“Niente bavagli: divulgare tutto ciò che è di interesse pubblico”

La situazione in cui versa la magistratura è grave, e questa volta pare anche seria. Così il ministro della Giustizia, il 5Stelle Alfonso Bonafede, non usa metafore: “Ora bisogna cambiare tutto per ripartire”.

Il neo presidente dell’Anm Luca Poniz parla di “gigantesca questione morale” e “di correnti degenerate in carrierismo”. Condivide?

Adesso più che le parole servono i fatti. Da ministro devo innanzitutto agire come titolare del potere disciplinare nei confronti di chi ha sbagliato. E bisogna avviare un pacchetto di riforme di cui in tanti hanno parlato in passato, senza fare nulla. Non c’è più spazio per i gattopardi.

Le intercettazioni delineano un rapporto distorto tra politici e magistrati che c’è sempre stato, o rappresentano qualcosa di nuovo?

Delle degenerazioni del correntismo si parla da anni, ed è stato su mio impulso che nel contratto di governo è stata inserita la riforma del Csm, proprio per reagire a questo. Però il fatto che alcuni politici discutessero con dei togati delle nomine in procure rappresenta un elemento in più.

L’ex ministro Luca Lotti ha rivendicato di non aver commesso alcun reato parlando con i magistrati.

Sul singolo fatto non entro, visto che ho aperto un procedimento su quella intercettazione. Dopodiché la rilevanza penale non c’entra nulla con quanto accaduto. Qui si pone una questione morale enorme, anche per i politici.

Con il Fatto, il deputato Cosimo Ferri ha sostenuto di essere stato intercettato in modo illegittimo tramite un trojan nel telefono del giudice Palamara: “Ci vuole la preventiva autorizzazione quando il parlamentare sia individuato in anticipo quale destinatario dell’attività di captazione”. Ha ragione?

Non commento. Però rivendico il fatto che la legge spazzacorrotti abbia dato agli inquirenti uno strumento fondamentale come il trojan, che in cinque mesi sta facendo emergere sistemi di corruzione in tutta Italia. E ha fatto scoprire anche lo scandalo del Csm.

Come vuole cambiarlo il Consiglio? Su La Stampa il presidente di Unicost Mariano Sciacca ha sostenuto che scegliere i membri tramite sorteggio favorirebbe le lobby e le massonerie.

Il sorteggio è una delle opzioni. Ma di certo non sarebbe una forma di sorteggio puro, incostituzionale e sbagliato. Uno degli elementi di partenza sarà ridurre le dimensioni dei collegi, così che i magistrati possano votare colleghi bravi e non imposti dalle correnti nazionali. Detto questo, sul metodo di elezione del Csm dovrà avere un ruolo centrale il Parlamento: non può essere un governo a deciderlo da solo. Ma l’attuale sistema non regge più. Lo conferma anche l’ultima elezione dei quattro posti per i pm nel Consiglio, per cui c’erano stati quattro candidati: uno per corrente.

Molti chiedono di mettere fine “alle porte girevoli” dentro la magistratura.

Io voglio ripristinare l’incompatibilità tra la permanenza nel Csm e gli incarichi direttivi. Chi avrà fatto parte del Consiglio per i cinque anni successivi non potrà andare a dirigere una Procura.

Per Matteo Salvini “è indegno leggere intercettazioni senza alcun rilievo penale”. E per la ministra della Lega Giulia Bongiorno servono “sanzioni per chi pubblichi trascrizioni gossip”. Su questo voi del M5S e il Carroccio siete lontanissimi.

Con la Lega ho avuto sempre un rapporto costruttivo: abbiamo approvato assieme la Spazzacorrotti. e con Salvini stiamo lavorando per il rientro dei detenuti stranieri nei loro Paesi. Però ogni tanto preferirei ascoltare di persona le loro proposte anziché leggerle sui giornali.

La Lega vuole limitare le intercettazioni, voi no.

Tramite le nuove tecnologie si possono blindare le intercettazioni, evitando la fuga di notizie prima che entrino in possesso delle persone coinvolte. E condivido che non vadano diffusi fatti privati o che riguardano terzi. Ma il diritto all’informazione non può essere limitato.

Come si traccia il confine?

Va pubblicato ciò che ha rilevanza pubblica, e il confine è già tracciato dal diritto. La privacy, per me sacrosanta, è già tutelata dalla legge.

Bongiorno vuole sanzioni.

Non conosco la proposta.

Ciò che sta venendo letto sul Csm andava pubblicato?

È giusto che i giornalisti raccontino quanto accaduto. Qualcuno magari si è spinto troppo oltre citando soggetti palesemente estranei ai fatti.

Lei dirà no a un bavaglio?

Con me non ci sarà. Non si può tornare indietro con le lancette dell’orologio.

Mercoledì è previsto un vertice di governo sulla giustizia. Salvini e Di Maio ci saranno?

Penso che Salvini ci sarà, visto che in Consiglio dei ministri abbiamo discusso assieme di farlo. Vediamo se potrà partecipare anche Luigi.

Ma mi faccia il piacere

Legittima difesa. “Ivrea, il tabaccaio ha sparato alle spalle. Salvini: resto comunque al suo fianco” (Corriere della sera, 12.6). Tutto pur di non stargli davanti.

Criptogrillini. “Né la Lega né i 5Stelle (questi ultimi in modo dichiarato) si rifanno a un’idea che non sia il puro esercizio del potere, la manifestazione di una protesta, la difesa di un interesse. Troppo poco per portare avanti un’azione degna del nome di ‘politica’” (Corrado Augias, Repubblica, 11.6). Hai capito quel Lotti e quel Ferri? Sono grillini e ce lo tenevano nascosto. Ma ad Augias non la si fa.

La gabbianella e il pirla. “Salvini e i gabbiani, mostri feroci: ‘Colpa dei rifiuti in strada, basta!’. Il ministro in diretta sul tetto del Viminale” (Corriere della sera, 13.6). Risposta dei gabbiani: “Lei chi è? Noi siamo qui da un anno, pensavamo che il palazzo fosse disabitato”.

L’onniministro. “E tu che ci fai qui? Non sei a scuola? Hai fatto bene!” (Matteo Salvini, Lega, vicepremier e ministro dell’Interno, rivolgendosi a un ragazzo dopo un comizio ad Ascoli Piceno, 5.6). Gli mancava giusto il ministero della Pubblica istruzione.

Corazzieri. “Il pericolo di indebolire il Quirinale”, “Scudo Pd e 5Stelle sul Colle: ‘È un punto di riferimento’. I 5S Paragone e Businarolo: tenere fuori il Quirinale dal fango. Verini: Mattarella fondamentale per mettere in sicurezza i presidi istituzionali”, “Legnini: ‘Nessuna interferenza da Mattarella’” (La Stampa, 16.6). “Violante: si cerca di attaccare persino il Quirinale con millanterie e menzogne” (Corriere della sera, 16.6). “Csm, da Lotti e Palamara veleni sul Colle” (Repubblica, 12.6). “Il fango su Mattarella”, “Csm in crisi, l’ira di Mattarella: ‘Mai interventi sulle nomine’”, “Il consigliere del Quirinale Erbani: ‘Ma quale talpa, accusano me per colpire il capo dello Stato’” (Repubblica, 13.6). Chissà mai che avrà combinato ‘sto Mattarella.

Dicesi liberale. “Di Maio è illiberale, e se ne vanta. Accordo Lega-Pd per salvare Radio Radicale. Ma per il M5S è uno scandalo” (Il Foglio, 14.6). Dicesi liberale colui che finanzia aziende private con soldi pubblici. Ora Einaudi può rotolarsi serenamente nella tomba.

Fort Knox. “Amanda Knox, le lacrime e i fantasmi: ‘Non assolvo lo Stato italiano’” (La Stampa, 16.6). Il guaio è che è lo Stato italiano che ha assolto te.

Potenza della coerenza. “Ma è una mia impressione o Salvini ha realmente una faccia da psicopatico?” . “Guardo ai tg l’ultimo raduno della Lega Nord e penso: non ho mai visto tanti coglioni tutti insieme!!!” (Mario Guarente, Facebook, 12.12.2013 e 11.4.12). Guarente è il nuovo sindaco di Potenza, eletto con la Lega di Salvini. Ora i coglioni sono uno in più.

Votantonio. “Antonio Campo Dall’Orto, indicato da Renzi per il curriculum inappuntabile e la terzietà politica, costretto a dimettersi appunto per la terzietà politica e per non affossarsi il curriculum” (Luca Bottura, Repubblica, 12.6). In effetti Campo Dall’Orto, per dimostrare la sua terzietà politica, era un habitué dei raduni renziani alla Leopolda. Ma come Campo. Come Dall’Orto, invece, era molto terzo. Anzi, inappuntabile.

La lontananza. “Giustizia: tenere lontano i magistrati dalla politica è giusto” (Livio Caputo, il Giornale, 14.6). E possibilmente pure i Carabinieri e la Finanza.

Gli spiriti guida. “La sinistra ci dà degli ignoranti? Sono frustrati, io mi tengo Maggiolini e Miglio” (Salvini, La Verità, 11.6). Tanto, essendo morti rispettivamente nel 2008 e nel 2001, non possono più smentirlo.

Forza default. “Olimpiadi 2026. Sarkozy si batté come un leone per portare l’Olimpiade del 2012 a Parigi. Vinse Londra. Poi la capitale francese ebbe la rivincita. E Roma ha perso un’occasione storica” (Aldo Cazzullo, Corriere della sera, 14.6). Per fallire.

Colpa di Virginia. “Investimenti e consumi fermi. Roma trascina giù la regione” (Repubblica, 15.6). Ecco perchè la regione Lazio del povero Zingaretti va così male: per colpa della Raggi.

Il titolo della settimana/1. “In carcere Arata, l’uomo della Lega per l’energia pulita. M5S in imbarazzo” (La Stampa, 13.6). E certo, arrestano uno della Lega per corruzione e riciclaggio e chi è in imbarazzo? I 5Stelle. La Lega no, del resto Arata è quello dell’“energia pulita”, no?

Il titolo della settimana/2. “Salvini, quella telefonata con Toti: ‘Preparati per settembre’” (Repubblica, 13.6). “Salvini ai ministri: tenetevi pronti” (La Stampa, 13.6). Ve faccio Tarzan.

Il titolo della settimana/3. “Via l’ergastolo a vita” (il Giornale, 14.6). Proviamo con l’ergastolo a ore.

Viaggio in Italia sulle tracce della “dittatura del maschio”

Un film realizzato da uomini dedicato soprattutto agli uomini. Non stiamo parlando dell’ultimo blockbuster Marvel ma di un documentario dal titolo eloquente: Dicktatorship. Fallo e basta!, della rodata coppia – nel cinema come nella vita – Gustav Hofer e Luca Ragazzi, registi e sceneggiatori noti al grande pubblico grazie ai documentari Improvvisamente l’inverno scorso, Italy: Love it or Leave it e What is Left?.

Il film parte da una serie di semplici, ma non banali, domande: si può essere maschilisti senza rendersene conto? È possibile che alcuni comportamenti, velatamente o dichiaratamente sessisti, siano così connaturati negli uomini da risultare normali e di conseguenza tacitamente accettati anche dalle stesse donne? Il sì delle lettrici probabilmente si udirebbe più forte e deciso di quello dei colleghi uomini che, secondo gli autori del documentario, spesso non hanno – e altrettanto spesso non vogliono – avere contezza della condizione di privilegio in cui navigano dalla notte dei tempi e alla quale, nonostante i decenni di lotta per l’emancipazione femminile, fanno ancora fatica a rinunciare.

Attraverso la partecipazione a raduni di suprematisti maschi, test psico-sociologici e soprattutto incontri con psicologi, sociologi, docenti di neuroscienze, intellettuali (tra cui la scrittrice Michela Murgia), fino al meno ortodosso ma altrettanto ferrato specialista Rocco Siffredi, i protagonisti nonché autori del documentario accompagnano lo spettatore in una profonda riflessione sul rapporto di potere tra i sessi. Rapporto lungi purtroppo dall’essere risolto, come testimoniano, soprattutto nel Belpaese, gli innumerevoli e spesso tragici casi di violenza sulle donne, la diffusa disparità salariale o di opportunità in ambito professionale o più semplicemente le discriminazioni di genere attraverso l’uso del linguaggio.

Il sessismo nella lingua italiana infatti, fanno notare i due cineasti, coadiuvati dall’intervista alla ex presidente della Camera Laura Boldrini, è tanto presente e sdoganato da essere paradossalmente inavvertibile: è il caso ad esempio dei termini maschili riferiti a quei ruoli apicali occupati fino a pochi decenni fa esclusivamente da uomini (sindaco e non sindaca, chirurgo e non chirurga, ingegnere e non ingegnera) o l’attribuzione di caratteristiche maschili alle donne che risaltano per determinazione e intraprendenza, “quelle con le palle”, per intenderci.

Una strada indicata da Hofer e Ragazzi sarebbe quella di intervenire drasticamente su un sistema educativo ancora fortemente fallocentrico e patriarcale che impone modelli basati sulla forza e la virilità per i maschietti, sulla bellezza e l’accondiscendenza per le femminucce e dal quale scaturiscono in modo del tutto inevitabile atteggiamenti maschilisti e sessisti perpetrati indipendentemente dal ceto sociale, dalla provenienza geografica, dall’orientamento politico.

Prodotto da Marco Visalberghi e presentato al festival Hot Docs di Toronto, Dicktatorship lancia in definitiva allo spettatore – nell’accezione maschile del termine – un messaggio importante: è ora che siano gli uomini a cambiare, perché le donne lo stanno già facendo.

“In radio non c’è cultura musicale: molte marchette e pochi soldi”

Banale, stereotipata, anche un po’ marchettara. È la radio, bellezza. “Però noi facciamo solo il nostro lavoro, chi meglio chi peggio. Dobbiamo stare sul mercato, fare ascolti, non è semplice. Ma dietro non c’è nessun complotto, potete stare tranquilli tutti”. Pure De Gregori. Il cantautore nel suo ultimo concerto a Caracalla ha riaperto il dibattito sulle radio che “trasmettono solo musica di merda”, al servizio delle case discografiche, determinando il successo di un brano o di un artista. Ma Linus, storico direttore artistico di Radio Deejay (una delle principali reti italiane), un po’ gli dà ragione, un po’ difende il mondo per cui mette la faccia da una vita.

Linus, chi decide la musica che passa in radio?

Facile: io, almeno nella nostra.

Ok, domanda più difficile: come sceglie la musica che passa in radio?

Noi siamo storicamente una radio giovane, oggi un po’ più adulta. Dobbiamo coniugare queste due anime: scegliamo musica calibrata sul nostro pubblico e poi cerchiamo di proporre sempre qualcosa di innovativo.

Faccia un esempio.

I nomi tradizionali sono i soliti. In questo periodo suoniamo molto Sciccherie di Madame: non la sentirete quasi da nessuna parte, ma per me è la canzone più bella in circolazione.

Ma è davvero la canzone più bella o la si vuole far diventare la più bella?

Con noi queste dietrologie non funzionano: io non so manco chi sia questa ragazzina, me l’ha fatta ascoltare La Pina (altra dj dell’emittente, ndr), me ne sono innamorato e la metto. È un rischio, ma siamo liberi di prenderlo. Certo, lo stesso non si può dire degli altri…

Linus può permettersi di scegliere. Gli altri dj meno famosi, delle reti minori, quanta libertà hanno?

Nessuna, sono solo una voce in una radio di flusso. Le rotazioni vengono decise dall’editore e dal suo ufficio di programmazione. Nel migliore dei casi dentro c’è qualcuno che capisce di musica e si sente anche roba buona, altrimenti solo pezzi che rispondono a logiche commerciali.

Alle case discografiche.

Sì, anche, ma non come immaginate. Persino le major oggi non hanno gli occhi per piangere: il legame è stretto ma non prevede necessariamente flusso di denaro, anzi quasi mai perché soldi non ce ne sono più. Sono rapporti preferenziali, scambi di favori: il tour in collaborazione, l’evento sponsorizzato, per cui si dà un occhio di riguardo a una canzone. Si sta tutti nello stesso mondo, una mano lava l’altra. In qualche caso la mano è molto pesante.

Intanto la Top Ten delle rotazioni radiofoniche è una specie di manuale Cencelli della musica, un posto per ogni major. È un caso?

Tendenzialmente gli artisti più bravi stanno con le etichette più grandi, è normale che occupino le prime posizioni. Su una cosa però avete ragione.

Quale?

Quando guardo queste classifiche rimango allibito, almeno la metà dei brani non ha alcun motivo per star lì.

E perché ci sono allora?

Perché non c’è cultura musicale, nemmeno in radio. Si mettono canzoni per pigrizia, a volte per interesse, tutti la stessa roba.

Quindi è vero, in radio ci sono solo canzoni che il pubblico si aspetta di ascoltare o che l’emittente vuole spingere.

Io aggiungo una terza categoria, quella che mi fa più incazzare: brani passati per inerzia, perché magari un artista ha fatto un disco forte due mesi fa e il suo nuovo singolo entra in automatico, anche se non lo merita. Oppure un sacco di pezzi mediocri, inutili, né troppo brutti né troppo belli, rassicuranti.

E il merito, la qualità?

Un lusso che si possono permettere in pochi e comunque va centellinato.

Quante canzoni scegliete per puro gusto artistico?

Un 20% circa. Mi piacerebbe osare di più, suonare il brano di nicchia o l’artista sconosciuto, però faccio una radio generalista: il nostro non è un lavoro per pochi eletti, dobbiamo parlare a milioni di persone, avere il pubblico più largo possibile. E per essere largo devi essere banale.

E quante sono marchette?

Io parlerei di attività promozionali reciproche: c’è chi ne fa di più, chi di meno, noi siamo diversi e non ne abbiamo fai fatte. In media sarà un 20-25%.

Ma è giusto?

Non lo trovo scandaloso, di certo non c’è nulla d’illegale.

Non ne esce un quadro lusinghiero, però…

Vero, ma io non condanno nessuno, anzi dopo tante critiche voglio difendere le radio, anche le più commerciali. Sono attività private, che devono stare sul mercato: l’editore ha il diritto di fare le scelte che ritiene funzionali al suo business. I cantanti si lamentano ma i nostri criteri sono diversi dai loro. Poi oggi ci sono canali alternativi per ascoltare la musica, le radio non contano più così tanto.

E a De Gregori che dice che le radio “trasmettono musica di merda” cosa risponde?

Che per certi versi ha ragione, ma dovrebbe essere più comprensivo. In radio si sente anche tanto De Gregori: quella di sicuro non è musica di merda.

Il “grande talento” che tutto il mondo ci ha invidiato

Nella sequenza di frequentissime visite di lavoro (“lavoro” era lo splendore delle sue regie di opere liriche e grandi testi) a New York, non credo ce ne sia stata una in cui Zeffirelli non mi abbia fatto sapere che era arrivato o stava per arrivare. Se era arrivato, l’appuntamento era sempre alla Metropolitan Opera House, dove ormai ero accolto dagli addetti alla “sicurity” come uno di casa e dove, in scena, erano già cominciate le prove. Sto parlando di un tempo che è lontano solo alcuni decenni, ma che sembra, allo stesso tempo, remoto, perché tutto, dalla politica alla cultura, è cambiato in modo profondo. E vicino solo nel nome di Zeffirelli. Quel nome (e dunque almeno qualche flash dei suoi passaggi nei grandi teatri americani) davvero molti in America lo ricordano bene, come un luogo comune, come un frammento ovvio della storia della cultura contemporanea. Zeffirelli, come Toscanini, aveva passato da tempo, e da giovane, il confine del “grande talento italiano”: Zeffirelli era “il grande talento” che il mondo della cultura americana voleva avere sul posto non come nuovo americano, non come grande italiano, ma come Franco Zeffirelli, straordinaria autocertificazione concessa a ben pochi.

Zeffirelli mi aspettava nel corridoio laterale, e il risalire insieme verso il proscenio e verso l’orchestra era come passare in rassegna le truppe. Ti toccavano calorosi saluti e auguri come se si potesse spartire qualcosa con il maestro svelto, allegro, efficiente, come se avesse diretto quel teatro da sempre e per sempre. Ho passato interi pomeriggi di quel tempo a seguire le sue prove, e mi pareva più bello che stare a teatro a vedere l’opera compiuta, quel tipo di potente e delicata perfezione che era il suo stile.

Entrare e uscire dai suoi spettacoli, dai teatri di cui, con la regia di un’opera o di un dramma, prendeva possesso, era un privilegio che non potevi raccontare senza dimostrarlo. Lui, intanto, dominava dal primo momento, con quella apparenza di grazia adolescente, un mondo per tradizione sospettoso e in guardia. Zeffirelli a New York camminava sull’acqua, nel senso che nulla gli sarebbe stato negato tra le sue non facili richieste. E quando si trattava di opere liriche lui, creatore, regista e partner dell’autore, diventava l’impresario del pur celebre direttore d’orchestra.

Una avventura più stretta e personale è avvenuta tra noi nei giorni dell’alluvione di Firenze. Una sua telefonata la mattina presto (2 novembre) è diventata il primo segnale per la tv dell’acqua che aveva invaso Firenze. Quella telefonata è rimbalzata al Tg di allora (direttore Fabiano Fabiani) che ha spedito la prima di molte troupe che avrebbero filmato il disastro. Abbiamo diviso i compiti secondo un progetto pensato da Zeffirelli. Lui avrebbe diretto le riprese sul posto, compresa la splendida sequenza degli “angeli del fango”, i ragazzi che in lunghe catene salvano i libri dall’acqua. Io avevo il compito di rintracciare Richard Burton ed Elizabeth Taylor, che in quei giorni erano a Roma, portarli in uno studio Rai, pronti a leggere i testi che io scrivevo, a mano a mano che ricevevo gli spezzoni di film di Zeffirelli, in italiano e inglese. Burton imparò il mio testo italiano come se conoscesse la lingua, vero miracolo di un grande attore. Zeffirelli pensò a una grandiosa raccolta di fondi negli Usa, da donare a Firenze quasi distrutta. L’impresa gli è riuscita (come tutte le sue imprese) molto al di là del previsto.

Addio a Zeffirelli, l’aristocratico amato dal popolo, non dai critici

Franco Zeffirelli, morto ieri a 96 anni, è stato tutto e il contrario di tutti. Pur dovendo a “padri”, amici e modelli, è stato un prototipo, uno dei pochi – e sicuramente uno degli ultimi – che la nostra cultura e il nostro spettacolo possano esibire. Non s’è fatto aggettivo, per Fellini la prova provata del successo, ma ha stampigliato il proprio cognome – il nome per complemento – sull’immaginario collettivo: Zeffirelli, sinonimo e superlativo di eleganza, raffinatezza, sprezzatura, art pour l’art.

Scespirelli per i detrattori, invidiosi della dimestichezza con Shakespeare (l’indimenticato Romeo e Giulietta, 1968, tra gli altri) e il jet set, Zeffirelli per tutti, e non solo da Trieste in giù: s’è fatto cifra estetica sul proscenio mondiale, ha messo in scena ovunque, dall’Old Vic al Metropolitan passando per la Scala, ha stretto amicizie importanti, dal duo Richard Burton e Liz Taylor (La bisbetica domata, 1967) a Maria Callas (Callas Forever, 2002), ha sceneggiato per la Rai un Gesù (1976) che ci provvede, ancora oggi, l’identikit di Cristo.

Radio e televisione, costumi e scenografia, teatro, cinema e opera, le apparenze della bulimia, la sostanza di un vuoto da colmare: nato il 12 febbraio del 1923 da un’unione clandestina, il nescio nomen (N.N.) trova la denominazione mozartiana Zeffiretti scorretta in Zeffirelli all’anagrafe, l’identità è in divenire, la prima persona singolare si farà risoluzione artistica. Tutto contro tutti.

Attore al fianco di Anna Magnani ne L’onorevole Angelina (1947), la professione di fede anticomunista che non gli impedisce di lavorare con Vittorio De Sica, Roberto Rossellini, Michelangelo Antonioni e, sopra tutto, Visconti, padre d’arte e compagno di vita: aiuto ne La terra trema (con Francesco Rosi), Bellissima e Senso, ne verrà un sodalizio proteiforme, che si romperà non senza aver attecchito un programma d’intenti. Franco eleva a potenza popolare l’aristocrazia di Luchino, capendo prima e meglio di altri quale passepartout sia la bellezza: particolare per scelta, generale per presa, ne fa il carattere distintivo della propria poetica. Fino ad approdare – sulla spinta di un afflato religioso, da Fratello Sole, sorella Luna (1971) in poi, tanto genuino quanto calligrafico – al cinetelevisivo Gesù di Nazareth, in cui tocca a Robert Powell accostare al vero pasoliniano e al buono rosselliniano il bello di Zeffirelli.

Se “un corpo, un gesto e un colore che ci inebriano sono l’unico incentivo consentito all’uomo per creare l’opera d’arte e congiungersi a Dio”, il regista fa del bello un esperanto tanto classico, e classicista, quanto preconizzatore: il catechismo anticipa i filtri Instagram, l’agiografia trascolora nell’oleografia, la nostra realtà è aumentata a immagine e somiglianza del divino. Si può discuterne il valore, sindacarne le forme, non inficiarne la novità: Zeffirelli fa della Bellezza qualcosa alla portata di tutti. Una religione laica.

Omosessuale di appetito privato e dieta pubblica, polemista a geometrie variabili e esiti controvertibili, fiorentino non propheta in patria – eccezione, Per Firenze sull’alluvione del 1966 – e politico d’occasione – senatore con Forza Italia – modula l’avversativo a condizione esistenziale, categoria dello spirito. Dispotico ma pop, assoluto con licenza democratica, Zeffirelli ha sparigliato domanda e offerta, ponendosi nella società dello spettacolo come un bene Veblen: tanto più caro tanto più desiderato. Eredità viscontiana anche questa, ma a suffragio universale.

Con le predilette, già a teatro, Judi Dench, Maggie Smith e Joan Plowright, e davvero molto icasticamente, nel 1998 prende Un tè con Mussolini, coniugando biografia e gusto, Storia e racconto: la critica, stavolta, quasi apprezza, ma se è stato larger than life Zeffirelli non lo deve di certo ai (re)censori né ai riconoscimenti. È stato il popolo, distaccato ma mai disprezzato, a renderlo tale, non gli Oscar – due sole nomination, scenografo per La traviata (1982) e regista per Romeo e Giulietta – e i Golden Globes che non ha avuto, non i festival, da Cannes a Venezia, che l’hanno snobbato. È stato il popolo a fare di Zeffirelli l’ultimo re.

 

“Dormo poco e rido meno. Ma i calzini di Giurato…”

Seria lo è. Talmente seria da incutere timore pure mentre cammina: il tacco nove non le impedisce un passo quasi marziale, fende i corridoi, risponde al cellulare, sorride poco, dà indicazioni ai collaboratori per la puntata del giorno dopo, risquilla nuovamente il cellulare, si siede, “no grazie, niente acqua”, affronta le domande, e pensa al domani professionale.

Ma lei, dorme? “Non più come una volta, magari la notte la passo davanti alla televisione”.

Eleonora Daniele è bellezza acquisita e professionalità conquistata, se uno la guarda oggi non può credere di averla vista per la prima volta nella casa del Grande Fratello. Eppure è così.

E oggi una delle curve delle quali va più fiera è quella dell’Auditel: il suo Storie italiane è uno dei programmi più visti della Rai, dove cronaca e personaggi intrecciano la vita dei telespettatori.

Carattere deciso.

Assomiglio a mio padre, persona di cuore e generosa, ma con forte personalità, un vero Leone come da quadro astrologico.

Avrà anche imparato a esserlo.

Arrivo dalla campagna veneta, da un paesino che si chiama Saonara, ma a 18 anni già abitavo da sola a Padova: lì studiavo e nel frattempo lavoravo.

Studiava, cosa?

Istituto Magistrale, desideravo insegnare, stare con i bambini.

Diplomata, con?

Non un numero altissimo, però a scuola ero brava. Forse ho preso 43.

Poi…

Ho iniziato a lavorare e ho capito che in realtà mi piaceva tutt’altro, soprattutto il marketing.

Lei a scuola.

Il contrario di oggi: ero timida, introversa, metodica sui libri; per ogni interrogazione mi ammazzavo di studio, non sapevo improvvisare su nulla; oggi come allora improvviso solo se ho una base solida.

Comunque timida.

Lo sviluppo fisico è arrivato tardi, fino ai 17-18 anni ero bruttina (ci pensa un secondo); in realtà parecchio brutta (ci pensa un ulteriore secondo); ma adesso non voglio passare per bella.

Assolutamente.

Mi chiamavano “alicina”, ed ero tanto magra, eppure mangiavo con appetito; a volte i ragazzini mi prendevano in giro.

Non piaceva.

Per niente, in quel senso non ero molto sociale, non venivo scelta in mezzo al gruppo di ragazze; poi all’improvviso è esplosa la femminilità, e con quella è arrivato pure il carattere deciso.

Di pari passo.

Quando ho intervistato Lasse Matberg (vincitore di Ballando con le stelle del 2019) mi sono molto ritrovata nel suo racconto…

In che senso?

Lui alto, un ragazzone bellissimo, ogni stereotipo positivo al suo posto, eppure mi ha confidato di essere stato vittima di bulli perché lo prendevano in giro a causa dei denti storti.

Quindi…

Ecco, uno vede un figone così e non può credere a un’infanzia difficile.

La morale personale?

A me è successa un po’ la medesima situazione, e da piccola ero veramente insicura, mi rifugiavo in perenni riflessioni, scrivevo, mi isolavo nel mio mondo.

Resta sempre quell’eco?

Sì, quello che vivi nell’infanzia prima e nell’adolescenza poi te lo porti dietro per tutta la vita, e capita di sentirti ancora oggi un brutto anatroccolo, o comunque di poter avvertire riflessi dell’insicurezza di un tempo.

È la più piccola di quattro fratelli.

Prima di me c’era Luigi: con lui sono cresciuta in simbiosi (cambia totalmente tono della voce); da sorella di un disabile con una grave forma di autismo sono maturata prima dei miei coetanei; mi sono occupata di lui soprattutto nel periodo dell’adolescenza, quando si possono manifestare episodi di autolesionismo.

E lei…

Sono immagini che restano dentro, e forse oggi mi aiutano a comprendere meglio alcune storie trattate in trasmissione.

Ha le “corde”.

Avevo sei o sette anni, il periodo della chiusura dei manicomi a causa della legge Basaglia, e quando andavamo all’ospedale psichiatrico trovavamo pazienti con patologie mentali, tipo la schizofrenia.

Altra storia rispetto all’autismo.

Durante le crisi gravi lo ricoveravano negli stessi reparti, e abbiamo vissuto situazioni molto pesanti, però con una forte condivisione del dolore.

Si scherma dalle storie che affronta in televisione?

Non sempre, a volte non riesco, non lo trovo giusto, e continuo a seguirle nel tempo, anche negli anni, perché le soluzioni si trovano se non molli la presa; se al contrario diventi una trasmissione mordi e fuggi, allora le tue aspettative si riducono alla semplice spettacolarizzazione.

Insomma, la notte non dorme tanto…

Sempre stata una dormigliona, nell’ultimo periodo meno, magari sei ore. Forse sto invecchiando.

Rimpianto?

Se potessi tornare indietro starei di più con mio fratello.

Non lo nasconde.

Parlarne è terapeutico.

(Squilla ancora il cellulare. Si alza e cammina).

Sempre sui tacchi.

Solo in trasmissione. Oggi è un caso.

Lì ci vogliono.

Sono un’esteta.

Il giornalismo quando l’ha scoperto?

Con Uno Mattina e le prime dirette del 2004 durante i giorni drammatici dello tsunami nel Sudest asiatico.

Nella prima diretta era nervosa?

Emozionata però vissuta con grande normalità, andare a braccio mi piace; poi ho lavorato per cinque anni insieme a Beatrice Bracco (celebre insegnante di recitazione) e mi ha aiutato molto, in particolare con il teatro.

Amava il palco?

Molto e un giorno non escludo di tornarci.

Cosa le piaceva?

Soprattutto il rapporto con il pubblico, quell’immediatezza che spesso manca con la televisione.

Va a teatro?

Non spesso, la sera non esco quasi mai, la mattina mi sveglio alle cinque.

Sorride qualche volta?

No, piuttosto mi piace fare le battute.

Quindi, “no”.

Ho una vena malinconica, non sono una donna da risata a crepapelle, mi controllo perennemente.

Un falò sulla spiaggia?

Mai uno.

Campeggio?

Uno solo, poi mi sono ripromessa di non capitarci più (e qui sorride).

È stato un dramma.

Da ventenne e in Sardegna: arrivai alla fine della vacanza senza neanche i centesimi per acquistare una bottiglietta d’acqua.

Ultradramma.

Sono cresciuta in campagna, stavo bene a casa mia, non sentivo una particolare esigenza di immergermi nella natura.

Casa ordinata.

Lo sono diventata.

In cosa è peggiorata?

Sul controllo, non mollo nulla, monitoro ogni sfumatura.

Ogni.

Questo lato caratteriale si è sviluppato con il lavoro, poi l’atteggiamento si è diffuso nel resto della vita.

Quindi…

A casa un tempo ero ultra-disordinata, un bordello, mamma disperata, oggetti e vestiti nascosti sotto il letto; ora no, ed è un problema: non mi riconosco più.

Si incavola?

Abbastanza.

Le passa?

Velocemente.

In trasmissione ogni tanto cazzia gli ospiti.

Può capitare, ma siamo in onda su Rai1, televisione pubblica, ed è una responsabilità grossa: anche una frase giusta, ma espressa in maniera sbagliata, può diventare una bomba.

Questo, significa…

Se sento qualcosa che può diventare un problema, allora intervengo; spesso i nostri temi sono l’immigrazione, la sanità, la cronaca, questioni che toccano il pubblico, e sono necessarie le giuste tutele per tutti, anche delle minoranze.

Ha cavalcato la storia di Pamela Prati.

All’inizio, leggendo le inchieste di Roberto D’Agostino su Dagospia, l’avevo derubricata a vicenda passata. Sbagliato.

Invece.

Dopo mi sono incuriosita, in particolare quando sono arrivate le altre testimonianze: lì ho capito che non era un singolo caso ma un sistema.

Diffuso?

Nel tempo mi è giunta qualche ulteriore chiacchiera, ma a microfoni spenti.

Non è solo gossip.

Con le denunce partite, si esce fuori dal semplice spettacolo.

Lei non è molto gossippata.

Tra un po’ sì, a settembre mi sposo.

Contenta.

Quando ho provato l’abito una lacrimuccia è scesa.

Torniamo al gossip…

Ci sono personaggi che vivono anche di quello, per me non è così decisivo, mi occupo di altro.

La infastidisce?

Fa parte di questa vita, e se sei un personaggio pubblico un po’ di te lo devi raccontare, pure se non è semplice: quando sono andata ospite da Mara Venier per Domenica In, i giorni precedenti avevo la testa alla diretta. Sapevo che avrei parlato di mio fratello.

E…

Il pubblico ti ama anche per quello che sei; cerco di non esagerare, infatti non sto tutto il tempo sui social, non posto in continuazione foto. Evito per quel che posso.

Calendario sexy?

Proposto, ma non sono un personaggio adatto; detto questo non ci vedo nulla di male, il corpo può raccontare molto di te. E ci sono donne talmente belle che se non si mostrassero sarebbe un peccato.

Rifatte o naturali?

La chirurgia non la amo.

Però ne è circondata.

Abbastanza, e spesso neanche me ne accorgo. Sa chi mi piace? Rita Dalla Chiesa, donne elegante, interessante, intelligente.

Non rifatta.

Poteva essere diversa, invece ha deciso di mostrarsi bella per quello che è: se un giorno avessi una figlia mi piacerebbe decidesse di vivere così la propria vita, di ispirarsi a una come Rita.

A che ora monitora i dati Auditel?

Alle 10, appena escono.

Appuntamento fisso.

Li vedo senza particolare ansia, però li studio fino in fondo, e tutti i giorni, non solo i miei, pure quelli degli altri; magari avrò un nuovo futuro come esperta di numeri.

A chi dice grazie.

Un grazie non si nega a nessuno.

Nello specifico.

Ai miei nonni: mi hanno cresciuta fino ai cinque anni, e quando i miei lavoravano; forse sono i momenti più belli della mia vita; in particolare nonna, rapporto simbiotico, talmente forte da ricordarmi qualsiasi momento vissuto insieme.

Con lei rideva?

Sì… (risposta d’istinto. Poi si ferma e ci ripensa). Non lo so, forse non sono mai stata sorridente; però mi ha regalato molta forza. E oggi mi serve.

Professionalmente, a chi il “grazie”?

Luca Giurato: mi ha insegnato a sparigliare, a essere anche diversa dalla norma, a ribaltare l’apparenza, magari con un paio di calzini colorati, persino nei momenti ufficiali come per un’intervista importante.

Principe di gaffe.

Ecco, lì ridevo, pure quando finiva su Striscia la Notizia.

Perché rideva di Striscia?

Rivedevo di gaffe e momenti che magari mi ero persa: non sempre coglievo le sfumature di Luca.

Tra odio e indifferenza, cosa preferisce?

Eh… (Silenzio). È banale dire indifferenza, però è troppo importante dire “odio”. Nessuno dei due: non mi appartengono.

(Scriveva Herman Melville in “Moby Dick”: “Ma è vana impresa volgarizzare gli abissi, e ogni verità è un abisso”).

Twitter: @A_Ferrucci

Venezuela, fuga in Perù prima che sia troppo tardi

L’esodo dei venezuelani nei paesi confinanti e vicini ha avuto un’ennesima impennata negli ultimi giorni. In migliaia si sono affrettati a entrare in Perù allarmati dalla decisione delle autorità di introdurre leggi più severe sulla migrazione. Secondo la nuova legge, entrata in vigore ieri, per poter varcare i confini peruviani i migranti dal Venezuela dovranno essere muniti di passaporto e visto. Finora era necessaria solo la carta d’identità. Con questa decisione le autorità di Lima sanno di poter contrastare efficacemente l’arrivo di nuovi venezuelani. Del resto, anche se avessero i soldi necessari per ottenere il passaporto, gli aspiranti rifugiati dovrebbero aspettare mesi, essendo lo stato bolivariano guidato dal regime di Nicolas Maduro collassato a tutti i livelli. Gli uffici pubblici, quando sono aperti, lavorano solo poche ore e gli impiegati pubblici non ricevono lo stipendio da mesi. Inoltre i salari, quando vengono corrisposti, non sono in grado di tenere testa all’inflazione in costante ascesa.

Le autorità di Lima hanno reso noto che circa 6.000 venezuelani, dopo essere transitati in Colombia ed Ecuador, hanno fatto il loro ingresso nel paese andino solo nella giornata di giovedì. Ovvero tre volte la media giornaliera. Venerdì, Marianna Luzardo era in viaggio verso il confine settentrionale del Perù con le sue due figlie. “In Venezuela è quasi impossibile ottenere un passaporto – ha detto all’Associated Press – dobbiamo andare presto in Perù”.

Il presidente del Perù, Martin Vizcarra, ha difeso le restrizioni: “Il nostro Paese ha aperto le braccia a più di 800.000 venezuelani, penso che sia giustificato chiedere loro di avere il visto, così potremo controllare meglio chi entra”.

Dal 2015 sono almeno 4 milioni i cittadini venezuelani a essere fuggiti dal Paese a causa della grave crisi politico-economica e umanitaria. I Paesi latinoamericani ospitano la stragrande maggioranza di migranti e rifugiati venezuelani. La Colombia ha dato riparo a 1,3 milioni, seguita dal Perù con 768.000, secondo le Nazioni Unite. In alcune parti del Venezuela, uno dei Paesi più ricchi di petrolio del mondo, il carburante sta diventando sempre più scarso ed è sempre più frequente vedere lunghissime code di camionisti e lavoratori, costretti a usare la macchina, attendere per giorni nelle stazioni di servizio. Anche i blackout continuano a rendere difficile la vita dei più poveri nelle zone remote, mentre a Caracas sembra che l’elettricità sia stata ripristinata definitivamente. Il regime di Nicolas Maduro sostiene che le carenze siano causate dalle sanzioni statunitensi mentre l’opposizione, guidata da Juan Guaidò accusa la corruzione e cattiva gestione dell’esecutivo. La crisi si è approfondita a gennaio dopo che Juan Guaidó, il capo dell’Assemblea nazionale, si è dichiarato presidente ad interim, sostenendo che la rielezione di Maduro l’anno scorso fosse avvenuta grazie ai brogli elettorali, come testimoniato anche dalla maggior parte degli osservatori internazionali. La Costituzione fatta riscrivere su ordine dell’ex presidente Chavez – predecessore e padre politico di Maduro – prevede infatti che in caso di brogli elettorali il potere vada al capo dell’Assemblea nazionale. Da allora Guaidò è stato riconosciuto da più di 50 paesi, ma non dall’Italia.

L’implosione dell’economia venezuelana ha generato una drammatica scarsità di cibo, medicine e beni primari, oltre che un tasso di disoccupazione mai registrato prima.

Carrie, la contessa di Hong Kong troppo amica del Dragone

Sospesa a tempo indeterminato, ma non annullata: la legge sulle estradizioni in Cina, oggetto da giorni di proteste di massa nell’ex colonia britannica, non entrerà in vigore, per ora. La decisione della governatrice Carrie Lam mira a evitare il ripetersi di incidenti sanguinosi come quelli di mercoledì scorso. Ma la piazza non s’acquieta: il Civil Human Rights Front (Chrf), organizzatore e animatore della protesta, conferma i cortei di oggi: chiede il ritiro definitivo della misura e vuole che Lam si scusi per l’uso della forza potenzialmente letale da parte della polizia. Più radicali, i sindacati ne reclamano le dimissioni. Carrie Lam, il cui nome cinese è Cheng Yuet-ngor, evita di dare risposte molto dirette alle domande sulle dimissioni o sulle scuse: “Provo profondo dolore e mi rammarico delle controversie suscitate nella società dopo un periodo di due anni relativamente calmi”, dice in conferenza stampa.

Afferma di non volere più vedere scene del genere in futuro, ma difende il ricorso a lacrimogeni e proiettili di gomma da parte della polizia per disperdere i manifestanti. È stata la più grande protesta popolare dalla transizione dell’ex colonia da Londra a Pechino nel 1997. “Le nostre intenzioni erano sincere, volevamo colmare alcune lacune normative”, afferma Lam, leggendo alla stampa una ricostruzione della vicenda di oltre dieci minuti prima in cantonese e poi in inglese. “Forse non stiamo stati sufficientemente efficaci nella comunicazione, ma ora la priorità è quella di ricostruire la pace e l’ordine e la fiducia verso il governo”. L’obiettivo di varare la norma e metterla in vigore a luglio “non è più la priorità”. Cattolica devota – studiò dalle Canossiane – crede che avrà un posto in paradiso perché fa “cose buone”, ma è considerata da molti suoi concittadini “una marionetta” dei cinesi; 62 anni, capo dell’Esecutivo di Hong Kong dal 10 luglio 2017, dopo la ‘rivoluzione degli ombrelli’, prima donna in quell’incarico, è considerata “una persona di Pechino”. Ma di sé lei dice: “Ricopro una carica che richiede dialogo e sintonia con le autorità cinesi, ma devo rispondere alla Costituzione e alla gente di Hong Kong”.

La sospensione della legge sulle estradizioni è stata decisa d’intesa, e non in contrasto, con la Cina: prima di prenderla e di annunciarla, Carrie Lam avrebbe incontrato – lei però non lo conferma – Han Zheng, uno dei sette membri del Comitato permanente del Politburo del Partito comunista cinese. A sbloccare la situazione sarebbe stato l’incontro tra Lam e Han, che è responsabile dei rapporti con Hong Kong: Pechino voleva disinnescare le tensioni prima del Vertice dei leader del G20 a Osaka, in Giappone, il 28 e 29 giugno, per evitare che il presidente Xi Jinping potesse trovarsi in imbarazzo.

Sposata nel 1984 con un matematico di Hong Kong conosciuto a Cambridge, Lam ha rinunciato alla cittadinanza britannica, mentre il marito e i due figli – educati in Inghilterra – l’hanno mantenuta. Carrie Lam ha esperienza quasi quarantennale dell’amministrazione, e della diplomazia, di Hong-Kong: laureatasi presso l’Università della ‘città isola’, entrò nel servizio pubblico nel 1980 e fece pratica in diversi uffici e dipartimenti. Nel 2007, ebbe una promozione chiave: segretaria per lo Sviluppo, guadagnando la reputazione di donna forte gestendo la demolizione del Molo della Regina. Principale collaboratrice del governatore Leung Chun-ying nel 2012, poi a capo della task force sullo sviluppo costituzionale, condusse nel 2014 colloqui con leader studenteschi durante le proteste e le occupazioni su larga scala di quell’anno. Nel 2017, fu eletta a capo dell’esecutivo con 777 voti sui 1.194 membri del comitato elettorale: si presentava come la favorita di Pechino e superò nettamente i suoi avversari, l’ex responsabile finanziario John Tsang e il giudice Woo Kwok-hing.