Ciampino, ci sono tre indagati per il dossier contro la candidata

Un ricatto con foto “hot” per costringere la candidata avversaria a ritirarsi dalla corsa elettorale per il comune di Ciampino. Ad orchestrare il tentativo di sabotaggio ai danni di Daniela Ballico, neoeletta sindaco del comune dove ha sede il secondo aeroporto romano con un’alleanza di centrodestra, sarebbero stati l’ex candidata Gabriella Sisti (sempre del centrodestra), suo marito Elio Addessi e un membro del suo entourage politico, Vincenzo Piro.

Secondo gli inquirenti, i tre avrebbero prima rubato il pc della Bellico e il cellulare del responsabile della sua campagna elettorale, Fabrizio Matturro, da cui avrebbero scaricato immagini, documenti e conversazioni private fra i due, per poi diffonderle. A ricevere il materiale hard sono state diverse personalità del centrodestra come Matteo Salvini, Antonio Tajani e Lorenzo Cesa. Inoltre Addessi avrebbe contattato degli esponenti laziali della Lega, minacciando di far affiggere dei manifesti con le foto incriminate. Ora alla Sisti e ai suoi due complici sono stati contestati i reati di furto, ricettazione, diffamazione e attentati contro i diritti politici del cittadino.

Il presunto boss, il Pd e il “tumore” M5S

“Cacciate via questo tumore e sbrigatevi, che mi ha rotto i coglioni e sta rompendo gli equilibri del paese”. A fine estate 2015 Alessandro Fragalá è nervoso. L’arresto l’ha tenuto lontano dalla stanza dei bottoni per molto tempo e ora scalpita. Vuole “riprendersi Pomezia” il presunto boss mafioso dell’omonima famiglia del litorale sud di Roma, arrestato il 4 giugno nell’operazione ‘Equilibri’ della Dda della Capitale. Così l’8 settembre, intercettato dai carabinieri del Ros, impartisce l’ordine a Omero Schiumarini, ex capogruppo del Pd in Comune che, secondo quanto ricostruito dai magistrati, in quelle settimane lo va a trovare a casa per aggiornarlo sulla politica pometina: il “tumore” da estirpare è l’amministrazione locale M5S guidata dall’ex sindaco Fabio Fucci, che due anni prima aveva sconfitto proprio Schiumarini al ballottaggio.

Dai domiciliari, Fragalà muove le fila per riconquistare spazio sul territorio e, ricostruiscono gli inquirenti, in quell’autunno discute con Schiumarini e con Fiorenzo D’Alessandri – altro esponente del Pd locale – di come rovesciare la giunta grillina e inserire i suoi in amministrazione. Fra cui la figlia Astrid, già presidente della Confcommercio Roma Sud (“Ce l’ho messa io”, diceva Schiumarini) per la quale immaginava un ruolo da assessore. “L’interesse nostro sta a Pomezia. Ci dobbiamo tornare noi”, diceva Fragalà a D’Alessandri.

I tre erano stati coinvolti nel 2001 nell’operazione Bignè, una storia di presunte tangenti finita in prescrizione. Per questo, spiegava il capo famiglia, serviva un’operazione “facce nuove”. “La gente quando vede a noi gli facciamo schifo, giusto o sbagliato che sia”, gli dava ragione D’Alessandri, azzardando: “C’abbiamo un paio di persone presentabili. Noi gli mettiamo la fascia tricolore poi gli accordi li facciamo dopo”. E il boss, in un’altra conversazione, parlando con la moglie: “A me interessa che lui c’abbia un Fragalà là dentro, cioè mia figlia… qualsiasi cosa e chiunque va là, vede a mia figlia là dentro… dice ‘è coperto’”.

A dispetto delle mire dei Fragalà, la giunta Fucci sarebbe caduta solo nel 2018, per la decisione dell’ex M5S di ricandidarsi nonostante la regola dei due mandati. Nel frattempo, Schiumarini e i suoi avevano lavorato a un candidato “pulito”, individuato nell’avvocato Antonio Aquino, saltato in extremis per una spaccatura interna ai Dem. Schiumarini – passato dal Pdl al centrosinistra nel 2011 e poi al Pd dopo la sconfitta alle comunali del 2013 – aveva già contribuito all’elezione di Daniele Leodori (attuale vice di Nicola Zingaretti) in Consiglio regionale e, nel dicembre 2018, avrebbe perorato la causa del futuro segretario del Pd Lazio, Bruno Astorre, leader regionale della corrente AreaDem di Franceschini.

Non indagato, Schiumarini si è dimesso da tutti i ruoli politici e anche dal lavoro part-time in Regione, in un ufficio di diretta competenza di Leodori. “Dopo essere stato definito da Buzzi come ‘incorruttibile’, queste frasi sono un altro motivo di orgoglio per me”, ha detto Fabio Fucci in un video su Facebook: “Vorrei solo finissero gli insulti di chi non ha accettato la mia scelta di uscire dal M5S”.

“Pensavano fosse tutto marcio: io riapro la porta del Comune”

Luca Salvetti è il nuovo sindaco di Livorno. Ma non ha fatto nulla per diventarlo. L’opera l’hanno realizzata i suoi predecessori, i cinquestelle, col sindaco Nogarin in testa.

Il giorno dopo l’elezione ho aperto il portone principale del Municipio. Un atto simbolico e insieme la chiave interpretativa di ciò che il Movimento ha sbagliato.

Il municipio che non si apre alla città, il potere nelle solite stanze chiuse.

L’idea che tutto fosse marcio e potenzialmente infettato ha convinto i miei predecessori della necessità di una bonifica profonda. Hanno iniziato a sigillare e hanno finito per sigillarsi. Sono rimasti intrappolati dietro le gabbie che avevano edificato per difendersi da coloro che ritenevano corruttori. Hanno perso ogni rapporto con la città, e il loro movimento, nato per essere orizzontale, si è trasformato in verticale e inaccessibile. Sono rimasti vittima di un grande effetto ottico.

E lei ne ha goduto.

Faccio il giornalista locale. La mia emittente, Granducato tv, mi dà da vivere da trent’anni. Il mio volto è conosciuto, e forse anche la mia attitudine a misurarmi coi problemi della gente. Sono nato in periferia e mi trovo a mio agio.

Non ci pensava proprio a fare il sindaco.

Ero a Sanremo per lavoro. Mi arriva la telefonata del segretario Pd che mi dice: senti, noi avremmo individuato te.

Noi chi?

Il Pd e altre forze di sinistra.

Lei è rosso rosso, o rosé.

In passato ho votato anche Rifondazione.

Il primo sindaco che entra in Comune salutato dal canto di Bella ciao. Di questi tempi è una grande novità.

È stata un’emozione fortissima. Un canto liberatorio.

Livorno era reduce da una legnata.

I cittadini avevano votato cinquestelle perché il Pd si era imbolsito. Era apparso distante, saccente, vizioso.

Hanno dovuto chiedere a lei di recuperare la reputazione perduta.

Gli ho subito detto: se cercate una bandiera non sono il candidato migliore.

Cercavano il municipio.

Il potere? Mi sta dicendo questo?

Sì.

Legittimo. Livorno è stata amministrata meglio di come s’è detto, ed è più bella di quel che appare. Ha perso l’orgoglio, un po’ gli animi si sono incarogniti per via della crisi: 25mila disoccupati son tanti in una città di 160mila.

Venticinquemila erano quando vinse Nogarin?

E tanti sono adesso, dopo cinque anni di Nogarin. Questo è un altro dato che ha portato alla loro sconfitta.

Non salva niente della loro esperienza?

Alcune cose buone le hanno fatte. Hanno mostrato impegno sui temi culturali e identitari. Il Cacciucco pride, per esempio, è una bella iniziativa: assolutamente continuerà.

L’avranno votata i delusi.

I 5 Stelle di Livorno sono in prevalenza di sinistra. D’altronde potrebbe mai essere diversamente? Una parte ha votato me. Un’altra s’è astenuta. Una terza è andata alla candidata sconfitta. Ha preso il 17%. Cinque anni fa il Movimento al primo turno prese il 19%. Fu il ballottaggio che scombussolò tutto.

I livornesi sono brontoloni.

Si parla, si parla. Si viene al municipio anche senza aver nulla da fare. Si dice: “Passo un po’ per il comune”. Aver sbarrato la porta principale (naturalmente gli accessi secondari erano liberi) è stato un ceffone alla città, un atto sbagliatissimo. Immaginare la palingenesi valutando la realtà con uno sguardo provvisorio e limitato porta a fare questi strafalcioni.

Vedremo Salvetti all’opera e allora legnate a volontà.

Per ora son solo complimenti, verrà il tempo dei rimbrotti.

Le comunicheranno i nomi per la giunta.

Ho chiesto una rosa, scelgo io.

Lei è un pesce fuor d’acqua.

Facevo il giornalista, stavo nel mio. Penso con decoro.

Suo lo scoop sulla tragedia della Moby Prince.

Mi sono trovato ad essere il primo cronista sul luogo dell’incidente. Ho fatto quel che tutti avrebbero fatto.

La Rai le offrì un contratto.

Sì, per Chi l’ha visto. Mi offrirono un contratto a tempo determinato. Avevo già famiglia, preferii la provincia e un posto sicuro.

Giocava a pallone.

Insieme ad Allegri, con i Portuali. Lui numero 10 e io 11.

Salvetti è sindaco a sua insaputa.

Non l’ho certo chiesto, non ho mai fatto nulla perché accadesse.

Tutto merito dei 5 Stelle.

Se non hanno saputo custodire la simpatia che ottennero un po’ improvvisamente, qualche motivo ci sarà.

Cosa manca alla rossa Livorno?

Il lavoro. Solo quello. Per il resto è un vero paradiso.

Troppa paura di dire la verità, non pensiamo alle poltrone

La notte dello spoglio, mentre assistevo alla sconfitta più sonora nella storia del Movimento, ho pensato a questi primi anni di governo. Ho osservato da lontano, in molti questo non me lo perdonano ma penso sia stata la scelta giusta. Da lontano ho visto un Movimento che portava a casa risultati su risultati mentre Salvini riusciva, in campagna elettorale permanente, a rivendicarli meglio di noi che li avevamo prodotti. Incredibile, ma è andata così. Però ho visto molte altre cose. Ho visto paura, paura ovunque. Paura di sembrare “politicamente scorretti” una volta diventati Istituzione; paura di attaccare la Lega sui 49 milioni rubati; paura di essere calunniati dal sistema mediatico come se non fossimo cresciuti e non ci fossimo rafforzati anche grazie a tutto quel fango; paura di prendere posizioni scomode in ambito internazionale e sull’Europa stessa; paura di apparire, ancora una volta, novellini inesperti. Le bugie raccontate per anni dai mezzi di comunicazione mainstream hanno prodotto un effetto. Non nell’opinione pubblica, che ormai non gli crede più, ma in noi, in noi che siamo vittime dirette e quotidiane delle loro menzogne. Non abbiamo perso le elezioni perché i media hanno raccontato falsità alla pubblica opinione. Le abbiamo perse perché noi e soltanto noi abbiamo creduto a quelle menzogne e per tentare di confutarle ci siamo via via trasformati in burocrati rinchiusi diciotto ore al giorno nei ministeri. Mentre Salvini al ministero non ci stava quasi mai.

È andata così. Si dirà: “Voi siete rappresentanti del Popolo e avete il dovere di lavorare e di stare nei ministeri”. È vero. E questo è proprio il punto. La verità è che siamo brave persone. Siamo incapaci di fare strategie perché in politica, molto spesso, le migliori strategie le fanno gli squali, le fanno coloro per nulla interessati alla risoluzione dei problemi, le fanno i professionisti della politica. Il Movimento faccia il Movimento, più le domande sono complesse e più le risposte sono semplici. Milioni di persone hanno scelto il Movimento per la sua enorme portata rivoluzionaria. Non sono rivoluzionarie le nostre proposte, per lo meno non tutte, in fin dei conti stiamo approvando leggi che l’Italia aspetta da anni. È rivoluzionario il messaggio primordiale del Movimento. Quale? Il cittadino che si fa Stato. È un messaggio rivoluzionario e ancor più rivoluzionario è il fatto che quest’idea sia diventata realtà. Migliaia di comuni cittadini sono diventati consiglieri comunali, sindaci, parlamentari, sottosegretari, ministri della Repubblica. Illustri sconosciuti mai considerati si sono fatti Istituzione.

Le strategie lasciamole ai politicanti, se entriamo nel loro campo ci fanno a pezzi. In fondo, per decenni, non hanno fatto altro che fare strategie per guadagnare poltrone e privilegi. Quando li abbiamo costretti a entrare nel nostro di campo, quello delle proposte di buon senso, quello della sobrietà, della passione politica, quello dell’attivismo, della politica come missione, li abbiamo fatti a pezzi noi. Mostri sacri della politica sono stati sbattuti fuori dalle Istituzioni grazie alla nostra intransigenza e al nostro sincero desiderio di cambiare. Siamo sempre stati impertinenti e sfrontati di fronte al potere. Abbiamo il dovere di esserlo anche se al potere ci siamo noi. In fondo non abbiamo davvero nulla da perdere. Non i ruoli, non le poltrone, non la carriera. Ripeto, sono gli altri i politici di professione, non noi.

Oltretutto è proprio quando non si ha più nulla da perdere che si ricomincia a vincere.(….)

Quando nacque il Movimento 5 Stelle per me fu del tutto naturale aderirvi. E non perché credevo di pensarla come il Movimento, ma perché sentivo che il Movimento la pensava come me. Nel blog di Beppe Grillo, il luogo dove tutto è partito, si leggevano un mucchio di verità impossibili da trovare altrove. La verità non è mai comoda, non lo è per chi la dice e soprattutto non lo è per chi l’ascolta, perché se la si fa propria poi non si può più tornare indietro, ci si deve per forza schierare. Dire la verità è tremendamente difficile, altrimenti non esisterebbero le menzogne. Le menzogne in politica sono comode, corrette, in fondo, per lo meno fino a oggi, ti permettono di fare carriera molto più facilmente. Mentre combattere per la verità è un’impresa titanica. Eppure è l’unico modo per lottare per il cambiamento, quel cambiamento che, come detto, o è doloroso o non è affatto tale. È stato difficile, per me, denunciare ciò che ritenevo andasse denunciato. È stato difficile andare ad Arcore a leggere la sentenza Dell’Utri perché sapevo che i giornali di Berlusconi si sarebbero vendicati. È stato difficile rinunciare a un ministero ma sapevo si sarebbe rivelata la scelta giusta. È stato estremamente complesso puntare il dito sulla Francia e sullo scandalo del Franco cfa perché ero certo che sarebbero arrivate le rappresaglie politiche e mediatiche. Come tutti a volte anche io mi rifugio nelle comode menzogne o negli ancor più confortevoli “non detti”. Tuttavia cerco di farlo il meno possibile, sia tra le mura domestiche, pur conscio delle “guerre termo-nucleari” che fa scoppiare l’eccesso di sincerità, sia nella sfera pubblica perché in fondo, ora che sono un comune cittadino e che non ho alcun incarico istituzionale, posso dire di fidarmi molto di più di un politico che mi dice la verità…

A volte mi capita di essere fermato da persone che mi chiedono: “Ciao Alessandro, ti ricordi di me?”. Io generalmente non mi ricordo mai. Non è mancanza di rispetto, è solo che negli ultimi anni di persone, soprattutto durante i comizi in piazza, ne ho incontrate a migliaia. Ebbene, quando succede l’istinto di dire “Certo che mi ricordo, come va?” è forte. È la via semplice, quella “politicamente corretta”, quella democristiana. (…) Io dico la verità. Rispondo con un sonoro: “No, non mi ricordo”. Qualcuno magari potrà darmi del maleducato ma nessuno potrà mai pensare che sia alla ricerca incondizionata della sua approvazione. E forse, quando non cerchi il consenso, è la volta buona che lo ottieni davvero.

“È di Forza Italia”. Salvini non partecipa alla convention di Toti

Matteo Salvini giura di pensare solo alla Lega, e, almeno per ora, sulle sorti del resto del centrodestra non si sbilancia.

Il segretario del Carroccio, in visita a Recco (provincia di Genova) per ora resta fuori dalla diatriba scoppiata all’interno di Forza Italia tra il governatore ligure Giovanni Toti e il leader del partito Silvio Berlusconi. “Non vado alle iniziative di altri partiti, con tutto il rispetto – ha detto ieri Salvini – È vero che non è ancora un partito, ma lui è un governatore di Forza Italia e io non vado alle iniziative di Forza Italia, vado a quelle della Lega”.

Il riferimento è alla convention organizzata da Toti il 6 luglio a Roma, al Teatro Brancaccio per “rilanciare l’anima moderata del centrodestra”, a cui per ora il ministro dell’Interno non parteciperà.

Tuttavia, il vicepremier non chiude la porta al dialogo col presidente della Liguria: “Toti? Non l’ho ancora sentito, ma lo sentirò sicuramente”. Nessun suggerimento, però: “Chi sono io per dare un consiglio a Toti? – ha concluso Salvini – Sta lavorando benissimo in Regione”.

Il vicesegretario leghista nei guai per un video

Da quando ha fatto quel video, una polemica contro gli sconti alle famiglie arabe, ne ha fatta di strada. Prima è stato eletto alla Camera e ora è diventato vicesegretario del suo partito, la Lega. Ragione per cui, forse, non si interessa molto della richiesta di risarcimento dei danni d’immagine su cui dovrà decidere il Tribunale di Torino: non ha nemmeno nominato un difensore.

Il deputato Andrea Crippa, 33enne nato a Monza, ex collaboratore di Matteo Salvini al Parlamento europeo ed ex leader dei Giovani padani, è stato citato in giudizio dalla Fondazione Museo delle Antichità egizie, l’ente che gestisce il Museo Egizio di Torino, tra i più visitati in Italia e tra i più importanti al mondo nel suo settore. Assistita dall’avvocato Fabrizio Tarocco dello Studio Weigmann, la fondazione presieduta da Evelina Christillin ha intentato una causa ritenendosi danneggiata da un video che potrebbe essere un falso, creato ad hoc per gettare fango sul museo.

Si tratta delle immagini pubblicate su Facebook il 17 gennaio 2018 in cui Crippa polemizza – come fece poi anche la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni – con l’iniziativa “Fortunato chi parla arabo”, che per alcuni mesi dava la possibilità ai cittadini di lingua araba di entrare al museo usufruendo di una promozione: due persone al prezzo di una.

Nel video si vedeva Crippa telefonare al centralino del Museo Egizio per chiedere alcune informazioni e poi parlare con un uomo (dall’accento meneghino): “È discriminante nei confronti dei cittadini italiani”, concludeva coi modi e i toni da politico populista, quelli spesso utilizzati dal suo “Capitano”. “Facciamogli sentire cosa pensiamo”, era scritto nella schermata dove era riportato il numero di telefono del museo. Il risultato? Il centralino fu preso d’assalto. Così partì una prima denuncia contro quella che per il museo era “una deliberata messa in scena da parte del signor Andrea Crippa”, che conteneva “risposte inesatte e comunque in alcun modo riferibili ad operatrici dell’Ufficio Prenotazioni del Museo Egizio”. Ci fu una denuncia e un’inchiesta per diffamazione aggravata dai motivi razziali, ma fu ben presto archiviata perché la procura riteneva non fosse stato commesso nessun reato. Questo, però, non ha impedito alla fondazione di proseguire la sua battaglia legale contro Crippa a cui chiederà un risarcimento danni non ancora quantificato. Più che di danni materiali (non c’è stato un calo degli ingressi), la fondazione e il suo avvocato ritengono ci sia stato un danno d’immagine provocato da un video montato ad arte. Quando Crippa telefona ascolta il messaggio automatico che preannuncia che “le nostre operatrici sono momentaneamente occupate”. Poi, però, risponde un uomo. Questa – fa notare la difesa del Museo – è una prima discrepanza: al centralino lavorano soltanto le dipendenti della cooperativa Rear. Inoltre, secondo un ingegnere elettroacustico consulente di parte, nel suono si nota uno stacco netto tra la prima parte del filmato, quella in cui Crippa compone il numero e ascolta il messaggio automatico e quella in cui interloquisce con l’uomo.

Mercoledì scorso all’udienza in tribunale, il giudice Silvia Di Donato ha affidato a un perito il compito di svolgere una nuova analisi. I risultati verranno resi noti nella prossima udienza fissata a metà ottobre e forse entro la fine dell’anno si saprà se l’onorevole Crippa è un creatore di “fake news”. “Non vogliamo fare cassa – dichiara l’avvocato Fabrizio Tarocco –, ma difendere l’immagine del museo”.

“Tempi più stretti per i pm”. Ecco la riforma di Bonafede

La Lega bussa forte al portone con la sua lista della spesa sulla giustizia, e il Guardasigilli dei 5Stelle Alfonso Bonafede si prepara ad accoglierla. Facendo trapelare che “le proposte del Carroccio” sono già nella sua bozza di riforma, che vuole accelerare la conclusione delle indagini preliminari con limiti più stringenti per i pubblici ministeri. Il cuore di una legge delega in cui potrebbero entrare anche la riforma del Csm e nuove norme sulle intercettazioni, su cui resta forte la distanza tra i gialloverdi.

Non a caso da via Arenula fanno sapere di aver “tenuto la riforma volutamente fuori dal tritacarne della campagne elettorale”. Ma il testo, dicono, non era ignoto alla Lega, perché “c’erano già stati degli incontri tra Bongiorno e il ministro”. È questa la contromossa di Bonafede per rispondere proprio alla ministra della Pa, la voce di Matteo Salvini sulla giustizia.

Una penalista che sa nuotare nella politica, Bongiorno, e che sul Corriere della Sera ieri ha dettato l’agenda secondo il Carroccio. Chiedendo “termini perentori per le fasi del processo e soprattutto per le indagini” e sostenendo che “occorre evitare la pubblicazione dei verbali nelle fasi precoci dei procedimenti”, per poi invocare “il divieto assoluto di pubblicazione di ciò che attiene alla vita privata” e “sanzioni per chi pubblichi le intercettazioni gossip”. Paletti in vista del vertice di mercoledì sulla giustizia a Palazzo Chigi, con il premier Giuseppe Conte, Bongiorno, Bonafede e forse Salvini, che promette di esserci. Perché la giustizia è un altro fronte dentro i gialloverdi, con il capo della Lega che prosegue nella sua guerra di logoramento: per ottenere via libera su tutto, o per preparare il terreno a una crisi di governo, in tempo per votare a settembre. Nell’attesa Bonafede difende la trincea. E fonti del ministero anticipano punti della sua riforma. A partire dai tre scaglioni per lo svolgimento delle indagini preliminari, basati sulla gravità dei reati, al posto degli attuali due di sei mesi e un anno. A quanto trapela però i termini massimi non verranno toccati. Quindi rimarrà in vigore l’attuale articolo 407 del codice di procedura penale, secondo cui la durata massima delle indagini non può superare i 18 mesi (ma per alcuni reati più gravi si può arrivare a due anni).

Nei piani sarà possibile una sola proroga, di sei mesi. Soprattutto, se entro tre mesi dalla scadenza dei termini massimi il pm non avrà notificato l’avviso di conclusione delle indagini oppure richiesto l’archiviazione, la documentazione dovrà essere depositata presso la segreteria del pubblico ministero e messa a disposizione dell’indagato e della persona offesa. Una norma a cui si potrà derogare solo in caso di reati gravi. Ed è un punto centrale per via Arenula, perché dimostrerebbe che Bonafede non è “schiacciato” sulla magistratura. Per questo, fonti del ministero raccontano che ai tavoli sulla riforma i magistrati avevano spinto per non avere veri limiti temporali per la conclusione delle indagini, mentre il Guardasigilli aveva definito “inderogabile” un intervento. Invece uno dei presenti rivela al Fatto che nelle riunioni si era parlato anche di sanzioni per i pm inadempienti. Ma non è chiaro se siano previste nella riforma.

Poi c’è il capitolo intercettazioni, su cui Bonafede ha pronte nuove regole. E l’impostazione si ricava da un post sul Blog delle stelle: “Secondo la giurisprudenza, ci sono tre condizioni a cui attenersi per una corretta informazione. L’utilità sociale dell’informazione; la verità dei fatti esposti; la forma “civile” della esposizione dei fatti e della loro valutazione”. Criteri fissati da una sentenza della Cassazione del 1994, che il ministro vorrebbe preservare nella nuova normativa sulle registrazione: diversa quella dell’ex Guardasigilli Andrea Orlando, di cui il governo ha prorogato l’entrata in vigore al 31 dicembre. Ma è una linea molto diversa anche da quella di Salvini, secondo cui “è indegno leggere sui giornali intercettazioni senza rilievo penale”. E mercoledì la differenza potrebbe emergere: tutta.

Di Maio: “Zanda ha ricevuto 15 mila euro da Carlo De Benedetti”

Luigi Di Maio “accusa” Luigi Zanda di aver ricevuto una donazione di 15mila euro da Carlo De Benedetti. E il tesoriere del Pd replica: “La prossima settimana a Di Maio verrà notificata la richiesta danni che i miei avvocati stanno presentando al tribunale di Roma”. Parte da un post su Facebook del vicepremier, che sostiene: “Alcuni organi di stampa riferiscono che Zanda, lo stesso che ha avuto il coraggio di proporre un aumento degli stipendi dei parlamentari, recentemente avrebbe ricevuto una donazione di 15mila euro dall’editore del Gruppo l’Espresso, Carlo De Benedetti. Non so se sia vero o meno, ma ci auguriamo una smentita nelle prossime ore, perché se lo fosse sarebbe grave”. Ma il senatore del Pd risponde: “Sarà la magistratura a mettere fine alle manipolazioni di Di Maio sul contenuto di un mio vecchio ddl che diminuisce il trattamento economico dei parlamentari italiani e non lo aumenta. Quanto a De Benedetti (che da tempo non è più l’editore dell’Espresso avendone ceduto il controllo ai figli), Di Maio scopre l’acqua calda. Il suo contributo di 15.000 euro alla mia ultima campagna elettorale è stato regolarmente comunicato al Parlamento e compare da tempi nei bollettini delle Camere”.

Roberti: “Da ingenui pensare che il caso Palamara sia isolato”

Più che una riformadella Giustizia, serve “una revisione delle coscienze”. A chiedere un mea culpa collettivo dopo lo scandalo delle nomine al Csm è l’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. “Indipendentemente dalla rilevanza penale delle intercettazioni – spiega a l’Intervista di Maria Latella, su SkyTg24 – credo che queste ci diano un quadro molto inquietante e allarmante di una commistione impropria tra politica e giustizia che mina i fondamenti dello Stato di diritto”. Secondo Roberti, che attualmente è europarlamentare per il Pd, gli inciuci fra magistrati e politici che sono emersi in questi giorni sono un pericolo e un affronto per la Repubblica: “L’incontro tra politica e magistratura avviene all’interno del Csm. Quello che viene al di fuori, le cene, gli incontri notturni sono mine allo stato di diritto – continua –. La riforma potrebbe essere utile ma non decisiva perchè si deve prima recuperare il ruolo delle istituzioni. Credo che bisognerebbe arrivare a una revisione generale più che delle norme, che ci sono, ma delle coscienze”. E avverte: “Sarebbe ingenuo pensare che il caso Palamara sia isolato”.

I turborenziani ancora strillano alla gogna. Ma alla base l’autosospensione non basta

Il Pd ha davvero perso la sua anima garantista, lasciando Luca Lotti alla mercé di forcaioli e manettari? Così sostiene buona parte degli esponenti dem, incuranti di quello che nel frattempo anima la base del partito. Da due giorni il leitmotiv dei pasdaran lottiani, molti dei quali si sono ritrovati ieri per un evento a Assisi, è lo stesso: la segreteria doveva difendere di più l’ex ministro. Alessia Morani, per esempio, ha tuonato: “Luca si è autosospeso dopo giorni di gogna mediatica spinta anche dal nostro stesso partito. Non ha commesso alcun reato eppure la furia giustizialista del nuovo Pd non perdona”. Così anche la deputata Alessia Rotta: “Il mio partito in questi anni si era contraddistinto per la capacità di essere garantista e non ha mai cavalcato inchieste e intercettazioni per fare rese dei conti politiche”. Solito copione di Luciano Nobili, altro renziano: “Si parla di nuovo Pd, Zingaretti ci spieghi come funziona: vedo tanta nostalgia del passato, non vedo novità, solo un vecchio, insopportabile giustizialismo”. D’altra parte la linea l’aveva dettata il capogruppo al Senato Andrea Marcucci, secondo cui “il garantismo non può essere usato a fasi alterne” e “saranno in molti, anche tra i dirigenti del Pd, che dovranno scusarsi con Lotti”.

Eppure sul caso lo scollamento con la base (e non solo) è evidente. Nicholas Ferrante, giovane militante di Avellino, è critico con i tentennamenti dei vertici: “Lotti si è autosospeso. Ma non basta, va allontanato dal partito. C’è una questione etica della politica rispetto alla quale l’autosospensione è una presa per i fondelli”.

Anche Peppe Provenzano, membro della direzione nazionale del Pd, ribadisce la differenza tra processi e etica: “C’è una questione politica, e il giustizialismo e il garantismo non c’entrano nulla con il comportamento di Lotti e Ferri”. Idee chiare, come quelle di Cinzia Dicorato, attivista di Barletta: “I territori sono ormai terremotati. In Puglia perdiamo pezzi e circoli. Il permanere in questo stato di cose, il mantenere certe figure che pensano solo alla loro sopravvivenza politica sta facendo scomparire la base, i militanti, che ormai sono demotivati e scoraggiati. Bisogna avere il coraggio di dare uno scossone”. Lo stesso appello arriva da Roma, per bocca di Federico Tempestini (Circolo Libertà è partecipazione): “Lotti non doveva discutere del futuro della Procura di Roma, la stessa dove è indagato”. Dalla Capitale a Genova, dove Alessandro Terrile, consigliere comunale Pd, striglia il partito: “Fare finta di niente non ci porterà da nessuna parte, se non verso l’abisso. Non c’entra nulla il codice penale. È tutta morale e politica la situazione: ora chi ha sbagliato la smetta di invocare complotti”. Ma anche dalla Toscana, terra di Lotti, arrivano critiche dure, come quella del membro della direzione regionale Valerio Fabiani: “È impensabile che la dirigenza regionale del partito – la responsabile toscana è Simona Bonafé, ndr – non esprima su questa vicenda una posizione netta e capace di salvaguardare la nostra comunità”.

E non basta l’autosospensione a risolvere la questione: “Se avessero un po’ di dignità politica – scrive Francesco Miragliuolo, Giovani Democratici di Fuorigrotta – si sarebbero dimessi”. Senza neanche invocare il garantismo.