Autonomie locali: le Regioni saranno meglio dello Stato?

U no dei temi più caldi dell’agenda del governo è l’autonomia regionale. Tra gli aspetti più delicati, i beni culturali su cui Salvatore Settis ha acceso i riflettori. Non ci sarà bisogno di scomodare gli antichi, ma ricordare chi gli antichi li ha studiati e amati: Concetto Marchesi. Latinista, Rettore dell’ateneo di Padova, Costituente, Deputato comunista, ma profondamente siciliano, Marchesi ammoniva sulle disposizioni in materia dello Statuto siciliano: “Io vengo recentemente dalla Sicilia e ho sentito quale turbamento ci sia tra gli uomini di cultura di fronte a questo pericolo. La Sicilia è tutta quanta un grandioso e glorioso museo, onorevoli colleghi, e noi non dovremo permettere che interessi locali, che irresponsabilità locali abbiano a minacciare un così prezioso patrimonio nazionale”. Era consapevole del pericolo del trasferimento di funzioni strategiche dallo Stato alle Regioni; non faceva sconti a nessuno, men che mai alla sua terra. In una calda seduta del 4 luglio 1947, nel corso del dibattito sull’art. 117 Cost. circa le competenze regionali in tema di istruzione, accusava: “Cosa vecchia e risaputa è la piaga dell’analfabetismo del Mezzogiorno; e un deputato, Vincenzo Giuffrida, in un discorso memorabile, ricordava ai suoi elettori di Catania, che non il popolo del Mezzogiorno era nemico dell’istruzione e della scuola, ma nemici dell’istruzione e della scuola erano gli enti locali, municipi, provincie, favoriti in questo malvolere ed in questa inerzia dalla inerzia dello Stato: perché la Sicilia è stata oppressa e danneggiata, si dice, dal Governo centrale, ma essa è stata prima di tutto e più di tutto, oppressa dai siciliani”. Il grido di dolore di Marchesi dopo oltre 60 anni è attuale e riguarda l’intera Italia.

L’Italia nuova sta arrivando. Ci risiamo!

I eri ho acceso la tv e ho sentito il discorso agli italiani di Silvio Berlusconi, un messaggio preregistrato inviato a tutti i telegiornali delle reti nazionali, annunciava la sua discesa in campo: “… la vecchia classe politica italiana è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. Mai come in questo momento l’Italia che giustamente diffida di profeti e salvatori, ha bisogno di persone con la testa sulle spalle e di esperienza consolidata, persone creative e innovative capaci di darle una mano, di far funzionare lo stato”. Chissà perché quelli che vanno al potere parlano sempre male di quelli che hanno governato prima. Sarebbe carino ammettere, da parte dei nuovi governanti, che qualcuno prima di loro un pezzettino di testa sulle spalle ce l’ha avuto. Ci fosse mai uno che riconosca minimamente il lavoro fatto prima da altri, mai! “Quello che c’è stato prima è tutto sbagliato, tutto da rifare”, come diceva il grande Gino Bartali. È un po’ come quando cambi dentista, lui ti apre la bocca e dice “… ma da quale macellaio sei andata prima di me? Qui è un disastro!”. Oppure, il meccanico che commentando il lavoro fatto da colleghi precedenti, allarga le braccia sconsolato, scuote la testa e pronuncia la sentenza lapidaria “… eh qui devi rifare tutto il motore, lo spinterogeno, la batteria, le ruote, il cambio, il filtro dell’aria e la valvola a farfalla, se no sta macchina è pronta per lo sfasciacarrozze!”. Berlusconi avrà anche le sue ragioni, speriamo tutti che mantenga le promesse che ha fatto e speriamo che faccia nascere una nuova Italia come giura di fare. Ma questa non è una novità, sono secoli che ci promettono una nuova Italia. Però rispetto a chi lo ha preceduto, in una cosa è sicuramente un grande innovatore, il maquillage! Un politico cosi truccato in tv non si era mai visto.

 

Caro Veltroni, sostieni Riace e il “deportato” Mimmo Lucano

N on dobbiamo domandarci perché Roma, la parola, il concetto, l’aspirazione, il ricordo, è una parola che produce subito un’immagine molto più grande della realtà. Non l’avevano capito i Savoia ma l’avevano capito (e tenacemente difeso) i Papi, e l’hanno sempre sentito, capito, scritto, celebrato coloro che hanno portato a Roma, nei diversi secoli, il tributo, della loro fama.

È inevitabile perciò che il libro ROMA di Walter Veltroni, già sindaco di questa città in cui ha lavorato con una vera e propria volontà di governo, acquisti una misura grande che va dal formato del volume alla storia di Veltroni sindaco. È un memoriale che sembrerebbe romanzesco se non fosse un resoconto accurato ma anche riscritto nella rivisitazione che allarga e ingrandisce i tempi, gli eventi, le cose accadute, le persone coinvolte e i molti cittadini che in quella avventura si sono trovati coinvolti, con sorpresa e con un certo entusiasmo.

Per capire che cosa intendo per “effetto ingrandimento” (e distinguerlo dal compiacimento ragionevole, ma anche soggettivo, di uno che ha fatto bene molte cose), vorrei chiamare a testimone il film di Fellini con lo stesso titolo. ROMA di Fellini è una splendida dilatazione di immagini. ROMA di Veltroni è un documento preciso, ma neppure uno scrittore accorto e pacato come Veltroni riesce a fermare l’irrompere di scene, fatti, ricordi di una città che non accetta misure normali. ROMA–libro perciò è un evento festoso che ti fa ritrovare una quantità di cose accadute davvero, in sequenze di cui il protagonista–autore (data anche la riuscita e festosa scrittura del libro) ha lasciato segni dovunque in città.

La mia obiezione non è al libro, non è da recensore del libro che ho letto nello spirito con cui è stato scritto (e con cui, in tempo reale, l’ho conosciuto e vissuto). Non è neppure al confronto fra una Roma e l’altra, perché nel frattempo, il mondo (non solo in Italia) è paurosamente cambiato, dopo l’avvento di Trump. Ma proprio il libro ROMA ricorda un fatto: Veltroni sindaco non scansava un evento, solo perché era troppo complicato e difficile. Era sul posto e non rinunciava a intervenire. L’autore del libro conclude bene, con un bel capitolo finale, il suo straordinario diario. Sto parlando del protagonista. Perché non essere adesso con i cittadini umiliati, mentre un altro bravo sindaco, quello di Riace, viene deportato e processato per il reato di accoglienza? Certo, c’è stato un intervento caldo e civile di Veltroni su Repubblicadedicato all’accoglienza, vissuta allo stesso tempo come un dovere e una festa. Ma è ancora l’autore che parla. Io cerco il protagonista. Fino a quando i personaggi che hanno un microfono nel Paese non diranno, come Gobetti, come Lussu, come i fratelli Rosselli, la loro volontà di non accettare leggi come “Sicurezza bis” che prevede il sequestro delle navi che salvano esseri umani e multe altissime per ogni corpo salvato?

Fino a quando vorremo vivere in un Paese in cui si porta in trionfo come un simbolo della Repubblica, uno che spara dal balcone sette colpi alla schiena di un ladruncolo in fuga?

Zingaretti e la cura Arancia Meccanica per gli asini del Partito Democratico

Faccia come Claudio Magris, Nicola Zingaretti. Ma faccia di più. Il leader del Partito Democratico si schieri con Gabriele D’Annunzio – come ha fatto l’illustre letterato con un intervento sul Corriere della Sera – ma si spinga oltre: prenda per le orecchie Michele Anzaldi e poi anche il rappresentante del suo partito a Trieste, e faccia loro un lisciabbusso. Il tapino, capogruppo al consiglio comunale, si oppone alla decisione del sindaco Roberto Dipiazza di collocare una statua del Vate in ricordo del 100 anni dell’impresa di Fiume. Mentre Anzaldi, invece, preso dalla sua stessa vis, si agita contro il Tg2 che con Tommaso Ricci giustamente denuncia i “ridicoli e surreali” contestatori di D’Annunzio in chiaro deficit di arte e di conoscenza della memoria culturale.

La fissazione è peggio della malattia, si sa, e Zingaretti, allora – la cui onestà intellettuale è ben nota – spieghi a questo suo dirigente locale, Giovanni Barbo, quello che l’ottusità del riflesso condizionato gli impedisce di capire. Un partito come il Pd – se davvero è erede della sinistra – non può inciampare nel banalismo, e un leader qual è Zingaretti, figlio del partito comunista, non può certo consentire che si faccia sfregio a un poeta, a un compare di Vladimir Majakoskij, ancorché con motivazioni lunari: l’antifascismo su tutte.

Prenda dunque per le orecchie questo solerte esecutore del luogo comune e lo rieduchi – a costo di fargli spalancare le palpebre con i forcipi oculari di Arancia Meccanica – mostrandogli la nuda verga turgida di Guido Keller, nudista e legionario a Fiume, la città libera e libertaria che non fu propriamente un raduno sovranista, piuttosto un happening situazionista più multiculturale che destrista. Non fosse altro per aver radunato – tra le acque dell’Adriatico, agli ordini di D’Annunzio – i pazzi di ogni pezzo di mondo: dall’America al Giappone, dalla Russia alla Francia. La libera città di Fiume non fu dunque il convegno delle famiglie di Verona, ma una vera e propria Woodstock, arrivata prima ancora di qualunque rock, e prima di qualsiasi Pride, da far sembrare Asia Argento e Vladimir Luxuria due educande, tanto fu fluida e panica l’ammucchiata (carnale).

Faccia di più, Zingaretti, ne faccia un atto politico, e non tanto per quel che Lenin ebbe a dire dell’autore de Il Piacere – “un rivoluzionario” – ma per dismettere l’ignoranza quale strumento di lotta politica. 1.700 firme su Change.org al grido di “no al monumento di D’Annunzio a Trieste” sono il segno di un estremismo infantile, un chiaro lapsus del sentimentalismo da birignao tipo Festival della letteratura di Mantova o, manco meno, Premio Strega: i tipici posti dove un Palmiro Togliatti, oggi, andrebbe calzando scarponi rinforzati per rinfrescare le idee alle mosche cocchiere di tutti i conformismi del regime egemone.

Lo faccia, dunque, Zingaretti, questo urto di rottura e faccia sentire il peso della sua formazione comunista e spieghi al novellino del Pd che fu D’Annunzio, il primo – a capo di una realtà statuale – a riconoscere l’URSS che infatti inviò a Fiume una delegazione diplomatica. Fu quella Carta, quella del Carnaro, a dare le garanzie e i diritti sociali – anche il divorzio, e le unioni civili – in anticipo su tutte le farlocche chimere della sinistrina ciù-ciù. È il poeta al comando lui, altro che i Roberto Benigni della “Costituzione più bella del mondo”. E se ne strafotte della statua, lui. Lui ha già quel che ha donato.

Diavoli travestiti da angeli. Colpo di fulmine a 35 anni: “Peccato che sia uno stalker”

Cara Selvaggia, sto vivendo un momento difficile e che mai avrei pensato di affrontare. Ho conosciuto, 6 mesi fa, un uomo meraviglioso. Io, trentacinquenne separata senza figli, credevo che la vita avesse smesso di sorprendermi. Poi incontro G., un geometra fascinoso e gentile, che dopo pochi giorni dal nostro incontro mi promette già amore eterno, figli, un nuovo matrimonio. Lui ha un passato sentimentale ingrato: anni prima una donna l’ha tradito, deluso e lasciato senza un motivo a pochi mesi dal matrimonio. Il classico “dopo quell’esperienza non mi sono più lasciato andare”. Tramite Facebook scopro l’identità di questa tizia: non mi sembra l’avvenente mangia–uomini da lui descritta. Pare più una ragazza semplice, amante degli animali, riservata. Poche foto, nessun contenuto ammiccante, molte frasi sull’amore romantico. Non ci penso più. La nostra storia procede a gonfie vele finché un mese fa io devo partire una settimana per l’Argentina con alcuni colleghi, e lui mi fa una scenata. Non è la gelosia che mi infastidisce. È sempre stato geloso, in modo contenuta. Sono le sue parole a sorprendermi: dopo qualche considerazione su come sia poco opportuno che vada dall’altra parte del mondo con sei colleghi maschi e sul fatto che non si fidi di uno in particolare, è uscito di casa guardandomi dritto negli occhi e dicendo: “Questa me la paghi. E tanto”. Gli avevo solo risposto: “Non posso farmi licenziare per la tua gelosia, è il mio lavoro da 12 anni”. Poco dopo mi sono arrivati tre suoi sms dal tono minatorio, uno dei quali davvero inquietante. Diceva: “E ricordati che so tutto di te”, alludendo ai miei problemi legali per un’accusa di truffa di cui la mia azienda è all’oscuro. Resto impressionata. Lui poi fa marcia indietro, mi chiede scusa, dice che gli è andato il sangue alla testa. Dice che va bene che vada in Argentina, non ne vuole parlare più fino alla mia partenza a luglio. Mi porta a cena, fiori, lacrime, pentimenti. Ma il tarlo di quello che è successo mi rimane. Penso che quei messaggi, quella frase non sembrano qualcosa che si sposi con l’uomo meraviglioso che ho conosciuto. A quel punto non so perché ma mando un messaggio su Facebook alla sua ex che lo ha tradito e lasciato, la mangia–uomini. Le chiedo se è vero quello che mi ha detto lui. Mi risponde giorni dopo: “Non so se me la sento di parlare di lui, scusami”. Suona sospetto. Insisto un po’ e lei diventa un fiume in piena. Dice che lui non è quello che sembra: pare un angelo, poi diventa morboso e cattivo. Racconta che lei ha vissuto 3 anni nell’incubo di scenate e ritorsioni: alla fine l’ha denunciato per stalking dopo che si sono lasciati. Dice che il procedimento è ancora in corso e lui ha smesso solo dopo la denuncia. Ora Selvaggia, dovrei dirti che sono scappata da lui, ma non è così. Non ho potuto dirgli cosa ho scoperto. La sua ex mi ha fatto giurare che avrei taciuto: teme che se glielo dico lui la odierà ancora più, e si vendicherà. Io sono traumatizzata, da quello che lei mi ha detto e dal mio immobilismo. Non so che fare. E se lei avesse mentito? E se avesse mentito lui? Lo guardo e mi chiedo chi sia davvero: quello che mi ha detto “te la farò pagare”, un mese fa, o quello che mi ama e mi fa sentire amata? Cosa devo fare?

L.

 

Cara L., devi sapere tutto. Tutela la sua ex, trova il modo di dirgli che hai scoperto il suo passato senza coinvolgerla. Non puoi ignorare un’ombra del genere, soprattutto se hai già avuto un segnale inquietante come quell’atteggiamento minatorio e crudele che ha avuto con te. Non ho mai creduto che nelle liti si dicano cose che non pensiamo davvero. Ritengo, anzi, che “in lite veritas”. Proteggiti.

 

Con Salvini, i razzisti sbraitano: “Parlavamo inglese, giù insulti”

Torno da una cena in una trattoria milanese in Via Ripamonti. Sono professore universitario in USA ed oggi ero in visita da colleghi a Milano – finiamo tardi di lavorare e decidiamo di mangiare un boccone (due italiani e un americano). Cena deliziosa, cameriere gentilissimo. Ad un certo punto rimaniamo in sala noi tre, che parliamo in inglese, il cameriere nordafricano, ed una coppia a un altro tavolo. Il clima è rilassato e gioviale, si discute di cibo, paesi lontani, il nostro lavoro. Il ‘signore’ al tavolo di fianco inizia a lamentarsi ad alta voce di essere l’unico italiano nella stanza. “Cosa sta succedendo in questo paese?”, “Possibile che per sentir parlare italiano ormai bisogna andare forse ad Aosta?”, “Dove stiamo andando a finire? Non abbiamo più un’identità!”. Si dice schifato, proclama: “Forse è meglio che me ne vada a casa”. Al che gli rispondo in italiano: “Eh sì, forse è meglio…”. Iniziano a piovere gli insulti, decidiamo di lasciare perdere, paghiamo e ce ne andiamo. Mancavo dall’Italia da un anno e mai nella mia Milano ho assistito ad un episodio di razzismo gratuito come questo. Il mio collega americano esterrefatto commenta: “Questo è l’effetto di politici come Trump e Salvini su certe persone… Prima queste cose al massimo le sussurravano, ora sono fieri di sbraitarle”. Ecco cos’ha fatto un anno di Salvini al mio paese. Che amarezza.

Lorenzo

 

Caro Lorenzo, cerca di capire. Per il signore eravate un mix letale: un nero probabilmente clandestino e tre “professoroni”. Pelle scura e cultura. È già tanto che non gli sia andato il coniglio di traverso e non l’abbiate dovuto salvare con la manovra di Heimlich.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2. selvaggialucarelli @gmail.com

Arbore sbanca con la cultura napoletana nell’era del trash

C aro Coen, oggi ti voglio parlare di un miracolo. Il miracolo di Renzo (ovviamente Arbore) e della canzone napoletana. In breve, succede che nella tv vomitante Mark Caltagirone, cuori infranti e casi umani disperati, arrivi lui, il Maestro, alla chetichella come sempre, su un canale di nicchia della Rai, il 5, e puntualmente sbanchi. 2,1% di share, ascolti superiori di quattro volte quelli medi della rete. Uno studio con i colori del mare, pubblico, un attore della intramontabile scuola eduardiana come Maurizio Casagrande, l’Orchestra italiana e una carrellata di canzoni napoletane. Titolo della trasmissione, “L’arte do sole”, una espressione antica che celebra l’arte dell’ozio, anche “creativo”, come direbbe il sociologo partenopeo Domenico De Masi. Canzoni, ritmi, suggestioni e melodie nate sotto il Vesuvio, che Arbore in 28 anni di Orchestra italiana ha portato in tutto il mondo, da New York a Sidney, fino a Pechino. Un accurato montaggio ci mostra “Torna a Surriento” cantata a Milano e nella Grande Mela, a Piazza Plebiscito e in una square australiana e sempre con lo stesso entusiasmo del pubblico. Casagrande legge il testo della canzone (composta da Ernesto e Giambattista De Curtis nel 1902 in onore, vuole la leggenda, del Presidente del Consiglio Zanardelli in visita alla città), ed è poesia. E “Luna Rossa” (“vache distrattamente abbandunato… man inta sacc e bavaro aizat”) gustata dai cinesi in piedi a spellarsi le mani. Arbore l’ha portata nel mondo, ma prima di lui l’hanno cantata Sinatra, Tony Martin, Josephin Baker, Caetano Veloso. E pensare che l’autore delle musiche (il testo è di Vincenzo De Crescenzo), Antonio Viscone in arte Vian, non conosceva la musica. Le sue melodie le fischiettava soltanto. Grazie a Renzo, ovviamente Arbore, che ci ha regalato queste perle di napoletanità, in un mondo dove un Senaldi qualsiasi vaneggia di veneti e di ceppi diversi. “Senà, ma facc ‘o piacere”, gli direbbero a Napoli ridendo.

Milano ricorda il caso Pinelli. Il razzismo oggi mina la libertà

Venerdì scorso, alla Casa della Cultura di Milano, Paolo Brogi ha presentato il suo drammatico libro–inchiesta Pinelli, l’innocente che cadde giù (Castelvecchi). Sì, caro Enrico, drammatico: perché ancora oggi, a mezzo secolo di distanza, Milano non può, non riesce, non vuole dimenticare. Fu la pagina più vergognosa della nostra storia recente. E ti dirò di più: è un ricordo che mi porto addosso perché quando la bomba di piazza Fontana scoppiò, mi trovavo ad un centinaio di metri di distanza da piazza Fontana assieme all’amico Beppe Lo Re, che come me frequentava Scienze Politiche e quel venerdì eravamo usciti dalla Statale, mentre era in corso un’assemblea del Movimento Studentesco. Il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli fu arrestato la sera del 12 dicembre. Entrò in Questura dal portone di via Fatebenefratelli, volò giù da una finestra del quarto piano il 15 dicembre. In mezzo, le trame nere di uno squadrone di agenti e funzionari del servizio segreto civile di allora, l’Ufficio Affari Riservati, che si erano fiondati a Milano con una missione ben precisa: incastrare gli anarchici milanesi per la bomba di piazza Fontana e per tutte le altre che erano scoppiate in quell’anno. C’era Silvano Russomanno, vicecapo degli Affari Riservati: “Un fascista repubblichino che si era arruolato e aveva combattuto a fianco dei nazisti” ricorda Brogi, “ancora una volta fu persecutore di un partigiano”. Pinelli, infatti, lo era stato, giovanissimo. La strategia eversiva della tensione voleva minare la democrazia, limitare la libertà. La manovra fu faticosamente sventata. Ma oggi, i tempi sono più opachi. Vox–Osservatorio dei diritti (con la Sapienza, la Statale e la Cattolica di Milano e Bari) ha esaminato 5700 tweet generati da Milano che contenevano parole sensibili (relative cioè a donne, stranieri, immigrati, omosessuali, ebrei, musulmani): l’80 per cento avevano toni razzisti. L’odio si rovescia sugli immigrati e gli italiani che li difendono e se ne prendono cura. Anzi, spesso sono loro ad essere il vero bersaglio

Il ritorno dei “teocon”, che attaccano il populismo del peronista Bergoglio

Al centro, al centro. Ma fino a un certo punto. S’intensifica il dibattito su cattolici e politica nel nostro Paese dopo il lustro di sospensione imposto da Bergoglio all’inizio del suo pontificato nel 2013, necessario per purificare la Chiesa italiana dagli sconquassi della gestione del cardinale Tarcisio Bertone, emulo destrorso e maldestro del ruinismo interventista.

Epperò, nonostante il tempo passato, sembra non sia cambiato nulla. Nel senso che il paesaggio delle posizioni dei credenti impegnati non assume una sola tonalità di colore ma continua a essere una tavolozza confusa. E non solo perché nei fatti è la Lega clericale di destra (e anti-bergogliana) a fare man bassa di consensi nelle urne tra i cattolici italiani (il 27 per cento dei votanti come raccontato una settimana fa in questa sede).

La confusione, talvolta statica, viene fuori appunto da questo dibattito, come dimostra il convegno organizzato dalla fondazione Magna Carta di Gaetano Quagliariello (senatore indipendente eletto in Forza Italia) sul centenario dell’Appello sturziano dei liberi e forti. Una delle relazioni più puntute contro Bergoglio per dare sostanza e teoria alle posizioni un tempo teocon, l’ha svolta Sandro Magister, decano dei vaticanisti italiani. Magister non solo è ripartito dalla “Ragione creativa” di Ratzinger per cui l’uomo realizza la sua vera libertà quando accetta che non si è creato da sé, ma ha rimesso in mezzo il mito del popolo teorizzato negli anni settanta dal giovane gesuita e peronista Bergoglio. Una sorta di populismo sudamericano che scambia i valori non negoziabili ratzingeriani con la triade fame, povertà e ingiustizie sociali. Come giustamente notato, due posizioni agli antipodi, anche perché la teologia del Papa emerito aggira il problema del mercato e quindi piace da matti ai liberali che rimpiangono Ruini.

In ogni caso, il populismo bergogliano è un buco nero anche per tutti quei sostenitori bergogliani che oggi si schierano tout court contro il populismo italiano ed europeo (seppur diverso dal mito del popolo peronista), denunciano derive autoritarie e soprattutto difendono la tenuta dell’establishment tradizionale. Che tavolozza!

Sbagliata la foto del giudice Russo: il magistrato campano è solo omonimo

Ieri, a corredo del pezzo “Il caso del giudice Russo e il discredito della magistratura”, uscito a pagina 13 del Fatto Quotidiano, abbiamo erroneamente pubblicato la foto del magistrato napoletano Nicola Russo, uno dei giudici che ha condannato in primo grado Silvio Berlusconi per la compravendita dei senatori e che oggi siede nel direttivo della Scuola della magistratura, che non ha nulla a che vedere con il suo omonimo, il giudice del Consiglio di Stato oggetto dell’articolo. Quest’ultimo è indagato nell’inchiesta romana per corruzione giudiziaria per una presunta compravendita di sentenze al massimo vertice della giustizia amministrativa e coinvolto in altre vicende giudiziarie (citate nell’articolo pubblicato ieri).

Ci scusiamo con il dottor Russo, e con i lettori, per la errata pubblicazione della sua foto.

Per sciogliere il nodo Brexit è possibile un altro referendum

La cosa più noiosa che si possa fare nella vita è guardare la vernice mentre si asciuga. La seconda cosa più noiosa è aspettare che la Gran Bretagna emerga dal pasticcio della Brexit da sola. ma ci stiamo arrivando. La sola cosa sbagliata dell’attuale estensione di sette mesi dell’articolo 50, quello che sancisce il divorzio dall’Unione europea, è che il periodo è troppo limitato. Bruxelles avrebbe dovuto concedere molto più tempo.

Per come si stanno evolvendo le cose, ci sarà probabilmente bisogno di una ulteriore proroga a ottobre, almeno sei mesi, per tenere un secondo referendum entro la fine dell’anno o all’inizio della prossima primavera e io spero davvero che si possa raggiungere questo obiettivo senza troppe difficoltà. Se ci sarà il referendum bis, sono piuttosto sicuro che gli elettori britannici voteranno per rimanere nell’Ue, almeno stando agli attuali sondaggi e alle elezioni più recenti.

Perché un secondo referendum dopo quello del 2016 è probabile? Perché, come diceva il celebre detective (britannico) Sherlock Holmes alla fine del suo caso più famoso, “una volta che hai eliminato l’impossibile, ti resta soltanto l’improbabile, che quindi deve essere la verità”.

Negli ultimi mesi, una dopo l’altra, sono state scartate tutte le ipotesi impossibili. L’accordo in versione Theresa May. Il No Deal, cioè l’uscita senza accordo. La possibilità di accordi alternativi. Ora ci è rimasta soltanto l’opzione di un nuovo referendum. Oppure, se il governo si disintegrerà definitivamente, di nuove elezioni politiche che poi sarebbero quasi certamente seguite da un referendum per risolvere la questione della Brexit, visto che le elezioni finirebbero per produrre probabilmente un Parlamento in stallo.

Inutile preoccuparsi troppo della possibilità che Boris Johnson riesca a diventare primo ministro. Il successore di Theresa May, infatti, non potrà prendere vere decisioni politiche sulla Brexit. Una coalizione trasversale al Parlamento ha reclamato la responsabilità di avere l’ultima parola, lasciato al governo un potere esecutivo soltanto nel nome ma non nella sostanza. Questo gruppo trasversale ai partiti guidato dal l’ex-ministro conservatore Dominic Grieve sta già spingendo per un secondo referendum.

Proprio grazie a questo gruppo il Parlamento ha ora la possibilità di votare sull’accordo Brexit. Ed è esattamente in conseguenza di questo che Theresa May è stata prima sconfitta e poi spinta alle dimissioni.

Con un nuovo primo ministro questo gruppo trasversale sarà ancora più forte. Philip Hammond, l’attuale ministro delle Finanze, con altri colleghi rilevanti del gabinetto, è pronto a lasciare il governo e io mi aspetto che presto tutti loro si uniscano al movimento trasversale per il secondo referendum. Anche se la linea dura sulla Brexit di Boris Johnson o Michael Gove ha fruttato loro qualche consenso tra i Conservatori più radicali, non avranno mai la maggioranza in Parlamento quando si discuterà di Brexit.

Ma la ragione fondamentale per cui è impossibile arginare la spinta verso una seconda consultazione dei cittadini è che lasciare l’Unione europea è contro il nostro interesse nazionale. E di questo ormai si sono convinti i tre quarti dei parlamentari britannici.

Il più grande e il più saggio tra i primi ministri del Regno Unito è stato senza dubbio Winston Churchill che non solo salvò l’Europa, ma ispirò l’Unione europea. Nel suo celebre discorso dopo la Seconda guerra mondiale a Zurigo, nel 1946, Churchill invocò gli “Stati Uniti d’Europa”, cioè quello che oggi è l’Unione europea, ed è una tragedia che il partito Conservatore abbia voltato le spalle ai suoi insegnamenti.

Churchill disse, a Zurigo e poi in altre occasioni, che “noi dobbiamo formare una specie di Stati Uniti d’Europa”. Disse “noi”, non “loro”. E le parole conclusive di quel discorso furono in Svizzera: “Speriamo di vedere un’Europa in cui uomini e donne di ogni Paese si sentiranno tanto europei quanto appartenenti al loro Paese di nascita verso il quale conserveranno amore e lealtà”.

Se la politica britannica di oggi volesse comportarsi con saggezza, dovrebbe tornare a quella visione di Churchill. Ma per me la Brexit è anche una questione personale. Mio padre arrivò da Cipro esattamente sessant’anni fa con i suoi fratelli e sorelle adolescenti, per fuggire dalla sanguinosa guerra di indipendenza. Imparò ad amare la Gran Bretagna, e per fortuna, visto che nel giro di pochi anni gli fu preclusa la possibilità di tornare a Cipro a causa dell’invasione della Turchia che tuttora occupa la sua città natale di Famagosta.

Oggi c’è un numero enorme di figli e nipoti di migranti europei, categoria cui appartengo anche io, che hanno scelto la Gran Bretagna come casa. E ce ne sono ancora di più che sono loro amici, parenti, amici, conoscenti. E, posso assicuravelo, tutti loro vogliono rimanere nell’Unione europea. E non vogliono che la Gran Bretagna se ne vada. Io penso che possiamo farcela e sosterrò questa posizione con tutto il popolo britannico nei prossimi mesi.