“Al Csm scene aberranti: non c’è più vergogna”

L’incontro sinistro tra i parlamentari del Pd Cosimo Ferri e Luca Lotti, pure imputato a Roma, con Luca Palamara, pm romano ed ex Csm, con i consiglieri Spina, Lepre, Morlini, Cartoni e Criscuoli, sulle strategie da attuare per pilotare la nomina del procuratore di Roma, e non solo, ha sdoganato un tabù per tanti magistrati, politici, intellettuali: il sorteggio per eleggere i consiglieri del Csm, altrimenti in balia della correntocrazia. Certo, c’è sorteggio e sorteggio. Quello secco, tipo roulette russa e uno “temperato”, che sta prendendo sempre più quota. Una delle ipotesi è venuta in mente a Gianrico Carofiglio, scrittore da superclassifica (La versione di Fenoglio è il libro più venduto dell’anno), magistrato per trent’anni ed ex senatore Pd.

Carofiglio, da ex magistrato e da ex parlamentare, mi dia una risposta schietta su quanto emerso finora.

Uno dei problemi della politica è la perdita del senso della vergogna. Se ci fa caso, nella rissa politica quotidiana sono sempre gli altri che si devono vergognare e non c’è mai chi ammette di avere sbagliato. Io credo che la capacità di vergognarsi sia uno strumento fondamentale per la salute morale degli individui e della collettività. Se la politica si rifiuta di provare vergogna per pratiche sempre più inaccettabili, scopre di essere malata quando la patologia è già a uno stadio avanzato, come in questo caso. La dimostrazione è nelle risposte stupefacenti dei soggetti coinvolti, i quali dichiarano – e magari ne sono davvero convinti – di non aver fatto nulla di male.

Alla fine Lotti si è autosospeso dal Pd, ma in polemica col partito e lanciando messaggi, nemmeno tanto velati, in un post su Facebook.

Ci sono vari modi di uscire di scena, alcuni eleganti, altri meno. Ognuno sceglie il suo. Ma mi faccia dire che l’uso dell’espressione “autosospensione” è la dimostrazione della confusione che regna. L’autosospensione è un concetto giuridicamente inesistente: o si viene sospesi dagli organismi di disciplina e vigilanza o ci si dimette.

Il segretario Zingaretti è stato troppo “morbido” nei confronti di Lotti?

Il segretario non ha il potere di sospendere o espellere un iscritto al partito. Lo statuto prevede una procedura piuttosto complessa da celebrarsi, con il rispetto del diritto a difendersi dell’interessato, in Commissione di garanzia. Ma, aggiungo, l’eventuale attivazione di una procedura disciplinare – ipotizzando violazioni del codice etico, cosa non facilissima da verificare, anche per una certa vaghezza delle norme – sarebbe ora un atto inutilmente divisivo, potenzialmente devastante. Certo, mi porrei il problema della permanenza in Commissione giustizia dell’altro parlamentare Pd coinvolto nella vicenda (Cosimo Ferri, ndr).

Il male della magistratura sono le correnti?

Io non sono contrario all’esistenza di associazioni di magistrati, con diverse sensibilità culturali. Il problema è la torsione clientelare che si è generata a partire dalle correnti, con una impressionante accelerazione negli ultimi anni. È contro questo che bisogna elaborare soluzioni.

In cosa consiste la sua proposta per la composizione del Csm?

La premessa è che io penso che il sorteggio sic et simpliciter sia un metodo populista e pericoloso. Ma si può tenere insieme il voto, come strumento di legittimazione democratica, e il sorteggio, come strumento di disinnesco delle dinamiche clientelari.

Come?

Dividendo il procedimento per la costituzione del Csm, nella parte relativa ai magistrati (si eleggono fra loro 16 componenti, ndr), in due fasi. La prima, elettorale. Si può candidare ogni magistrato, in assenza di condanne o procedimenti disciplinari e con anzianità di servizio, sulla base di una raccolta di firme di sostegno, tale da non richiedere l’apporto di una corrente, ma sulla fiducia personale di un certo numero di colleghi: 50 firme, per fare un esempio. I magistrati che avranno avuto i voti pari almeno al numero di firme raccolte, parteciperanno alla fase finale, quella del sorteggio. Così potrebbero andare al Csm magistrati stimati dai colleghi ma non inseriti nel cursus honorum piuttosto aberrante che oggi produce buona parte della componente togata del Consiglio.

“Zinga” epura i renziani, Orlando alla Giustizia

È guerra dichiarata nel Pd. Dove la scelta di Nicola Zingaretti di rompere gli indugi e varare una segreteria sostanzialmente de-renzizzata non resterà senza conseguenze. Come lascia intendere il tweet intriso di vetriolo del renzianissimo Andrea Marcucci che riveste il ruolo assai delicato di presidente dei senatori dem. “La segreteria del Pd resa nota da Zingaretti non assomiglia al partito del noi. Vedo un’unica matrice identitaria in un partito che è nato per valorizzare i riformismi. È una scelta che non condivido” è la reazione di Marcucci che apre le danze e che la dice lunga sull’aria che tira. E poco importa che dal Nazareno si affrettino a precisare che il caso Lotti-Csm non c’entri nulla con la scelte di Zingaretti che ha lasciato nelle mani del suo vice, Andrea Orlando, le deleghe sulla giustizia, secondo quanto riferisce il Nazareno. Per poi distribuire gli altri incarichi a 8 uomini e 7 donne tutti ormai di area di maggioranza, anche se si è trovato un posto anche per Maurizio Martina, destinato alla riforma dello Statuto. Le altre anime verranno valorizzate, per chi ci starà, nei futuri dipartimenti.

Entrano nella segreteria (a cui partecipano anche il presidente del Partito Paolo Gentiloni, i vicesegretari Orlando e Paola De Micheli, Gianni Cuperlo che si occuperà della nuova Fondazione dem, il tesoriere Luigi Zanda e i capigruppo di Camera e Senato), Andrea Martella (coordinatore), Enzo Amendola (esteri e cooperazione internazionale), Nicola Oddati (Mezzogiorno), Marina Sereni (enti locali e autonomie).

E poi Chiara Braga all’ambiente, Pietro Bussolati delegato alle imprese e professioni. A Andrea Giorgis le riforme istituzionali, a Maria Luisa Gnecchi il welfare, a Roberto Morassut le infrastrutture, aree urbane e periferie, all’ex ministro della Difesa Roberta Pinotti le politiche della sicurezza, a Camilla Sgambato la scuola, a Stefano Vaccari l’organizzazione, ad Antonella Vincenti la pubblica amministrazione, a Rita Visini il terzo settore/associazionismo. E c’è pure Giuseppe Provenzano che si occuperà di politiche del lavoro, tema identitario del nuovo Pd zingarettiano. Chi è? Giovane speranza dem, animatore di “Sinistra anno Zero”, aveva rinunciato a correre alle Politiche del 4 marzo come gesto di aperto dissenso nei confronti di Renzi. Che Provenzano aveva accusato di aver plasmato il partito a sua immagine e somiglianza, gestendo le liste dei candidati in maniera addirittura padronale. Nonostante fosse ormai un leader inviso agli italiani.

La direzione di martedì si annuncia frizzante e non solo per la reazione dei centurioni renziani. Zingaretti è tra due fuochi: da un lato c’è chi lo accusa di ambiguità per essersi accontentato almeno finora dell’autosospensione di Lotti al centro dello scandalo che ha investito il Csm. E di non averlo invece cacciato dimenticando i valori o almeno il codice etico del Pd, come fanno intendere Gianrico Carofiglio, accreditato di essere una delle figure più ascoltate tra i dem, e Sandra Zampa, storica ombra di Romano Prodi. E chi minaccia se non di fargli la pelle, almeno di cucinarlo a dovere. Specie se il segretario dovesse decidere di aprire ai 5S dopo aver consentito ai fuoriusciti di Mdp di rientrare. È il caso di Luciano Nobili che con Anna Ascani e Roberto Giachetti ha riunito ad Assisi l’associazione “Sempre Avanti”: “Zingaretti ci deve spiegare che cos’è il nuovo Pd, vedo tanta nostalgia del passato. Restiamo nel Pd e lo faremo per impedire il declino finché ci sarà consentito” annuncia Nobili che rivendica il cambiamento incarnato da Renzi. Mentre il partito oggi è pregno di “un insopportabile giustizialismo”. Zingaretti è avvisato: la guerra è solo all’antipasto.

E pensare che volevano riscrivere la Carta

Li abbiamo bloccati in 20 milioni, e va bene; ma l’abbiamo scampata bella. A leggere le intercettazioni in cui Luca Lotti, ex ministro della Repubblica, esprime con linguaggio da taverna ad alcuni componenti del Csm le sue preferenze in fatto di nomine a capo di Procure che indagano su di lui e sui genitori di Matteo Renzi, una spina nel cuore ci ricorda la raccapricciante circostanza per la quale il gruppetto di amici toscani di cui Renzi era il capo-scout e Lotti il paggetto, a un certo punto della nostra storia (appena 3 anni fa), si era messo in testa di cambiare un terzo della Costituzione. Costituzione che è fondata sul principio della separazione dei poteri, tra le altre cose e senza nemmeno tirare in ballo il respiro etico che la ispira. Il silenzio di Renzi sul cicaleccio del Lotti beccato – e sui suoi tweet allusivi, sinistri e cifrati di queste ore – non è solo l’eco tombale del suo proverbiale ciarlare, ma anche il rimbombo del nostro terrore, al solo pensare a chi stavamo dando in mano l’unica cosa ancora sacra del nostro convivere.

Un’antica leggenda tedesca racconta di un cavaliere che giunse di notte in una locanda dopo aver cavalcato su una pianura gelata. Alla domanda del locandiere “da dove venite?”, il cavaliere indicò un punto lontano oltre la pianura. Il locandiere sbiancò, e disse al cavaliere che aveva appena attraversato il lago di Costanza ricoperto di ghiaccio. Ecco, ci sentiamo più o meno così: il locandiere-trojan ha rivelato che il renzismo aspirante costituente, col suo codazzo di miracolati figli di banchieri presi dai presepi e dai campetti del Valdarno, era un lago gelato dagli abissi oscuri che abbiamo attraversato quasi indenni credendolo (alcuni) un placido campo di fiori innevati. (Ah: il cavaliere, dalla paura postuma, morì sul colpo).

Suicida prof accusato di aver avuto rapporti con due studentesse

Troppa la pressione accumulata negli ultimi giorni per resistere: si è ucciso sparandosi un colpo di pistola al petto il docente di un noto liceo napoletano agli arresti domiciliari da mercoledì con l’accusa di aver avuto rapporti con due sue alunne all’epoca dei fatti 15enni. L’uomo si era ritrovato al centro della vicenda venuta alla luce dopo che una delle due studentesse che asseriva di avere con lui una relazione aveva scoperto che il docente incontrava anche una sua compagna. Di qui la scenata che ha reso di dominio pubblico la relazione e ha dato il là alle indagini della procura di Napoli sfociate nella misura degli arresti domiciliari che il professore stava scontando in un comune dell’hinterland. Nel primo pomeriggio, poco dopo le 14, l’epilogo tragico nella cantina di casa sua. L’uomo, professore di matematica di 53 anni, aveva respinto le accuse. Lascia moglie e due figli. Era stata proprio una delle due alunne a denunciarlo nei mesi scorsi rendendo pubbliche chat e mail con appuntamenti protrattisi per mesi a partire dall’inizio dell’anno scolastico e fino allo scorso aprile. Di qui l’accusa formulata dai pm di atti sessuali con minorenne.

Il processo di Amanda Knox a giustizia e media

Più che “Il processo penale mediatico” a Modena è andato in scena il “processo al processo mediatico”. Sul banco degli imputati, infatti, in una sala gremita e commossa, c’erano i giornalisti, coloro che hanno consentito che la “sensibile” Amanda Knox diventasse il “mostro sbattuto in prima pagina”, e quindi spediti ad assistere dalla balconata. Per la prima volta dopo quattro anni dall’assoluzione in Cassazione, la ragazza americana che era stata accusata – con il fidanzato di allora, Raffaele Sollecito, e con Rudy Guede, l’unico condannato – dell’omicidio di Meredith Kercher a Perugia nel 2007, è tornata in Italia, il Paese “che spero di poter sentire di nuovo casa mia”. A invitarla – senza compenso, si sforzano di ripetere – è stata l’associazione “Italy Innocente Project”, che con la Camera penale di Modena ha voluto questo “Festival”. Dopo due giorni di inutili rincorse e dopo averla nuovamente attesa invano all’ingresso sbagliato, ieri i giornalisti si sono sentiti dire dall’avvocato modenese Guido Sola che il processo mass-mediatico non ha le stesse regole di quello penale e che la stampa può “disintegrare la dignità delle persone”.

Un viatico per i 45 minuti di intervento di Amanda, interrotti dagli applausi e dalle sue copiose lacrime. “Ho paura di essere molestata, derisa, incastrata – racconta –, molti dicono che sto profanando la figura di Meredith”. Poi la sua narrazione: “Il primo novembre 2007 un ladro di nome Rudy Guede è entrato nel mio appartamento e ha violentato e ucciso la mia amica”. Da lì la ricostruzione di indagini “affrettate”, dettate dalla necessità dei media di trovare un colpevole. “Avrebbero dovuto chiedere: in basi a quali prove li arrestate? Le dichiarazioni sono legalmente valide? (il primo interrogatorio di Amanda avvenne senza interprete né avvocato, motivo per cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia, ndr)”. E invece no: “Mi hanno ribattezzato Foxy Noxy, hanno parlato di orge. Ero furba, psicopatica, sporca, drogata e puttana. L’inchiesta è stata contaminata, la giuria corrotta”. Eppure Amanda è “grata” alla magistratura per aver ristabilito la verità. “Tutto questo non assolve lo Stato per avermi processato per 8 anni con poche o nessuna prova né i media per aver creato una storia scandalosa. La mia vita ha contribuito agli introiti dei giornali”. E alla fine il coup de théâtre: “Vorrei incontrare il pm Mignini. Per me era un mostro che voleva distruggermi. Dopo aver visto il documentario di Netflix (nel quale si ricostruisce il delitto di Perugia, ndr), ho capito che era animato da una motivazione nobile: rendere giustizia a una famiglia in lutto”. Ecco, la famiglia Kercher, che con i magistrati è la grande assente e che nei giorni scorsi tramite l’avvocato Francesco Maresca aveva criticato la presenza di Amanda. Lei, così “amica” della loro figlia uccisa: “Sono grata ai suoi genitori per l’amore che le hanno donato”. Applausi, in molti si alzano in piedi, un avvocato commenta con il vicino: “È brava, eh?”.

Inutili i tentativi della moderatrice Raffaella Calandra di Radio24 di ristabilire il dovere di cronaca: la sua “anche lei ha tratto beneficio da questa storia?” è bollata dalla platea come una “domanda di merda”. Il teatrino può chiudere il sipario, con l’ultima, inutile corsa dei giornalisti dietro la “sensibile” Amanda che, scortata dalla polizia, resta una “donna libera: l’assassino di Maredith è in carcere e per questo si può essere soddisfatti”.

Sarri indietro “tuta”. La Juve è l’ennesimo tradimento a Napoli

Il commento più tagliente, di chi ha amato senza condizioni e poi è stato tradito, è stato questo: “Comandante pensavamo fossi il nuovo Che Guevara e invece eri Matteo Renzi”. Geniale, da tanti punti di vista.
Il Comandante in questione si chiama Maurizio Sarri, l’allenatore che per tre anni ha fatto innamorare Napoli senza vincere nulla. Una passione cresciuta con la sola forza dell’Estetica della Grande Bellezza, nella città italiana dove il mito della diversità e della via calcistica al riscatto sociale è una malapianta inestirpabile.
E così Napoli, città appunto di passioni irrazionali (ah, i lumi perennemente spenti della Repubblica del Novantanove), vive l’ennesimo tradimento: Sarri va alla Juve.

Stavolta però non si tratta di un tradimento “solamente” calcistico, modello Altafini e Higuain. Stavolta è qualcosa di più profondo e ancestrale, laddove l’antropologia del popolo napoletano abbraccia l’ideologia comunista. Un incrocio fatale. Ché in una città orfana della sinistra tradizionale da decenni – la città di Bordiga, indi dello stalinismo di destra di Amendola e Napolitano nonché dell’operaismo di Bassolino – Sarri ha incarnato un rinnovato movimentismo alla Che Guevara.

Di qui la trasfigurazione in santino intoccabile, nonostante i suoi errori sul campo – il dogma ottuso dei titolarissimi senza ricorrere all’intera rosa – e il piagnonismo tipico dei condottieri populisti: “Abbiamo perso lo scudetto in albergo”, in riferimento alla mancata espulsione del bianconero Pjanic un anno fa in Inter-Juve e che consegnò lo scudetto alla “Rubentus”.

Sarri ha sempre accarezzato la pancia della folla (da Masaniello a oggi non mancano gli esempi) e da semplice allenatore è stato elevato al rango di Santo patrono e Comandante della rivoluzione. Un miracolo che non accadeva da trent’anni, dai tempi di Lui, cioè Maradona (che però rifiutò la Juve), e che è stato canonizzato da un sito diventato quasi partito politico: Sarrismo, gioia e rivoluzione. E lì che oggi si riversa l’infinito quaderno delle doglianze di un popolo tradito, come il messaggio sul neorenzismo di Sarri. Altro esempio: “Se vai in quella squadra lì sposi il motto ‘vincere è l’unica cosa che conta’, e tu non sei questo, tu non sei così. Conta anche il modo. Conta soprattutto il modo. Conta la bellezza. Conta la gioia collettiva. Ce l’hai insegnato tu. Non puoi tradire te stesso. Io non ci voglio credere”.

Un dolore banale e fin troppo noto, con frasette amene e strappalacrime oppure di rabbia per il tradimento. Nell’ultimo mese, da quando è partita l’estenuante trattativa tra la Juve e Sarri, anche le élite cittadine si sono confrontate con questo improvviso lutto. Il sindaco Luigi De Magistris ha riferito proprio al Fatto di “gastrite” da Sarri.

I delusi vanno da Nino D’Angelo a Maurizio De Giovanni, giallista ma anche tifosissimo del Napoli (una delle sue opere più belle racconta l’epica vittoria degli azzurri a Torino contro la Juve, uno a tre, nel novembre del 1986, la stagione del primo scudetto). Addirittura un docu-film sul Comandante è stato bloccato dagli stessi autori, tra cui la “voce” dell’attore Massimiliano Gallo. E i sarristi di Gioia e rivoluzione hanno praticamente mandato al macero le copie del libro Fino al Palazzo. Ché è finita con il Comandante che si mette il vestito buono con la cravatta e anziché conquistare il Palazzo, si mette borghesemente a bussare e chiedere permesso agli odiati padroni di Torino.

E dire che questa storia del mito di Sarri rivoluzionario era cominciata per gioco. Sul Napolista diretto da Massimiliano Gallo, ex Riformista, apparve una parodia dell’Urss, Unione delle Repubbliche socialiste sarrite, firmata Zdanov, e quella fu la scintilla che scatenò l’incendio. Nacque Sarrismo, gioia e rivoluzione e dopo un po’ al sito irruppe il commissario politico Sandro Ruotolo, che diede una connotazione ideologica e seria al fenomeno, al punto che fino a poco fa si è parlato persino di una lista sarrista alle Amministrative di Napoli.

Da quel momento in poi, l’operazione Sarri comunista è stata il manganello per dare addosso agli allenatori riformisti tipo Benitez e Ancelotti e per alimentare la contestazione al presidente “romano” Aurelio De Laurentiis (qui siamo sul fronte del “papponismo” ma non deviamo). Adesso che tutto è crollato, su queste macerie della presunta diversità napoletana, vale la pena riportare le parole di Vittorio Zambardino sul Napolista, dove scrive anche Guido Ruotolo, in dissenso dal fratello Sandro: “È stata una sporca operazione ideologica di massa, alla quale Napoli ha abboccato, e averla protratta fino a ieri dimostra che il veleno a Napoli si vende a poco prezzo e piace a molti”. Ecco cosa significa Sarri alla Juve, non dimenticando che Togliatti e Lama furono juventini.

Uccide l’ex moglie e ferisce il figlio: lei lo aveva denunciato

Anna Maria Scavo aveva 36 anni, si era rivolta più volte ai carabinieri della Compagnia di Carini (Palermo) per denunciare le aggressioni subite dall’ex marito che si presentava spesso nel negozio dove lavorava minacciandola perché non avrebbe accettato la fine del rapporto. Ieri Marco Ricci, 41 anni, l’uomo che era stato denunciato, ha ucciso Anna Maria. I due, secondo quanto riferito, erano separati ma l’uomo non si era rassegnato alla fine del rapporto. La vittima si trovava nel negozio di scarpe in cui lavorava come commessa, quando è stata colpita alla gola con un taglierino. Con i due c’era anche il figlio di 14 anni che è rimasto lievemente ferito ed è stato portato in ospedale. Dopo l’omicidio l’uomo si è barricato nel negozio. Ma i vigili del fuoco sono riusciti a entrare e a bloccarlo. Le indagini sono condotte dai carabinieri, che ieri hanno ascoltato il ragazzo, principale testimone di quanto accaduto. “È una vicenda che addolora l’intera collettività – ha dichiarato il sindaco d i Carini Giovì Monteleone – Anna era una gran lavoratrice. La conoscevamo. In paese dicono che aveva presentato denunce contro l’ex marito che ogni tanto si presentava in negozio”.

“Troppo lenta la ricostruzione post-sisma”

Menomale che il Papa c’è. Oggi Francesco visita un altro dimenticatoio d’Italia: le zone colpite dal terremoto del 2016. E non sarà una semplice gita domenicale fuoriporta nei luoghi che costellano i 1640 chilometri quadrati di cratere nelle Marche.

Dopo Amatrice, Accumoli, Norcia e Arquata nel 2016 e l’Emilia nel 2017, il pontefice arriva a Camerino la cui Diocesi per 11 anni è stata guidata dall’arcivescovo, oggi emerito, monsignor Francesco Giovanni Brugnaro: “Il Papa è sempre di parola, mi aveva promesso sarebbe arrivato”.

Papa Francesco darà una doppia sveglia: ai politici ma anche ai media e al vizio di dimenticare.

Uno dei peggiori difetti della stampa è proprio quello di non dare continuità alle vicende che riguardano l’Italia che resta fuori dai palazzi. Mi lasci aggiungere anche che quando non ci sono morti la notizia, per i giornalisti, ricopre solo metà della sua importanza. Il fatto poi che la popolazione della zona in qualche modo fosse in una situazione di sicurezza dopo le prime scosse ha evitato la tragedia. Niente morti, poca visibilità.

Le sue azioni hanno sempre una valenza anche politica.

Il Santo Padre rappresenta la politica dell’esempio. Lo scotto che paga la popolazione di quelle zone è di essere numericamente scarsa, contano poco nelle elezioni di presidenti di Provincia o Regione così i politici non si danno troppo da fare.

Un terremoto distrugge le case ma anche persone e relazioni.

Un aspetto importante è dare consolazione psicologica. A parte la solidarietà le istituzioni amministrative e politiche sono chiamate ad avere il coraggio di fare: non farsi prendere dalla paura della corruzione. Bisogna sorvegliare, ma agire. Di questo hanno bisogno le persone per non perdere la speranza.

A che punto è la ricostruzione?

Ricostruzione non è il termine corretto rispetto alla situazione. Possiamo parlare di messa in sicurezza ma certo non di ricostruzione. Sono arrivati contributi dalla Caritas, da privati, da istituzioni delegate ai soccorsi ma nella Diocesi di Camerino-San Severo Marche le persone fuori casa sono 3025.

Il Papa visiterà anche le casette Sae (Strutture abitative di emergenza) al centro di polemiche e inchieste, non sono state proprio un esempio virtuoso.

In quelle case vivono anche molti anziani. In alcuni casi sono strutture neppure adatte alle temperature sotto zero raggiunte durante l’inverno. Non si deve però incorrere nel doppio rischio.

Quale?

Ora situazioni di emergenza non adeguate, poi una ricostruzione che sia peggio. Serve costruire con tutti i criteri di sicurezza necessari. Usare materiali e sistemi adeguati. Su questo deve vigilare la politica nazionale. I Comuni non dispongono certo di ingegneri e strutture per farlo.

Un esempio positivo a cui ha assistito dal 2016 a oggi?

Far ripartire i corsi dell’Università distaccando le sedi. La presenza dei giovani è vitale. Il rischio era che con le nuove tecnologie per seguire lezioni e fare esami questi ragazzi decidessero di abbandonare la regione invece, in questo modo, rimangono in qualche modo “ancorati” ai residenti. Un vicendevole scambio di presenza che aiuta molto, evitando l’isolamento.

Qualche settimana fa è arrivato anche il premier Conte.

Che conosco molto bene. Non era la prima volta che veniva in visita. Il problema però è che la burocrazia rimane lo stesso lenta. Un’istruttoria non può durare 6 mesi.

 

Salvini ferma in mare la nave con l’accordo dei ministri 5S

Per il momento la Sea Watch 3, la nave della ong tedesca con bandiera olandese che mercoledì ha salvato 53 migranti da un naufragio a 47 miglia dalle coste libiche, resta in acque internazionali. Potrebbe essere la prima a subire le sanzioni del decreto sicurezza bis. Il Ministro dell’Interno Salvini ieri ha firmato “il divieto di ingresso, transito e sosta” della nave “nelle acque italiane”, previsto dal nuovo decreto. Prima questo potere in via generale spettava al ministro dei Trasporti, che ora deve solo dare il suo “concerto” insieme a quello della Difesa: in poche ore i ministri M5S Danilo Toninelli ed Elisabetta Trenta hanno comunque dato il via libera al provvedimento. Se violerà il divieto l’equipaggio rischierà una multa da 10 a 50 mila euro e la confisca dello scafo.

Nel frattempo, a 15 miglia dall’isola di Lampedusa, per il terzo giorno consecutivo, i migranti a bordo della Sea Watch aspettano di sapere cosa ne sarà di loro. Il Viminale ha autorizzato solo lo sbarco di dieci persone, trasportate a terra dalla Guardia Costiera: “Tre minori, tre donne di cui due incinte, due accompagnatori e due uomini malati”.

Gli altri 43, per Sal vini, “possono restare lì fino a Capodanno, questi dovevano andare in Libia, potevano andare in Tunisia o a Malta: sono arrivati in Italia, l’hanno chiesto loro il porto alla Libia, la Libia lo ha dato e loro hanno disobbedito”.

La replica della Sea Watch non si è fatta attendere. “La Libia non è riconosciuta come porto sicuro a livello internazionale. Lo dice la stessa missione Onu nel Paese, l’Unhcr, la Commissione europea, la Farnesina, lo stesso ministro dell’Interno Salvini e lo stesso governo libico di al Serraj – spiega la portavoce Giorgia Linardi –, negli ultimi 10 giorni in Libia è stato bombardato un ospedale, l’aeroporto e distrutti diversi quartieri: questo è il Paese dove ci dicono di riportare le persone soccorse. Noi non lo faremo mai”. Sull’argomento è intervenuta Natasha Bertaud, portavoce della Commissione Ue: “Tutte le navi con bandiera europea devono seguire le regole internazionali e sulla ricerca e salvataggio in mare, che significa che devono portare le persone in un porto che sia sicuro. La Commissione ha sempre detto che queste condizioni non ci sono attualmente in Libia”.

La Bertaud ha spiegato che “la Commissione non ha le competenze per decidere se e dove” può avvenire lo sbarco, perché si tratta di “una questione sotto la responsabilità del Centro nazionale di coordinamento di soccorso marittimo (Mrcc), che ha in carico le operazioni”. Insomma, si riapre il conflitto con l’Ue che contrappone le convenzioni internazionali al provvedimento del governo italiano. Per il momento la nave resta al largo, se entrerà in acque italiane è probabile che intervenga anche la magistratura come nei casi precedenti.

Gli operatori della Sea Watch hanno raccolto sulla nave le testimonianze dei sopravvissuti. “Hanno trascorso lunghi periodi di detenzione in Libia, e subito vessazioni inenarrabili – spiega la Linardi –. Una persona è stata costretta a seppellire cadaveri; il più piccolo dei naufraghi, di soli 12 anni, è stato imprigionato senza motivo. Un’altra ha raccontato di essere stata venduta e ha lavorato come serva per riconquistarsi la libertà e partire per mare. Un naufrago ha assistito all’uccisione di un familiare con un colpo di kalashnikov”.

Non sono racconti che scalfiscono la posizione del ministro Salvini: “La Sea Watch dimostra ancora una volta di operare al di fuori della legge – ha detto Salvini –. Ha caricato a bordo degli immigrati che stavano per essere salvati dalla guardia costiera libica. Si è messa a girovagare per il Mediterraneo costringendo donne, uomini e bambini a inutili sofferenze. Ha chiesto indicazioni all’Olanda, contattato l’Italia, ma per le navi pirata i nostri porti restano chiusi. Siamo di fronte all’ennesima sceneggiata dei finti buoni: a questo punto vadano verso il Nord Europa”.

L’inchiesta Consip e la favola dei pm duri con Lotti e Renzi sr.

I grandi giornali grazie alle loro ottime fonti continuano a pubblicare le intercettazioni della Guardia di Finanza sul caso Palamara. Per comprendere il senso delle parole in libertà dette da Luca Lotti e compagni nella famosa notte del 9 maggio 2019, è però necessario spiegare l’antefatto dell’inchiesta Consip. Partiamo dalle conversazioni intercettate.

“Vedi Luca – dice Luca Palamara a Luca Lotti – io mi acquieterò solo quando Pignatone (procuratore di Roma ai tempi dell’indagine Consip anche su Luca Lotti, ndr) mi chiamerà e mi dirà cosa è successo con Consip. Perché lui si è voluto sedere a tavola con te, ha parlato con Matteo (Renzi, ndr) e ha creato l’affidamento e poi mi lascia con il cerino in mano. Io mi brucio e loro si divertono”. E Lotti chiosa: “Certo”. Poi aggiunge: “A me non mi puoi prendere per il culo. A me devi dire la verità. Io ho fatto come dici tu. Mi sono spaccato i coglioni alle cene a casa di Paola Balducci, (consigliere della precedente consiliatura al Csm, ndr)”. Poi Palamara aggiunge: “Supponiamo che c’è Viola (Marcello, candidato a guidare la Procura di Roma, ndr) e io vado a fare l’aggiunto, questo gli dico al mio procuratore Viola: crediamo a Scafarto o non gli crediamo? Gli vogliamo credere? Allora rompiamogli il culo (a Lotti, ndr). Non gli vogliamo credere? Si chiude, fine e basta”.

Queste conversazioni sono riprovevoli. Un procuratore candidato a fare l’aggiunto a Roma (Palamara) fa capire a un imputato che delle due ipotesi ventilate, se lui fosse stato in carica allora, avrebbe consigliato al procuratore di Roma, per ipotesi Marcello Viola, di non credere a Scafarto e di conseguenza di non mandare a giudizio Lotti.

La Procura diretta da Giuseppe Pignatone fa la figura di un ufficio duro contro Luca Lotti e la famiglia Renzi nel caso Consip, che ora sta pagando il conto delle sue scelte coraggiose.

A noi questa lettura sembra vada integrata.

In passato la Procura di Roma era molto stimata da Luca Lotti, Matteo Renzi e compagni. Basta leggere il libro di Matteo Renzi pubblicato nel 2017 o ascoltare le interviste di Lotti di allora.

Allora Paolo Ielo e Giuseppe Pignatone erano seri mentre i pm da evitare erano i napoletani Henry John Woodcock e Celeste Carrano.

L’inchiesta Consip infatti non è opera di Pignatone. La Procura di Roma eredita alla fine del 2016 molti elementi dalle indagini del Noe e dai pm napoletani:

1) le conversazioni intercettate nelle quali un amico di Tiziano Renzi di nome Carlo Russo chiede soldi al re delle pulizie pubbliche, Alfredo Romeo, in cambio dell’influenza su Consip e Grandi Stazioni, garantita a suo dire dal rapporto con il padre del Premier, Tiziano Renzi;

2) un pezzo di carta sequestrato di nascosto nella sede romana di Romeo nel quale sarebbero cristallizzate le promesse mute (ma intercettate) di Romeo a Russo: 30 mila euro al mese per Tiziano Renzi e 2.500 al mese per Russo, secondo i Carabinieri;

3) le intercettazioni, inizialmente poco valorizzate dal Noe, nelle quali si intuiva l’incontro a tre nel luglio 2015 a Firenze tra Romeo, Russo e Tiziano, negato poi dai protagonisti. Il che lo rende più interessante, se vero;

4) soprattutto Napoli consegna a Roma a fine 2016 il verbale dell’amministratore di Consip Luigi Marroni che afferma di avere saputo delle indagini del Noe dal presidente di Consip, Luigi Ferrara, a sua volta informato dal comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette, e dall’allora sottosegretario alla presidenza Luca Lotti.

Ebbene con questa mole impressionante di elementi la Procura di Pignatone e Ielo cosa ha fatto? Non ha perquisito Tiziano Renzi, né tanto meno gli ha sequestrato il cellulare, nonostante i carabinieri del Noe lo avessero suggerito alla presenza di Ielo a Woodcock e Carrano. Inoltre hanno indagato sul Noe dei carabinieri, interrogando più volte, intercettando e sequestrando i telefonini del Carabiniere Gianpaolo Scafarto che faceva l’indagine. Poi hanno indagato il pm Woodcock con l’accusa infondata di aver passato le notizie al Fatto. Poi hanno perquisito la sua amica Federica Sciarelli, con l’accusa infondata di avere fatto da tramite.

Pignatone in una riunione con il procuratore reggente di Napoli si accordò per fare due indagini parallele a Roma e a Napoli sul nostro libro Di Padre in figlio e sugli articoli del Fatto sull’inchiesta.

Una durezza che oggi non riscontriamo contro le fughe di notizie dei grandi quotidiani sull’inchiesta di Perugia.

Basta riascoltare cosa diceva nel maggio del 2017 Matteo Renzi dopo la pubblicazione del libro Di padre in figlio. Basta rileggere cosa scrisse nel libro Avanti nel luglio del 2017. Basta ascoltare le sue dirette Facebook per capire lo schema dei suoi pensieri: viva la Procura di Roma, perché indagava sui Carabinieri del Noe, su Woodcock e su Il Fatto.

In quella fase i grandi giornali stavano schierati con le posizioni di Pignatone e così Renzi.

Alla fine Pignatone con il sostituto Mario Palazzi e l’aggiunto Paolo Ielo ha chiesto il rinvio a giudizio di Luca Lotti ma solo per favoreggiamento e non per il secondo reato contestato inizialmente, la rivelazione di segreto. Anche l’ex comandante generale dell’Arma Tullio Del Sette è a giudizio. Il punto è che la chiusura indagine, che ha fatto capire a tutti come sarebbe finita la storia, è arrivata a ottobre del 2018. La richiesta del processo è del dicembre del 2018. Da dicembre 2016, quando Marroni li aveva accusati, sono passati due anni. Lotti nel frattempo grazie alla lentezza della Procura di Roma ha potuto fare il ministro e Tullio Del Sette è stato addirittura confermato Comandante Generale a gennaio 2017 di quei carabinieri che era ed è accusato di avere tradito spifferando le indagini al vertice di Consip. Come si fa a sostenere che la Procura di Giuseppe Pignatone sia stata dura con Lotti? Solo un ingrato può dire una cosa simile.

La Procura di Roma invece è stata molto più dura con l’investigatore di Lotti: Gianpaolo Scafarto. Per il capitano ora promosso maggiore ha chiesto il giudizio per falso, depistaggio e rivelazione di segreto, nonostante un giudicato della Cassazione favorevole all’indagato sul fronte cautelare. Anche la ricostruzione dei rapporti tra Carlo Russo-Alfredo Romeo e Tiziano Renzi della Procura di Roma, a parere di chi scrive, non è stata certo “dura” contro la famiglia Renzi.

Anche se chattava con Francesco Bonifazi e Tiziano Renzi, anche se Luca Lotti lo accreditava a Michele Emiliano, per i pm di Roma Russo è un millantatore. L’amico di Tiziano Renzi non è infatti più indagato per traffico di influenze come all’inizio.

Resta da capire allora perché Luca Lotti fosse così infuriato il 9 maggio con Paolo Ielo e Giuseppe Pignatone. E perché il pm Luca Palamara sostenesse di essere rimasto con il cerino in mano dopo che Pignatone (a suo dire) si era seduto a tavola con Lotti e si era fatto accreditare da Matteo.

La sensazione è che Lotti si fosse illuso di essere salvo. Perché qualcuno, magari Palamara, lo aveva illuso? Solo il pm di Roma indagato per corruzione potrebbe spiegarlo. Al Fatto sul punto ha detto: “Di questo parlerò più avanti, prima mi devo difendere dalle accuse e dimostrare la mia innocenza”.