Dall’uncino ai razzi, oggi la pirateria è industriale

Quando Emilio Salgari nel 1898 diede alle stampe il suo Corsaro Nero, le avventure della filibusta avevano un’aura romantica. Oggi la pirateria è un business che gioca sulla miseria di molte nazioni africane, promette un futuro a molti giovani senza speranza ma consente di arricchirsi davvero solo a pochi capi di grandi organizzazioni criminali internazionali.

Lo dimostra la ricerca “Pirateria marittima al largo delle coste dell’Africa: l’impatto sulla Ue e quello globale” pubblicata a marzo da Eric Pichon e Marian Pietsch per l’European Parliamentary Research Service (Eprs), il servizio studi del Parlamento Europeo. L’interesse di Bruxelles è chiaro: nel 2015, il 48% dell’export e il 53% dell’import Ue ha viaggiato via mare. Gli armatori europei controllano il 30% delle navi mercantili mondiali e circa il 35% del tonnellaggio globale, valore che sale al 55% per le navi portacontainer, gestendo il 42% del valore dei traffici marittimi mondiali. Se oltre l’80% del commercio mondiale è via mare, nel caso africano l’import-export viaggia su nave per oltre il 90%.

Secondo l’Ufficio marittimo internazionale dell’Organizzazione mondiale delle Camere di commercio, gli attacchi tentati e quelli realizzati dai pirati fuori dalle 12 miglia marine che segnano il limite delle acque territoriali nell’ultimo decennio sono calati. Rispetto al 2010, lo scorso anno gli assalti si sono dimezzati a 201 ma sono tornati a crescere rispetto al 2017 e si ritiene che molti attacchi andati a segno, specie quelli di minore impatto, non siano denunciati per non far aumentare i costi assicurativi. La mappa del fenomeno è cambiata: nei primi anni Duemila i pirati somali infuriavano nell’Oceano Indiano, oggi i pericoli maggiori sono nelle acque atlantiche del Golfo di Guinea. Resta stabile invece il rischio che pende sulle oltre 120mila navi che ogni anno attraversano gli 800 chilometri dello Stretto di Malacca, tra la Malesia e Sumatra. Secondo il rapporto “L’economia della pirateria nell’Asia sudorientale”, pubblicato da Karsten von Hoesslin per l’organizzazione non governativa Global Initiative against Transnational Organized Crime, tra il 1993 e il 2015 quasi il 60% di tutti gli attacchi mondiali si erano verificati in Asia, due terzi dei quali in Asia sudorientale, con l’Indonesia che da sola “valeva” il 23% della pirateria mondiale. Poi però le marine militari di Malesia, Singapore e Indonesia iniziarono pattugliamenti congiunti e scese in campo anche quella cinese, frenando gli assalti. C’è una stretta correlazione tra l’andamento dei prezzi delle materie prime prodotte ed esportate dagli Stati del sudest asiatico, soprattutto l’olio di palma, e gli attacchi: più alti i prezzi, più lucroso dirottare i mercantili. Intanto il mar dei Caraibi sta diventando una zona calda per gli attacchi agli yacht turistici, con i rischi maggiori sulle coste di Venezuela e Colombia e delle isole di Saint Vincent e Santa Lucia. A scatenare la pirateria è la crisi economica che investe Venezuela, Nicaragua e Haiti.

I danni della pirateria sono difficili da calcolare ma ingentissimi: sono stimati in circa 22 miliardi di euro l’anno a livello globale, tra effetti diretti (pagamenti di riscatti, aumento delle polizze assicurative e operazioni militari) e indiretti (calo della pesca, freno al turismo). Uno studio del 2014 ha ipotizzato che la pirateria somala abbia aumentato i costi di trasporto navale dall’8 al 12% solo per aver costretto le navi a seguire rotte più lunghe per evitare le zone a rischio dell’Oceano Indiano.

Proprio i pirati somali sono stati i primi a sviluppare il loro business da una fase primordiale, con l’impiego di piccole barche con motori fuoribordo dotate di armi automatiche, lanciagranate e razzi (Rpg), a un modello industriale con tecniche sofisticate: dalle mappature radar all’uso delle navi sequestrate come basi flottanti per allargare le incursioni in mare aperto. In questo modo a cavallo del 2010 i somali arrivavano a colpire a oltre 3.100 chilometri dai loro porti nel Corno d’Africa. La strategia dei pirati somali è sempre stata quella di dirottare le navi in acque internazionali, portarle in acque somale e chiedere un riscatto. Le comunità costiere erano le basi di reclutamento, con la manovalanza che in caso di successo guadagnava dai 30 agli 80mila dollari a testa, un vero tesoro per giovani spesso analfabeti e senza altre opportunità. Ma in cima alla scala di comando, a spartirsi la fetta di gran lunga maggiore dei 400 milioni di dollari di riscatti incassati tra il 2005 e il 2012, secondo una stima della Banca Mondiale, c’erano uomini d’affari somali residenti a Londra o negli Emirati Arabi che raccoglievano i finanziamenti dalla criminalità organizzata internazionale, soprattutto russa, e corrompevano il personale delle organizzazioni marittime e delle compagnie di navigazione per conoscere in anticipo identità, rotte e tempistiche delle prede più lucrose. In questo modo tra il 2010 e il 2017 i somali hanno causato danni stimati dall’organizzazione Oceans beyond piracy in 25,9 miliardi di euro. Nel solo 2017 le guardie armate a bordo delle navi sono costate oltre 260 milioni e quasi 180 milioni le attività navali internazionali. Nessuno però potrà mai calcolare quale costo abbia avuto la pirateria per la stessa Somalia, scoraggiando gli investimenti e impedendo qualsiasi forma di sviluppo.

Nel 2011 la pirateria al largo delle coste della Somalia raggiunse il suo picco: furono presi in ostaggio 736 marinai di 32 navi. Tra il 2008 e il 2015 finirono nel mirino anche una quindicina di navi italiane: famoso il tentativo di abbordaggio scattato il 25 aprile 2009 alla nave da crociera Melody della compagnia italiana Msc Crociere, che riuscì a sfuggire mentre si trovava nelle acque a nord delle Seychelles con a bordo 991 passeggeri e 536 membri di equipaggio, e i sequestri subiti dalle navi Malaspina Castle, Buccaneer, Dominia, Savina Caylyn, Alessandra Bottiglieri, Rosalia D’Amato, Anema e Core, Montecristo ed Enrico Ievoli. La risposta internazionale all’escalation portò alla militarizzazione dell’Oceano Indiano occidentale: dal 2008 scattarono i pattugliamenti navali dell’Unione europea (missioni Eu Navfor ed Eucap Nestor, Operazione Atalanta), della Task force congiunta 151 a guida Usa con il supporto di 20 Stati e l’assistenza di Cina, Russia, Corea del Sud, India e Giappone, delle operazioni Ocean Shield e quella della Nato. La pirateria somala fu frenata, facendone calare il numero degli attacchi e le capacità operative, come ricordato anche nel film Captain Phillips – Attacco in mare aperto basato su un vero sequestro ai danni di una nave mercantile Usa nell’aprile 2009. Ma le marine militari occidentali non si occuparono mai di reprimere la pesca illegale gestita da flotte di pescherecci di compagnie asiatiche e occidentali che ogni anno rubano prodotti ittici per 300 milioni di dollari lungo i 3.300 chilometri di coste della Somalia.

Le scorrerie somale però non sono mai davvero finite: nel Golfo di Aden nel 2017 in un solo mese ci furono cinque attacchi. Se nel 2011 a soffrire l’impatto delle scorrerie somale erano le attività turistiche e di pesca del Kenya e delle Seychelles, oggi che l’area d’azione dei pirati somali si è spostata a sud lungo i 2.460 chilometri delle coste africane del Canale del Mozambico, pattugliate dalle marine sudafricana e mozambicana, è il Madagascar che ne viene maggiormente danneggiato. A preoccupare è però soprattutto la recrudescenza della pirateria nelle acque atlantiche del Golfo di Guinea, un’area strategica per l’Europa in cerca di alternative alla dipendenza dagli idrocarburi russi: da qui arriva il 10% del petrolio e il 4% del gas naturale consumato nel Vecchio Continente, con forti investimenti per aumentare l’estrazione. La Nigeria perde 5,4 miliardi di euro l’anno per l’aumento dei costi di trasporto dovuti alla pirateria nelle sue acque. Ma la povertà, il sottosviluppo e la corruzione legata al petrolio in Nigeria rendono attraente la pirateria: nello Stato nigeriano del delta, su circa 5 milioni di abitanti la disoccupazione è il 40%, i poveri sono l’80% e i poverissimi il 56% delle famiglie. I pirati dirottano le petroliere nelle raffinerie illegali, nascoste nell’estuario del Niger, anche grazie all’assenza di controllo del territorio. C’è poi anche un fattore politico: nel Golfo di Guinea il Movimento separatista per l’emancipazione del delta del Niger (Mend) cerca di finanziarsi anche con le scorrerie e si avvantaggia delle dispute di confine tra Camerun e Nigeria sulla penisola di Bakassi.

Perché le vere cause della pirateria africana si trovano sulla terraferma, non in mare: è un business per le comunità costiere emarginate che non hanno altre forme di sostentamento. A testimoniarlo sono gli stessi pirati somali. Per uno studio condotto da M&C Saatchi World Services e dall’Università delle Seychelles, la giornalista Zamzam Tatu, a marzo 2017 ne, ha intervistati 15, tra i 17 e i 40 anni, incarcerati alle Seychelles con condanne dai 12 a 24 anni. “In vita nostra non abbiamo mai visto ordine o pace: è la povertà che ci spinge alla pirateria”, le ha detto uno. “Due dei miei zii sono stati uccisi mentre pescavano nel 2003 da un peschereccio a strascico di uno Stato Ue, altri miei cugini sono dispersi. I pescherecci illegali e le navi che scaricano scorie tossiche non sono anche quelli una forma di pirateria? Però la missione Navfor li protegge. Sto solo cercando di mantenere me e la mia famiglia”, le ha risposto un altro. Decine di migliaia di dollari di bottino, in assenza di alternative, sono un richiamo irresistibile: perché se il corsaro è nero, il negriero resta comunque bianco.

Test diagnosi neonatale in Lazio e Toscana

Una diagnosi precoce può cambiare la vita. Specie nel caso di una malattia grave e rara come l’atrofia muscolare spinale (Sma): ogni anno colpisce circa 300mila nati in Italia. Ma prima che lo screening neonatale a questa patologia sia esteso a tutto il Paese, come previsto da un emendamento alla legge di bilancio 2019, occorre massimizzare i risultati della terapia e definire incidenza della malattia. Dati alla mano si potrà valutare di inserire o meno il test tra quelli obbligatori a livello nazionale. A questo servirà il progetto pilota che in autunno partirà in Lazio e Toscana, coordinato dall’Università Cattolica di Roma, per sottoporre in due anni 140mila neonati al test genetico che permetterà di sapere subito se si è affetti da Sma. I bimbi individuati (una ventina secondo le stime) potranno iniziare il trattamento in fase pre-sintomatica, più efficace di quello in fase avanzata, tanto da consentire ai piccoli pazienti uno sviluppo motorio uguale a quello dei coetanei non affetti. In Europa sono in corso altri due progetti pilota, uno in Belgio e l’altro in Germania.

C’è aria di recessione: la Fed ignori gli strattoni di Trump e investitori

Nell’universo pueril-manicheo di Trump la banca centrale americana, denominata Federal Reserve (Fed), ha assunto un ruolo preminente. Periodicamente il Presidente sfoga (spesso via Twitter) la sua ossessione, intimando un taglio dei tassi di interesse per irrobustire una crescita anemica, svalutare il dollaro e stimolare le esportazioni. La scorsa settimana le raffiche di critiche si sono intensificate culminando venerdì con un’intervista ad Abc News in cui The Donald ha dichiarato, riferendosi al capo della Fed, Jerome Powell: “Sono in totale disaccordo con lui”. Un governo in affanno che invoca politiche monetarie irresponsabili in vista delle elezioni è un classico a tutte le latitudini. Del resto uno arricchitosi grazie a prestiti di una banca poco avveduta come Deutsche Bank, difficilmente si rivela fautore della rettitudine fiscale e monetaria. Di fronte a tali intemperanze senza precedenti, la Fed non può che arroccarsi per difendere la propria indipendenza, l’asset immateriale più prezioso per un’autorità monetaria di rilievo planetario. Specialmente in questo periodo estremamente delicato in cui la Fed fronteggia un dilemma lacerante.

L’indice di Borsa S&P500 si mantiene vicino ai massimi storici, quindi gli operatori sembrerebbero convinti che la fase di crescita si prolunghi, nonostante i deludenti indicatori economici, il mercato del lavoro crei meno occupazione e la guerra commerciale deprima le aspettative. Invece dal mercato obbligazionario, soprattutto quello dei titoli pubblici, arrivano segnali opposti. I rendimenti dei Treasury sono vicini ai minimi da due anni e la curva dei tassi è invertita: i titoli con scadenza a tre mesi rendono più di quelli con scadenza a 10 anni. Entrambi i fenomeni preludono ad un’economia quantomeno in frenata.

Per dare una misura del problema JP Morgan Chase ha calcolato che l’aumento da novembre nei prezzi dei Treasury americani a 5 anni implica una probabilità di recessione al 53%. L’analoga probabilità derivata dai prezzi delle azioni e delle obbligazioni spazzatura è rispettivamente del 17% e dell’1%. Tale divergenza trova una spiegazione nella Fed put (una put è l’opzione che consente di vendere un titolo al fine di limitare le perdite). In pratica, la banca centrale dal 1987 fornisce (gratis) una sorta di assicurazione contro i tracolli di Borsa aprendo i rubinetti della liquidità. Quindi i gestori di fondi azionari si aspettano un’ulteriore dose di droga monetaria se i corsi di Borsa dovessero scendere. Ma una banca centrale indipendente deve respingere sia le pressioni politiche, sia i desiderata dei mercati. Se invece di analizzare i bilanci delle aziende gli analisti si dedicano principalmente ad interpretare gli oracoli della Fed, l’economia reale finisce per sottostare a logiche completamente avulse dalla gestione delle imprese e dei rischi, che sono l’essenza del capitalismo.

Sostegno alla natalità, il fondo è attivo ma beato chi l’ha visto

C’è poco da stupirsi se il numero dei nati in Italia è in costante contrazione: nel 2018 è stato di 449mila (dato stimato), 128mila in meno rispetto a 10 anni fa. In diminuzione anche il tasso di fecondità: 1,32 figli per donna, fra i più bassi in Europa, a fronte del tasso di sostituzione del 2,1 che consentirebbe il ricambio naturale della popolazione, disatteso da circa 40 anni. Mentre gli over 65 sono aumentati di oltre 30 volte negli ultimi 60 anni. Per il rapporto Mother Index sulla condizione delle madri rispetto all’impegno di cura, al lavoro e ai servizi per l’infanzia, elaborato dall’Istat per Save the Children, la “colpa” è nota: le politiche per la natalità. Il sostegno occasionale che l’Italia eroga alle famiglie non è in grado di invertire questa spirale micidiale che ha issato due barriere insormontabili: i futuri genitori non avendo l’appoggio del welfare ci pensano bene prima di mettere su famiglia, mentre un quarto delle “temerarie” mamme è costretto ad abbandona il lavoro dopo la maternità, perché non in grado di coniugare entrambe le cose. Al contrario degli altri Paesi europei dove l’occupazione delle neomamme mostra un percorso a U: forte discesa nei primi tre anni di vita del bambino, ma un graduale ritorno al lavoro in seguito.

Insomma, la ricetta con cui si aiutano le donne a fare figli è chiara: soldi in tasca subito (assegni legati alla maternità), aiuti nella cura dei bambini (dagli asili nido alle babysitter di famiglia), congedi parentali più flessibili e benefit vari (spesso a sostegno dei redditi più bassi). E su questa indicazione è nata l’idea di istituire il fondo di sostegno alla natalità, noto anche come Fondo nuovi nati, con cui favorire l’accesso al credito delle famiglie con uno o più figli nati o adottati a partire dal 2017, fino al compimento del terzo anno di età del bambino o entro tre anni dall’adozione, che proprio in questi giorni è tornato operativo. Lo strumento, istituito dalla legge di Bilancio 2017 e gestito dalla Consap (una società del Tesoro), ha infatti una dotazione di 23 milioni di euro per l’anno 2019, 13 milioni di euro per il 2020 e 6 milioni di euro annui a decorrere dal 2021. Peccato, però, che sia quasi impossibile usufruirne.

Un passo indietro per capire meglio. Il Fondo permette alle famiglie che lo richiedono di fronteggiare le nuove spese che l’arrivo un figlio comporta grazie all’accesso al credito fino a 10.000 euro che può essere utilizzato per qualunque tipo di spesa e deve essere restituito in un periodo massimo di sette anni. I soldi non saranno però erogati direttamente dallo Stato che fornirà solo la garanzia alle banche che erogano il prestito. Poi, nel caso un creditore fosse inadempiente, riceverà una intimazione di pagamento, con l’ammontare dalle rata o delle rate saltate e gli interessi. E il Fondo di garanzia subentrerà se il beneficiario del finanziamento non riuscirà a versare il dovuto entro 90 giorni. Poi lo Stato cercherà di recuperare le somme anticipate.

E qui si blocca la misura. Gli istituti che aderiscono all’iniziativa si devono, infatti, impegnare ad applicare ai finanziamenti garantiti dal Fondo un tasso annuo effettivo globale (il Taeg, vale a dire quello che comprende tutte le voci che del finanziamento e non solo l’interesse) non superiore al tasso effettivo globale medio (Tegm, cioè la soglia stabilita ogni tre mesi dalla Banca d’Italia oltre la quale gli interessi sono ritenuti usurari) sui prestiti personali, in vigore al momento in cui il finanziamento è concesso. Un tasso che sarà sicuramente più basso di quello che normalmente fissano le banche quando erogano dei prestiti ai propri clienti. Insomma, dovrebbero proporre un prodotto, con la garanzie dello Stato, a discapito di quelli del normale circuito bancario senza alcun guadagno. Quindi quale vantaggio hanno gli istituti ad aderire al Fondo? “Nessuno, anche perché non possono neanche richiedere altre garanzie aggiuntive alle famiglie. Tanto che attualmente sono solo tre le banche che hanno deciso di aderire all’iniziativa da quando lo scorso 20 maggio è tornato operativo il fondo, mentre il protocollo d’intesa tra l’Associazione bancaria italiana (Abi) e la presidenza del Consiglio dei ministri è stato firmato lo scorso 19 marzo”, commenta Luigi Gabriele di Adiconsum. Gli istituti che aderiscono, come riporta la Consap, sono le banche del credito cooperativo delle Alpi Marittime, di Monte Pruno e di Brianza e Laghi. “Come per il Fondo prima casa, anche per il Fondo di sostegno alla natalità, affinché l’iniziativa abbia successo e sia veramente uno strumento utile ed efficace, è fondamentale l’adesione del maggior numero di istituti bancari e degli intermediari finanziari all’iniziativa”, aggiunge Gabriele.

Volkswagen-Ford, trattativa in dirittura d’arrivo

Meglio una grande alleanza o una alleanza tra grandi? Lasciando una certa Europa nel dubbio e forse nel rimpianto di quel che sarebbe potuto essere tra Renault e Fca, ben altri orizzonti si aprono attorno alla trattativa che già si preannuncia cruciale per i nuovi equilibri della mobilità elettrica su vasta scala.

“Le discussioni per una cooperazione con Ford su Meb e la guida autonoma proseguono bene e sono vicine al completamento”. Queste le parole con cui il numero uno di Volkswagen, Herbert Diess, ha anticipato davanti ai suoi manager la netta accelerazione dei rapporti con il gruppo americano, che già ad inizio anno ebbero una prima concretizzazione nella collaborazione su veicoli commerciali e pick-up di taglia media a partire dal 2022.

Ora l’attenzione passa ad una formula di emissioni zero da proiettare a livello globale. Oltre agli investimenti sulla guida autonoma, infatti, la vera chiave sta nelle economie di scala attorno alla piattaforma Meb, base predestinata per i 27 modelli elettrici che il gruppo tedesco intende distribuire a cascata su tutti i suoi marchi: 10 milioni di veicoli dalla fine del 2019, con il debutto del primo modello, la Volkswagen ID.3 (nella foto), in agenda per il prossimo settembre.

La piattaforma MEB garantisce una modularità totale, la possibilità di ottenere una grande varietà di carrozzerie, dal suv alla berlina fino al van; e una doppia collocazione per il motore elettrico, al posteriore o anche all’anteriore, in modo da ottenere la trazione integrale. Lo sbarco sulla gamma Ford non potrà che contribuire a far scendere costi e listini, in attesa dell’unica replica credibile a queste scale di grandezza, ovvero la piattaforma elettrica globale Toyota, pronta a fare la sua apparizione in autunno.

Renaul Clio: capitolo 5. Un ponte verso il futuro a batteria

Nel 1990 la nazionale guidata da Michel Platini non riuscì a qualificarsi per il mondiale italiano di calcio, ma la consolazione (postuma) per i francesi fu la nascita di un’automobile destinata a diventare comunque un campione nazionale: la Renault Clio. Gli uomini della Régie con malcelato orgoglio la definiscono “la vettura francese più venduta al mondo”, in virtù dei suoi 15 milioni di esemplari in quasi trent’anni di servizio. Un record a cui il nostro Paese, secondo mercato più importante dopo quello domestico, ha contribuito con 1,6 milioni di pezzi. Di cui una discreta quantità appartengono alla generazione attuale, la quarta, che tra l’altro è stata più volte l’auto straniera più venduta in Italia negli ultimi anni.

Oggi, all’indomani del mancato accordo per la fusione tra Renault ed Fca, tocca alla Clio numero cinque inserirsi nel solco dei fasti passati. Era difficile aspettarsi una rivoluzione estetica, a causa dei numeri sopra citati: per le linee della nuova citycar, i designer hanno preferito una sorta di evoluzione conservativa. Un po’ come la squadra vincente, che non si cambia.

Dove c’era bisogno di intervenire era invece all’interno. E lì il lavoro è stato di spessore: più spazio per passeggeri e bagagli, cura di dettagli e materiali, infotainment di livello con il nuovo sistema Easy Link, completo di Android Auto ed Apple Car Play.

Sotto il cofano, i frutti della (traballante) Alleanza Renault-Nissan, con il 1.0 tre cilindri benzina nelle due varianti di potenza da 65 e 75 Cv (100 per quella turbo) ed il 1.3 quattro cilindri sovralimentato da 130 Cv, che hanno entrambi gli occhi a mandorla. Insieme al classico ma rinnovato 1.5 diesel quattro cilindri transalpino da 85 e 115 cavalli.

È su strada, nondimeno, che la nuova Clio dimostra progressi evidenti: assetto sufficientemente rigido, tenuta e agilità nel misto, elasticità e spunto sia del 1.0 (nonostante una frizione che stacca un pò in alto) che del 1.3.

Il merito è della piattaforma costruttiva nuova di zecca, la cosiddetta Cmf-B, grazie alla quale verranno anche introdotte sulla popolare citycar le tecnologie di domani, come spiega il direttore generale di Renault Italia Xavier Martinet: “Nuova Clio è la prima vettura del piano strategico Drive the future di Renault: connessa, elettrificata e con i primi passi verso la guida autonoma”. Non è dunque un caso che nel 2020 ne debutti una versione ibrida, in cui due i motori elettrici (batteria al litio di 1,2 kWh) affiancheranno un 1.6 endotermico a benzina: i tecnici francesi promettono una percorrenza di 5 km in elettrico puro.

Nel frattempo, però, c’è un unico dubbio: far partire il listino di una citycar, seppur di successo, da 15.200 euro, potrebbe non essere una buona idea. La parola al mercato.

Sulla Bce deciderà Macron: i nomi per il dopo-Draghi

Tutto dipende da Emmanuel Macron: saranno le sue mosse a determinare chi otterrà il più rilevante incarico della nuova Ue, la presidenza della Banca centrale europea che Mario Draghi lascerà dopo otto anni e dopo aver salvato l’euro il 31 ottobre. Una lettura superficiale ha inserito Macron tra gli sconfitti delle elezioni europee del 26 maggio, perché la sua lista Renaissance è stata superata di poco (0,9 per cento) da quella di Marine Le Pen. Ma conta molto di più il fatto che in Francia non ci siano più alternative a Macron che, con la Le Pen ferma al 24 per cento, si sente più sicuro che mai all’Eliseo. E i liberali europei, famiglia alla quale Macron si è affiliato senza sottomettersi, saranno il perno della nuova maggioranza del Parlamento europeo in cui Popolari e Socialisti non possono più spartirsi le cariche da soli. Per ogni poltrona che conta, insomma, bisogna chiedere a Macron .

La partita si giocherà in due tempi. Prima le nomine per Commissione, Consiglio e presidenza del Parlamento, poi la Bce. Dalla riunione dei capi di governo del 20 giugno a Bruxelles dovrebbero uscire i primi nomi. Il tedesco Manfred Weber, candidato dei Popolari alla Commissione, potrebbe ottenere la presidenza del Parlamento, che è il posto meno rilevante. Due delle quattro posizioni di vertice dovrebbero andare a donne (cinque anni fa erano invece tutti maschi, Juncker, Tusk, Schulz e Draghi). Ma quali?

Macron, sostenuto in questo anche dai Paesi dell’Est del blocco di Visegrad e (timidamente) dall’Italia, ha candidato Angela Merkel alla Commissione. La cancelliera dice a tutti di volersi ritirare presto dalla politica. Ma l’ostacolo principale è la sua delusione per l’erede designata alla Cdu (il suo partito) e in prospettiva per la guida del governo in Germania: Annegret Kramp-Karrenbauer. Akk, come la chiamano, in pochi mesi è riuscita anche a inanellare gaffe, flop e pure a irritare Macron contestando il suo piano di riforma per l’Ue. E ora il presidente francese vuole far capire chi comanda. Tutti tranne Akk. Lui discute al massimo con la Merkel, non certo con i grandi sconfitti delle europee e delle amministrative tedesche, cioè Cdu e Spd (i socialisti).

Nel negoziato sulla Commissione Macron può vincere in quasi tutti gli scenari. Vince se arriva Angela Merkel, vince se prevale il candidato più forte tra i popolari, il negoziatore per la Brexit Michel Barnier, che è francese. Ma vince pure se lo stallo tra Spd e Popolari fa emergere la candidata liberale, l’attuale commissaria Antitrust danese Margrethe Vestager. Che ha tutte le caratteristiche giuste: donna, liberale, viene da un Paese piccolo e ha una personalità parecchio diversa da quella di Jean Claude Juncker.

In base a come si chiuderà la partita su Commissione e Consiglio, Macron sceglierà tra le varie opzioni per la Bce. Una priorità, condivisa dall’Italia, è fermare la corsa del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. Il banchiere tedesco in questi anni si è sempre opposto a tutte le misure straordinarie proposte da Mario Draghi, quelle che hanno salvato l’euro e dato fiato a un Paese ad alto debito come la Francia.

L’Eliseo ha molte carte. C’è il presidente della Banca di Francia François Villeroy de Galhau che, però, nei mesi scorsi per accreditarsi si è avvicinato alle posizioni di Weidmann. Ci sarebbe il membro francese del board permanente della Bce, Benoit Couré. Ma la sua promozione alla presidenza violerebbe il limite degli otto anni di mandato e quindi è poco probabile che Macron tenti forzature.

Il nome più forte è quello di Christine Lagarde: a 63 anni, la direttrice del Fondo monetario internazionale ha gestito mille crisi, inclusa quella dell’eurozona a fianco di Draghi, è apprezzata dai mercati e ha un profilo internazionale capace di tenere testa a Donald Trump (il Fmi è basato a Washington). Nessuno può opporsi alla Lagarde, neppure la Grecia che tanto ha sofferto le rigide prescrizioni della Troika di cui il Fmi era parte fondamentale. A luglio in Grecia il governo sarà quasi certamente affidato al centrodestra che governava prima della crisi, con Kyriakos Mitsotakis di Nuova Democrazia al posto di Alexis Tsipras.

Macron viene da una generazione diversa dalla Lagarde che, a 63 anni, è espressione dell’establishment conservatore intorno all’ex presidente Nicolas Sarkozy che la indicò al Fmi nel 2011 al posto di Dominique Strauss-Khan, travolto da uno scandalo sessuale poi in gran parte evaporato nel nulla. Nonostante il diverso retroterra, Macron non esiterà un attimo a intestarsi la presidenza della Bce, disponendo di un candidato così forte. A meno che non stravinca nel primo tempo della partita, quello per la Comissione e il Consiglio (il nome della Lagarde è circolato anche per quei due incarichi). In quel caso, la Bce non potrebbe andare a un francese.

Mario Draghi non dirà mai una parola su chi vorrebbe come successore. Ma di sicuro il simbolo della continuità sarebbe Erkki Liikanen: da governatore della Banca centrale della Finlandia, negli anni della crisi dell’euro è stato l’alleato più prezioso di Draghi, quello che spaccava il fronte nordico dell’ortodossia monetaria e faceva da ponte culturale con Olanda e Germania per far passare le misure straordinarie. Certo, Liikanen non ha l’efficacia comunicativa di Draghi, il suo inglese è ostico, ma l’uomo è simpatico, affabile e rassicurante, capace di ispirare serenità ai mercati. Un po’ meno Olli Rehn, ex commissario agli Affari economici spesso ostile all’Italia, che oggi ha preso il posto di Liikanen alla banca centrale finlandese e, per questo, è un altro potenziale candidato, ma molto meno autorevole del predecessore.

Chi ancora spera in un’Ue più forte e autorevole sogna un dream team al femminile con la Vestager alla Commissione, la Merkel al Consiglio e la Lagarde alla Commissione. Tre donne che potrebbero cambiare l’Unione. Ma la politica europea è fatta di compromessi. Di solito al ribasso.

Alitalia, la “smentita” di Casellati conferma tutto

“Un politico deve sempre avere rispetto dei cittadini. Perciò mi lascia francamente molto sorpreso vedere affiancato, sul Fatto Quotidiano, il nome della presidente del Senato (o il suo staff) ad astruse pretese durante i loro recenti spostamenti su voli Alitalia”. Così il capogruppo M5S in Senato Stefano Patuanelli si è rivolto alla presidente Maria Elisabetta Casellati, la quale si è premurata di rispondere: “È successo di recente che venissi chiamata dalla saletta dell’aeroporto per imbarcarmi con gli altri passeggeri e che poi fossi costretta invece ad attendere, due ore una prima volta e mezz’ora l’ultima, prima del decollo. In tutti i casi mi sono ritrovata a discutere con gli altri passeggeri e a constatare che quella dei ritardi nei voli aerei è ormai una piaga. I comandanti hanno addotto ogni volta spiegazioni diverse: nel caso del volo Venezia-Roma del 10 giugno per ‘lavori in corso’, e nel Roma-Parigi del 12 giugno per traffico nell’aeroporto francese e condizioni meteorologiche avverse. Il tutto è ovviamente verificabile (…) Non fa parte del mio modo di agire né di rapportarmi usare privilegi impropri né mettere in difficoltà chicchessia. Non l’ho mai fatto prima e men che meno oggi”.

Elisabetta Casellati, presidente del Senato, replica a un articolo del Fatto tramite una replica al senatore Stefano Patuanelli, capogruppo dei Cinque Stelle a Palazzo Madama. Per l’occasione, replichiamo anche noi, cioè confermiamo ogni virgola di quanto scritto sabato 15 giugno. Ci sentiamo pleonastici nel farlo perché la presidente del Senato non ha rettificato alcunché. E non ha smentito i seguenti fatti.
1.L’avv. sen. Casellati aspetta in una saletta di salire per ultima sull’aereo e non al gate, provocando ritardi ai voli di linea, come accaduto per il Roma-Parigi del 12 giugno, il Venezia-Roma del 10 giugno (istituzionale? Non tornava al lavoro da casa?) e altri ancora.
2. Il suo staff ha chiesto di rimuovere un passeggero pagante e di prima classe che, a sua insaputa, aveva un posto a un metro da quello della presidente del Senato.
3. Una componente della sua delegazione ha occupato un posto di prima classe anche se non le spettava e, seduta alle spalle della presidente, ha ignorato le indicazioni degli assistenti di cabina.
4. I collaboratori della Casellati chiedono di sistemare le sue valigie a imbarco ancora chiuso o di poter usufruire di tre cappelliere per la presidente, e pazienza per gli altri passeggeri con bagaglio a mano.
5. Ora apprendiamo che la presidente si è trattenuta con dei comuni cittadini – e questo ci conforta – per discettare dei ritardi degli aerei. Che sfortuna: Alitalia nel 2019 è stata è la compagnia aerea più puntuale al mondo.
6. Quanto riportato dal Fatto  fa riferimento alle relazioni che i capiscalo di Alitalia di Fiumicino e di Venezia hanno inviato all’azienda e dunque compendia quello che è successo a terra e a bordo. Tema: la presidente Casellati. L’azienda ha risposto ai dipendenti in rivolta – senza citare la Casellati – ricordando che a nessuno vanno concessi privilegi, soprattutto se impattano negativamente sul servizio offerto ai passeggeri. Una sorta di “direttiva Casellati”. Comunque, a suo modo, una piccola riforma per il Paese. Buon viaggio.

Carlo Tecce

Anm, via Grasso (MI) dentro Poniz (Area): “Gigantesca questione morale fra le toghe”

Magistratura Indipendente, la corrente conservatrice travolta dallo scandalo delle nomine pilotate al Csm, è fuori dalla giunta dell’Associazione nazionale magistrati. Al posto di Mi entra nel “governo” dell’Anm, Autonomia e Indipendenza, la corrente nata attorno a Piercamillo Davigo. Il nuovo presidente è Luca Poniz, di Area, la corrente progressista, mentre resta segretario Giulio Caputo di Unicost, i centristi.

Le prime battute del neo presidente Poniz mirano a far luce sull’origine dello scandalo di questi giorni e cioè la deriva clientelare che da anni ha sporcato le correnti delle toghe: “C’è una gigantesca questione morale che investe la magistratura e non per quel fango che è emerso dalle intercettazioni. Dobbiamo ripensare alla degenerazione del correntismo e del carrierismo. Ci sono magistrati che si sono costruiti appositi percorsi”.

Il cambio di giunta dell’Anm è arrivato dopo una riunione del “parlamentino” dell’Anm con il presidente Pasquale Grasso, votato in quota Mi mesi fa, che ha presentato le dimissioni solo dopo l’esplicita richiesta di andare via. Insufficiente le sue dimissioni da Mi, fatale l’intervista in cui ha definito “fisiologici” i rapporti politica-magistratura.

L’elezione di Poniz è stata a sorpresa, il designato era Caputo, ma AeI ha chiesto come condizione per entrare in Giunta, in una riunione a porte chiuse, che il presidente non fosse un esponente di Unicost. È la corrente fino a pochi giorni fa dominata da Luca Palamara: il pm romano indagato a Perugia per corruzione, ex presidente dell’Anm ed ex consigliere Csm. Il 9 maggio era tra i protagonisti dell’incontro notturno con Cosimo Ferri, parlamentare del Pd, renziano e ancora oggi membro della commissione Giustizia della Camera nonostante il suo ruolo da protagonista in questo scandalo politico-istituzionale che lo ha visto muoversi, ancora una volta, come leader ombra di Mi. Con loro c’erano Luca Lotti, autosospesosi dal Pd e consiglieri del Csm di Mi e di Unicost .

Questa vicenda ha portato anche alle dimissioni da segretario di Mi di Antonello Racanelli, procuratore aggiunto di Roma. “Non parteciperò al festival della grande ipocrisia di molti esponenti di rilievo della magistratura associata”, ha commentato. Come dire: fan tutti così, non solo Mi. Sabato scorso, invece di chiedere le dimissioni dei consiglieri del Csm presenti all’incontro dove si pretendeva di decidere il procuratore di Roma, e non solo, Mi ha chiesto loro di restare al loro posto.

I vedovi renziani nel bunker: viva Lotti, abbasso Zingaretti

La bufera del Csm agita ancora il Partito democratico. E soprattutto lo stato maggiore dell’ala renziana, ieri riunita ad Assisi: l’occasione è stato il primo raduno nazionale della mozione “Sempre Avanti” del deputato dem Roberto Giachetti.

Qui una parte del partito ha difeso Luca Lotti, l’ex sottosegretario autosospesosi dal Pd dopo che sono state pubblicate le intercettazioni delle riunioni alle quali partecipava con alcuni magistrati per discutere di chi avrebbe dovuto prendere il posto di procuratore capo di Roma (cioè il titolare dell’accusa nel processo Consip, a carico anche del deputato-imputato Lotti). I renziani difendono il parlamentare amico e attaccano il segretario Nicola Zingaretti.

Tra i primi a intervenire Maria Elena Boschi: “Sono arrivati più attacchi a Lotti dall’interno del Pd che dagli avversari politici. Autosospendendosi ha fatto una scelta che non era scontata e dovuta, di grande generosità verso la comunità del Pd e va quindi rispettato”, dice l’ex ministra, augurandosi che “in una comunità come il Pd, vista anche la disponibilità di Lotti, ci si possa parlare guardandosi negli occhi. E non con interviste che sparano addosso ai compagni del proprio partito”.

Il riferimento sembra essere a Luigi Zanda, tesoriere del Pd, che in un’intervista del 14 giugno al Corriere della Sera invitava Lotti a valutare “di lasciare il Pd finchè non sarà chiarita la sua posizione”. E proprio sul tesoriere del partito interviene anche Roberto Giachetti: “Lotti è un parlamentare, non un ministro. È una richiesta di una gravità enorme dirgli: devi uscire provvisoriamente dal partito”. Non solo: “C’è stato un problema serio per Catiuscia Marini in Umbria (la governatrice Pd, dimessasi perchè indagata nell’inchiesta sui concorsi truccati delle Asl, ndr) e immediatamente le vengono chieste le dimissioni. Dopo un po’ di tempo Oliverio in Calabria riceve un avviso garanzia, avete sentito voi una richiesta di dimissioni? No. E poi arriva un avviso di garanzia al governatore della Puglia, non ho sentito richieste a Michele Emiliano di fare un passo indietro”. “Sembra che nel campo della politica – continua Giachetti – quel che ha fatto Lotti non abbia paragoni: ma quando D’Alema ha fatto i comitati per il No al referendum nessuno gli ha chiesto di sospendersi dal Pd”.

Da Lotti poi la discussione si allarga. E arriva ai vertici. L’attacco è quindi per Zingaretti e la sua nuova segreteria (senza renziani). Dice ancora Giachetti: “Noi non siamo entrati in segreteria perché non abbiamo condiviso la linea politica del segretario dopo le primarie”. Gli fa eco Anna Ascani, vicepresidente del Pd: “Questa segreteria è a immagine e somiglianza del segretario, che ha diritto di farla come vuole, ma più che una segreteria del Pd mi sembra del Pds”. Ieri, ma dalla sua pagina Twitter, è intervenuto anche Carlo Calenda: “Facciamola finita con questo cazzeggio. E quando vince Renzi lo sabotano da sinistra e quando vince Zingaretti si incazzano gli altri. Che palle ’sto partito”. Alla domanda a quale componente appartiene, Calenda poi replica: “Una componente semiclandestina: quella che fa opposizione al Governo che sta distruggendo l’Italia! Mi vergogno di essere andato a chiedere voti per un partito che è incapace di stare insieme mentre il paese va a ramengo”.