La carica dei candidati alla “lotteria”

“Mi sono presentata a questo concorso, ma ho provato anche quello per portalettere di Poste Italiane”. Il profilo di Aryna descrive bene l’identikit del candidato al ruolo di navigator. Viene dalla provincia di Napoli, ha 28 anni ed è laureata in Economia. Malgrado le sprezzanti descrizioni semplicistiche apparse sui media nelle scorse settimane, non è proprio una disoccupata. “Oggi insegno matematica in una scuola paritaria – aggiunge – e ogni anno aspetto di essere richiamata a settembre”.

La scelta di iscriversi alla selezione dell’Anpal Servizi viene più che altro dalla voglia di tentare tutte le opportunità, senza preclusioni. Ha scelto la provincia di Salerno, territorio scomodo visto che il presidente della Campania, Vincenzo De Luca, ha detto e ripetuto più volte che i navigator non vuole nemmeno vederli. “Se dovessi passare, e questa cosa non si dovesse risolvere – conclude – mi andrebbe bene anche essere mandata in qualche zona limitrofa”. In effetti, dietro questo concorso ci sono una serie di incognite. Si sa che lo stipendio sarà da 27 mila euro annui, ma per il resto è un’attesa al buio. Mentre gli aspiranti navigator provano i quiz ancora non esiste l’accordo tra il governo e le Regioni sul ruolo effettivo da affidare a questi nuovi professionisti. “Da quanto ho capito – dice Daniele, calabrese di 33 anni – bisogna fare da raccordo tra l’Anpal e i centri per l’impiego, per aiutare chi prende il reddito di cittadinanza a trovare un lavoro”. È tutto giusto, ma se si chiede di entrare nel particolare nessuno sa rispondere. Non per colpa loro perché, come detto, non è chiaro a nessuno.

Anche Daniele ha già un lavoro, ma il suo contratto è in scadenza tra un anno: “Sono laureato in Scienze politiche – racconta – e mi occupo di marketing digitale. Ho provato il concorso, optando per Cosenza, perché almeno così mi assumerebbero fino ad aprile 2021. Se anche mi lasciassero a casa dopo quella data, sarebbe meglio di come sto adesso”.

Salvatore e Lucio sono due amici di Palermo da poco laureati in Giurisprudenza. Entrambi stanno svolgendo un tirocinio all’Avvocatura dello Stato e nel frattempo hanno sfidato la sorte alla Fiera di Roma. “Sono onesto – ha ammesso Lucio dopo la prova – se avessi studiato di più sarebbe stato più facile”. Fabrizio è uno psicologo che ha trovato più difficili i quesiti di economia aziendale. In generale, però, l’impressione è che il quiz fosse abbordabile. “Non è terribile”, hanno detto diversi tra quelli che sono usciti dalla fiera. Delle cento domande, alcuni hanno temuto più quelle di logica e psico-attitudinali che quelle nozionistiche, perché le prime richiedevano di concentrarsi mentre scorrevano i cento minuti.

Non ci sono solo giovanissimi. Giovanni (nome di fantasia, ndr) ha 43 anni e gestisce un centro di assistenza fiscale a Latina. In questi mesi ha mandato le domande di reddito di cittadinanza dei suoi clienti, ora si candida ad aiutarli nella ricerca di un impiego. “Non è la massima aspirazione – dice – ma ci proviamo”. C’è pure un signore sulla cinquantina che viene da Venezia e si dice scettico nel dover competere con ragazzi più giovani: “Sono più abituati ai quiz a risposta multipla, la mia generazione è più legata ai compiti tradizionali”.

Tra i candidati ci sono anche alcuni dei 650 precari dell’Anpal Servizi. Sono quelli che sono stati mandati a casa dopo la scadenza del contratto, e ora provano almeno a rientrare dalla finestra come navigator. Fabrizio è uno di loro: “Sono stato cinque anni a Roma, poi sono riuscito ad andare a Napoli. In questo tempo ho dovuto partecipare a quattro selezioni per mantenere il mio posto. Eravamo molto fiduciosi sulla stabilizzazione perché abbiamo fatto un accordo sindacale. Ma mi sono ritrovato senza lavoro”. In questi anni si è occupato di progetti di alternanza scuola-lavoro e di industria 4.0. Ora prova a reinventarsi come “assistente tecnico” dei centri per l’impiego.

Salario minimo, un fronte ampio vuole farlo saltare

Poche battaglie politiche, come quella sul salario minimo, riescono a catalizzare fronti così ampi. E a lasciare sostanzialmente isolato il M5S che della proposta di legge è il principale artefice. Luigi Di Maio l’ha capito e infatti ieri ha cercato di alzare la voce per dire che la misura verrà presa. Ma non sarà facile.

Nel fronte contrario, infatti, si annoverano oltre alle opposizioni, anche i sindacati, tranne la piccola Usb, la Confindustria, le varie associazioni di categoria, in ultimo anche l’Aran, l’Agenzia per il contratto pubblico che ha paventato l’aumento della spesa pubblica. E poi l’Ocse la cui audizione dell’altroieri, per bocca dell’italiano Andrea Garnero, ha contestato il valore del salario minimo, 9 euro lordi, ritenuto troppo alto.

Ma nel fronte opposto c’è anche la Lega che, in ossequio alle ragioni di impresa solidamente codificate nel suo Dna, punta a prendere tempo. Da segnalare anche l’incontro tra Maurizio Landini, segretario della Cgil, e il presidente della Camera, Roberto Fico, che è sembrato molto attento alle ragioni della Cgil.

Tra le questioni sul tavolo c’è l’importo orario che il progetto di legge in esame al Senato, stabilisce in 9 euro lordi. Una cifra che collocherebbe il salario italiano all’incirca al quarto posto in Europa accanto al Belgio. Nella sua audizione alla Camera di lunedì, il rappresentante dell’Ocse, Andrea Garnero, aveva definito questo valore “tra i più alti dell’Ocse” non in termini assoluti, ma in rapporto al salario mediano. La posizione Ocse sembra trascurare il fatto che i salari italiani siano tra i più bassi d’Europa. Secondo l’ultimo rilevamento Eurostat del 2014, si collocano al tredicesimo posto dietro Danimarca, Irlanda, Svezia, Lussemburgo, Belgio, Finlandia, Olanda, Germania, Francia, Austria e, fuori dalla Ue, Svizzera e Norvegia.

A salario mediano basso si deve per forza avere un salario minimo altrettanto basso, oppure l’importo di quest’ultimo può contribuire a un generale rialzo? Lo scontro verte su questo punto anche perché, come spiega l’Istat nella sua audizione al Senato, il salario minimo legale “porterebbe a una compressione di circa l’1,6% del margine operativo lordo” delle imprese, cioè una riduzione degli utili. Si tratterebbe di una chiara redistribuzione di reddito dalle imprese ai lavoratori.

Non è detto che i benefici arriverebbero subito a tutti. Certamente quelli più interessati sono in quel 22% di forza lavoro che, secondo l’Inps, ha retribuzioni inferiori ai 9 euro l’ora: si tratta soprattutto di donne (26%), under 35 (38%), lavoratori del Sud (31%) del settore artigianale (52%) o del terziario (34%).

Difficile immaginare una ricaduta negativa sulla contrattazione, una “fuga dal contratto”, come l’ha definita Andrea Garnero il quale ha ricordato che, laddove il salario minimo è stato introdotto di recente, ad esempio in Germania nel 2015, la forza contrattuale dei sindacati tedeschi, che è notoriamente alta, non ne ha risentito. Un dato che dovrebbe far tacere i timori espressi sia da Confindustria sia da Cgil, Cisl e Uil. Il problema di preservare la struttura contrattualistica italiana esiste, e ieri Maurizio Landini si è raccomandato di non diminuire alcun diritto, ma non c’è alcuna prova che il salario minimo possa intaccarla. Mentre la sua istituzione potrebbe rappresentare un utile antidoto a un’altra tentazione che emerge costantemente nel dibattito: le gabbie salariali. Ci si è riferito, pur parlando di “flessibilità nel contratto nazionale” il rappresentante dell’Ocse e sappiamo bene, fin dai tempi di Umberto Bossi, che il tema sta a cuore alla Lega. Un salario minimo per legge potrebbe fugare anche questa tentazione.

Precari e governatori nemici. La fatica di essere navigator

La prima giornata di prove del concorso per la selezione dei navigator si è conclusa e ha dimostrato come, in realtà, ad ambire davvero a questo lavoro sia solo un terzo degli ammessi ai quiz. Ieri alla Fiera di Roma erano attesi in 9 mila, ma nella sessione mattutina si sono presentati soltanto in 3 mila. In pratica, due su tre hanno preferito restare a casa, forse scoraggiati dall’idea di gareggiare con altri 54 mila per appena 3 mila posti disponibili. Oggi è prevista la seconda tranche di candidati, mentre domani ci sarà quella conclusiva. Il cammino per mettere effettivamente all’opera i navigator, tuttavia, è ancora lungo. Anche perché resta da sciogliere il nodo più spinoso: individuare in concreto il ruolo che dovranno svolgere. Materia bollente per le trattative tra l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal) e le Regioni. La distanza tra il progetto del ministro del Lavoro Luigi Di Maio e l’idea dei governatori, nessuno dei quali è del Movimento 5 Stelle, è ancora molto marcata. Alcuni insistono su aspetti tecnici, per altri la questione è più politica.

Il presidente della Campania Vincenzo De Luca, per dire, si sta opponendo con tutte le sue forze all’idea di assumere i navigator. Tra Napoli, Avellino, Benevento, Caserta e Salerno passeranno la selezione in corso ben 471 candidati. Il governatore campano del Pd non li vuole perché, pare, è contrario all’arrivo di nuovi precari, considerato che l’Anpal Servizi ne ha già 650 che da tempo lottano per la stabilizzazione. L’opposizione di De Luca però non tiene conto di un fattore: il piano di reclutamento dei 3 mila navigator – da utilizzare come supporto tecnico ai centri per l’impiego regionali – è stato accettato da tutti e 20 governatori in un accordo firmato con Di Maio il 17 aprile scorso. Quell’intesa rimandava a future convenzioni tra Anpal e Regioni il compito di individuare le mansioni effettive da assegnare ai navigator. Ed è proprio su questo che oggi si sta giocando il braccio di ferro.

Di Maio vorrebbe realizzare lo schema disegnato dal presidente Anpal, Mimmo Parisi, in carica da febbraio: i navigator sarebbero divisi in sei tipi diversi di figure professionali, dal career counselor al case manager, incaricati di far incrociare domanda e offerta di lavoro.

Alle Regioni questa impostazione non va bene: temono di dover prendere in carico i navigator, e soprattutto ritengono il lavoro a contatto diretto con i percettori del reddito di cittadinanza un’esclusiva dei dipendenti dei centri per l’impiego. In sostanza, quindi, i navigator avrebbero un ruolo di supporto alle strutture regionali, diversamente dal progetto originario (e per di più con contratti precari). Se De Luca non dovesse convincersi ad accogliere i vincitori del concorso destinati alla Campania, questi potrebbero essere dirottati nella sede centrale dell’Anpal o restare comunque in Regione, ma non al servizio dei centri per l’impiego.

Lo scontro con i governatori si è acuito la scorsa settimana. Durante una riunione con i 650 precari dell’Anpal Servizi, il governo ha detto di volerne assumere 400 entro il triennio, subordinando questi ingressi alla firma delle convenzioni con le Regioni. Che hanno subito fatto sapere di non essere disposti a sobbarcarsi il problema degli attuali precari da stabilizzare. I 20 assessori aspettano poi la suddivisione delle risorse per assumere direttamente altri 5.600 operatori dei centri per l’impiego, che si aggiungeranno ai 3 mila navigator. Questi ultimi dovranno essere stabilizzati nel 2021, ma i governatori non vogliono nessun automatismo.

Lo scontro con le Regioni, comunque, non è l’unico ostacolo all’entrata in servizio dei navigator. Lunedì il Tribunale di Catania ha ammesso il ricorso di una ragazza esclusa, difesa dagli avvocati Santi Delia e Michele Bonetti. Le graduatorie provinciali, infatti, hanno creato un paradosso: nelle zone più ambite sono stati esclusi candidati con voti alti, in quelle meno gettonate sono state accettate persone con voti più bassi. Per il Tribunale “la concreta ammissione dei singoli candidati finisce per dipendere da fattori casuali, aleatori e non predeterminabili”. Questo potrebbe aprire la possibilità di nuovi ricorsi e rendere necessario organizzare prove suppletive.

Intanto il 12 giugno scorso l’Anpal ha deliberato di voler acquisire il software per l’incrocio tra domanda e offerta tramite Invitalia, società in house del ministero del Lavoro. La scelta potrebbe così cadere anche su quello sviluppato dal presidente Anpal Mimmo Parisi quando insegnava in Mississipi (Usa), evitando il conflitto di interessi.

Matteo Trumputin

Noi, che in fondo siamo gente semplice, seguiamo sempre con devota attenzione le lezioni di geopolitica e strategia dei giornaloni. E ci eravamo abituati all’idea che Salvini, e pure i 5Stelle, siano i cavalli di Troia di Putin in Europa, per sfasciarla in cambio di rubli sonanti. Ma anche di fake news ed eserciti di troll gentilmente offerti dai servizi segreti russi nelle segrete di San Pietroburgo. Immaginate il nostro spaesamento quando ieri abbiamo scoperto che era tutto uno scherzo. “Salvini si piega all’agenda Trump”, “Pompeo fa accettare al vicepremier l’agenda di Trump su Cina e Russia” (La Stampa), “L’amicone americano… non incontra Trump, ma si offre come unico partner italiano affidabile”, “Salvini a lezione da Trump: ‘Noi i più vicini agli Usa’” (Repubblica), “Salvini a Washington vede Pence e Pompeo: i nostri Paesi mai così vicini” (Corriere della Sera), “Salvini porta a Trump la testa dei grillini” (il Giornale). Ma come, quel gran figlio di Putin si mette il parrucchino color pannocchia e si trumpizza così, di punto in bianco? E i fiumi d’inchiostro versati dai nostri strateghi sulla quinta colonna dei russi per scardinare l’Europa e l’Occidente: non avranno disboscato mezza Amazzonia per niente? E i signorini grandi firme che annunciavano l’imminente sbarco dei cosacchi in Italia a bordo del Carroccio per abbeverare i cavalli alla fontana di piazza San Pietro: non ci avranno spaventati invano? E i troll russi che – non contenti di aver subornato gli inglesi pro Brexit e il popolo italiano contro Renzi e pro M5S&Lega – la notte del 27 maggio 2018 avevano assaltato il Quirinale per spodestare il nostro Presidente con l’hashtag eversivo #Mattarelladimettiti in combutta con Salvini, Di Maio, la Casaleggio e l’Internazionale Sovranista?

Ora crollano anche quelle poche certezze e non si capisce più niente. Non è passato nemmeno un anno da quando lo scoop di Federico Fubini sul Corriere, a fine luglio, seminò il panico tra i vacanzieri in partenza per le ferie: “Così hanno attaccato il Colle. Usati anche server dall’Estonia. Indaga l’Antiterrorismo”, “L’attacco al Colle via Twitter. Alcune ‘firme’ del Russiagate dietro i messaggi contro il capo dello Stato”, “Le manovre dei russi sul web e l’attacco coordinato a Mattarella”. Per non parlare di quelli de La Stampa, opera dei migliori acchiappa-russi del bigoncio, da Sherlock Molinari a Hercule Riotta a Philo Iacoboni: “La questione russa in Italia. Interferenze cyber”, “Fake news, si apre il fronte di Facebook: ‘Interferenze russe sul voto del 4 marzo. Nel mirino un account che aveva disinformato sul referendum’”.

E Repubblica non era certo da meno: “Dalla propaganda di Putin 1500 tweet per Lega e 5Stelle. Lo studio sulla fabbrica dei troll al servizio dell’intelligence russa. Mosca dietro il falso messaggio del figlio di Poletti e gli attacchi agli Usa”, “Una pioggia sui social in arrivo da San Pietroburgo”, “Il Pd nel mirino dei troll russi. Offensiva Twitter pro Lega”. Citavano tutti il sito Usa Firethirtyeight, che aveva setacciato i tweet studiati dal procuratore del Russiagate, Robert Mueller. Con particolari sconvolgenti, tipo che dal 2012 al ’18 la putiniana Internet Research Agency aveva inondato l’Italia con ben 1500 fra tweet e retweet: addirittura mezzo al giorno, in un mondo che ne sforna 150 miliardi l’anno. Roba forte, in grado di spostare milioni di voti e rovesciare Mattarella in un colpo solo. Infatti – scriveva Fubini – fu proprio la sera del 27 maggio, quella del niet di Mattarella a Conte per il presunto caso Savona e l’incarico a tal Cottarelli, che “lo slogan ‘Mattarelladimettiti’ conobbe una diffusione esponenziale, esplosiva”. Non perché quella sera il Quirinale aveva mandato a casa un governo della maggioranza per farne uno di minoranza, ma perché “l’operazione venne coordinata con cura” con “snodi digitali anonimi”, ma dai nomi inquietanti: come “la figura chiave Elena7617349”, una tipa “molto abile che a volte scrive in inglese e finge di essere americana” (ammazza che volpe), ma “altre volte però è italianissima: chiama Barack Obama ‘negher’” (la cugina del Napalm51 di Crozza). Senza contare i “profili vicini alla Lega come @Lisa DaCa o ammiratori di Grillo come @taxistalobbysta”. E ho detto tutto. Un terrificante cyber-attacco al Colle, che Repubblica attribuì a “oltre 300 account nati in una notte”, anzi a “360 troll anti-Mattarella”, il Corriere a “400 profili creati nella notte”, “almeno una ventina di account su Twitter” e La Stampa a ben “8 account italiani mascherati in un sistema che ha la regia in Russia”.

Il direttore Maurizio Molinari lanciò l’allarme: “un’operazione di interferenza nella vita politica italiana che segue binari paralleli: l’indebolimento della credibilità delle istituzioni della Repubblica e il sostegno alla reputazione del Cremlino… Non a caso un alto responsabile dell’attuale governo” paventa “danni tali da far impallidire l’attacco terroristico all’America avvenuto l’11 settembre del 2001”. Bum! Seguì inevitabile una mega-indagine del pool Antiterrorismo della Procura di Roma, con l’ausilio della Dia, la Polizia Postale, i servizi segreti e il Copasir, per vilipendio e attentato alla libertà del capo dello Stato. Ora, dopo un anno di inchiesta serrata e – immaginiamo – di rogatorie a Mosca e San Pietroburgo, dovremmo essere a un passo dai mandanti e dagli esecutori materiali del complotto putinian-leghista-grillino. Ma l’unico che rischia davvero è Di Maio, rimasto imprudentemente in Italia. Putin, inferocito con quello yankee di Matteo, lo manderebbe volentieri in Siberia. Ma Salvini, anche se non distingue Washington da Philadelphia, è in America con un alibi di ferro: Trump è pronto a testimoniare che la notte del 27 maggio 2018 la passò tutta con lui.

È il funerale da gestione americana

Il lutto si addice ad Elettra ma anche alla Roma che celebra – dopo il campionato disastroso, l’esclusione dalla Champions, lo stadio fantasma, il cupo addio di Daniele De Rossi -, il funerale definitivo: quello della gestione americana. Officiante, e insieme auto vittima sacrificale, Francesco Totti che nell’immolarsi nel giorno in cui avrebbe “voluto morire” annuncia la possibile resurrezione in quel di Trigoria, magari con una “nuova proprietà”. Non proprio nell’anno del poi, a leggere controluce (ma mica tanto) alcuni passaggi della fluviale conferenza stampa. Ospitata, non a caso, nelle sale di quel Coni, il cui presidente Giovanni Malagò è già candidato da misteriose cordate a guidare la Roma del futuro.
Ipotesi di acquisizione contestate dai vertici societari che rischiano di trasformare lo scontro nella guerra atomica. È soprattutto politico l’addio-arrivederci dal numero 10, capace di parlare come pochi il linguaggio della trasparenza. Forse in alcuni passaggi terra-terra ma proprio per questo implacabile nel mettere in fila i tanti sassolini e macigni accumulati in questi due anni da dirigente inutilizzato. E che adesso si dovranno digerire tutti coloro che lo hanno escluso dalle decisioni che contano, a cominciare dall’uomo nero (ma sarà davvero così?) Franco Baldini. Micidiale, Totti, soprattutto nel fare emergere, per contrasto, la pochezza imprenditoriale della Pallotta company responsabile di avere buttato nel cestino, per non dire peggio, un gioioso brand universale come quello dell’unico, vero Capitano. Meritandosi la disistima non solo dei tifosi feriti nei sentimenti ma anche – qualcuno già immagina – del business internazionale di cui a ragione si sentono parte. Purtroppo sfiancati da questa infinita quaresima gli appassionati giallorossi (parlo per me) vorrebbero tanto che una fine così tormentata della Totti story impedisse almeno un tormento senza fine. Per questo dopo aver sottoscritto l’altro ieri un insensato abbonamento mi iscrivo alla modalità Proietti. E dunque non accarezzo più sogni di gloria ma come Gigi “mi accontenterei, diciamo, di una squadra interessante”. Quanto a Francesco non sopportavamo più di vederlo inquadrato sugli spalti silenzioso e triste perché lo sentivamo lacerato dal desiderio di rompere e da quello di restare. Alla fine ha scelto molto soffrendo e, in fondo, ha scelto anche per noi. Che abbiamo rotto ogni legame con chi non ha saputo rispettare la nostra storia. Ma che restiamo e resteremo legati a quella maglia come lo resteranno Francesco e Daniele. Perché questo, a loro e a noi, non ce lo può togliere nessuno.

L’addio dell’ottavo re. Francesco Totti lascia la Roma

Francesco Totti se ne va. Un’altra volta. Solo che stavolta non lascia solo il calcio, abbandona proprio la Roma, sbattendo la porta. “Per me era meglio morire”, sibila. E al momento del saluto non piange nessuno come due anni fa, sono solo veleni. “Mi hanno tenuto fuori da tutto, mi hanno pugnalato”, la spiegazione. “Tornerò quando un’altra proprietà deciderà di puntare davvero su di me”, il suo ultimo anatema nei confronti della gestione Pallotta. Infatti il club ha risposto in serata con una nota piccata in cui quasi si accusa il “Pupone” di aggiotaggio: “Ci auguriamo non sia un’anticipazione inopportuna di un tentativo di acquisizione, l’As Roma è una società quotata in borsa”.

Volano gli stracci e finisce quasi a insulti la storia di Totti alla Roma (non con la Roma: quella non finirà mai). “Alle 12.41 del 17 giugno mi sono dimesso dalla As Roma. Non pensavo che l’avrei mai fatto, ma la colpa di questa decisione non è mia”, era stato l’annuncio, a metà tra conferenza stampa, sfogo esistenziale e one man show, al salone d’onore del Coni per gentile concessione del presidente-amico-tifoso Giovanni Malagò. Lontano da Trigoria, della As Roma non c’è traccia. Ma tanto ci pensa lui a fare nomi e cognomi, svelare segreti e retroscena: ogni frase è una bordata alla società.

La spiegazione della rottura è semplice: “Non ho avuto la possibilità di esprimermi, non mi hanno coinvolto in un progetto tecnico. Il primo anno ci può stare, il secondo avevo capito cosa volessi fare ma non ci siamo mai trovati, mi tenevano fuori da tutto”. Il problema è stato quel ruolo di direttore tecnico, promesso e mai mantenuto, alla fine offerto tardivamente e rifiutato perché comunque le decisioni si prendevano altrove (come dimostra la scelta del nuovo allenatore Fonseca: “Non mi hanno chiesto nemmeno un parere”). Dietro c’è una strategia più grande, che era sotto gli occhi di tutti e adesso, dopo il secondo addio di Totti e il mancato rinnovo di De Rossi, è realtà: la “deromanizzazione” della Roma. “Levare i romani dalla Roma è sempre stato un pensiero di qualcuno. Hanno cercato in tutti i modi di metterci da parte, ce l’hanno fatta”.

Ce l’ha col patron James Pallotta, ovviamente. “Tutti sbagliano, ma lui sbaglia da 8 anni ascoltando sempre la stessa persona”. Ce l’ha soprattutto con Franco Baldini, detto “testa grigia”, il superconsigliere che vive a Londra e “aveva sempre l’ultima parola”: “Con lui un rapporto non c’è mai stato e mai ci sarà. Qualcuno doveva uscire, mi sono fatto da parte io”. Impossibile, di fronte a certe accuse, che la società non replicasse: “Eravamo pronti a essere pazienti con Francesco e ad aiutarlo a mettere in pratica questa trasformazione da grande calciatore a grande dirigente. La sua percezione dei fatti e delle scelte del club è fantasiosa e lontana dalla realtà”.

Comunque sia andata, adesso inizia davvero una nuova era. Il futuro della Roma è Fonseca in panchina, forse Petrachi ds, Pallotta negli Usa, il tormentone infinito sullo stadio, un paio di cessioni illustri per mettere a posto il bilancio dopo la mancata qualificazione in Champions, l’ennesima rifondazione. Nulla di esaltante. Quello di Totti chissà, in tv o in FederCalcio, in qualche paradiso tropicale o persino in un’altra società. “Ho ricevuto tante offerte, anche da squadre di Serie A, una proprio stamattina: valuterò serenamente, ora sono libero e posso andare ovunque”. Anche alla Juventus? “Non esageriamo…”. È tempo di saluti: “Anche da fuori continuerò a tifare, magari l’anno prossimo andrò in curva sud con De Rossi. Il mio è un arrivederci, non un addio, perché è impossibile tenere Totti fuori dalla Roma”. Un po’ una promessa, un po’ una minaccia: infatti la società subito precisa che “la proprietà non ha alcuna intenzione di vendere”. Ma da oggi nella Capitale inizia il conto alla rovescia per l’addio di Pallotta. E il grande ritorno del Capitano.