Spagna: Barcellona, Madrid e il Valls delle alleanze

Valls spaccatutto, a Sanchez l’arduo compito di ricucire. La Spagna sarà stato anche l’unico Paese europeo ad aver arginato l’ultradestra di Vox e ad aver mandare al governo il socialista Pedro Sánchez, ma la strada per la formazione dell’esecutivo – complici le Amministrative a Madrid e Barcellona sul filo del rasoio – è tutta in salita e rischia di mettere in crisi la formazione dei gruppi al Parlamento europeo. Al centro del dibattito c’è Manuel Valls, l’ex premier francese candidato a sindaco di Barcellona che, da un lato ha deciso di appoggiare – contro l’indicazione del partito, Ciudadanos –, che per questo l’ha definitivamente scaricato – l’investitura della già sindaca Ada Colau di Barcelona en Comú sostenuta anche dal Partito socialista catalano in posizione anti-indipendentista. Tradotto: tutto pur di non mandare alla Casa de la Ciudad il vincitore per preferenze Ernest Maragall, candidato di Esquerra Republicana. Mentre dall’altra parte, cioè a Madrid, ha fatto arrabbiare addirittura Emmanuel Macron per l’accordo di Ciudadanos con Vox.

Il presidente francese ha chiesto infatti spiegazioni agli eurodeputati arancioni aderenti al suo gruppo Rinnovare Europa con République En Marche. Ai sovranisti le due destre avrebbero concesso assessori in vari municipi della capitale spagnola. Dato smentito però dalla stessa formazione franchista che, proprio per il mancato accordo, minaccia di ostacolare l’investitura della Popolare Isabel Díaz Ayuso alla Comunità di Madrid. Un tetris di alleanze a scapito del premier incaricato dal Re Felipe VI. “Sánchez si presenterà all’investitura a breve pur senza i voti stimati” – ha dichiarato il capo dell’Organizzazione socialista, José Luis Ábalos che è tornato anche a fare pressione sui Popolari di Pablo Casado e Ciudadanos di Albert Rivera perché lascino passare la fiducia all’esecutivo e ha aggiunto spavaldo: “Quanto a Barcellona, l’importante è che non sia diventata una trincea indipendentista”. “A breve”, significa la prima decina di luglio. Non prima – spiegano voci interne al partito socialista – che si siano placati gli animi agitati dalle investiture municipali, ma senza aspettare troppo, visto che “gli spagnoli hanno il diritto di vedere configurato il governo che hanno scelto prima possibile”, ha spiegato Ábalos. Peccato che a questo punto il “pattometro” del governo Sánchez sia ridotto all’osso, con gli indipendentisti di Esquerra che non lasceranno passare impunemente al Psoe l’appoggio anti-Maragall a Colau, e che quindi – dopo aver sfiorato una fiducia a Sánchez alla fine della scorsa settimana – a questo punto è molto probabile che si sfilino. Per non parlare di Ciudadanos, che a Madrid ha dimostrato di buttarsi a destra e non a sinistra, come quando appoggiò i socialisti contro il governo Popolare di Mariano Rajoy. A Sánchez cosa resterebbe? Forse solo la sinistra di Podemos, sempre che i negoziati per il “governo di cooperazione” uscito dal faccia a faccia con il leader Pablo Iglesias stiano procedendo. Ad ogni modo “gli appoggi si decideranno nel momento della votazione”. Ne è sicuro Ábalos. Soprattutto alla seconda votazione di fiducia, in cui ai socialisti non servirebbe la maggioranza assoluta. E per quella semplice – paradosso dei paradossi – è sufficiente l’assenza in aula dei deputati catalani in prigione, eletti e sospesi fino all’esito del processo per sovversione. Il Tribunale Supremo deciderà probabilmente proprio a metà luglio.

Bibi inaugura Trump City: è una città che non esiste

Benvenuti a Trump City, la città israeliana in onore del presidente americano che non esiste e difficilmente in futuro esisterà davvero. Ripartiti con le loro auto blindate i membri dell’ultimo governo di Benjamin Netanyahu – c’è stato un giro di poltrone dopo lo scioglimento della Knesset e l’annuncio delle elezioni in settembre – restano solo le colline del Golan battute da un sole impietoso. Nonostante la pomposità e le promesse durante la cerimonia di domenica, quelle colline resteranno brulle ancora per molti anni. Iniziamo dalla fine. Nessuna nuova città o insediamento è nato sulle alture del Golan e non c’è nessun progetto concreto per Trump Heights: è solo un’intenzione del premier uscente.

La decisione di dare il nome del presidente Usa a un nuovo insediamento è il parto della creatività di Netanyahu che alcuni giornali israeliani hanno definito un Israbluff, per prendere in prestito un termine dalla commedia israeliana: evitare un problema con una soluzione fittizia. La proposta di fondare Trump City non prevede reali passi avanti verso la sua istituzione, è principalmente “lavoro amministrativo”, che in lingua israeliana significa un incontro più o meno casuale a un pranzo di lavoro. Numerose altre espressioni dello Israbluff sono apparse durante la cerimonia in tutta la loro forza: “Formulare raccomandazioni”, “esaminare vari aspetti”, “presentare opinioni”, “osservazioni del governo”, e così via. Certo, come ha spiegato Netanyahu alla presidenza dell’ambasciatore Usa David Friedman, la creazione della comunità costituisce un gesto di ringraziamento per le azioni di Trump “per il bene dello Stato di Israele in una vasta gamma di settori”. Questi includono il riconoscimento di Gerusalemme come capitale e la sovranità israeliana sulle alture del Golan occupate con la guerra del 1967: mosse duramente criticate dalla comunità internazionale. Ha certo avuto un peso anche la posizione Usa al fianco di Israele contro la possibile minaccia nucleare iraniana.

Ma la cerimonia è sembrata nel suo surrealismo una commedia messa in scena in fretta da un gruppo di attori filodrammatici. Perché Netanyahu non può prendere questa decisione. La proposta della nascita di Trump Heights sulle colline del Golan non include alcun passo in avanti verso la sua costruzione. Il governo, e questo sarà in carica solo fino al voto di settembre, può proporre ma non imporre. La proposta dovrà essere portata all’attenzione della prossima Knesset, poi sarà valutato il progetto che deve essere finanziato con una legge ad hoc. Trump City di fatto potrà nascere solo se Netanyahu sarà di nuovo premier e Bibi con l’aria che tira sarà difficilmente rieletto. Tre gravi casi di corruzione e fondi neri lo aspettano dal Procuratore Generale, prima udienza il prossimo 2 ottobre, due settimane appena dopo il voto del 17 settembre.

Inutilmente gli avvocati di Netanyahu hanno cercato una dilazione, gli stessi legali hanno anche raggiunto con il Tribunale per sua moglie Sara un’ammenda di 12 mila euro per le spese folli nella residenza ufficiale di Balfour Street a Gerusalemme.

Zvi Hauser, un parlamentare oggi all’opposizione con “Kahol Lavan” ma che in passato è stato segretario del gabinetto di Netanyahu ed è presidente delle comunità del Golan, definisce la cerimonia di domenica una trovata pubblicitaria a buon mercato: “Non ci sono finanziamenti, non c’è nessuna pianificazione e nessuna decisione vincolante”.

Ma con l’evento di domenica e il grande cartello a lettere dorate che ha fatto da proscenio alle foto di rito con l’ambasciatore Usa, l’onore al grande amico americano è già stato conferito e i fatti – come spesso accade – restano marginali. Viviamo nell’era delle false notizie, come ama ripetere il presidente Trump.

Iran: il sogno atomico Nucleare, dieci giorni per evitare il disastro

Entro la fine del mese, nel giro di dieci giorni, l’Iran supererà il limite di scorte di uranio fissato dall’accordo sul nucleare del 2015 e finora rispettato alla lettera. Questo non significa che l’Iran sarà in grado di produrre l’atomica in tempi brevi né che la produrrà, ma prova, piuttosto, che la politica di massima pressione portata davanti dagli Stati Uniti e dai loro miopi partner mediorientali sta logorando i nervi e la pazienza delle autorità iraniane. Se Donald Trump ha montato tutto il suo arsenale anti-iraniano per indurre Teheran a rinegoziare un’intesa che ha già negoziato a concluso, rischia di sortire l’effetto opposto: che Teheran smetta d’attenersi all’accordo, finora scrupolosamente osservato, nonostante gli Usa l’abbiano denunciato.

Se, invece, il magnate presidente cerca un pretesto di conflitto con l’Iran, al servizio degli interessi dei suoi “amichetti” mediorientali, sauditi e israeliani, rischia di trovarselo servito su un piatto d’argento. Con la complicità dei più ottusi dei suoi interlocutori europei, un governo britannico senza guida né direzione e il vice-premier italiano Matteo Salvini che, in visita a Washington, schiera l’Italia a fianco degli Usa su questo fronte, come se ne avesse titolo e cognizione di causa. L’allarme sulla tenuta dell’intesa del 2015, che Cina e Russia, e pure gli europei, ritengono valida, scatta quando un portavoce dell’Agenzia iraniana per l’energia atomica dichiara che l’Iran sta per superare il limite di scorte di uranio fissato. Behrouz Kamalvandi fa una conferenza stampa, che la tv di stato iraniana trasmette in diretta: si tratta di fare fronte “ai bisogni della Nazione”.

L’annuncio segue le tensioni nel Golfo innescate dalle accuse di Washington a Teheran di essere all’origine di incursioni contro petroliere nello Stretto di Hormuz, a maggio, e nel Golfo di Oman, la settimana scorsa. L’Iran respinge le accuse e le prove a suo carico non sono schiaccianti. Ma, notano ricercatori come Riccardo Alcaro dell’Istituto Affari Internazionali, “se anche fosse stato l’Iran, si tratterebbe di una rappresaglia, contro la politica di massima pressione Usa”, esercitata denunciando l’intesa sul nucleare e ripristinando e inasprendo le sanzioni, “non di una provocazione”. L’8 maggio, a un anno dal ritiro unilaterale degli Usa, il presidente iraniano Hassan Rohani avvertiva i partner che Teheran aveva quadruplicato la produzione di uranio a basso arricchimento (non oltre il 3,67 per cento), utilizzato come combustibile per il reattori nucleari. Un aumento delle riserve di uranio e acqua pesante era stato certificato anche dall’ultimo rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica di fine maggio, restando, però, entro i limiti fissati dall’accordo, cioè 202,8 kg di uranio e 130 tonnellate di acqua pesante. Contemporaneamente, analisti e specialisti di una ventina di Paesi europei firmavano un appello perché gli Usa tornassero sui loro passi e reintegrassero l’intesa.

Parlando a giornalisti in visita al reattore ad acqua pesante di Arak, Kamalvandi ha sostenuto che “l’Iran ha bisogno di uranio arricchito al 5 per cento per la sua centrale nucleare di Bushehr”, porto nel sud del Paese sul Golfo Persico, “e fino al 20 per cento per un reattore a Teheran a scopi di ricerca scientifica”. Si va dunque oltre i limiti dell’accordo, pur restando lontani dai livelli d’arricchimento indispensabili per un uso militare. L’annuncio iraniano si accompagna a pressioni sui partner europei perché, da una parte, spingano Trump a tornare indietro – ma nessuno ci crede davvero, specie se lo showman presidente trova gente del suo calibro disposta ad assecondarlo – e, dall’altra, adottino strumenti già approntati per evitare le sanzioni. “L’Ue ha un tempo limitato per assumersi le sue responsabilità, altrimenti l’intesa crollerà”, dice Rohani, ricevendo il nuovo ambasciatore francese Philippe Thiébaud. “Imporre sanzioni su beni come le medicine e il cibo è disumano e mostra che la guerra economica degli Usa è contro ogni singolo cittadino iraniano”. L’escalation delle tensioni, innescata da Washington e incoraggiata da Arabia Saudita e Israele, che chiede un immediato inasprimento delle sanzioni anti-Iran, accende gli oltranzismi iraniani. Ne sono una prova le dichiarazioni del capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, Mohammad Bagheri: “Visto che l’Iran è un Paese potente, se dovesse deciderlo, potrebbe apertamente e completamente ostacolare le esportazioni di petrolio dal Golfo Persico; e per farlo non avrebbe bisogno di inganni o sotterfugi, al contrario dei terroristi americani e dei loro mercenari regionali e internazionali che vogliono destabilizzare il mondo”.

Parole che l’Amministrazione statunitense strumentalizza: il Pentagono studia un aumento di truppe nel Golfo e autorizza pattuglie aeree congiunte americano-saudite, mentre la Casa Bianca ricorre alla formula standard, “tutte le opzioni sono aperte”. Il Dipartimento di Stato rassicura: “Non cerchiamo la guerra con l’Iran”; e il Congresso studia mosse per arginare Trump. A Lussemburgo, i ministri degli Esteri Ue provano a evitare un’escalation militare e salvare l’intesa, senza sbilanciarsi su quanto accaduto nel Golfo. Solo Londra s’allinea con Washington. Mosca e Pechino difendono l’accordo (e stanno con Teheran).

Il sinodo apre ai sacerdoti “laici” per l’Amazzonia

A gennaio, di ritorno dal viaggio a Panama, papa Francesco aveva aperto ufficialmente ai “viri probati”. Oggi la possibilità che anche i laici sposati possano diventare sacerdoti, in condizioni particolari, viene messa nero su bianco nelle 59 pagine che compongono l’”Instrumentum Laboris”, il documento di lavoro sul quale si incentrerà il Sinodo sull’Amazzonia, in programma dal 6 al 27 ottobre in Vaticano. Un testo che raccoglie domande e interrogativi su quali strade debba intraprendere la Chiesa in quella zona del mondo, dal punto di vista sia pastorale che di impegno reale. “Affermando che il celibato è un dono per la Chiesa – si legge nel testo –, si chiede che, per le zone più remote della regione, si studi la possibilità di ordinazione sacerdotale di anziani, preferibilmente indigeni, rispettati e accettati dalla loro comunità, sebbene possano avere già una famiglia costituita e stabile”. Una necessità, viene spiegato, per far fronte alla “mancanza di sacerdoti” nelle zone più remote della regione dove “le comunità hanno difficoltà a celebrare frequentemente l’Eucaristia”. Un ruolo decisivo viene affidato anche alle donne, la cui presenza – è scritto – non è sempre valorizzata.

“Beni comuni, sulla legge Rodotà non molliamo”

La legge di iniziativa popolare basata sul progetto di Stefano Rodotà del 2007 va avanti. Da qualche mese il comitato Generazioni future (generazionifuture.org), sta raccogliendo le 50 mila firme necessarie a un disegno che punta alla tripartizione tra “beni pubblici”, “beni privati” e “beni comuni”, conferendo a questi uno statuto speciale. Lo spiega Ugo Mattei, docente di Diritto civile all’università di Torino, vice presidente del Comitato Rodotà impegnato da sempre contro la privatizzazione dell’acqua pubblica.

La vostra iniziativa ha creato dibattito a sinistra con alcuni settori poco convinti.

Su questo punto ci sono state le prese di posizione contrarie di Stefano Fassina che recepiva quelle del professor Maddalena. Sono le posizioni che si basano sull’idea che se si tocca lo Stato si commette un errore. E quindi l’ipotesi che i beni comuni possano essere anche “non pubblici” ha fatto scattare una distanza. E ha inciso sulla raccolta. Che è stata molto più faticosa del 2011.

I due periodi sono abbastanza diversi.

Sì, ci sono quasi dieci anni che hanno prodotto una differenza enorme rispetto alla partecipazione popolare. Nel 2010-2011 c’era una speranza diversa rispetto alla democrazia diretta. Se la gente ti incontrava per strada che volevi parlare di politica si fermava. Oggi chi vuole parlare per strada è trattato come un venditore di strada. A pesare molto, però, è l’effetto dell’era “social” che ha cambiato il modo di partecipare alla cosa politica. L’idea di un’attività politica che non si svolga online rischia di essere muta.

Cosa vuol dire?

Tutto questo rende evidente l’obsolescenza dei nostri sistemi di democrazia diretta. Fino a 10 anni era comprensibile che non si potesse partecipare online, mentre oggi se c’è una fila di quattro minuti la gente se ne va. Inoltre, le firme vanno prese davanti a un notaio o un funzionario comunale – e non è facile trovarli – e poi, quando sono raccolte, devi avere i certificati elettorali di tutti.

Propone una partecipazione popolare online?

In parte sì. Ho sempre pensato che fare cose in forma diretta fosse giusto, ma se la società si sposta radicalmente sull’online, una cosa vincolata alla realtà burocratica esterna alla rete perde qualsiasi funzionalità ed efficacia. E rende la democrazia diretta impossibile.

Ce la farete a consegnare la proposta di legge?

Sì, ormai ci siamo, l’obiettivo è consegnare le firme l’8 di agosto.

Che effetto ha avuto la campagna elettorale delle Europee sulla raccolta firme?

Pensavamo che le scadenze elettorali ci avrebbero aiutato. Invece in campagna elettorale, sia per le Europee che per le Comunali, non è successo nulla.

Chi vi è stato più vicino?

Alcuni consiglieri comunali del M5S a Torino, i giovani del Pd a Roma. E nella società civile si è impegnata l’Arci, Slow Food, la Federnotai, settori di Giustizia e Libertà, il partito Verde. È mancata la sinistra-sinistra.

L’obiettivo più ambizioso è però quella della cooperativa popolare?

Sì, vogliamo rendere forte l’idea della cooperativa intergenerazionale ad azionariato popolare diffuso che si può sottoscrivere online. La rete può essere utile in questo senso per costruire piattaforme ben certificate con un funzionamento di scelte condivise, da prendere tutti insieme, dal basso in alto. Provando a costruire le prime istituzioni del “comune”.

Blackout “italiano” a Buenos Aires: rete obsoleta e spremuta

A molti argentini il blackout di domenica (che ha coinvolto anche parte di Brasile, Cile, Uruguay e Paraguay, durato 14 ore e che ha coinvolto quasi 50 milioni di persone) ha ricordato episodi identici – pur se non altrettanto gravi – avvenuti a partire dal 1982, come conseguenza della guerra delle Malvinas , e poi durate i governi Kirchneristi (2003-2015) e, più recentemente, con Mauricio Macri, quando, l’estate scorsa – benché non in presenza di fenomeni di caldo torrido – soprattutto i quartieri periferici di Buenos Aires hanno sofferto tagli alle forniture di elettricità durati diversi giorni, che hanno provocato continue e partecipate proteste da parte di cittadini esasperati.

Secondo quanto comunicato dalla società Edesur che nel 1992 – durante delle liberalizzazioni decise dal governo Peronista di Carlos Menem – venne ceduta all’Enel, la colpa del fenomeno attuale è da attribuirsi a “un guasto al sistema di trasporto dell’energia dalla centrale idroelettrica di Yacyretà (al confine con il Paraguay), non prodotto da intervento umano”. Quindi una falla del sistema di interconnessione denominato Sadi, che ha registrato il mancato intervento delle due società, Transener e la statale Cammesa, che lo gestiscono.

Fino al 2015 e per decisione dell’ex presidente argentino Nestor Kirchner, lo Stato interveniva nel settore energetico (come pure in quello dei trasporti) nella sola Buenos Aires con sovvenzioni che arrivavano a coprire l’80% del costo delle bollette: fatto che, all’atto pratico, significava per l’utenza un costo minore a quello di una tazzina di caffè. Ma che allo stesso tempo provocava blackout improvvisi dovuti in parte all’uso esagerato degli elettrodomestici.

Nel 2015, con l’avvento di Macri al potere, si decise per un progressivo taglio a queste sovvenzioni le quali, come dichiarato al Fatto dall’ex ministro dell’Economia Alfonso Prat Gay “erano una scelta prettamente politica visto che nell’80% dei casi beneficiavano le classi alte della società”.

Fu così che l’allora responsabile dell’Energia, Juan Josè Aranguren, diede inizio a una serie di aumenti delle tariffe energetiche che, per quanto riguarda l’elettricità , sono arrivati a superare il 500% a Buenos Aires e il 250% nel resto del Paese (non coinvolto nelle passate sovvenzioni).

Massicci investimenti sono stati operati da Edesur in questi ultimi anni, tesi ad ammodernare non solo una rete tecnologicamente non al meglio ma anche dando inizio, nella regione patagonica di Chubut, a un progetto eolico mirato a sfruttare l’immenso capitale energetico che i venti di quella regione producono e in grado, secondo studi recenti, di poter rifornire di energia pulita l’intero continente Latinoamericano.

Ma quello che più fa infuriare gli utenti è che, a fronte di costi che incidono in maniera severa sui bilanci famigliari (anche se un recente decreto di Macri ha bloccato ulteriori aumenti) la fornitura di energia elettrica continui a produrre blackout, escluso l’attuale, totalmente ingiustificati a fronte di profitti che, nel 2019, sono previsti in 180 milioni di euro e uno Stato generoso al punto da “rimettere, in favore di Edesur, i debiti originati da prestiti e da attività di compravendita di energia, nonché quelli derivanti dall’applicazione di agevolazioni tariffarie degli anni 2017 e 2018, e a condonare le sanzioni applicate nei confronti della stessa Edesur”, come recita un comunicato diffuso di recente dall’Enel.

Dl Crescita, arriva la norma che salva la Popolare di Bari

Arriva il primo giro di boa del dl Crescita con l’approvazione delle Commissioni Bilancio e Finanze della Camera del testo finale atteso in Aula martedì (potrebbe slittare a mercoledì) con annessa fiducia da votare in tempo utile a inviare il decreto al Senato prima della scadenza, il 29 giugno. Ecco le novità più importanti.

Salva-Comuni. Passa allo Stato parte del debito storico di Roma (1,4 miliardi) e si prevede l’istituzione di un fondo ad hoc dove far confluire gli eventuali minori esborsi per rinegoziazione dei mutui da parte dell’attuale Commissario al debito della Capitale che serviranno per quelli delle città metropolitane. Previste norme ad hoc oltre che per Alessandria anche per Catania e i Comuni della Provincia di Campobasso.

Banche. Arrivano novità per i risparmiatori in attesa dei rimborsi, che saranno celeri con corsia preferenziale se si tratta di assegni sotto i 50mila euro. Più ampia la platea di chi potrà accedere al Fondo, visto che non si calcoleranno nei limiti reddituali (35mila euro) eventuali rendite da fondi di previdenza complementare e non incideranno sul patrimonio mobiliare (tetto a 100mila euro) le polizze vita. Arriva poi l’annunciata proroga per la garanzia dei bond emessi da Banca Carige, valida fino a fine anno in attesa che si trovi un acquirente. Entra, in extremis, un altro emendamento che favorisce le aggregazioni delle banche del Sud e che nei fatti salva la Banca Popolare di Bari. La norma consente, infatti, di trasformare la disciplina della Dta (attività fiscali differite) in credito d’imposta fino a un massimo di 500 milioni.

Auto. Si amplia a tutte le moto, i motorini, le microcar e i tricicli l’ecoincentivo per acquisti di elettrici o ibridi introdotto con la manovra.

Mercatone Uno. Si estende la possibilità di accedere al fondo per il credito alle aziende vittime di mancati pagamenti, consentendo l’accesso anche al gruppo fallito il 23 maggio.

Case vacanza. Multe fino a 5.000 euro non solo per i proprietari di case vacanza che evadono il fisco, ma anche per i siti che fanno da intermediari facendo incontrare la domanda e l’offerta, come Airbnb.

Musei più autonomi, le bugie di Nardella

Sul “Messaggero” Dario Nardella si chiede, pensoso e accigliato, perché io taccia sulla ferale minaccia recata dal ministro Bonisoli all’autonomia dei musei (“che fine hanno fatto gli intellettuali che al tempo del ministero Bray avevano sostenuto l’autonomia dei musei?”). La spiegazione la offre il solerte intervistatore: “Montanari, il duro e puro, è stato cooptato da Bonisoli come presidente del comitato tecnico e scientifico delle Belle arti”. Complimenti al duo: è davvero arduo riuscire a dire tante sciocchezze in così poche parole.

Nardella ha rimosso il fotogramma in cui Matteo Renzi, facendo fuori il sereno Enrico Letta, schiacciò anche la bella esperienza di Massimo Bray ai Beni Culturali sotto l’arroganza cieca di Dario Franceschini (che alla sua Ferrara ha portato benissimo).

Ero stato proprio io a proporre – nella commissione Bray per la riforma del Mibac – una certa autonomia scientifica per i grandi musei, ma fui anche il primo a spiegare perché Franceschini aveva completamente tradito quella proposta, sostituendo il fatturato alla produzione della conoscenza, e sottoponendo strettamente i musei alla ferrea cappa della politica. L’ho scritto infinite volte: per esempio sul “Mulino” del 2015, in un articolo dal titolo poco ambiguo: “La notte dei musei e l’eclissi dell’articolo 9 della Costituzione”.

Quanto al mio presunto silenzio: ho commentato su queste pagine, il 12 giugno, la proposta Bonisoli, compilando una lista di ombre che superava quella delle luci. Sono un ingrato? No, solo libero: non sono stato nominato in quel comitato dal ministro, ma dal Consiglio Universitario Nazionale, organo tecnico e non politico.

Infine, a beneficio di lettori distratti quanto il sindaco di Firenze: se dipendesse da me, l’autonomia franceschiniana sarebbe buttata a terra, e rifatta da capo. Tutta diversa.

Per questo l’intervento del ministro 5 Stelle non è devastante: al contrario, è inspiegabilmente timido.

Digitale, sconti e lotterie: così Lisbona ha ridotto l’evasione

Il primo a sperimentare maxi sconto fiscale in Italia è stato un portoghese. Il principale motivo che, a quanto pare, ha fatto battere forte il cuore di Cristiano Ronaldo per la maglia bianconera sembra sia stato proprio il regime forfettario previsto dalla legge di Bilancio del 2017 (molto prima del programma gialloverde) che ha introdotto una tassazione estremamente favorevole per i Paperoni che si trasferiscono in Italia: un’imposta sostitutiva sui redditi prodotti all’estero con un forfait di 100mila euro l’anno per massimo 15 anni. Gente che va, gente che viene.

Nell’andirivieni tra Roma e Lisbona per sfuggire alle maglie del Fisco c’è anche una fetta di agguerriti pensionati nostrani, che si sono trasferiti sull’Atlantico per incassare l’assegno previdenziale senza trattenute fiscali e goderselo in santa pace in un Paese a poche ore di volo da casa con standard, livelli sanitari e di vita sopra la media europea. I soggetti non residenti, prevede la normativa portoghese, sono assoggettati a imposizione solo sulle fonti di reddito prodotte dentro i confini lusitani. E una persona fisica è considerata residente se rimane in Portogallo per almeno 183 giorni nell’arco di 12 mesi. A far fede sulla reale residenza basta un contratto d’affitto e qualche scontrino e si è ufficialmente portoghesi.

A rimetterci per questi flussi “migratori” è il fisco italiano, mentre gli affari dell’Erario del Paese lusitano pare vadano a gonfie vele da quando nel 2013 è partita la rivoluzione telematica che ha praticamente colpito e affondato l’evasione fiscale dilagante nella soddisfazione generale.

Il Portogallo è stato tra i primi Paesi Ue a dare la possibilità di fare la dichiarazione dei redditi online e di introdurre l’obbligo della fatturazione elettronica, come in Italia. Con la differenza che da quando tutti i registratori di cassa sono collegati all’Autoridade Tributaria(l’Agenzia delle Entrate portoghese), la rincorsa di venditori e acquirenti non è a chi batte meno scontrini ma ad aderire al nuovo sistema.

Il segreto del successo sta tutto nell’applicazione del vecchio adagio: se si vuole essere convincenti, al bastone si deve affiancare la carota. Che in questo caso è molto sostanziosa. I fornitori vengono incentivati a emettere fattura ricevendo in cambio uno sconto praticato sull’Iva riscossa del 15% in quattro settori principali: hotel e ristoranti, officine di riparazione auto e motocicli, parrucchieri. Per i consumatori, invece, il potente incentivo a richiedere l’emissione di fatture e scontrini è costituito dalla lista delle categorie di spese che è possibile portare in detrazione: non solo salute, educazione, familiari a carico, affitto, lavori di casa e trasporti, ma anche ristoranti, supermercati, veterinari, parrucchieri, automobili e motocicli. Per usufruire delle detrazioni non occorre accantonare scontrini, ma semplicemente chiederne l’emissione intestandoli al proprio Nif, il numero di identificazione analogo al nostro codice fiscale. Le tax expendituresriconosciute (detrazioni e deduzioni) vengono calcolate e attribuite al contribuente direttamente dal sistema computerizzato che memorizza le transazioni al momento di presentare la dichiarazione dei redditi. E lo sconto è fatto.

Ai vantaggi escogitati dal legislatore portoghese per incentivare i contribuenti alla compliance si è aggiunta anche una bella lotteria. Con uno scontrino che documenta una spesa di 10 euro si può concorrere all’estrazione di un premio fino a 50mila euro. Questo aspetto della riforma portoghese è piaciuto anche al ministero dell’Economia italiano che si sta attrezzando per il primo gennaio 2020. Per il resto la nostra legislazione anti-evasione sta viaggiando nella direzione opposta. La Flat tax in vigore dal 2019 per le partite Iva ha, infatti, abolito l’obbligo di fatturare per coloro che realizzano ricavi fino a 65mila euro introducendo un’imposta sostitutiva. Il tetto salirà a 100mila nel 2020. Lo sconto per il cliente del professionista in regime forfettario è incorporato: 22% in meno di aliquota Iva e Irpef automatica e scontata al 15%, senza innestare antipatici conflitti d’interesse.

Qualcuno ha sollevato l’obiezione piuttosto logica che alla maniera portoghese quel che si recupera dall’evasione si perde in gettito pagando tutti gli sconti previsti. Le statistiche di questi primi anni di applicazione dicono il contrario. Secondo uno studio commissionato nel 2018 dalla Direzione generale tassazione dell’Unione europea, in Portogallo il gap tra Iva dovuta e versata è sceso tra il 2012 e il 2016 dal 16 al 10%. Mentre il gettito Iva è cresciuto del 12,5%, le entrate dalle imposte sul reddito delle persone fisiche (fortemente progressive) hanno toccato il +28,9% e sulle società il +23,7%. Il livello di evasione fiscale è di poco inferiore ai Paesi nordici e del centro Europa. E il valore di deviazione dell’Iva è ben al di sotto della media europea. In generale tutta l’economia sembra aver assunto un nuovo tono. La disoccupazione è scesa al 6,6% nel dicembre scorso e continua a calare, contro il quasi 18% del 2013. Dal 2014 al 2018 l’economia portoghese è salita dell’8,7%, più della Germania, e il deficit è stato azzerato riuscendo a mantenere la spesa sociale. L’export di beni e servizi cresce in volume di oltre il 25%. Il debito pubblico, sorvegliato speciale come quello italiano, è sceso dal 130% del 2016 al 124,1% del 2018.

“Per la ricerca e l’Università 1 miliardo in più. O mi dimetto”

È stato indicato come una delle possibili vittime della graticola pentastellata (“Non è vero. Questa cosa della graticole è stata una scelta sbagliata per il M5s – dice –, che ci ha esposto ad una settimana di gossip mediatico. In realtà ho avuto un feedback eccellente dai parlamentari”), ma oggi il viceministro dell’Istruzione in quota M5s e con le deleghe all’università, Lorenzo Fioramonti, alza l’asticella e vuole parlare: “Chiediamo 1 miliardo per ricerca e università – dice – Se non lo avremo, mi dimetto”. C’è un progetto strutturato, già sottoposto al ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti: aumentare le tasse per finanziare la ricerca.

Viceministro Fioramonti, un miliardo è tanto…

No, in verità avremmo bisogno di molto più. È il minimo sindacale che ci permette di ricominciare a lavorare bene. E non chiedo di togliere fondi ad altro, alla sanità o alla giustizia. Ho invece proposto una serie di interventi fiscali che recuperano risorse mentre indirizzano i consumi su scelte sostenibili e salutari.

Che tipo di interventi?

Piccole imposte di scopo: sui voli aerei, sulle bevande zuccherate, sulle trivellazioni, sulle scommesse, sui superalcolici e le sigarette. Interventi di carattere simbolico che, però, insieme riducono i consumi dannosi e producono un miliardo di euro. Non voglio togliere un euro alla scuola, agli asili, ai comuni.

È una proposta Fioramonti o una proposta condivisa?

È una proposta Fioramonti che è stata discussa con i parlamentari, la Lega, il mio capo politico, il Presidente del Consiglio e il ministro Bussetti.

Su carta è una proposta ragionevole, la politica però ha altre dinamiche…

Beh, senza ricerca non ci sono crescita economica né ripresa del paese. La ricerca ha un moltiplicatore di 1 a 4, un euro investito ne produce quattro. Il presidente Conte, nel discorso del lunedì post elettorale, ha menzionato ricerca e innovazione tra le cose da fare per prime. È un segnale importante.

Ma aumenterà le tasse: non crede ci saranno proteste?

Si deve superare la retorica del “no tasse” generico. C’è una bella differenza tra il sacrosanto dovere di abbassare le tasse sul lavoro, le imprese e le famiglie e l’introduzione di interventi fiscali che disincentivano consumi dannosi. Prendiamo la proposta di un euro sulle tratte aeree internazionali: chi viaggia (ed inquina) se lo può permettere. Tenga conto che cento milioni di questi introiti servirebbero per garantire borse di studio a tutti i giovani idonei e meritevoli, quindi un bell’investimento sul futuro.


Cosa dice Bussetti?

È d’accordo, ha ipotizzato anche un intervento legislativo specifico sull’università, magari un DDL, per introdurre alcune proposte prima della legge di bilancio.


E se questo miliardo non ci sarà?

Mi gioco tutto. Se alla fine non dovesse esserci, sono pronto a rassegnare le dimissioni. Per me il finanziamento è una pre-condizione per portare avanti un progetto organico per il comparto.


Tipo quale?

Un reclutamento più semplice e trasparente, una divisione tra concorsi nazionali, con commissione sorteggiata, e concorsi locali. Poi una semplificazione del cosiddetto pre-ruolo, con una detassazione dei contratti (nell’arco dei sei anni) direttamente proporzionale alla durata e alle tutele applicate. Come con il Decreto Dignità, dobbiamo incoraggiare contratti di ricerca più stabili per progetti di ricerca ambiziosi.


Che fine ha fatto l’osservatorio sui concorsi?

Il ministro ha dato l’ok alla sua realizzazione. Finora se ne sono occupati i miei collaboratori, ma da ottobre – con la riorganizzazione dei ministeri – ci saranno uffici e personale preposti. Stiamo anche ad una collaborazione con l’Anac su questo. Il Ministero viene interessato da migliaia di ricorsi ogni anno, un costo enorme. Con un osservatorio preventivo, in grado di fare consulenza all’università nella stesura del bando o a cui può rivolgersi un ricercatore che crede di aver subito un torto prima di ricorrere al Tar, tutto potrebbe diventare più scorrevole e certificato evitando anche di intasare i tribunali e di costringere i ricercatori a decenni di cause costose.

 

LaProposta
Trivelle
Circa 400 milioni tra nuove royalties e sospensione delle deduzioni
Sugar Tax
Tassa di 10 centesimi al litro aulle bevandezuccherate e non (300 milioni di euro) o di 15 centesimi (450 milioni). Fino a 407 milioni se si escludono le bevande dietetiche
Voli
Tassa di 50 centesimi sui biglietti dei voli nazionali, 1 euro per gli internazionali (144 milioni) oppure 1 euro sui nazionali e 1,5 sugli internazionali
Superalcolici
Aumento del 30% delle accise (19 milioni)
Sigarette
Aumento di 10 centesimi al pacchetto (350 milioni)
Lotterie e scommesse
Riduzione delle vincite dello 0,5% (385 milioni)