Di Maio lo ammette coi suoi ministri: “Non capisco cosa voglia fare Matteo”

Ora Luigi Di Maio è più trapezista che capo. Cammina sul filo della crisi con il terrore del vuoto e un unico scopo, “far passare la nottata” come sintetizza un big. Però è come se avesse una benda sugli occhi. “Non riesco a capire cosa voglia fare Matteo Salvini, non so decifrarlo” ammette ai ministri a 5Stelle riuniti ieri mattina a Palazzo Chigi. Non sa se l’altro vicepremier punti davvero al voto a settembre. “Dobbiamo aspettare che faccia mosse concrete” ripete Di Maio alla sua squadra, a cui non fa menzione di un rimpasto o eventuali sostituzioni.

Non può permettersi scontenti in casa, perché l’urgenza è reggere l’urto del leghista. Quel Salvini che dagli Stati Uniti pretende la flat tax con tono padronale: “I margini ci devono essere, non è una scelta”. E poi giù altre botte: “Gli accordi sull’acquisto degli F-35 non si possono rimangiare”. Un calcio a un totem del Movimento. Ma Di Maio vuole resistere. “Non dobbiamo farci schiacciare sulle proposte dai leghisti, ma neanche dare loro pretesti per rompere” predica. Quindi va bene rilanciare con le carte del M5S, salario minimo, conflitto d’interessi e riduzione del cuneo fiscale. Ma niente strappi almeno fino al 20 luglio, per schivare il voto a settembre. Così il rimpasto che il leader del Carroccio vorrebbe ma non chiede (e il suo vero obiettivo è il ministero della Difesa) resta congelato. Magari chiuso nello stesso cassetto dove Di Maio tiene le schede della graticola per i sottosegretari della scorsa settimana.

Un malloppo di fogli con valutazioni (anonime) compilate da parlamentari e presidenti di commissione, che bocciano parecchi membri di governo. “Rischiano grosso almeno in 5-6” soffiano dai piani alti. E rimbalzano nomi come quello di Michele Dell’Orco (Trasporti), Angelo Tofalo (Difesa) e Davide Crippa (Mise). Ma l’elenco è più lungo, e chissà se e quando il capo politico vorrà intervenire. Difficile capire se vorrà tagliare teste, anche se quei giudizi pesano. Perché i parlamentari accusano i sottosegretari di fare “troppi viaggi”, ne bocciano “la capacità di ascolto”, rilanciano vecchi strali: “In Parlamento non si vedono mai, e non rispondono al telefono”. Non può essere un dettaglio, per il Di Maio che ha ventilato una graticola anche per i ministri. Però ieri proprio loro, ai ministri, il vicepremier parla di altro. Per esempio di riorganizzazione del M5S, di una struttura “che dobbiamo darci per tornare sui territori”. E ripete il comandamento: “Dobbiamo portare avanti il governo e realizzare i punti del contratto, mostrare che siamo leali”. Dentro l’accordo tra gialloverdi però c’è anche la flat tax. Ma i soldi per una sola aliquota non ci sono, lo sanno i 5Stelle. Peccato che non possano dire la verità, perché sarebbe un varco per Salvini. Così il capo gioca con le parole e contro-propone una flat tax che non lo è, cioè una misura fiscale “rivolta al ceto medio”.

Invece il suo staff “fa trapelare la piena fiducia in Conte”, l’ultimo frangiflutti al Carroccio. Domani potrebbe esserci il vertice a tre, con il premier e i due vice, sulla lettera di risposta alla commissione europea sulla procedura d’infrazione. “Sarà un testo condiviso” assicura ovviamente lui, Salvini. Il leghista che picchia, mentre Di Maio incassa i colpi: più che può.

“Nervi saldi, Salvini cerca pretesti per votare subito”

Ci sono buone possibilità che il governo cada “entro la fine dell’estate”, ma se lo farà “non sarà per colpa del Movimento 5 Stelle”. La vede così Alessandro Di Battista, intervistato ieri dal direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio in occasione dell’uscita in edicola e libreria di Politicamente scorretto (Paperfirst), il nuovo libro dell’ex deputato 5 Stelle. L’equilibrio dei gialloverdi è dunque sempre più in bilico secondo Di Battista: “Fino a qualche settimana fa ero convinto che l’esecutivo sarebbe andato avanti a lungo, ma vedo continue provocazioni da parte della Lega e allora mi faccio qualche domanda. Mi sembra che stiano cercando pretesti per buttare giù il governo e dare la colpa a noi. Dobbiamo mantenere i nervi saldi”.

Anche perché presto arriveranno sul tavolo nodi fondamentali. Su tutti, la riforma che riduce i parlamentari da 945 a 600: “Voglio vedere se la Lega voterà con noi. L’attaccamento alle poltrone credo sia ancora una delle loro preoccupazioni più grandi”. A cui si aggiunge, secondo Di Battista, la voglia di Salvini di passare all’incasso: “Se fossimo stati noi al 37 per cento non ci saremmo mai messi a provocare, quello che ci interessa è il governo”. E invece ora le cose stanno diversamente: “Quante possibilità ci sono che si voti dopo l’estate? Dico 50 e 50”. Eppure le riforme in cantiere sono molte. Di Battista apre alla flat tax, ma solo sotto una certa soglia di reddito, e rilancia temi cari al Movimento: “Serve una lotta senza quartiere all’evasione fiscale, iniziando dai colossi del web. E dobbiamo recuperare le Autostrade. Il 15 agosto, il giorno dopo il crollo del ponte Morandi, il presidente Conte, che è una persona di parola, disse che avremmo revocato le concessioni ad Autostrade. Va fatto perché è giusto e perché sarebbe un modo per recuperare denari”. Ma l’ex deputato vuole anche riscuotere l’Ici dalla Chiesa (“si può trovare un accordo”) e ritirare le truppe impegnate in Afghanistan. E poi ancora: cambiare le regole economiche in Europa, la legge sul salario minimo e quella sul conflitto di interessi. Motivi per cui “il M5S porterà avanti con lealtà l’alleanza di governo”. Col placet di Beppe Grillo, il fondatore. “Si fa sentire poco” fa notare Travaglio. E l’ex deputato replica: “Lui voleva questo, lasciare che il Movimento camminasse sulle proprie gambe. Ma l’ho visto tre giorni fa, siamo stati a cene assieme. È molto ottimista, mi ha suggerito di puntare su tematiche legate all’ecologia”. Ma vuole staccare la spina al governo, chiede ancora il direttore del Fatto? “No, Beppe è molto soddisfatto dei risultati, è convinto che il lavoro pagherà”.

Ma a tenere banco c’è anche l’organizzazione territoriale del Movimento. “Oggi è prioritario – dice Di Battista – dotarci di una struttura con referenti territoriali. Ho parlato con Luigi e ho dato i miei suggerimenti, credo che queste novità le vedremo a breve”. Insieme magari a una nuova “Agenda per uscire dal buio”, versione aggiornata del documento con cui nel 2013 il Movimento lanciò la propria campagna elettorale. Da lì si potrà recuperare la base, riuscendo a comunicare “quanto di buono il Movimento fa al governo” dicendo “i No giusti a Salvini”: “Sulle intercettazioni Salvini non deve neanche metter bocca. Anzi: per fortuna abbiamo approvato la legge anti-corruzione e per fortuna abbiamo letto sui giornali le intercettazioni di chi di notte brigava sulle nomine affinché alla Procura di Roma potesse andare un soggetto ritenuto manovrabile”.

Il riferimento è allo scandalo Lotti-Csm, in cui le intercettazioni – di cui, secondo Salvini, i quotidiani hanno fatto un uso “incivile” – sono state possibili grazie alle disposizioni contenute nella legge Spazzacorrotti, che hanno fatto emergere una situazione, per paradosso, “simile a quella che descriveva Berlusconi, ovvero con parte della magistratura politicizzata”, anche se in tutt’altro senso rispetto a quel che intendeva il capo di Forza Italia. Nessun dubbio, invece, su Luigi Di Maio, che “resterà capo politico” anche in caso di elezioni anticipate, perché “il mandato non è legato alla durata della legislatura”.

E Conte, potrebbe essere il candidato premier? “Per me contano soprattutto le proposte e il programma. Lo conosco poco, ma il premier è una bravissima persona”. E il futuro di Di Battista? “Non nascondo che dal Sudamerica ho rosicato quando ho visto i miei colleghi giurare al Quirinale e mi son chiesto se non avessi fatto una stronzata. Penso pure a mia madre, a cui ho negato la soddisfazione di vedere un figlio ministro. Ma poi ho capito che prendermi una pausa è stata la scelta migliore”. In attesa di un posto da ministro? “Adesso no di sicuro, anche se mi sarei visto agli Esteri o agli Affari Europei. Comunque per un po’ mi fermerò in Italia”.

Lotito sogna il Senato: la Giunta pronta a “regalargli” un seggio

Claudio Lotito sta per staccare un biglietto di prima classe. Non per Alitalia, di cui l’ambizioso imprenditore con la fissa del pallone vorrebbe diventare socio di peso. Già nei prossimi giorni però potrebbe veder coronato il suo vero sogno: diventare senatore della Repubblica e dimenticare così un anno non proprio esaltante, almeno da un punto di vista calcistico. Naufragata l’impresa di portare la Lazio in Champions e pure quella di festeggiare la promozione in A della Salernitana che si è anzi salvata per un soffio dalla serie C, potrà finalmente almeno sedere tra i banchi di Forza Italia a Palazzo Madama accanto a chi ha fatto grande il Milan, Adriano Galliani.

Per ottenere lo scranno senatoriale Lotito, attivissimo già di suo nel gran mondo dei palazzi romani tanto da finire pure nelle intercettazioni che hanno come epicentro il Csm, ha lavorato ventre a terra. Mobilitando le migliori intelligenze giuridiche disponibili su piazza: e alla fine il ricorso contro la sua esclusione alle ultime elezioni politiche sembra aver fatto colpo davanti alla Giunta per le elezioni del Senato presieduta da Maurizio Gasparri, che ha quasi completato l’esame dei verbali elettorali. Proprio come richiesto da Lotito che aveva subito evidenziato come in particolare nel collegio Campania2 si fossero verificati “innumerevoli errori giacché i voti da attribuire a Forza Italia sono stati erroneamente attribuiti al partito di Fratelli d’Italia”. Voti che alla fine, a suo dire, hanno impattato proprio sul collegio dove correva. E per questo non si darà pace finché non gli verrà restituito il maltolto che ad oggi lo priva degli allori.

Il responso è atteso entro il mese di giugno. Ma agli osservatori attenti che temono la combine, i giochi sembrano già fatti: “Forza Italia – sussurrano – porterà a casa Lotito e in cambio i 5 Stelle verranno accontentati sul seggio vacante in Sicilia dove il 4 marzo 2018 il Movimento ha avuto più voti che candidati”. Da allora il Senato ha una composizione inferiore al plenum di 315 membri elettivi previsto dalla Costituzione. All’inizio i forzisti scalpitavano perché andasse a loro essendo il partito che nell’ambito della circoscrizione ha riportato i più alti resti. Ma i 5 Stelle non sembrano intenzionati a mollare, anche perché di un senatore in più hanno un gran bisogno: non è un mistero che c’è chi l’ha giurata a Paola Nugnes e Elena Fattori, le due eretiche del Movimento che in molti vorrebbero cacciare da quel dì. Ma la maggioranza al Senato è già risicata di suo e finora si è stati costretti a soprassedere.

Espulsioni o meno, la parola d’ordine è incassare quel seggio fantasma anche a costo di farlo scattare lontano dall’isola dove il Movimento un anno fa ha sbancato a tal punto le urne da riuscire a eleggere tutti nei collegi uninominali e pure in quelli plurinominali, rimanendo a corto di candidati. Ora però, dopo un gran consultare di leggi, è spuntata fuori una norma del ‘93 che consentirebbe di ripescare un eletto nella circoscrizione, forse in Umbria, in cui la lista pentastellata ha registrato quella che gli esegeti del diritto definiscono “la maggiore parte decimale del quoziente non utilizzata”. Più prosaicamente, per chi ne sarà beneficiato, un gran colpo. Di fortuna.

Inchiesta Siram, assolto l’ex tesoriere della Lega Belsito

L’ex tesorieredella Lega Francesco Belsito è stato assolto ieri nel processo per associazione a delinquere finalizzata a intercettare commesse di aziende a partecipazione pubblica tra cui Siram, Fincantieri e GNV. Il procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati aveva chiesto la condanna a 4 anni. Con Belsito sono stati assolti Romolo Girardelli, Stefano Bonet e Stefano Lombardelli, ex manager Fincantieri. Il processo era stato trasferito da Milano a Genova su richiesta dei difensori, gli avvocati Giuseppe Maria Gallo e Maurizio Vinciguerra. L’accusa era di associazione per delinquere finalizzata all’appropriazione indebita, al riciclaggio e alla truffa. Tra i fatti contestati anche una truffa ai danni dello Stato per oltre 8 milioni, tra il 2010 e il 2011, per aver tratto in inganno l’erario pubblico. La Lega Nord e il ministero dell’Interno si erano costituiti parte civile. “Il tribunale ha ritenuto integralmente condivisibile la nostra tesi, i contatti tra Bonet e Belsito si sono dimostrati leciti, la società di Bonet era reale e non fittizia e il credito di imposta non era stato acquisito”, ha spiegato l’avvocato Giuseppe Maria Gallo.

La politica estera di Donald che può servire all’Italia

Durante la campagna elettorale per le presidenziali americane del 2016 molti elementi della proposta di Trump avrebbero dovuto indurre buona parte della politica italiana a considerarne la vittoria come un’opportunità. L’affermarsi in America di un leader meno propenso alle ingerenze nella politica interna di altri Paesi dischiudeva la porta a un alleggerimento del condizionamento che gli Stati Uniti avevano fatto valere nei nostri confronti. Anche l’apparente disponibilità a impostare su basi nuove e meno conflittuali le relazioni con la Russia avrebbe dovuto allettare un sistema politico in buona parte non ostile a Mosca.

Inoltre, Trump aveva lasciato intuire il suo desiderio di promuovere una di stabilizzazione a vasto raggio, che con un po’ di fortuna avrebbe anche potuto archiviare la stagione di rivolgimenti che aveva sconvolto l’intero Mediterraneo, ponendo l’intera Europa di fronte a flussi migratori incontrollati. In Italia, invece, Trump veniva quindi discusso per alcuni aspetti tutto sommato irrilevanti dalla prospettiva dell’interesse nazionale italiano, come il suo modo di porsi nei confronti delle donne, gli orientamenti in materia di politica sanitaria o i rapporti con le minoranze.

Non sono stati dibattuti neppure gli aspetti del programma di Trump suscettibili di creare davvero dei problemi all’Italia. L’annunciata volontà di riequilibrare i conti con l’estero, ad esempio, poteva fare del nostro Paese il bersaglio di una pressione a ridurre le esportazioni verso gli Stati Uniti, nei confronti dei quali vantiamo un surplus commerciale di oltre 30 miliardi di dollari. Avremmo sicuramente sofferto anche politiche che avessero comportato la denuncia degli accordi di Vienna sul nucleare iraniano. Anche in Libia, probabilmente, prima o poi l’Italia sarebbe stata costretta a cambiare punti di riferimento. Roma infatti si era uniformata alle scelte di Obama, assecondando gli accordi di Skhirat con i quali si era decisa la nascita del governo di Accordo Nazionale diretto da al-Serraj, lontano dall’Egitto dei militari e ben accetto da Misurata e dalle forze libiche vicine a quell’Islam politico che Trump si proponeva invece di sradicare. Questi fattori rimasero praticamente estranei al confronto del 2016 . Ma gli altri bastarono. E il governo italiano si schierò in favore della signora Clinton nelle fasi più delicate della campagna elettorale americana.

Il pregiudizio nei confronti di Trump non ha impedito a Gentiloni – succeduto a Renzi a Palazzo Chigi poco più di un mese dopo le elezioni americane – di intrattenere amichevoli con la nuova amministrazione americana. Ma è mancata la possibilità e la voglia di considerare il nuovo presidente statunitense come un’occasione da cogliere, malgrado il voto inglese in favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea stesse candidando l’Italia al ruolo di partner europeo privilegiato di Washington. A dispetto degli evidenti segnali lanciati da Trump, è rimasta una certa freddezza, evidente nei giorni che il tycoon ha speso nel nostro Paese nel maggio 2017. Non esistono conferme della richiesta di portare in America alcuni dei migranti irregolari giunti in Europa, che secondo alcune fonti americane Gentiloni avrebbe rivolto a Trump. Ma nel suo recente volume intitolato La sfida impopulista Gentiloni ha ammesso che il tema del contrasto all’immigrazione ha rappresentato fin dai primi contatti bilaterali un elemento di attrito con il presidente statunitense.

Le circostanze sono cambiate dopo le elezioni italiane del 4 marzo 2018 e la formazione della nuova maggioranza di governo composta da Lega e Movimento Cinque Stelle, la cui gestazione aveva attirato l’interesse di Steve Bannon. Da quel momento, l’Italia ha cercato con maggior convinzione l’interlocuzione con Trump, anche per mitigare gli effetti del cordone sanitario steso intorno al nuovo esecutivo da Francia e Germania, che stava riducendo i margini di manovra all’interno delle istituzioni europee, nella difesa degli asset strategici della propria economia e nella protezione dei propri interessi nazionali in Libia. Già al primo G7, Giuseppe Conte ha mostrato la nuova prossimità del suo governo al presidente Trump, cercando (e ottenendo) photo opportunity in circostanze in cui il suo predecessore le avrebbe evitate.

Naturalmente, per quanto una cooperazione più stretta con l’Italia rientri negli interessi degli Stati Uniti, ciò non vuol dire che al nostro Paese non verrà chiesto nulla in cambio. Al contrario, sono prevedibili sollecitazioni importanti, non solo sul versante del rispetto delle sanzioni imposte nei confronti della Russia (e dell’Iran), che comportano costi significativi, ma anche sotto il punto di vista della limitazione degli investimenti cinesi in alcuni settori ritenuti strategici dagli americani, come quelli legati alle infrastrutture 5G. È altresì da mettere in conto che le circostanze in cui gli Stati Uniti chiederanno a Roma di scegliere da che parte stare aumenteranno. Una minore propensione all’ingerenza negli affari interni di altri Paesi, dopotutto, non implica la rinuncia americana ad influire sul comportamento esterno dei loro interlocutori.

F35, Iran e Venezuela: Salvini cerca la benedizione di Trump

Matteo Salvini vuole rassicurare gli Stati Uniti che per lungo tempo lo hanno guardato con sospetto, perché troppo vicino alla Russia di Vladimir Putin. “L’Italia è il più solido e coerente alleato degli Usa”, spiega il leader leghista durante il suo viaggio a Washington che ha lo scopo di dimostrare l’affidabilità atlantica di quello che ora è il primo partito italiano. Nella conferenza stampa dopo l’incontro col segretario di Stato Mike Pompeo, Salvini si schiera con gli Usa su tutti i dossier di politica estera, con posizioni più nette di quelle ufficiali del governo Conte: “Con l’amministrazione Usa abbiamo una visione comune su Iran, Libia, Medioriente, diritto di Israele ad esistere, Venezuela, e verso la pre-potenza cinese verso l’Europa e l’Africa”. Anche sui caccia F35, tanto contestati dai Cinque Stelle come simbolo di una spesa pubblica discutibile, Salvini è con gli americani: “Gli accordi sottoscritti non si possono rimangiare. Investire in ricerca coinvolgendo forza lavoro italiana è utile”. L’unica sfumatura è sul rapporto con la Russia: “Sarebbe un errore strategico allontanarla dall’Occidente per lasciarla all’abbraccio della Cina”.

Per Donald Trump l’Unione europea non è certo un priorità, come ha dimostrato il suo ultimo viaggio a Londra, con tanto di spot per una Brexit rapida e netta. Salvini è sulla stessa linea di ostilità all’Ue, nonostante i tentativi di dialogo del premier Conte: “Non si pensi di trattare l’Italia come la Grecia. Noi puntiamo a convincere la Commissione con numeri, buon senso e cortesia. Altrimenti le tasse le tagliamo lo stesso agli italiani”. E la flat tax diventa “una manovra trumpiana”.

Il vicepremier leghista è un fan di Trump dalla campagna presidenziale 2016 (c’è anche una loro foto insieme). Negli Usa, però, il protocollo prevede che incontri soltanto il vicepresidente Mike Pence. “Una cosa alla volta: sono il vice e incontro il vice”. Come a dire: datemi tempo, al prossimo giro andrò alla Casa Bianca. Partendo da palazzo Chigi.

Mal comune, B. gode: “La stagione del M5S può dirsi conclusa”

Silvio Berlusconi esulta per i risultati del centrodestra in Sardegna e soprattutto per la presa di Cagliari (dove pure la sua Forza Italia ha portato a casa un modesto 5,3%). L’ex Cavaliere gode soprattutto delle disgrazie grilline. E lancia un messaggio solenne: “Abbiamo dimostrato che il progetto dei Cinque Stelle è velleitario. La stagione politica del Movimento può dirsi conclusa”. Poi si dedica agli avversari storici: “Voto dopo voto, coi nostri programmi chiari e scegliendo donne e uomini di qualità, abbiamo sfrattato la sinistra dalla maggioranza dei Comuni italiani archiviando una stagione di governi locali che non hanno saputo difendere gli interessi dei cittadini”. La vera vincitrice a Cagliari è Giorgia Meloni, che ha imposto il suo candidato, il nuovo sindaco Paolo Truzzi, e ha ottenuto con Fratelli d’Italia un eccellente 11,7%. L’ex ministra si prende i meriti: “Questa vittoria conferma la nostra capacità di proporre alla coalizione di centrodestra dei candidati estremamente spendibili. La sinistra intende fare ricorso? È nelle sue possibilità. Ricordo però che il sindaco uscente Massimo Zedda fu eletto con un margine inferiore a quello che oggi ha Truzzu”.

“Non ho fallito io, ci siamo depressi da soli”

Massimo Zedda, lei è stato sindaco di Cagliari per 8 anni, ora la città torna a destra. Per quali ragioni?

Non vedo fallimenti, abbiamo ottenuto un buon risultato in un contesto molto difficile. C’è un vento di destra forte in tutto il Paese. E si tende a dimenticare che in questa città la sinistra, prima di me, non aveva mai governato. Eravamo passati dalle giunte della Dc a quelle di centrodestra.

Ora ce n’è una di destra-destra: Truzzu è orgogliosamente post-missino. Qualcosa avrete sbagliato, no?

Se tutti ci avessero creduto penso che avremmo vinto.

Ce l’ha con il Pd?

No, parlo in termini generali. Mi riferisco alla depressione, al pessimismo cosmico che logora la sinistra.

Gli elettori dei Cinque Stelle sono rimasti a casa?

È un tema importante, su cui c’è da ragionare: in una situazione di difficoltà come questa, con una destra che tenta di togliere diritti e libertà nel Paese, bisogna rivolgersi anche a loro per difenderli insieme. Una parte dei Cinque Stelle ci ha sostenuto.

Eppure rispetto al 2016, quando lei fu rieletto, la candidata di centrosinistra Francesca Ghirra (ex assessore della giunta Zedda) ha perso circa 6mila voti.

Attenzione: nel 2016 nella nostra coalizione c’era anche il Partito sardo d’azione, che valeva il 7%. Ora sono alleati della Lega.

Nessuna autocritica?

Abbiamo avuto delle difficoltà nel farci sostenere a livello regionale.

Ovvero è stato penalizzato dal rapporto con l’ex presidente Pigliaru (del Pd)?

Sì, alcune delle partite più importanti per Cagliari sono decise a livello regionale.

A Cagliari restano differenze clamorose tra centro e periferie come Sant’Elia.

Anche qui bisogna fare attenzione: c’è una parte di Sant’Elia, quella del vecchio borgo, che è di gestione del Comune. La parte degradata, quella dei grandi palazzi popolari, è di proprietà della Regione. Lì non possiamo mettere mano.

Intanto Sant’Elia vota a destra.

Non è così, i dati di Sant’Elia cambiano molto di seggio in seggio. È sbagliato dire che perdiamo nelle periferie, succede solo in alcune sezioni.

Avete trattato Truzzu come un retrogrado fascista, non crede sia stato un errore impostare la campagna sui valori e non sui programmi?

È difficile definire Truzzu la punta avanzata dei diritti e delle libertà nel continente europeo. Il suo modello non si ispira al fascismo, è vero, si ispira alle leggi della sharia, una roba medievale.

Comunque gli attacchi personali non hanno pagato.

Il problema è un altro: non abbiamo fatto nemmeno un sondaggio. Se avessimo avuto saputo dai numeri che Francesca se la poteva giocare ci sarebbe stato un altro entusiasmo. Nel 2011, quando ho scoperto da un sondaggio che potevo battere la destra, ho preso tutti i risparmi che avevo in banca, 140mila euro, e li ho investiti nella campagna elettorale.

Anche stavolta avete intercettato un forte voto disgiunto dal centrodestra. Non pensa che i compromessi del “modello Zedda” con il mondo produttivo cagliaritano abbiano tolto entusiasmo a quella che era una “rivoluzione arancione”?

Un amministratore deve risolvere i problemi, dialogando con tutti. Secondo lei ho l’elettorato di sinistra? La “sinistra sinistra sinistra” alle ultime Regionali ha preso lo 0,35%. Il candidato ambientalista Cremone ieri ha preso l’1,8%. Nel 2016 alcuni dirigenti della sinistra cagliaritana – area Rifondazione e Comunisti italiani – si sono presentati fuori dalla coalizione e hanno preso lo zero virgola.

Pure Cagliari svolta a destra. Sinistra e 5Stelle inesistenti

Non sono bastati i risultati raggiunti in otto anni di amministrazione di centro sinistra, fiori all’occhiello dell’amministrazione Zedda come il rifacimento della spiaggia del Poetto o la pedonalizzazione delle vie del centro, per convincere i cagliaritani scontenti per una raccolta differenziata da migliorare e per le mille difficoltà delle periferie.

Gli abitanti del capoluogo sardo stavolta hanno scelto di cambiare pagina, con un voto di discontinuità che conferma e se possibile rafforza l’onda lunga del centro-destra nell’isola, dopo le regionali del 24 febbraio. E che lancia segnali preoccupanti anche a livello nazionale, per la tenuta dell’alleanza giallo-verde.

A vincere in città infatti è Paolo Truzzu, enfant prodige della destra sarda nonché delfino di Giorgia Meloni nell’isola, scelto per diretta emanazione della triade romana in formazione tradizionale: Salvini – che però si è tenuto lontano dalla campagna elettorale – Meloni e Berlusconi, appunto, ovvero il sogno del centro-destra unificato che almeno qui, ora, prende concretamente forma, seppure con la particolarità dell’innesto sovranista-sardista.

Truzzu, 46 anni e una laurea in Scienze politiche è il nuovo sindaco dei cagliaritani con il 50,1% delle preferenze. Sarà lui, salvo un improbabile riconteggio delle schede nulle che potrebbe aprire la strada al ballottaggio, a sedere nello scranno che fu di Massimo Zedda, dimessosi anticipatamente dal suo mandato dopo la sconfitta alle Regionali ed ora seduto fra i banchi dell’opposizione in Assemblea Regionale.

Ruolo di opposizione che toccherà anche a Francesca Ghirra, candidata sindaca del centro-sinistra ed ex assessora all’Urbanistica della Giunta Zedda, ferma al 47,7% con appena 1.582 voti di scarto dopo una notte al cardiopalma in cui i due candidati hanno praticamente viaggiato sempre sul testa a testa. “Vincere al primo turno non era scontato, ma la gente voleva cambiare”, ha detto Truzzu in conferenza stampa, poche ore dopo la vittoria. “È stata premiata la nostra volontà di restare sui temi e su un’idea di città lasciando da parte ogni tipo di polemica”.

Truzzu ha poi fatto i complimenti alla Ghirra – “è stata brava” – ma non ha risparmiato critiche a Massimo Zedda, che a pochi giorni dal voto lo aveva attaccato accusandolo di voler reintrodurre i vitalizi in Consiglio Regionale per via di una proposta di legge fatta dalla maggioranza sardo-leghista, con l’avvallo di FdI. “La spesa aggiuntiva a carico dei cittadini, – aveva denunciato Zedda – solo per il 2019 è pari a 1.149.984 euro, che si ripeterà per gli anni a venire di questa legislatura per un totale di 5.749.920”.

In realtà però una proposta molto simile, finalizzata all’erogazione dei contributi previdenziali ora solo figurativi, era stata firmata sul finale della passata legislatura da 54 consiglieri su 60, primo firmatario Francesco Agus (attuale capogruppo di Campo Progressista Sardegna, il partito di Massimo Zedda). In quel caso, l’esborso per il bilancio del Consiglio Regionale sarebbe stato di 5 milioni ed 800mila euro in un’unica soluzione, per i cinque anni che vanno dal 2014 al 2019.

Ma se a Cagliari il centro- sinistra piange, non festeggia nemmeno nelle altre città dell’isola: a Sassari il magistrato Mariano Brianza non sfonda e va al ballottaggio con Nanni Campus, storico esponente del centrodestra turritano a capo di un’ampia coalizione civica. Ad Alghero il sindaco uscente Mario Bruno cede il passo al Sardista Mario Conoci. Mentre sempre nel Nord dell’isola la Lega conquista il suo primo sindaco a Illorai , con Tittino Cau.

I grandi sconfitti di questa campagna elettorale in Sardegna sono però i Cinque Stelle, che non conquistano nessun comune e a Cagliari addirittura hanno ritirato la certificazione della lista dopo le polemiche che hanno investito il candidato Alessandro Murenu per i suoi vecchi post su aborto e unioni civili.

Miracoli di Matteo già dimenticati

In risposta alle critiche contenute in un editoriale di Mario Monti, Matteo Renzi scrive al Corriere della Sera per rivendicare i meriti del suo governo. Titolo della lettera: “Dagli 80 euro al lavoro, l’Italia tornò a crescere”. Come ha fatto spesso in passato, Renzi usa una misure di quella crescita un po’ creativa, +1,8 per cento. Che è la crescita del Pil cumulata durante gli anni in cui è stato a palazzo Chigi (non è neanche ben chiaro come la calcoli, visto che lui è arrivato a febbraio 2014 ma ha fatto la prima legge di bilancio quell’autunno e se ne è andato a dicembre 2016, lasciando una legge che avrebbe prodotto i suoi effetti nel 2017). I dati Eurostat dicono che il Pil dell’Italia è cresciuto dello 0,1 per cento nel 2014 mentre il resto dell’Eurozona marciava all’1,4, nel 2015 dell 0,9 con l’Eurozona al 2,1 e nel 2016 1,1 contro 1,9, nel 2017 1,7 contro 2,4. Negli anni di una vivace ripresa europea, insomma, l’Italia è rimasta quasi sempre ultima per tasso di crescita, con un Pil che arrancava mentre quello degli altri tornava sopra i livelli pre-crisi del 2008. Ed è vero che l’Italia ha ritrovato i posti di lavoro di dieci anni prima, 23 milioni, ma con 2 miliardi di ore lavorate in meno ogni anno perché al posto dei lavori full time c’è stata un’esplosione di part time non volontari.