Messico & Irma: l’ultima chance per vincere la corruzione

Ci sono speranze di sconfiggere la corruzione e l’impunità dello Stato in Messico? La nomina dell’economista dissidente Irma Sandoval Ballesteros al posto chiave di ministro della Funzione pubblica ha creato delle attese. In un colloquio con Mediapart, Irma Sandoval illustra le sue prime decisioni politiche.

Come molti amanti del formaggio, anche Sandoval Ballesteros crede che il gruviera abbia i buchi. La ministra messicana ritiene che lo Stato ereditato dell’ex presidente Enrique Peña Nieto sia appunto uno “stato-gruviera” e che l’economia del paese si perda nei buchi. Le somme assorbite ogni anno dalla corruzione in Messico, secondo un rapporto Ocse di novembre, corrispondono al 10% del prodotto interno lordo (Pil). Inoltre il Messico era, almeno fino al maggio scorso, uno dei rari paesi latino-americani a restare fuori dal colossale scandalo di corruzione legato al gruppo brasiliano Odebrecht: una tangentopoli che ha sprofondato il Perù nell’instabilità politica e ha scosso i governi di Michel Temer in Brasile (2016-2018) e di Lenín Moreno in Ecuador. Niente da segnalare invece né nel Messico di Peña Nieto né nel Venezuela autoritario di Nicolás Maduro. In questo contesto, Sandoval Ballesteros, 47 anni, è una delle personalità su cui il presidente di sinistra conta di più per “sconfiggere la corruzione” e creare una “vera democrazia del diritto, rispettosa dell’opposizione”. È quanto ha ambiziosamente promesso Andrés Manuel López Obrador (Amlo) durante la campagna per le presidenziali da cui è uscito trionfante nel 2018. Nel progetto di nazione della “Quarta trasformazione” formulato da López Obrador, l’amministrazione di Sandoval Ballesteros figura come “perno” delle politiche anti-corruzione, per il consolidamento del sistema di trasparenza e lo sradicamento dello spionaggio illegale nello Stato. Un vasto programma per Irma, figlia di una delle figure centrali della politica messicana, su cui esistono “diversi scatoloni” di fascicoli nei registri dello spionaggio dell’ex Direzione federale per la sicurezza (Dsf, 1947- 1985). Sicuramente Pablo Sandoval Ramirez è stato “per decenni uno dei bersagli prioritari della Direzione federale per la sicurezza”. È quanto afferma la ministra in un’intervista a Mediapart. Sandoval Ballesteros sostiene anche di averne parlato con l’attuale direttore degli archivi Agn, Carlos Ruiz Abreu. Suo padre, leader universitario e sindacale contadino dello stato del Guerrero (sud del Messico), ex dirigente del partito comunista messicano ed ex consigliere nazionale del Partito per la rivoluzione democratica (Prd), è stato spiato sin dai tempi della sua partecipazione al movimento studentesco del ‘68 e almeno fino al 1985, anno a partire dal quale non esistono più registri pubblici degli interventi dei servizi di intelligence.

Il percorso politico del padre, con due custodie cautelari e minacce di morte da parte di un ex governatore dello Stato, ha contribuito a fare della lotta contro lo spionaggio di Stato ai danni della società civile una della priorità di Irma. Tanto più che la ministra è entrata a far parte dell’esecutivo nel dicembre 2018, a due anni esatti da quando è scoppiato il caso di spionaggio nei confronti di giornalisti e attivisti legati al software israeliano Pegasus. “Vieteremo tutte le intercettazioni indiscriminate delle comunicazioni private dei cittadini da parte delle autorità”, ha promesso la ministra durante un forum del 26 marzo, in presenza di ricercatori e attivisti. Nel primo mese del suo arrivo alla Funzione pubblica, più di due milioni di funzionari federali sono stati tenuti a dichiarare i loro patrimoni e i conflitti di interesse. Da allora più di 6.000 procedure di “responsabilizzazione amministrativa” sono state aperte contro dei funzionari dell’amministrazione federale, di cui almeno 400 sono stati sospesi o banditi dalla funzione pubblica, e 112 multe sono state inflitte, per circa 30,6 milioni di euro. Anche i membri del governo hanno dovuto rendere pubblici patrimoni ed eventuali conflitti d’interesse. Amlo l’ha chiesto durante una conferenza stampa, con Irma al suo fianco, a inizio anno. Un membro del governo, Olga María del Carmen Sánchez Cordero, è stata costretta a correggere la versione pubblica della sua dichiarazione patrimoniale per aver omesso, come rivelato dal quotidiano Reforma, di dichiarare una casa di lusso di cui è coproprietaria a Huston, nel Texas. Questa crociata anticorruzione comincia ad attirarsi le critiche dei media che denunciano l’eccesso di “zelo” e il “fondamentalismo anticorruzione” della ministra, che ha annunciato una prima batteria di sanzioni amministrative e finanziarie contro due potenti figure legate all’amministrazione presidenziale precedente: l’ex direttore della compagnia energetica Pemez, Emilio Lozoya Austin, e il suo braccio destro Edgar Torres Garrido: il primo è indagato da maggio anche per il suo presunto coinvolgimento nel sistema di corruzione elettorale del gruppo Odebrecht. Gli uffici di Sandoval Ballesteros indagano anche sul caso di Carlos Lomelí Bolaños, prefetto del governo federale dello Stato di Jalisco. In un’inchiesta recente, l’Ong Méxicanos contra la corrupción y la impunidad (Mcci) ha trovato dei legami tra la famiglia del prefetto e nove aziende farmaceutiche che hanno vinto appalti pubblici milionari per la fornitura di medicinali sotto l’amministrazione Amlo. In un primo momento il presidente ha bocciato l’inchiesta di Mcci definendola una “manovra politica”. Ma alla fine, di fronte alla pressione dell’opinione pubblica, il fascicolo è stato trasferito a Irma Sandoval e la ministra dovrà annunciare, entro giugno, le eventuali misure da prendere contro Carlos Lomelí, come la sua sospensione, e il trasferimento del fascicolo alla giustizia. Gli editorialisti locali parlano di “momento di verità” per la campionessa dell’anticorruzione. Sandoval Ballesteros assicura a Mediapart di aver conservato “la radicalità” della sua gioventù, quando militava del Consiglio generale di sciopero dell’Università nazionale autonoma del Messico (Unam) o di quando era membro dei comitati universitari di sostegno al movimento neozapatista del 1994. È proprio durante una delle “riunioni per l’umanità e contro il neoliberalismo” convocate nel lontano Chiapas dall’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln), 23 anni fa, che Irma incontò l’uomo che diventò suo marito, l’universitario e presentatore televisivo americano John Ackermann. “L’esistenza in Messico di un sistema avanzato di trasparenza di Stato, pilotato dall’Istituto nazionale di accesso all’informazione (Nai), non ha impedito né l’aumento della corruzione né il mantenimento di una politica di spionaggio generalizzata della popolazione – osserva la ministra – I meccanismi attuali ignorano la complessità e i conflitti di interesse che si sono sviluppati con la galoppante privatizzazione dello Stato”. Ecco perché la sua missione non si limita ad individuare, e poi a sanzionare, le malversazioni commesse dagli agenti pubblici. La Sandoval vuole allontanare lo Stato dalle aziende che compromettono le sue amministrazioni per falsare le gare pubbliche e raggirare i regolamenti. La ministra, nata a Acapulco, è convinta che in Messico “la corruzione non viene dallo Stato”. E nessuno può affermarlo più di Irma, la cui carriera sta seguendo un percorso atipico per una donna politica. Prima di entrare nel governo di Amlo, era una docente universitaria politicamente impegnata nel Movimento di rigenerazione nazionale (Morena), il partito del presidente e della maggior parte dei suoi ministri. L’economista dirigeva dalla sua crazione (2005) il Laboratorio di ricerca sulla corruzione e la trasparenza dell’Unam e grazie alle sue ricerche è riuscita a imporsi come pioniera delle analisi “strutturali” della corruzione. È convinta che la progressione vertiginosa della corruzione, in una nazione che figura al 138° posto sui 180 paesi studiati da Transparency International per misurare l’indice di percezione della corruzione (Ipc), è alimentata dal “ritardo della transizione democratica” causato dalla “cooptazione dello Stato e dal fatto che ampie fasce dell’azione pubblica sfuggono alla sorveglianza cittadina e di Stato”. La corruzione è quindi un fenomeno “strutturale” del capitalismo neoliberale. In un articolo che l’ex ricercatrice ha scritto per un centro studi dell’università di Harvard, l’aumento della corruzione è la “conseguenza strutturale” della “proliferazione delle privatizzazioni, delle deleghe di servizi pubblici a terzi e delle partnership pubblico-privato”. Il boom della corruzione sarebbe stato “ancora più incontrollato” nei paesi dove la liberalizzazione non è stata seguita da un controllo pubblico.

La carriera universitaria di Irma è decollata grazie ai suoi interventi presso le università Usa. “L’attenzione – precisa la ministra – si concentrava sulle politiche di sviluppo della cultura della legalità e sulle teorie della responsabilizzazione dello Stato. In quest’ottica, il responsabile della corruzione, nell’ambito del Washington consensus (le misure liberali previste dal Fmi e dalla Banca mondiale negli anni 90, ndr.), era per forza di cose lo Stato: un malato da curare con le privatizzazioni”. “Irma ha contribuito all’emergere di una visione della corruzione come struttura interna al sistema, a differenza di chi la considerava una semplice condotta criminale”, ha sottolineato il professore di Harvard Lawrence Lessig. Per la Sandoval la sorveglianza e le sanzioni dei funzionari messicani sono necessarie e insufficienti: “Il vero motore della lotta alla corruzione – assicura – è nel processo di democratizzazione e di trasformazione del regime. Ecco perché la protezione del whistleblower è una nostra priorità”. Secondo la ministra lo sradicamento della “corruzione strutturale” potrà concretizzarsi solo con l’aiuto di un “esercito di segnalanti”, che lei spera di vedere emergere nel privato, ma anche nel pubblico locale. Non potendo esaminare le denunce provenienti da questi due settori, la ministra tenta comunque, anche se gli strumenti a sua disposizione sono limitati, di appoggiare le iniziative che li incoraggiano. La questione dell’elaborazione di una norma federale che protegga chi segnala illeciti resta però incerta: la proposta di legge a riguardo al Senato federale è di un parlamentare dell’opposizione. Il suo esame continua però a non figurare nell’ordine del giorno del Parlamento, nonostante le due camere siano composte a maggioranza dal partito Morena e dai suoi alleati. Intanto Sandoval sta lavorando all’elaborazione di dispositivi di tutela dei segnalanti nell’ambito del piano annuo di lavoro del comitato di coordinazione del Sistema nazionale anticorruzione (Sna). Ma questo documento non comporta nessun obbligo per i poteri pubblici.

 

Zeffirelli, falso e cattivo: il genio dietro l’immagine perbenista

Mi odiava. Ho fatto per quarant’anni il critico musicale, e ho attaccato alcune regie liriche sue risibili e demagogiche. Perché era un retore. Si fingeva cattolico, figuriamoci. Si fingeva un adepto di “Dio-Patria-Famiglia”. Figuriamoci. Ha fatto il parlamentare per Berlusconi, disprezzandolo: avevano troppi tratti in comune, e Zeffirelli lo fiutava, essendo più intelligente di lui: con quella antipatica intelligenza dei toscani.
Infine, e qui c’è da scompisciarsi: se c’era una recchia, ma proprio una recchia, non un omosessuale (termine clinico che peraltro mi spiace), era lui. Ma da quando s’era costruito un’immagine perbenista, raccontava panzane del tipo: avrei un’inclinazione spirituale ma, da cattolico, non l’ho mai praticata. Si è fatto i più bei ragazzi italiani, dagli anni Cinquanta in poi, etero e omosessuali, preferibilmente etero, e sposati. Gli ospiti della sua villa di Positano venivano portati dal cameriere Dorino nei negozî: costui gabellava di procurare sconti favolosi, faceva pagare i pezzi il doppio e pigliava la stecca dai negozianti. Però tutti (non io) in quella villa sono stati: era ospite generosissimo.

L’ultima volta che parlò di me, dichiarò al Messaggero: “Isotta è un cretino”.

Peccato sia stato tanto ipocrita. Inutilmente. In questo, vedo un tratto di schizofrenia. Come vedo un tratto di psicopatia il suo aver affidato la sua Fondazione in mani non degne.

Lo considerano un Visconti dei poveri. Visconti era un velleitario, un viziato, che ha fatto qualche buona regia teatrale, pochi films degni di sopravvivere, e quasi solo cose ridicole, ridondanti, frutto di un ricco che si credeva Eisenstein e Stanislavskij. Di lui oggi si può davvero vedere Il gattopardo, per l’altezza del romanzo scelto, per la grandezza degli attori, e perché si era innamorato a tal punto di Alain Delon da andare di là da se stesso, riuscendo a un bellissimo film.

Zeffirelli non era un Visconti dei poveri. Era un grandissimo talento. Aveva fatto la gavetta, e conosceva i meccanismi tecnici della regia cinematografica e teatrale molto meglio di quell’enfant gaté, comunista dall’alto del suo patrimonio d’industriale che si faceva ridere dietro da tutti per il suo conato di dichiararsi discendente dai Signori di Milano mentre era solo rampollo di contadini arricchiti. Zeffirelli, almeno, era nato vero monello fiorentino.

Alcune sue regie sono fra i capolavori del teatro di tutti i tempi. La Bohème della Scala rese palese tutto quanto, nella sua reticenza, Puccini nasconde nel suo capolavoro. L’Otello mostra il divario fra una meravigliosa tragedia di Shakespeare e un’Opera ove il vecchio Verdi riesce a indagare lo stesso mistero del Male, inventando il personaggio di Jago che il Bardo intuisce senza sviluppare. Le due Aide, trionfo mondiale, piene della perversione psicologica che Verdi ha saputo inventare nell’eros inteso solo quale sacrificio, ove il personaggio di Amneris, per la quale l’eros coincide con la volontà di potenza, torreggia. E dove, come pochi altri registi, riesce a render plausibile senza farla stucchevole la ricerca archeologica di Verdi, tradotta in musica come in psicologia. Non parliamo del suo Shakespeare al cinema. La bisbetica domata, Romeo e Giulietta.

Era falso, era cattivo (e anche molto buono), era intelligente: anche se faceva il “cretino”. Tutte le parti negative scompaiono con la sua vita. Resta il genio.

 

L’Emilia contro i clan: la speranza sopravvive se l’antimafia è donna

Q uesta è la storia delle due “A”. A come Albertina, A come Antonella. Due donne. Amiche a distanza. La prima abita a Parma ed è graniticamente emiliana. La seconda abita a Palermo ed è altrettanto graniticamente siciliana. Potrebbe essere la premessa di una divertente storia privata ed è invece una storia pubblica, di quelle che lasciano il segno. Perché Albertina (Soliani) è la presidente dell’Istituto Cervi di Gattatico, provincia di Reggio Emilia, uno dei simboli più alti della storia della Resistenza al nazifascismo. Mentre Antonella (De Miro) guida la prefettura di Palermo, uno dei simboli più alti della Resistenza alla mafia. Nessuna delle due è donna vistosa, e nemmeno ambisce a esserlo. Né fisici scolpiti, né arie maliarde o intellettuali. In un mercato tra i banchi di frutta o di insalata, sarebbe anzi difficile distinguerle in mezzo alla massa. Albertina con la sua proverbiale gonna da suora laica, Antonella con i suoi sobri tailleur da professoressa di greco e di latino. Eppure sarebbe anche difficile immaginare nell’Italia di oggi una coppia di donne più affidabile, più combattiva, più in grado di insegnare al Paese il senso delle istituzioni.

Le senti parlare, magari a distanza di ore l’una dall’altra, e ti domandi per quale motivo questa nazione non debba essere guidata da loro. In realtà le due A non hanno sempre vissuto lontano. C’è stato anzi un momento, diciamo un certo numero di anni, in cui si sono trovate fianco a fianco. È accaduto dal 2009 al 2014, e non è stato un periodo particolarmente amato dai clan che si stavano prendendo Reggio Emilia. Perché Antonella De Miro arrivò da prefetto nella città “più rossa d’Italia” e sentì subito l’odore di mafia che la classe dirigente reggiana non sentiva o preferiva non sentire. E fece funzionare senza paura l’istituto dell’interdittiva, provvedimento che consente di escludere dagli appalti pubblici le imprese in odore (appunto) di mafia. Erano gli anni del terremoto e della ricostruzione, o dell’alta velocità, in un contesto in cui movimento terra ed edilizia erano già “sotto controllo” delle imprese dei clan o delle imprese colluse. Antonella costrinse la città a fare i conti con se stessa, spiegò che lei, da siciliana, la mafia la riconosceva subito. Chi ha seguito il processo Aemilia l’ha sentita spesso maledire dal pubblico dei parenti degli imputati.

Chi invece non l’ha maledetta ma l’ha vissuta come amica è stata proprio la cattolicissima Albertina, un passato da senatrice e anche da sottosegretario all’Istruzione nel primo governo Prodi. La quale uno spiccato e scomodo senso della legalità se lo porta dietro da sempre. Una foto galeotta del febbraio del 2002 la riprende sul palco allestito in piazza Navona dal manipolo di parlamentari del comitato “La legge è uguale per tutti”, proprio mentre Nanni Moretti tuona dal microfono “con questi dirigenti non vinceremo mai”. E non è certo cambiata all’Istituto Cervi. A Reggio le due A si sono date la mano e confidate speranze e preoccupazioni. E, pur venendo da storie e retroterra così diversi, si sono ritrovate su un principio più volte ripetuto da palchi e microfoni: che come si era ribellata al nazifascismo l’Emilia avrebbe dovuto ribellarsi alla mafia. Che la terra dei fratelli Cervi non poteva finire nelle mani della ‘ndrangheta. Principi non straordinari o da geni della comunicazione di massa. Ma semplici, istintivi. Eppure, nell’afasia generale, schioccanti come fruste. L’altro giorno, alla libreria Ambasciatori di Bologna, l’Albertina l’ha ripetuto. Con una forza e un’intensità particolari. Gonna blu monasteriale, camicetta fantasia in tinta, ha detto che l’Emilia deve reagire, che non si possono perdere più nemmeno i mesi, che la politica non può trastullarsi con i drammi del presente e che il popolo emiliano deve interrogarsi molto e infine ribellarsi.

Che forse ha sbagliato per un malinteso senso di solidarietà verso chi veniva da regioni lontane, ma che le imprese devono recidere l’alleanza con i clan che abbassano i costi. Parlava con pathos lucidissimo, e ha ricordato l’amica, l’Antonella e il suo rigore, quando ha sciolto il comune di Brescello con le prove di convenienza e compiacenza, acquiescenza e accondiscendenza. Ritratto di una cultura, mica di un reato, perciò tanto più pesante. Guardavo e ascoltavo. E pensavo che se l’antimafia è donna, e sempre più lo è, queste due donne sono l’immagine dell’antimafia migliore. Loro, le due A, l’asse del vero cambiamento possibile.

Slip piombati, il doping al bridge: le follie da gara

Giusto un anno fa, il tribunale antidoping squalificava (per otto mesi) la pediatra Anna Licursi, già campionessa italiana di bridge. La “dopata”, sofferente di ipertensione, usava un diuretico, il Clortalidone, che la Wada considera “coprente”.
È un mondo ferocissimo, quello del bridge. Stop a Daniela Pimpinella, rea di “aver mandato affanculo” il compagno di gioco Calviani Giuseppe.
E questo – dice il giudice sportivo – “successivamente a pesanti critiche ricevute da quest’ultimo per un errore di gioco”. E poi di suo, il Calviani, stinco di santo non è: ha la pena più pesante, 2 mesi, per aver bestemmiato al tavolo (“porco D… e porca M…”), per giunta recidivo, motivati con un trattato di teologia deduttiva: “Ancorché le bestemmie – per i credenti – possano costituire una ulteriore prova dell’esistenza di Dio, l’averle profferite durante lo svolgimento di una gara sportiva e ben udite dall’intera sala, è comportamento disdicevole e rilevante sotto il profilo disciplinare”.

Due azzurri di sciabola del gruppo sportivo carabinieri, Alberto Fornasir e Stefano Stigliano, sono stati squalificati per aver rasato a zero il minorenne Alessandro Conversi, ad uno stage federale della categoria under 20. Rivero Pereda Raul Jose, della Fortitudo Baseball Club, ha lanciato la palla contro un battitore avversario, girato, “colpendolo”. Non si salvano nemmeno le bocce. Andrea Carlin, della Bocciofila Dolada Seribell, espulso, ha reagito con un “va fa nculo arbitro”. Poi, nel ricorso, ha scritto che “non ho pronunciato frasi offensive verso la persona o qual si voglia forma ingiuria verbale o animata”. Non gli hanno creduto, chissà perché.

La federazione Ginnastica stanga Laura Vernizzi, dipinta come un kapò dalle sue allieve, per i metodi di allenamento “aggressivi, gravosi e vessatori nei confronti delle atlete minorenni, con comportamento ingiuriosi, diffamatori e umilianti”. Le è fatale “un colpo di clavetta al braccio di una allieva”. Luca Perino, judoka sconfitto, a suo dire ingiustamente, si è rifiutato di stringere la mano all’avversario (tipo sacrilegio, in questa disciplina) e rivolto alla giuria, ha gridato a squarciagola: “Non capiteeeee un cazzoooooooo”.

Il karateka Cristiano Altamura non riusciva a raggiungere il peso della sua categoria (94 chili). I giudici, con occhi di lince, “notavano un rigonfiamento all’altezza del bacino, sotto il pantalone del karategi e invitato ad abbassare il pantalone, si riscontrava che all’interno degli slip aveva dei pesetti visibili”. Ripresentatosi dopo 20 minuti, sempre con rigonfiamento e pesetti “ma meno di prima”. È finita con Altamura che “inviava maledizioni agli addetti alle operazioni di peso”.

Campionato regionale umbro di motocross. Il centauro Alceste Pallotta entra nella sala stampa e si rivolge al vice presidente federale Giuseppe Bartolucci, che segue la gara attraverso un monitor: “Bisogna squalificare alcuni piloti perché non hanno rispettato le bandiere gialle”. Il vice presidente Bartolucci gli dice di rivolgersi al commissario o al direttore di gara. Pochi minuti e sulla chat collettiva, Pallotta pubblica questo ecumenico messaggio: “Siccome mi sono rotto i coglioni di venire fino in palazzina a vederti mangiare la porchetta, come dirigente Fmi saresti pregato di alzare le chiappe e metterti a bordo pista. A Grottazzolina sono stato squalificato per presunto salto con bandiere gialle, oggi si è ripetuta la stessa cosa, ma se ti stai grattando i coglioni aspettando i nostri soldi, fai solo una magra figura”. Si sappia che anche Gianfranco Di Sante è stato squalificato per due gare dal campionato italiano a coppia di pesca alla trota con esche naturali 2019. Non essendo spiegato meglio, vattelappesca perché.

Gara di Triathlon giovanile. In testa, dopo nuoto e bici, c’è Jacopo Bellucci, con buon vantaggio. Prima di iniziare la corsa finale, Michele Mondini, tecnico federale che è a bordo strada, lo invita a posizionare meglio la bici, poi il casco, il vantaggio sfuma e Jacopo finisce terzo. Sei mesi di stop a Mondini, perché “non era giudice di gara e le intimazioni erano solo volte a cercare un illecito sportivo”. Un impiccione, insomma. Si chiude con la manifestazione “Due giorni del mare”, organizzato dalla Cicli Abilia, corsa paralimpica. Ci sono pochi cronometristi ed è impossibile rilevare con precisione l’ordine di arrivo, così i giudici decidono di annullare la cronometro e compilare le classifiche solo sulla base della prova su strada. Apriti cielo, piovono ricorsi e controricorsi. Memorabile il passaggio del giudice sportivo, quando dice che “nella categoria tandem era stata inserita nella classifica una coppia il cui doppiaggio non era stato rilevato”. Vero che gli ultimi saranno i primi, ma mica quaggiù.

A Firenze contano solo i soldi: il centro storico ai privati

“Firenze città martire”, frigna sul Foglio il solito cialtrone iracondo. E non ce l’ha con il Giglio magico dei figli di trojan le cui trame notturne stanno svelando anche ai ciechi la vera natura del loro comitato d’affari. “Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande, / che per mare e per terra batti l’ali, / e per lo ’nferno tuo nome si spande! /Tra li ladron trovai cinque cotali / tuoi cittadini onde mi ven vergogna, / e tu in grande orranza non ne sali”. No, il martirio consisterebbe nella ventilata soppressione del- l’autonomia della Galleria dell’Accademia, dove legioni di turisti sudano sotto il Pisello di Marmo. Gli argomenti? Uno solo: i quattrini. L’Accademia autonoma ha fatto il 22 % in più di sbigliettamento: e dunque Franceschini santo subito.

Il sindaco Nardella, appena trionfalmente rieletto (“Fiorenza mia … Or ti fa lieta, ché tu n’hai ben onde: tu ricca, tu con pace e tu con senno!”), ha tuonato: “Abolire l’autonomia dei musei? Sarebbe un colpo mortale”. E il Corriere Fiorentino, dorso locale pressoché clandestino del Corriere, non smette di eruttare editoriali vibranti di indignazione, con un solo argomento: “Prima di imboccare una strada precisa e stilare un documento così radicalmente orientato, non sarebbe stato ragionevole approfondire gli effetti della riforma in vigore, in tutti i suoi risvolti? … I ricavi delle Gallerie degli Uffizi sono passati in quattro anni da 8 milioni e 226.064 euro a 18 milioni e 784.164; quelli dell’Accademia da 5 milioni 946.402 a 9 milioni 192.753”.

Dunque i musei devono essere misurati come aziende: sul fatturato. Curioso che, nella stessa Firenze, il mondo dell’impresa che, sul suo giornaletto, si straccia le vesti contro la riforma Bonisoli sia radicalmente incapace di fare il proprio, di mestiere. Falliscono i fratelli Alinari: e non si trova uno straccio di imprenditore capace di comprare e rilanciare un formidabile strumento di impresa culturale. No, per salvare quel patrimonio si dovrà svenare la Regione: come è lo Stato che ha dovuto comprare quel Museo Ginori che la Kering, colosso della moda che abusa ogni giorno del nome di Firenze, aveva lasciato andare in rovina.

Firenze non ha un’impresa degna di questo nome. Ha solo la rendita di un turismo selvaggio: 28.000 al giorno contro 18.000 residenti del centro storico. Una marcia forzata verso la morte di cui muore Venezia. Una corsa a rotta di collo verso la totale gentrificazione, cioè verso la creazione della città dei ricchi costruita attraverso l’espulsione dei residenti. In un palazzo della piazza in cui abito un appartamento è stato appena frazionato in sei (!) unità: sei loculi per Airbnb. E sulla facciata del mio, di palazzo, la settimana scorsa è apparsa una scritta: “Turist go home”. Una protesta (così l’ha intesa il Comune, che purtroppo l’ha cancellata con insolita efficienza), o forse un’indicazione turistica, visto che su 5 appartamenti del mio palazzo uno è un bed and breakfast e un altro un Airbnb.

La pressione mostruosa del turismo e la totale assenza di ogni visione e progetto di città hanno stravolto la vita culturale dei fiorentini. Nel centro storico non ci sono più cinema: di questi giorni la notizia che l’ultimo possibile, l’Eolo, si trasformerà – come ogni buco libero – in hotel e ristorante. Il Teatro Nazionale sta diventando una spa di lusso. Un rosario devastante di colpi mortali a ogni idea di residenza culturale: come dimenticare in questi giorni l’idea demenziale di regalare l’ex Tribunale, il complesso monumentale di San Firenze, alla fondazione di Zeffirelli, pace all’anima sua. “Quando nei volti vili della città nemica / leggo la morte seconda / e tutto, anche ricordare, è invano” (Franco Fortini, su Firenze).

Se l’Arno fosse abbastanza largo, le Grandi Navi che umiliano Venezia sarebbero invitate a costeggiare gli Uffizi: e già oggi i fuochi d’artificio festeggiano a tutte le ore le sfilate di Pitti che sciamano nelle strade di un centro senza più un abitante, ma decorate con drappi di stoffe preziose il cui cattivo gusto è pari solo alla funebre fanfaronaggine della retorica sulla ‘culla del Rinascimento’ che vezzeggia quella che ne sembrai ormai piuttosto la desolata tomba. “Sono così pazzo – diceva Tiziano Terzani – che per protestare contro il degrado di Firenze e della mia amata via Tornabuoni, dove una delle più belle librerie di Firenze, la Seeber, è stata sostituita da un negozio che vende mutande firmate, ogni volta che ci passo davanti apro la porta e urlo dentro: Vergogna!”

E in tutto questo, i musei autonomi? Hanno drenato fiumi di denaro ed energia a tutti gli altri musei fiorentini. E perché, qualcuno mi deve spiegare, togliere ora l’autonomia alla Casa del Pisello di Marmo sarebbe un colpo mortale, e invece averla negata, per dire, al Museo di San Marco andava bene?

Ma, soprattutto, qualcuno si è chiesto cosa abbiano fatto, per esempio, gli Uffizi autonomi per la città? Dico oltre al fatturato, ai selfie del direttore con Russel Crowe e ai festini privati a Palazzo Pitti?

Qualcuno si chiede perché nessuna famiglia fiorentina ci vada più, agli Uffizi, che hanno aumentato il costo del biglietto in modo irresponsabile (ah, il fatturato!)? E perché le scuole ne sfuggano come la peste?

Qualcuno si chiede perché i musei autonomi fiorentini siano usciti fuori dai radar della ricerca internazionale? Qualcuno discute gli allestimenti nuovi degli Uffizi: inutili, costosissimi, museograficamente sbagliati, esteticamente orrendi?

No, perché nessuno a Firenze ricorda più che cosa ci sia, in un museo. A parte la biglietteria, ovviamente.

“Il pubblico deve tornare appetibile, in molti fuggono”

“Posticipare di poco l’età pensionabile dei medici per affrontare l’emergenza”. Un’idea che andrebbe presa in considerazione secondo Pierpaolo Sileri (M5S), presidente della commissione Sanità in Senato, in questa fase di carenza negli ospedali.

Onorevole Sileri, abbiamo già perso 10 mila medici ed entro il 2025 ne mancheranno altri 16.700. L’immissione degli specializzandi dal penultimo anno sarà risolutivo?

Sicuramente è un enorme passo avanti per risolvere una situazione causata dall’errata programmazione degli anni passati. L’immissione nel mercato del lavoro degli specializzandi, con l’aumento delle borse di specializzazione, 1.800 in più e 840 per la medicina generale, e lo sblocco del turn over rimetteranno in marcia un sistema fermo. In ultima istanza, si potrebbe valutare l’ipotesi di posticipare di pochi anni la pensione per i medici, prolungare l’età pensionabile per far fronte a un’emergenza.

Le borse di specializzazione sono state portate a 8 mila, ma per sbloccare l’imbuto formativo ne servono 10 mila all’anno…

È un’idea che dovranno valutare ministero della Salute e Miur.

Per i sindacati, il servizio sanitario nazionale rischia di essere poco attrattivo per i giovani specialisti. Cosa si può fare per spingerli nel pubblico in Italia?

Rispondo da medico prestato alla politica: so che significa lavorare nel pubblico, la situazione poi varia da regione a regione. Laddove c’è stato il blocco del turn-over i medici hanno sofferto carenza di personale e turni massacranti. I numerosi e spesso incomprensibili tagli hanno aggravato le condizioni lavorative. Per rendere più attrattivo il pubblico è necessario assicurare condizioni migliori di lavoro e valorizzare il lavoro stesso: deve essere rinnovato il contratto dei medici.

Basterà aumentare gli stipendi?

Bisogna anche agire per il contenzioso medico-legale che, sommato ai fattori citati, allontana i medici dal Servizio sanitario nazionale, anche sul finire di carriera. Medici che scelgono di andare nel privato. Non va dimenticato che ci sono sì concorsi che vanno deserti, ma che in altri si presentano a decine quando magari ci sono solo due posti disponibili.

C’è chi dice che gli specializzandi al penultimo anno non siano ancora pronti. Metterli al lavoro potrebbe aumentare le cause civili contro lo Stato?

Obiezione sensata, ma bisogna ricordarsi che lo specializzando è già un medico abilitato a tutti gli effetti. È fondamentale a mio avviso il ruolo del consiglio della scuola di specializzazione e la valutazione del percorso formativo del candidato per definire la sua maturità lavorativa. Maturità e completezza lavorativa da raggiungere solo in quelle strutture appartenenti alla rete formativa.

La maggioranza vuole riformare la formazione? Come vedrebbe la nascita di contratti di formazione-lavoro e il coinvolgimento di ospedali di apprendimento?

Il contratto per la scuola di specializzazione è già una sorta di formazione-lavoro. Creare ospedali di distretto collegati con l’università è necessario per formare quanti più medici possibili, ma con standard definiti e di qualità alta. Personalmente, dunque, sarei più che favorevole, sempre nell’ambito di reti formative universitarie o di ospedali affiliati, validati come idonei alla formazione con monitoraggio continuo per qualità e volume dell’offerta formativa.

2025, corsie vuote: Pronto soccorso senza 4mila medici

Sono quasi dieci anni che si parla di come i nostri ospedali pubblici si stiano svuotando di medici. La stretta sui fondi alla sanità, scelta presa dai governi dopo lo scoppio della crisi del 2008, ci ha già fatto perdere 10 mila camici bianchi. Entro il 2025, in 52 mila andranno in pensione – anche grazie a Quota 100 – mentre mantenendo gli attuali ritmi di reclutamento ne entrerebbero solo 36 mila. Questo porterà l’ammanco a oltre 26 mila, con l’effetto di indebolire ancora il servizio sanitario nazionale e di renderlo sempre meno capace di rispondere alle esigenze di una popolazione che invecchia.

Meno assistenza ai bimbi e per le cure in emergenza

A essere penalizzati saranno soprattutto i pronto soccorso, ma anche pediatria, medicina interna, anestesia, rianimazione e chirurgia. In questi giorni il governo è impegnato nel tentativo di tamponare questa emergenza con una norma contenuta nel decreto Calabria. Il provvedimento, che è all’esame del Senato, prevede un paio di novità importanti. La prima è lo sblocco del turn-over, il quale permetterà di far saltare il tappo che in questi anni ha limitato gli ingressi. La seconda è la possibilità di assumere con contratti a tempo determinato gli specializzandi a partire dal penultimo anno del corso di studi; mettere a lavoro con due anni di anticipo i quasi-specialisti, insomma. Una soluzione che sulla carta avrebbe la capacità di dare una grossa mano, perché permetterebbe 12 mila arruolamenti solo nel corso di quest’anno, ma che è stata molto criticata dalla Conferenza dei rettori universitari italiani (Crui) in quanto ritiene sia incostituzionale. A prescindere da come la si pensi su questo punto, si tratta comunque di una toppa, che tra l’altro potrebbe non essere incisiva in tutti i territori e in tutte le aree. Il motivo è che oggi la carenza di medici non dipende solo dalla quantità di sanitari ammessi alla specialistica, ma anche dalla distribuzione tra le diverse tipologie. Questo è conseguenza delle scelte individuali dei giovani dottori, che come tali sono difficili da controllare o indirizzare. Secondo il sindacato Anaao-Assomed, però, bisognerebbe innanzitutto incentivarli a optare per il servizio sanitario garantendo stipendi in linea con gli altri paesi europei e possibilità di avanzamenti di carriera. E soprattutto retribuendo in modo adeguato il disagio, i turni notturni e le mansioni pericolose. Questo spingerebbe più ragazzi a scegliere settori come la medicina di emergenza e urgenza, che come detto è quello più esposto allo svuotamento.

Il meridione sempre più penalizzato

Nelle stanze dei pronto soccorso, secondo lo studio redatto dall’Anaao, la carenza per le mancate sostituzioni dei pensionati arriverà 4.241 unità nel 2025. In Campania mancheranno ben 800 specialisti di quest’area, nel Lazio 544, in Puglia 498, in Sicilia 356. Insomma, a essere colpito sarebbe soprattutto il Sud, mentre nelle strutture al Nord il gap di personale sarebbe un po’ più contenuto. A salvarsi saranno solo l’Umbria, oltre che le Regioni più piccole, ovvero il Molise e la Valle d’Aosta. Al secondo posto della classifica di chi subirà le maggiori conseguenze è la pediatria, che registrerà tra sei anni un ammanco di 3.394 camici bianchi. In questo caso la distribuzione geografica è più composita, perché la più colpita sarà la Lombardia, con 510 caselle vuote, seguita dalla Sicilia con 471 e dalla Toscana con 329. Il territorio attorno a Milano sarà il più sfortunato anche per la medicina interna, con un buco da 377 specialisti. Se la passeranno male anche l’Emilia Romagna (238) e la Toscana (202).

Tutti questi numeri derivano dalla fotografia scattata prima che arrivasse il decreto Calabria. Quindi saranno mitigati, non si sa ancora in che misura, dall’immissione di specializzandi al penultimo anno. Ma, secondo i sindacati, la strada per risolvere la situazione è ancora lunga. Fino a oggi, ogni Regione aveva un limite di spesa per il personale sanitario, pari a quanto speso nel 2004 meno l’1,4%. Ora invece il parametro che costituirà il limite massimo sarà la cifra investita nel 2018 e aumentata ogni anno di una somma pari al 5% dell’incremento del fondo sanitario regionale. “Questo penalizzerà le regioni che in questi anni sono state sottoposte a piano di rientro – afferma Carlo Palermo, segretario nazionale Anaao Assomed – Molti dei 10 mila medici mancanti sono in Sicilia, Campania, Puglia, Calabria”. In sostanza, si prende come riferimento un livello di spesa al quale si è arrivati dopo anni di tagli. Quindi un punto di partenza che sarà ancora basso soprattutto per chi ha dovuto contenersi per risanare i bilanci. Questi risparmi, secondo una stima della Fp Cgil, hanno portato gli organici del comparto sanità (non solo i medici) a ridursi di 43 mila unità tra il 2007 e il 2017.

L’imbuto dopo l’università. Specializzazione per pochi

Parallelo al problema delle corsie vuote c’è quello del cosiddetto imbuto formativo. Cioè della schiera di laureati in medicina che non sono riusciti a entrare nelle scuole di specializzazione, a causa dei pochi posti disponibili, e sono fermi. Al momento ne abbiamo 8 mila, ma molti si aspettano che superino i 10 mila con il prossimo concorso.

Lo stato Italiano ha speso 150 mila euro per ognuno – a tanto ammonta la spesa pubblica per un laureato – ma ora non dà loro la possibilità di far fruttare le competenze acquisite all’università tenendoli fuori dalle specializzazioni. Ogni anno la facoltà di Medicina sforna quasi 10 mila nuovi dottori. I posti banditi nelle scuole post-laurea fino allo scorso anno erano solo 6.100. A partire dal 2019 il governo li ha aumentati fino ad arrivare ad 8 mila, ai quali si sommano i 2 mila per medicina generale. Questo vuol dire che nei prossimi anni ci sarà equilibrio tra numero di laureati e numero di borse per le specializzazioni.

“Secondo noi andrebbero comunque ancora aumentate – dice Carlo Palermo – per assorbire chi è rimasto fuori per l’imbuto formativo degli scorsi anni”. Tra l’altro, avere 10 mila posti per specializzandi non dà la certezza che tutti loro, una volta terminati gli studi, andranno a lavorare per il servizio pubblico. “Alcuni sceglieranno il privato, altri l’estero. Qui da noi nei primi cinque anni di carriera si prendono 2.300 euro, negli altri Paesi europei si guadagna circa il doppio”.

Inoltre nell’ultima legge di stabilità la Lega ha fatto inserire l’estensione dell’aliquota minima al 15% per le partite iva fino a 65 mila euro di reddito. Quella che impropriamente viene definita “flat tax”, perché permangono gli altri scaglioni, finisce comunque per creare un incentivo alla libera professione, che quindi può indurre i medici a preferire il vantaggio fiscale piuttosto che un percorso da dipendenti del servizio sanitario pubblico nazionale.

Sarri alla Juve: pace a chi sognava Pep

G uardiola alla Juventus: continueremo a sentirlo dire anche ora che la Juventus ha ufficializzato l’ingaggio di Sarri? Noi non ci meraviglieremmo. Di certo, una balla sesquipedale come quella di Pep che sulla panchina bianconera sostituisce Allegri, così incredibile, così inaudita, il Pianeta del Pallone italico non la propinava ai suoi gonzi abitanti da decenni. Ma così è. Per chi conosce l’allenatore catalano, Pep alla Juve era l’assurdo fatto notizia. Per una serie di motivi che oggi, a telenovela conclusa, meritano di essere ricordati.

Serietà. Guardiola è un uomo solenne. Un programmatore coscienzioso che ama stare nei club a lungo per plasmare e realizzare i propri progetti. Così fece a Barcellona dal 2008 (3 titoli e 2 Champions); non sentendosi amato restò tre sole stagioni al Bayern a dispetto dei tre titoli conquistati; e non si fermerà meno di 5 anni a Manchester (3 sono già trascorsi con 2 titoli e uno storico triplete nazionale) dove Pep, invece, si sente un papa.

Amici. A Manchester Pep è stato chiamato da due persone che definire amici è dire poco: per lui sono fratelli. Uno è Txiki Begiristain, 54 anni, ex giocatore del Barça di Cruijff ed ex ds ai tempi del tiqui-taka di Guardiola, oggi direttore sportivo del City; l’altro è Ferran Soriano, 52 anni, ex vice presidente del Barcellona e oggi ad del club. Lui non li tradirebbe mai. Cresciuti a Cruijff e tiqui-taka, i tres amigos vogliono portare il City a risplendere nel mondo come già fece il Barça di Guardiola, quello di Messi, Xavi e Iniesta.

Catalogna. Per mettere l’amico Pep a suo agio, Serrano e Begiristain non hanno esitato a fare di Manchester sponda-City una nuova Barcellona e una nuova Catalogna. Nell’organigramma troviamo solo spagnoli: Arteta vice allenatore, Borrell secondo vice, Mancisdor allenatore dei portieri, Buenaventura preparatore, Planchart analista video, Mauri medico sociale, Estiarte advisor. Se parlate catalano, al City vi troverete a casa.

Comandamenti. Giusto o sbagliato che sia, Guardiola è un visionario. Se Agnelli ripete da sempre, a mo’ di disco rotto, che “vincere è l’unica cosa che conta”, a Pep vincere per vincere non interessa. Per lui, emulo di Sacchi, l’unica cosa che conta è vincere giocando bene. Dopo una difficile stagione d’esordio il City ha cominciato a “barcellonizzarsi”: due titoli, l’ultimo davanti al mirabolante Liverpool di Klopp, ma ancora niente Champions. Pep vuole provarci.

Educazione. “Dagli Under 8 in su l’obiettivo della Juventus è solo uno: vincere”, ha ribadito mesi fa Agnelli. Forse è il caso che il boss smetta di dirlo (e di pensarlo); per Guardiola, dagli Under 8 in su l’obiettivo è imparare a giocar bene al calcio: anche i pulcini devono ricevere l’educazione al bel gioco. Già, l’educazione. Che per Pep è importante: lui non accetterebbe mai, per dire, di allenare un club i cui tifosi urlano “Merda!” a ogni rinvio del portiere avversario.

Reset. E insomma, concludendo: la Juve, che è una delle squadre più vecchie d’Europa, se davvero aspira un giorno a ingaggiare Pep, è il caso che si dia una mossa. Ringiovanendosi, innanzitutto, e poi mandando i dirigenti a scuola serale di Nuovo Modo Di Intendere Il Calcio. C’è un Dna da cambiare. Perchè Pep vuole vincere, sì, ma per merito. Bravura. Bellezza.

La Cgil passa dal rosso al verde: quasi la metà simpatizza Lega

Piazze rosse, urne verdi. Pietro Nenni forse spiegherebbe così il paradosso della Cgil: mentre il segretario Maurizio Landini lancia l’idea di uno sciopero generale contro il governo, una ricerca Ipsos mostra come alle elezioni europee quasi il 40% dei tesserati abbia votato per i gialloverdi, con un gradimento personale per Matteo Salvini pari al 44%. Numeri da un think tank di destra, più che da sindacato di sinistra.

Beninteso: di voto operaio alla Lega si parla ormai da decenni, ma la voragine tra la voce della segreteria e i dati delle urne è oggi amplificata da un contesto politico senza precedenti. A spiegarlo è Sergio Cofferati, che della Cgil è stato il leader dal 1994 al 2002: “Molti tesserati votavano già la Lega di Bossi, ma il fenomeno era circoscritto a Lombardia, Veneto e parte del Piemonte”. Poi è arrivata la svolta nazionalista di Salvini, anche tra gli iscritti. E così alle ultime europee il Pd è stato ancora il primo partito tra i tesserati Cgil, con il 44,8%, ma la Lega è salita al 18,5 dal 10% di un anno fa, tallonando il M5S al 19,9. Risultati che fanno il paio con gli indici di gradimento di Giuseppe Conte (58%), Luigi Di Maio (39) e del già citato Salvini (44). Giovedì scorso, ospite a Otto e mezzo, Landini ha glissato sull’argomento, rivendicando come la maggioranza degli iscritti sia ancora contro il governo. Chi gli è stato vicino in questi giorni giura che il segretario non ne fa una questione personale: “Più che chiedersi perché gli iscritti votino Lega – riferisce chi gli ha parlato– vorrebbe che ci si domandasse perché chi vota Lega è iscritto alla Cgil”. Una fuga in avanti per leggere i dati alla luce del pragmatismo: i lavoratori si iscrivono alla Cgil perché ritengono li rappresenti meglio sul lavoro e allo stesso modo votano gialloverde perché credono siano la miglior soluzione per il Paese. Ogni ideologia rimane fuori, contano rapporti di fiducia e il criterio dell’utile. Una spiegazione del genere se la dà anche Gianfranco Pasquino, politologo con un passato nella Sinistra Indipendente: “Salvini si è impadronito di due temi chiave per i tesserati: l’immigrazione, che viene descritta anche come una sfida occupazionale”. Tradotto: se la Lega assicura di proteggere i posti di lavoro dall’avanzata straniera, anche chi ha la tessera Cgil si sente più rassicurato. “L’altra questione è la sicurezza: probabilmente molti operai o pensionati iscritti ai sindacati sentono questa esigenza. Io non condivido le risposte che dà Salvini, ma almeno, a differenza della sinistra, alcune risposte le dà”.

Legittimo, a questo punto, obiettare che non ci sia alcun problema se gli iscritti a un sindacato – che comunque rivendica la propria autonomia dai partiti – simpatizzano per un leader lontano dall’area di riferimento della propria rappresentanza. Sergio Cofferati, per esempio, ricorda una certa ragion di Stato: “Nel ’94 contestammo in piazza la riforma delle pensioni di Berlusconi. Fu una protesta molto ampia, ma che ebbe la sua sostanza in Parlamento nella Lega, che ritirò la fiducia a Berlusconi e fece cadere il governo”.

Sullo stesso solco Mattia Forni, ricercatore Ipsos: “Il sindacato viene sempre più percepito come un fornitore di servizi, più che come un trasmettitore di valori o un contenitore politico. Per cui non c’è incoerenza, secondo i tesserati, a far parte della Cgil, aprezzandone l’aiuto sul lavoro, per quel che vediamo, e poi votare a destra”. Ma secondo Ivan Pedretti, segretario del Sindacato Pensionati Italiani Cgil, nella deriva verde dei lavoratori c’è invece un’anomalia: “Il tema per noi non è per chi votano gli iscritti, ma se i valori espressi da quella forza politica sono in contraddizione con quelli del sindacato. E la Lega spesso si contrappone alle idee di solidarietà, inclusione sociale, tolleranza, diritti delle donne che per noi sono fondamentali”. Che fare, allora, per invertire la tendenza? “Bisogna confrontarci con i lavoratori per riaffermare i nostri valori. Il sindacato deve tornare a essere un punto di riferimento nel territorio, costruendo relazioni sociali e aiutando la gente nel concreto”. E quindi una mano “per gli asili nido, il risanamento urbano, piattaforme logistiche per i più anziani (ascensori, scale mobili in città)” e tutta la fetta di welfare di cui può farsi carico un sindacato.

Qui è mancata la Cgil, secondo Pedretti, ma forse qui stanno anche le colpe dei partiti di sinistra, che “dovrebbero sentirsi addosso questa responsabilità – Cofferati dixit – perché se un lavoratore Cgil oggi vota Lega vuol dire che non vede nel Pd ipotesi di soluzioni ai suoi problemi”. E questa, oltre che un tema di identità, può essere una questione elettorale: “I dem devono preoccuparsi – sostiene Pasquino – perché se perde quel bacino di voti diventa difficile uscire da quel 20-22%. Ma deve smetterla di dire soltanto che non va bene quel che fa Salvini, limitandosi a demonizzare la destra”.