“Nei quattro anni di mia vicepresidenza del Csm, il presidente della Repubblica ha assicurato un costante e prezioso sostegno all’attività consiliare. Mattarella non è mai intervenuto sulle nomine ed ha sempre garantito, attraverso le frequenti interlocuzioni con il vicepresidente, l’autonomia del Csm e dei suoi organi, limitandosi a fornire indirizzi generali sull’attività consiliare e sul rispetto delle procedure”. Così Giovanni Legnini, già vicepresidente del Csm, commentando le intercettazioni pubblicate in questi giorni. “Sono certo che le gravi vicende che emergono dagli atti di indagine saranno oggetto di accertamento compiuto e definitivo”, aggiunge Andrea Orlando, vicesegretario del Pd ed ex ministro della Giustizia: “Leggo che alcuni vigliacchi, nascondendosi dietro virgolettati anonimi, chiamano in causa la mia persona in relazione alle vicende concernenti il Csm, sino a sostenere che da ministro della Giustizia avrei ‘brigato per fare e disfare giudici’. Voglio invitare gli anonimi diffamatori a palesarsi, in ogni caso risponderanno di fronte ad un giudice”.
“Difficile capire che si ascolta un deputato”
In un’intervista al Fatto Quotidiano l’onorevole del Pd Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa, ha sostenuto la tesi dell’inutilizzabilità dell’intercettazione ascoltata con il trojan alla riunione del 9 maggio. Incontro in cui il pm Luca Palamara e alcuni consiglieri del Csm hanno discusso della nomina del procuratore di Roma. Motivo dell’inutilizzabilità: gli inquirenti erano certi che all’appuntamento sarebbe intervenuto un deputato, lui, e dunque avrebbero dovuto lasciare spento il microfono. Applicando alla lettera l’articolo 68 della Costituzione secondo il quale l’intercettazione di un parlamentare può essere concessa solo con l’autorizzazione preventiva della Camera di appartenenza. Articolo che, secondo il parere di alcuni giuristi, ha di fatto sancito il divieto di intercettare direttamente i parlamentari: perché se li avverti prima, staranno attenti a quello che dicono.
Professore Gaetano Azzariti, ordinario di diritto costituzionale all’Università “La Sapienza” di Roma: Ferri ha ragione nel contestare l’operato dei pm di Perugia?
L’onorevole Ferri solleva una questione tecnico giuridica molto controversa. Il trojan era stato inoculato sul cellulare di Palamara e quindi non stiamo nell’ipotesi di una intercettazione diretta del parlamentare, si tratta certamente di una intercettazione indiretta. Avvengono di frequente, in maniera casuale.
Però Ferri dice: gli inquirenti sapevano da prima che quella sera sarei stato lì con Palamara. E in quel caso?
Non so Ferri quali informazioni abbia per dare per scontato che i magistrati inquirenti conoscessero della sua partecipazione alla riunione e la dessero per certa. Bisognerebbe leggere tutte le carte. Se fosse stata solo ipotizzata la presenza di un parlamentare, una cosa è l’ipotesi e altra cosa è la verifica effettiva della presenza.
Ferri cita una sentenza della Corte Costituzionale, la 390 del 2007.
È una sentenza che insieme alla giurisprudenza complessiva sul tema delle intercettazioni indirette, è molto sofferta. È molto complicato capire quando dall’altra parte del filo c’è un parlamentare.
Qui non c’è una telefonata ma la registrazione di un trojan: che ne pensa di questo nuovo strumento per il quale molti protestano l’eccessiva invasività?
Astraendomi dal caso specifico, il trojan è la nuova frontiera delle indagini dei pm, è certamente un passo avanti. È una prospettiva da Grande Fratello, certo. Però è strano che a sollevare la questione dell’invasività dello strumento siano magistrati che lo utilizzano o potrebbero utilizzarlo. Avrebbe fatto piacere raccogliere questi impulsi di preoccupazione per la privacy delle persone non soltanto quando si riflette nei confronti dei magistrati.
La strana coppia: Luca&Luca tra difesa e vittimismo
“Alcuni giornali, utilizzando una frase di Palamara, non mia, provano a raccontare un mio interessamento sulla vicenda Consip: come si capisce bene leggendo, niente di tutto questo è vero. Ancora una volta la verità viene presentata in altro modo”. Così Luca Lotti ieri è intervenuto dopo che i quotidiani avevano riportato nuove intercettazioni tra l’ex sottosegretario Pd e il pm Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, indagato a Perugia per corruzione. Il parlamentare autosospesosi dal Pd si riferisce ad una frase pronunciata proprio da Palamara e finita in un’informativa della Guardia di Finanza. I due parlano del caso Consip, l’indagine in cui è finito indagato Luca Lotti per favoreggiamento: per lui a dicembre scorso è stato chiesto il rinvio a giudizio.
Durante la conversazione, captata dopo l’incontro in albergo con Ferri e i consiglieri del Csm, Lotti e Palamara si sfogano:
Lotti: “È stato uno scambio sulla nostra pelle, Luca”.
Palamara: “La mia soprattutto… cioè la nostra intesa come…”
E Lotti prosegue: “La storia vera è che Ielo ha detto a Pignatone… tu lasciamo stare su questa roba, io ti mando avanti Consip”.
Palamara: “Bravo”.
Lotti: “E ti pare poco”.
Palamara, rivolgendosi all’amico Luca, dice “a te t’hanno ammazzato sulla vicenda Consip”, ed è proprio sull’indagine a Roma nei confronti di Lotti che Palamara dice: “Perchè io non mi sono esposto su Consip quando dicevo ‘chiudiamo tutto, chiudiamo tutto’”. Poi aggiunge: “Supponiamo che c’è Viola (…) Se io vado a fare l’aggiunto questo gli dico al mio procuratore Viola che si consulta con me… gli vogliamo credere (a Scafarto, ndr) rompiamogli il c… non gli vogliamo credere si chiude, fine, basta… Troppe cose anomale”.
Palamara ieri ha spiegato: “Avrei ordito un piano per chiudere il caso Consip? Troppo facile constatare che, al momento della conversazione, il caso Consip era già stato definito con richiesta di rinvio a giudizio e fissazione di udienza preliminare. Nulla quindi avrei potuto fare con qualunque procuratore fosse stato nominato”, collocando il discorso intercettato in un quadro “chiaramente ipotetico e riferito al passato”.
Altre conversazioni raccontano ulteriori dettagli. Come quando Lotti il 9 maggio scorso si sedeva al tavolo con i magistrati (alla presenza anche del parlamentare Cosimo Ferri) a discutere della nomina del futuro procuratore capo di Roma. “Si vira su Viola”, dice l’ex sottosegretario riferendosi al procuratore generale di Firenze. Non solo. In quella riunione Lotti racconta di una sua visita al Quirinale (già smentita dal Colle). “Quello che vi devo dire io Mattarella… Io ci sono andato e ho detto: ‘Presidente la situazione è questa’ e gli ho rappresentato quello che voi mi avete detto più o meno cioè Lo Voi…”, dice l’ex sottosegretario.
“Appaiono fuorvianti alcune frasi e ricostruzioni legate al Presidente della Repubblica”, ha commentato Lotti. E ha ribadito: “Non ho commesso alcun reato, pressione o forzatura”.
A chiamarsi fuori dalle riunioni tra politici e toghe ieri è stato il vicepresidente del Csm David Ermini. “Smentisco di aver partecipato ad incontri con Palamara, Ferri e Lotti riguardanti le nomine di alcuni procuratori. Ribadisco che dal giorno della mia elezione il mio unico e costante punto di riferimento è sempre stato il Presidente della Repubblica”. E ancora: “Le espressioni che usano nei miei confronti sono la prova che mi consideravano un ostacolo per il raggiungimento dei loro piani. Accostare la mia persona a queste trame è un fatto di gravità inaudita”.
Il cavallo di Trojan
Il frittomisto allucinogeno dello scandalo del Csm (e del Pd) rischia di far perdere di vista i fondamentali: cos’è illecito e cosa no, cos’è scandaloso e cosa no, cos’è normale e cosa no, chi è coerente e chi no. Partiamo dal principio: la Procura di Perugia riceve da quella di Roma (guidata da Giuseppe Pignatone) le carte su una presunta corruzione del pm Luca Palamara, capo della corrente Unicost. E decide di intercettarlo inoculandogli nell’iPhone un trojan che capta ogni sua parola e mossa, nella speranza di acchiappare elementi utili su un’eventuale tangente di un anno prima. Invece intercetta una serie di colloqui fra Palamara, due deputati del Pd (Lotti e Ferri), alcuni magistrati e membri del Csm che non parlano mai di quel caso di corruzione, ma delle nomine all’ordine del giorno in Consiglio: quelle per i capi delle Procure di Roma, Perugia, Firenze, Torino e Reggio Calabria. Palamara ce l’ha con Pignatone perché, dopo aver avuto il suo appoggio per diventare procuratore di Roma e poi per “creare l’affidamento” presso un “Matteo” che somiglia tanto a Renzi, l’ha fatto indagare a Perugia: dunque briga per impallinare il candidato di Pignatone alla successione (Lo Voi) e spinge un esposto contro Pignatone e Ielo presentato al Csm da un altro pm. I renziani Lotti e Ferri ce l’hanno con Pignatone perché ha chiesto il rinvio a giudizio di Lotti per Consip: anche loro trafficano contro il suo erede designato Lo Voi, ma anche contro il procuratore fiorentino Creazzo, che ha fatto soffrire Renzi con l’arresto dei genitori.
Una schifezza colossale, che ha già portato alle dimissioni o all’autosospensione di 5 togati del Csm, sottoposti a procedimento disciplinare insieme a Palamara, e all’autosospensione di Lotti dal Pd. Ma finora nessun reato, e soprattutto nulla di collegato con l’inchiesta per cui Palamara è stato intercettato dal gip di Perugia. Non solo: l’art. 68 della Costituzione (che noi vorremmo tanto abolire, ma purtroppo esiste) vieta di intercettare direttamente i parlamentari, salvo autorizzazione del Parlamento. Può capitare che siano intercettati indirettamente, mentre parlano con indagati sotto controllo, purché la cosa sia casuale: se si sa che l’intercettato parlerà con un parlamentare, bisogna spegnere la microspia o il trojan. Lo conferma la sentenza n. 390 del 2007 della Consulta. Invece risulta che l’incontro carbonaro in un hotel di Roma, la notte del 9 maggio, fra Palamara, Lotti, Ferri e alcuni membri del Csm era stato fissato in una telefonata della sera prima tra Palamara e Ferri, che annunciava all’altro la presenza di Lotti.
Dunque perché il trojan non fu disattivato per evitare di intercettare i due deputati, che fra l’altro non si vedevano per parlare di tangenti a Palamara? Senza spiegazioni convincenti da Perugia e dal Gico di Roma, l’intercettazione che ha messo in crisi un organo costituzionale come il Csm sarebbe inutilizzabile. E non avrebbe dovuto esistere. Si dirà: certe cose è molto meglio averle sapute. Vero. Ma le indagini vanno fatte secondo le regole, altrimenti chi accusa (giustamente) Lotti, Ferri, Palamara &C. di scorrettezze dovrebbe rispondere delle proprie. E qualcuno potrebbe financo sospettare che l’inchiesta (doverosa) su presunte mazzette a Palamara sia stata trasformata in un’inchiesta (illegittima) sul Csm che si era permesso di disobbedire a Pignatone e ai suoi alti protettori, scegliendo in commissione Viola anziché Lo Voi come nuovo procuratore. Un’inchiesta senza reati, usata per pilotare la nomina del capo della Procura più importante d’Italia: cioè per fare esattamente ciò che, sull’altro fronte, facevano i carbonari in hotel. E ci sarebbe da avere paura di una guerra per bande tra due fazioni che usano l’una il sistema giudiziario e l’altra l’intrallazzo politico-correntizio per conquistare Piazzale Clodio. Ma finora s’è parlato solo della seconda. E, per nascondere la prima, si è deciso a priori chi sono i buoni (Pignatone e chiunque assecondi i suoi desiderata) e i cattivi (tutti gli altri). Con un doppio effetto tragicomico per chi conserva un pizzico di memoria.
1) Chi ci legge sa cosa pensiamo di Lotti e Ferri: peste e corna. A settembre, quando i due fecero eleggere David Ermini, deputato renziano come loro, a vicepresidente del Csm coi voti di Unicost (Palamara, già indagato), Mi (Ferri) e Pd (Lotti), contro il prof indipendente Alberto Benedetti, scrivemmo che era una vergogna. E fummo i soli: gli altri esultavano per il salvataggio del Csm dall’orda “sovranista”. Ora scopriamo che Lotti, Ferri e Palamara, buoni quando votano Ermini (e prima Pignatone), diventano cattivi quando votano contro Lo Voi e per Viola. Al punto che Viola non può più diventare procuratore anche se non risulta aver fatto nulla.
2) Chi ci legge sa cosa pensiamo dello scandalo Consip. Quando lo scoprirono i pm napoletani Woodcock e Carrano e il Noe, l’inchiesta riguardava i traffici di imprenditori e faccendieri (Carlo Russo, che parlava a nome di Tiziano Renzi con Alfredo Romeo) per pilotare il più grande appalto d’Europa e poi per rovinare le indagini con fughe di notizie agli indagati. Quando passò a Roma, diventò soprattutto un’indagine sull’indagine e su chi l’aveva fatta (Woodcock, il capitano Scafarto, persino la Sciarelli) e raccontata in anteprima (Marco Lillo sul Fatto). Mentre nessuno sequestrava il cellulare di babbo Renzi né indagava sull’oggetto dell’incontro al bar con Romeo (il mega-appalto di Grandi Stazioni), alcuni errori di Scafarto diventavano falsi in atto pubblico (poi smentiti da Riesame e Cassazione) e addirittura prove di un golpe giudiziario per rovesciare il governo Renzi (peraltro già caduto per conto suo dopo il referendum e tre settimane prima dello scoop del Fatto). Repubblica titolava: “Finti 007 e intercettazioni: così hanno manipolato le carte per coinvolgere Palazzo Chigi”. E parlava di “una faccenda uscita dalla sentina dei giorni peggiori della storia repubblicana”. Il nuovo piano Solo, un golpe Borghese-bis ordito da carabinieri “impostori” e dal Fatto con una “velenosa polpetta propinata a due Procure” per partorire un’ “inchiesta deviata” che “sembra strumento di una sorta di contropotere contro Matteo Renzi”. Così, a furia di indagare sull’inchiesta anziché sul vero scandalo, la montagna partita da Napoli partorì il classico topolino a Roma: richiesta di rinvio a giudizio per i sospettati delle fughe di notizie (Lotti, Del Sette, Vannoni, Saltalamacchia), richiesta di archiviazione per i sospettati di trafficare sugli appalti Consip (Romeo e Renzi sr.). Una gestione minimalista che il Fatto ha sempre criticato, auspicando perciò, sempre in beata solitudine, un nuovo procuratore in discontinuità da Pignatone. Ma ora, oplà: Repubblica scopre, tre anni e mezzo dopo, la bontà dell’inchiesta Consip (quella vera, non l’inchiesta sull’inchiesta), titola allarmata su fantomatici propositi di affossarla (“Così aggiustiamo Consip”) e racconta la favoletta che Pignatone “aveva tirato diritto”, mentre a volerla insabbiare era Palamara. Come? Appoggiando Viola come capo e diventandone aggiunto: “Se io – dice a Lotti il 9 maggio – vado a fare l’aggiunto, dico a Viola: ‘Gli vogliamo credere (a Scafarto, ndr)? Allora rompiamogli il culo (a Lotti, ndr). Non gli vogliamo credere? Si chiude. Fine. Basta”.
Ora, a parte il fatto che Palamara ipotizza pure di credere a Scafarto e “rompere il culo” a Lotti, qui c’è un dato insormontabile: se anche Viola fosse diventato procuratore, Palamara fosse diventato aggiunto, il primo avesse dato retta al secondo ed entrambi non avessero creduto a Scafarto, non avrebbero potuto “chiudere” un bel niente. Perché dal 14 dicembre 2018, giorno delle richieste di rinvio a giudizio per Lotti&C. e di archiviazione per Tiziano &C., l’inchiesta Consip è passata dalle mani dei pm a quelle del gip. E, neppure volendo, un procuratore capo o aggiunto potrebbe riprendersela e rimangiarsi le richieste. Quindi Palamara vaneggiava e millantava. Però è bello sapere che Repubblica, con appena tre anni e mezzo di ritardo, ha rivalutato l’inchiesta Consip e teme per le sue sorti fuori tempo massimo. Il fatto che nel 2016 i renziani fossero i padroni del Pd e ora siano una zavorra per il Pd è solo una sfortunata coincidenza.
Cinquina alla Giamaica e siamo agli ottavi
La prima partita è la bussola: guai se la perdi, e l’Italia l’aveva vinta rimontando, addirittura, l’Australia. La seconda è il sentiero: guai se scivoli o ti fanno cadere. Non un attimo di sbandamento, le nostre, non un cenno di presunzione (se non piccole pause a giochi fatti) e così 5-0 alla Giamaica. Dall’uno-due di Barbara Bonansea alla tripletta di Cristiana Girelli e alla doppietta di Aurora Galli, tutte Juventus sisters. Ricapitolando: sei punti in due gare, prime del gruppo C e ottavi acquisiti in largo anticipo. Tu chiamale, se vuoi, emozioni.
In attesa che il Mondiale trovi la sua regina, le ragazze di Milena Bertolini hanno trasformato la sofferenza in passione, la passione in piacere. Da Valenciennes a Reims, il Var continua a scortarle, geloso. Contro le australiane, tolse – correttamente, per centimetri di fuorigioco – i gol di Bonansea e Sabatino. Questa volta ha offerto un rigore, di Swaby su Bonansea, sfuggito all’arbitressa neozelandese. Schneider – che ne aveva già parato uno al Brasile – ha rintuzzato pure quello di Girelli. Si era però mossa prima, la portiera, e questo non si può. Morale: ancora Var, ancora Girelli, e stavolta rete senza se e senza ma. Tre minuti, dal 9’ al 12’, per scuotere il tabellino.
Dopodiché, una passeggiata di salute. Con il raddoppio di Girelli al 25’ – di mezza coscia, sugli sviluppi di un calcio d’angolo – e con una traversa di Sabatino. E le Reggae girls? Giovani e generose, ma terribilmente ingenue. Poche notizie di Khadija Shaw, la cannoniera della squadra, 19 reti in 12 partite di qualificazione. Brave, le azzurre, a calibrare la manovra fin dalle retrovie, e abili nel trasformare il 4-4-2 d’ordinanza in 4-3-3 o 4-2-4, a conferma di un assetto (molto) variabile.
Alla ripresa, subito il terzo squillo. Cross parabolico di Giugliano, uscita confusa di Schneider, sgrullatina dell’implacabile Girelli. Ci sono attimi che insegui e ci sono attimi che ti inseguono: lo sport è vita.
Una leggerezza di Giuliani, un attentato di Shaw al naso di Sara Gama, le scorribande di Bergamaschi, il filtro di Cernoia: a ognuno il suo. Sul 3-0, abbiamo un po’ mollato, com’è umano che sia (anche se la ct non avrà gradito), e Blackwood ha persino scheggiato la traversa. Ordinaria amministrazione. È bastato l’ingresso di Galli, in sostituzione di Bergamaschi, per ripristinare le gerarchie: gran sassata dal limite e tocco a porta vuota, dopo aver scartato Schneider, su assist verticale di Giugliano, una spremuta di fosforo.
Nella classifica Fifa, l’Italia occupa il 15° posto e la Giamaica, già sconfitta 3-0 dalle brasiliane, il 53°. La rimonta di domenica ha come liberato i cuori e le gambe della Nazionale. La fase a gironi è una cosa e l’eliminazione diretta un’altra, d’accordo, e allora teniamoci stretto il gioco che lievita, i gol che fioccano e il morale che cresce. Si mancava da vent’anni, ma se cercate Cenerentola, sfogliate altre pagine, bussate ad altre favole. Martedì si torna a Valenciennes: Italia-Brasile. È bello, quando gli esami non finiscono mai…
“Woody lo distribuiamo noi. Basta con il boicottaggio”
Andrea Occhipinti, perché Lucky Red ha deciso di portare in sala l’ultimo film di Woody Allen, A Rainy Day in New York, che al contrario Amazon ha cassato negli Stati Uniti?
Abbiamo distribuito La ruota delle meraviglie nel 2017 e avevamo un accordo anche per questo titolo: l’ho confermato e mantenuto.
In America sono di diverso avviso.
Con tutto il rispetto per il #MeToo, si tratta di caccia alle streghe. Per le accuse di molestie alla figlia Dylan Farrow, Allen è già stato processato due volte quasi trent’anni fa e scagionato: non capisco quale sia il problema.
Sarebbe?
Dylan ha nuovamente reso pubbliche queste accuse, c’è chi le ha creduto e ha preso posizione unilateralmente, rimettendo Allen alla gogna. Negli Stati Uniti l’ipersensibilità si spreca, anche qui è molto antipatico parlarne: se ti esprimi a favore della legalità, sembra tu sia contro il #MeToo, ma non è il mio caso. Lo reputo un movimento fondamentale, ma ciò non comporta che chiunque si svegli e accusi una persona abbia legittimità. Si portino le prove, si onorino le sentenze, altrimenti il rischio è di abusi in senso opposto.
C’è chi discrimina tra l’artista e l’uomo.
Può essere un mostro, ma salvaguardiamo le sue opere d’arte? Non scherziamo: Woody è solo vittima di una campagna diffamatoria.
Nondimeno, Amazon ha stracciato il contratto per quattro film, sicché Allen ha intentato causa per 68 milioni di dollari.
Nel mercato Usa la reputazione è preminente, e i social non aiutano: se tutti vanno dietro a una fake news, non importa più che sia una fake news. Se il popolo pensa che Allen vada punito, il gigante dello shopping non può rimanere indifferente, a meno di non mettere in conto danni economici. L’esercizio non lo vorrebbe A Rainy Day in New York, la stampa ti attaccherebbe, e saresti costretto a cambiare strategia. Viceversa, in Italia esercenti, giornalisti, cinefili ci hanno scritto lodando la scelta di portarlo in sala.
Sta dicendo che Lucky Red in America A Rainy Day in New York non lo avrebbe distribuito?
Giusto o meno che sia, non avremmo potuto: non si può prescindere dall’aria che tira. Devi prenderne atto, se i cinema non ti programmano, se tutti parlano male di te perché hai il film di Allen, non lo distribuisci.
Terra di libertà, l’Europa.
Le libertà individuali da noi vengono maggiormente preservate. L’America è anche un paese di fanatici, di gente strana: a 12 anni puoi prendere un fucile, a 18 non puoi dare un buffetto a una ragazza che non conosci. Il fucile va benissimo, ma se ammicchi sei spacciato. Posso capire se si tratta di un minore, però vedo che il problema non è quello: non puoi fare un’avance nemmeno a un adulto.
Jude Law ha bollato quale “onta terribile” la decisione di Amazon, ma altri due interpreti, Timothée Chalamet e Selena Gomez, hanno devoluto il proprio cachet a Time’s Up e altre associazioni a tutela delle donne.
Conformismo, puro e semplice. Potevano starsene zitti, facevano più bella figura. Tra l’altro, con Allen la paga degli attori è poco più che simbolica: non hanno fatto ‘sto sacrificio.
Dal 3 ottobre in sala, A Rainy Day in New York lo vedremo prima alla Mostra di Venezia, sì?
Non credo sia pronto, ci stanno ancora lavorando. E non spetta a me entrare nelle strategie festivaliere.
Che film è?
Woody Allen che ritorna a casa, New York. E segue due adolescenti che vi trascorrono una settimana, tra aspirazioni e avventure.
C’è chi ha puntato il dito sulla relazione tra un uomo maturo, interpretato da Law, e una ragazzina, Elle Fanning, allora 19enne.
È in linea con quanto Woody ha fatto prima, non c’è nessuna morbosità nel rapporto. E insinuare una sovrapposizione tra finzione e biografia è immotivato.
Gioveranno queste polemiche al botteghino?
Allen ha in Europa il mercato di riferimento, il suo pubblico è abbastanza costante, fedele. Uno dei migliori risultati La ruota delle meraviglie l’ha fatto in Italia.
“Il movente dei miei killer è la crisi economica”
Col magnifico pretesto del giallo, il greco Petros Markaris è diventato a 82 anni uno dei più grandi narratori delle crisi finanziarie ed economiche che hanno devastato l’Europa negli ultimi lustri.
Lei ormai è l’inventore del giallo anti-troika, contro la tecnocrazia dell’Unione Europea. Dopo L’università del crimine, è Il tempo dell’ipocrisia. Nuovi omicidi che conducono alle imposizioni dell’Ue.
Il problema non sono solo le linee guida dell’Unione Europea, ma soprattutto una realtà che è stata imposta alle persone dalla globalizzazione e dal sistema finanziario. Nel passato la crescita era legata alla distribuzione della ricchezza. Non sto dicendo che tutti avevano la stessa fetta, ma che ognuno aveva il diritto di partecipare alla spartizione. Ora abbiamo sostituito le cifre alle persone. Ci dicono che se i numeri vanno bene, allora anche le persone staranno bene. Questa è ipocrisia, perché il 10% ottiene il 90% della ricchezza e il 90% solo il 10%.
E questo della ricchezza è il movente di uno degli omicidi. Non crede però che l’ipocrisia sia un sentimento inestirpabile, soprattutto in politica?
L’ipocrisia è sempre stata parte della natura umana e delle nostre società. E ha anche avuto una grande importanza nella politica. La differenza tra passato e presente è che una volta combattevamo contro l’ipocrisia, in modo particolare nella politica. Adesso siamo indifesi e, ancora peggio, alcune persone accettano l’ipocrisia come una scintilla di speranza. La crescita dell’estrema destra ne è la prova.
Dal Pil al numero degli occupati e alle banche: nei suoi ultimi libri lei dà lezioni di economia.
La decisione di studiare economia viene da mio padre. Io odiavo l’economia, ma quando cresci nella Istanbul degli anni ’50 all’interno di una minoranza, è tuo padre colui che prende le decisioni. Così sono andato a Vienna a studiare economia. Non ho mai terminato gli studi e non sono mai diventato un dirigente di banca o un manager. Ma ho acquisito competenze sufficienti per capire cosa sta accadendo nel mondo della finanza e utilizzarlo nei miei romanzi.
Gli omicidi sono rivendicati da terroristi che si firmano come l’Esercito degli Idioti Nazionali. L’idiota è colui che viene raggirato dall’ipocrisia del potere?
Nel romanzo questo è causa di un gran mal di testa per la polizia e per l’antiterrorismo. Non si trovano da nessuna parte nel mondo dei terroristi che si definiscono idioti. Potrebbe dipendere dal fatto che si ritengono vittime, oppure dal fatto che credono che la nostra società attuale produca un esercito regolare di idioti nazionali. Il lettore conoscerà la verità solo alla fine del romanzo.
Il rischio è che il lettore simpatizzi per gli assassini. Non è pericoloso?
La grande innovazione nei gialli contemporanei riguarda il cambio della domanda principale. L’enigma non è più “chi” (il killer) come nei tradizionali gialli inglesi, ma “perché”. Perché quest’uomo o questa donna hanno superato i loro limiti e sono diventati degli assassini? La domanda è collegata direttamente alla società, alla politica e all’economia e conduce a due ulteriori questioni: fino a che punto l’assassino è esso stesso una vittima? Fino a che punto la vittima è a sua volta colpevole? Questa è la domanda cruciale nei miei romanzi.
Le idee di giustizia sociale hanno animato in passato altre sigle terroristiche, in Grecia come in Italia.
Però i terroristi non possono cambiare la società. Al contrario, le persone hanno paura del terrorismo, quindi per reazione si attaccano al principio della legge e dell’ordine, il che significa che si riavvicinano al sistema e allo status quo.
Non pensa che alla destra sovranista di Salvini e Le Pen potrebbe piacere il suo giallo?
Non m’interessa se gli piace o no il mio romanzo. Se iniziassi a chiedermi a chi piacerà o chi userà nel modo sbagliato i miei libri smetterei di fare lo scrittore. Sono uno scrittore politicamente impegnato, ma non sono un politico. Molti autori credono, al principio della loro carriera, che con i loro scritti cambieranno il mondo. È un’illusione. Gli scrittori non possono cambiare il mondo. La loro capacità dev’essere quella di scrivere storie che aiutino il lettore a farsi le giuste domande e a pensare un passo avanti.
Dopo un anno i gialloverdi italiani hanno fatto già la fine Tsipras in Grecia? Anche loro realisti, soprattutto i Cinque Stelle?
Beh, questo è il problema principale dei partiti che promettono ai loro elettori che cambieranno l’Unione europea. Alcune di queste promesse sono state fatte per inesperienza ma la maggior parte sono solo opportunistiche. Quando Tsipras e il suo partito cominciarono a dire che avrebbero cambiato l’Europa molti elettori ci credettero e iniziarono a votare per loro. Solo in pochi hanno continuato a chiedersi come un Paese come la Grecia, con un enorme debito pubblico, avrebbe potuto cambiare l’Europa. Qualunque Paese voglia cambiare l’Europa ha bisogno di alleati e alleanze. Non esiste un Paese che farebbe un’alleanza con un perdente. Tsipras l’ha capito dopo il referendum e si è adeguato. I Cinque Stelle stanno affrontando la stessa, dura, realtà.
È così difficile contrastare l’attuale Unione europea, anche dopo le elezioni di maggio?
Credo che i partiti del sistema possano ancora mettere insieme una maggioranza con l’aiuto dei Verdi. Comunque il problema in Europa è proprio il declino dei partiti di sistema. Molti europei, soprattutto le classi medie, sono profondamente delusi dai partiti di sistema. Questa è la ragione principale della crescita delle destre in molti Paesi europei. Non tutti quelli che votano per l’estrema destra hanno ideologie di estrema destra o fasciste. Sono disperati e non esistono al mondo persone disperate che riescano ad avere la mente lucida.
Nel Tempo dell’ipocrisia due novità cambiano la vita del commissario Charitos: diventa nonno e ha la promozione mai avuta. Lunga vita a Charitos e a Markaris!
Nel Tempo dell’ipocrisia avevo bisogno di dare un po’ di speranza a un uomo onesto: ho dato a Charitos quel che meritava da tempo. Grazie per gli auguri.
Notre-Dame: tante promesse, pochi soldi
Ottanta milioni di euro sono una cifra considerevole per un restauro. Ma non sono che briciole, se l’opera da riportare alla vita è Notre-Dame. A due mesi dal rogo che ha distrutto completamente il tetto e la guglia della cattedrale, solo il 9% dei fondi promessi è giunto a destinazione. Una situazione quasi paradossale, denuncia l’emittente France Info, se si considera che durante l’incendio e nei giorni successivi, mezzo mondo era rimasto incollato davanti alla televisione, orripilato davanti alla distruzione di uno dei tesori nazionali di Francia che andava in fumo.
Gli imprenditori più facoltosi si erano offerti di mettere mano al portafogli per contribuire alla ricostruzione. In poche ore fu raccolta – almeno nelle promesse – la cifra record di 850 milioni di euro: soldi su cui il governo francese fa ancora affidamento ma che in cassa non ci sono. Nonostante le istituzioni si dicano fiduciose del buon esito delle trattative, la preoccupazione resta.
A occuparsi del lato finanziario della ricostruzione è il ministero della Cultura, con non poche difficoltà: “In effetti 350 mila donatori hanno promesso poco più di 850 milioni, ma bisogna considerare due cose: in primis, ci sarà una percentuale che non porterà a termine la donazione, è fisiologico – ammette François Riester, capo del dicastero – gli altri invece manderanno i soldi progressivamente, seguendo l’andamento dei lavori. Fra poco sigleremo le convenzioni con i grossi donatori e le quattro maggiori fondazioni, per dar vita alla colletta nazionale”.
Sono proprio le donazioni più significative, di gruppi finanziari, holding e società a mancare all’appello: 200 milioni dalla famiglia Arnault e del loro gruppo LMVH; 200 concessi da Arnaud Lagardère, magnate dell’editoria; 100 dalla famiglia Pinault, proprietaria del gruppo Kering (che controlla brand come Gucci e Saint Laurent); e altre ingenti sovvenzioni prospettate da società come L’Oréal, Total, Michelin, ed Air-France. Infatti, quegli 80 milioni già a disposizione sono il frutto della generosità di privati e di piccoli enti locali, e per questo il governo punta ad accelerare il versamento dei contributi per Notre-Dame: “Al momento in Parlamento si discute una legge che permetta ai mecenati di detrarre il 75%, rispetto all’attuale 60% – spiega Riester – lo Stato è a fianco dei cittadini che si impegnano a salvare il nostro patrimonio culturale”. Legge che non sta avendo vita facile: il Senato ha proposto diversi emendamenti, considerando il progetto troppo frettoloso “nel trattare le norme su tutela e urbanistica”, e l’approvazione finale slitterà quasi certamente a fine luglio. In barba alle dichiarazioni del presidente Macron, che vorrebbe vedere il cantiere chiuso entro 5 anni. Sbloccando più fondi si procederebbe almeno a chiudere la prima fase della messa in sicurezza: la volta è talmente fragile che potrebbe crollare in ogni momento, perciò all’interno della cattedrale si lavora con dei robot, per non mettere in pericolo i tecnici.
Intanto, Notre-Dame lotta strenuamente per ritornare alla normalità. Oggi sarà celebrata la prima messa dopo il disastro, per consentire ai fedeli di riappropriarsi del luogo di culto. In pochi e muniti di elmetto potranno accedere alla cappella in fondo alla cattedrale, dove si conserva la corona di Cristo, nell’area risparmiata dalle fiamme.
“Il primo obiettivo è riaprire la cattedrale ai fedeli, e un domani anche ai turisti – afferma il ministro Riester – è un simbolo di speranza vedere Notre-Dame aperta, nonostante la sua fragilità attuale”.
Petroliere colpite, solo Trump sa la verità: “È stata Teheran”
Donald Trump è uno che di dubbi ne ha pochi. Questa volta, ne ha meno del solito: per lui, “l’Iran è responsabile dell’attacco alle petroliere”, una giapponese e una norvegese, in fiamme giovedì nel Golfo di Oman all’uscita dello Stretto di Hormuz. Da ieri gli Usa hanno inviato un P-8 Poseidon, aereo da pattugliamento marittimo, e non escludono scorte militari ai convogli commerciali che attraversano lo stretto di Hormuz.
Di sicuro, gli Stati Uniti non vogliono permettere che il traffico navale da e per il Golfo Persico, snodo chiave del commercio petrolifero mondiale, sia bloccato: l’Iran subirà “gravi conseguenze”, se gli interessi dell’America e dei suoi alleati regionali, l’Arabia saudita e Israele, saranno lesi. E Washington non vuole che l’Iran si doti di armi nucleari, anche se le decisioni e l’atteggiamento di Trump e dei suoi consiglieri, specie quello per la sicurezza nazionale John Bolton, paiono proprio spingere Teheran in quella direzione.
Per l’episodio di giovedì, le certezze americane si basano su un video in bianco e nero e piuttosto confuso, fatto circolare dal Pentagono: vi si vede un’imbarcazione, che sarebbe dei Pasdaran, cioè dei Guardiani della Rivoluzione iraniani, i cui marinai starebbero rimuovendo una mina magnetica inesplosa dal fianco della petroliera giapponese, la Kokuka Courageous, danneggiata – è un’ipotesi – da un’altra mina. “È la firma dell’Iran”, dice Trump. Nella ricostruzione del Pentagono, il video dimostra che gli iraniani volevano rimuovere le prove del loro coinvolgimento. Il mese scorso, Washington aveva già accusato l’Iran per analoghi attacchi a quattro petroliere, allora un po’ più a nord, dentro lo stretto di Hormuz. In realtà, le testimonianze raccolte sono discordanti e non conclusive. Se i sauditi e gli emirati accusano l’Iran, Russia e Cina sono estremamente riluttanti ad attribuire colpe. L’Iran, che respinge ogni responsabilità, azzarda l’ipotesi che si sia trattato di un incidente, più che d’un attacco, ma se la prende soprattutto con gli Stati Uniti, che starebbero conducendo “un’altra campagna iranofobica”. In una nota la missione dell’Iran all’Onu, dove c’è stato uno scambio d’opinioni vivace, scrive: “Gli Stati Uniti e i loro alleati regionali devono porre fine all’atteggiamento guerrafondaio, ai complotti maligni, alle azioni sotto false bandiere”.
Per Teheran l’episodio è “sospetto” se analizzato dal punto di vista del cui prodest: infatti, le due petroliere sono state incendiate mentre era in visita in Iran il premier giapponese Shenzo Abe. Il Giappone è un Paese i cui approvvigionamenti energetici dipendono in larga misura dalla libertà di navigazione dal Golfo Persico al Golfo di Oman via lo stretto di Hormuz. L’Iran ribadisce l’impegno a garantire la sicurezza del traffico marittimo nello stretto di Hormuz. Ieri, il presidente iraniano Hassan Rohani era in Kighizistan al Vertice della Sco, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, e ha avuto modo di incontrare i presidenti cinese Xi Jinping e russo Vladimir Putin: “L’Amministrazione Usa – ha detto – usando i suoi strumenti economici, finanziari e militari, ha adottato una politica aggressiva ed è diventata una seria minaccia per la stabilità dell’area e del mondo”, mentre l’accordo sul nucleare, raggiunto nel 2015, aveva dimostrato che, “se c’è una volontà politica, si possono risolvere i problemi”. Ma con Trump, che è “un bugiardo”, Rohani non intende trattare.
Germania: dagli al prete AfD, dopo i migranti la “crociata” anti-Chiesa
Tra il partito di estrema destra Alternative für Deutschland e la chiesa tedesca, cattolica e protestante, non corre buon sangue. Da tempo. Già da quando il vescovo cattolico di Erfurt, Ulrich Neymeyr, nel febbraio 2016 decise di spegnere le luci del duomo per protesta mentre sfilava sotto la chiesa una manifestazione dell’AfD. Dal corteo allora si levarono slogan quali: “Appendi il prete per le palle alla Gloriosa”, intendendo la campana della torre medievale.
Pochi giorni fa il partito di destra è tornato all’attacco e ha preso di mira la chiesa evangelica con un documento lungo 49 pagine. L’accusa è semplice: “I funzionari della Chiesa evangelica vanno a letto con il potere” ha detto a chiare lettere Bjoern Hoecke, l’anima radicale dell’AfD, capogruppo del partito in Turingia. Il “dossier” è stato presentato l’11 giugno dai gruppi dei Lander del nord-est della Germania, dove il partito è più forte: Turingia, Meclemburgo-Pomerania, Sassonia, Sassonia-Anhalt e Nord Reno-Vestafalia.
Nel documento la chiesa evangelica è accusata di collusione con il potere, dai tempi della monarchie fino ad Angela Merkel, passando per il nazionalsocialismo. Nella storia “ha sempre stretto una non santa alleanza” con i potenti, si dice nel documento.
Unica concessione: il ruolo determinante avuto nella caduta della DDR, riconosce Hoecke. Ma perché tanto odio? Il partito di destra non perdona alla chiesa evangelica, ma anche a quella cattolica come si è visto nell’esempio di Erfurt, di essersi schierata compatta in sostegno della politica della cancelliera Merkel sui migranti, in favore dell’apertura dei confini e in deroga agli accordi di Dublino. Non tollera, per esempio, che il presidente del consiglio delle chiese evangeliche, il vescovo Heinrich Bedford-Strom, sia sceso pochi giorni fa fino a Palermo per testimoniare il suo sostegno a favore della nave Sea-Watch e abbia chiesto di non criminalizzare chi salva le vite in mare nella sua predica di Pentecoste. In tutta la Germania le chiese, cattolica ed evangelica insieme, sono ancora oggi protagoniste di un movimento per l’asilo che prevede l’accoglienza nella comunità religiosa di migranti minacciati di espulsione e la domanda del permesso di soggiorno tramite la chiesa, il “Kirchenasyl”. Nel 2018 questo tipo di richieste d’asilo sono state 1325, ma è di pochi giorni fa la notizia che, delle 250 domande presentate all’Ufficio federale migranti (Bamf) nei primi mesi del 2019, solo due sono state accolte.
Il ministro degli Interni tedesco, il bavarese Horst Seehofer, ha voluto dare una stretta significativa, forse un segnale per rimarcare la sovranità dello Stato e ricondurre le chiese nell’alveo della più stretta legalità. Secondo l’AfD in particolare la chiesa evangelica si è lasciata corrompere “dallo spirito del tempo verde-di sinistra”. Riprovevole è “il credo eco-populista della chiesa”, una sorta di neo-paganesimo per cui “l’ecologia è la nuova professione di fede”, si legge nel documento. Dietro tutto ciò, secondo Hoecke, c’è l’avidità dei preti di campagna che affittano i terreni parrocchiali per lucrare dalle ricche rendite dei parchi eolici.
Esagerazioni a parte, al fondo c’è una concezione del compito della chiesa molto chiara, sintetizzata in una frase contenuta nel documento: “la chiesa deve rimanere chiesa”. Detto altrimenti la missione della chiesa è, o secondo l’AfD dovrebbe essere, diffondere il vangelo e non fare dichiarazioni sull’attualità. Precisamente il contrario di quello che è l’attitudine della comunità evangelica, improntata all’impegno e alla responsabilità nei confronti della società. Naturale che questo sia ‘fare politica’: lo era anche al tempo della caduta della DDR, del resto.
Ma qui viene il punto: la chiesa è per l’AfD un antagonista politico che preferirebbe non avere. Di più, un antagonista che non fa nulla per nascondere la sua opposizione, ma al contrario la diffonde. Non è insolito, infatti, vedere appesi alle mura delle chiese di Berlino striscioni con la scritta: “Il populismo di destra danneggia l’anima”.
Lo smacco che in questi giorni ha dato nuovo propellente ad antichi dissidi è il mancato invito al 37° convegno delle chiese evangeliche, il Kirchentag, che si terrà a Dortmund dal 19 al 23 giugno. Nessun rappresentante del partito di estrema destra è stato invitato, diversamente da quanto accadde due anni fa. L’AfD “si è ulteriormente radicalizzata” ha risposto il presidente del convegno Hans Leyendecker a chi gli domandava il perché. “Dobbiamo evitare che una manifestazione come il Kirchentag offra il podio a propaganda, razzismo, odio per gli stranieri o islamofobia” ha proseguito il presidente. In particolare Leyendecker ha precisato che “non invitiamo un rappresentante di ogni partito, invitiamo le persone che hanno qualcosa da dire”.
Il convegno fu fondato nel 1949 proprio per affrontare temi politici, tra cui il fallimento della chiesa nel confronto con il nazionalsocialismo. Un errore, forse, che oggi si vuole stare attenti a non ripetere.