Mail Box

 

Radio Radicale si salva, ma i partiti perdono la faccia

Ieri ho sentito la notizia che il Parlamento ha fatto passare un emendamento del Pd per salvare l’emittente Radio Radicale, con un finanziamento di altri 3 milioni di euro per il 2019 (sembra che ne ricevano già 9 milioni). Un emendamento votato da tutti i partiti, escluso il M5S. Cronisti e intellettuali tutti a congratularsi per la pluralità dell’informazione. Mi sono sentita ferita, arrabbiata, umiliata, io che non ho mai ricevuto dallo Stato italiano nulla in regalo. Posso solo dire: si vergognino tutti, soprattutto i leghisti. È facile schierarsi contro gli ultimi, mentre bisogna avere gli attributi tanto decantati da Salvini per potersi opporre al potere.

A questo punto sarebbe auspicabile che i compensi percepiti dai lavoratori di Radio Radicale, finanziati dalle nostre tasse, fossero resi pubblici, così come quelli degli altri lavoratori dello Stato italiano.

Silvana Alfano

 

Tutela dell’ambiente, questa sconosciuta!

Disboscamenti indiscriminati e milioni di metri cubi di cemento.

Pare proprio che l’uomo, senza tanti ripensamenti, abbia intrapreso una terrificante guerra contro la Natura. E sono pochi coloro che, armati di buona volontà, cercano di opporsi a questo scempio continuo. Sempre pochi coloro che scendono nelle piazze per manifestare il loro sdegno alle previste catastrofi. Ancor meno coloro che rifiutano compromessi a livello istituzionale. Molti vorrebbero avere una casa in riva al mare, e per questo sono pronti a sacrificare l’ambiente senza calcolarne le conseguenze. Così come sono pronti a voltare le spalle a un corteo di ambientalisti, che cercano di scongiurare i cataclismi che colpiscono ripetutamente questo povero Paese, per rendersi conto, davanti al funerale dei propri concittadini, del fatto compiuto. Quando finirà questo modo distorto di assecondare i responsabili di queste disgrazie?

Alfredo Finotti

 

Pd, l’unica proposta politica è accanirsi contro gli amici

Nonostante il Pd sia figlio di un lungo percorso di presa di distanza dalle idee e dagli ideali del comunismo, forse ha conservato un tratto comune all’esperienza russa: è più feroce con gli amici che con i nemici. È sugli amici dei 5 Stelle che il Pd si accanisce, come la Chiesa contro gli eretici. Ricorda i comunisti che nella guerra civile spagnola eliminarono gli anarchici. Ricorda il Pci agguerritissimo nella lotta contro extraparlamentari come Antonio Negri, o contro l’esperienza socialista. In parte è anche comprensibile l’animosità del Pd contro i 5 Stelle, colpevoli di avere dato rifugio ai transfughi dem.

Ma cosa si offre ai “traditori” perché tornino all’ovile? Qual è la proposta politica che dovrebbe convincerli? Esiste ancora un contenuto politico dentro al pacco targato Pd?

Maria Zorino

 

Salvini cavalca l’onda del dissenso di sinistra

Gli impauriti antifascisti, che hanno affollato le piazze per protestare contro Salvini ai suoi comizi, sono solo riusciti a convincere gli elettori che il vero pericolo per la democrazia erano loro che impedivano al vicepremier di esprimere pubblicamente il proprio pensiero.

Tutta questa veemenza nelle piazze e sui media, espressa dall’ammucchiata di Confindustria, Chiesa Cattolica, Pd ed estrema sinistra, ha praticamente aperto la strada al successo del leader leghista.

Paolo Mario Buttiglieri

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile direttore, leggo un articolo sul quotidiano da Lei diretto dal titolo Il renziano che apre la bocca solo per nomine e potere, a firma Pino Corrias, nel quale viene riferito che il sottoscritto Marco “Carrai è dentro Monte dei Paschi e la Cassa di Risparmio di Firenze”. Gentile direttore, il sottoscritto non è mai stato “dentro Monte dei Paschi”. Non sono mai stato nei suoi organi, non ho un conto corrente del Monte dei Paschi, non sono mai stato personalmente cliente del Monte dei Paschi. Un suo stimato collega, per aver detto che ero socio in affari con l’amministratore delegato del Monte dei Paschi, dottor Marco Morelli, cosa falsa, è stato rinviato a giudizio e per interrompere in accordo tra le parti il procedimento penale contro di lui mi ha mandato una lettera di scuse e un assegno che devolverò in beneficenza. Quanto al fatto che io sia dentro la Cassa di Risparmio di Firenze, il sottoscritto è socio e membro del Consiglio di amministrazione della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, che non è più neppure socia della Banca. Io non sono mai stato negli organi della Banca. Neppure con la cassa di risparmio ho un conto aperto né sono stato mai a oggi personalmente cliente. Provvederò a chiedere anche in questo caso un legittimo risarcimento del danno subito al giornalista che ha scritto questo articolo.

Marco Carrai

 

Gentile Marco Carrai, mi sono limitato a riportare alcune notizie di stampa, ma non c’era intenzione di accusarla di alcunchè. Dire che lei, uomo d’affari, abbia avuto a che fare con Monte dei Paschi o con la Cassa di Risparmio di Firenze non vuol dire che abbia commesso un qualche reato. Se quell’accostamento l’ha offesa me ne scuso.

P. Cor.

D’Annunzio per Trieste, roba da poeti “sovranisti”

Ma che ci azzecca Gabriele D’Annunzio con Trieste? Questa è la vera domanda da porsi di fronte alla grottesca disputa sul monumento che in comune vede schierati maggioranza di centrodestra e opposizione di centrosinistra, a ruoli capovolti. Lo facciamo sbarcare, o chiudiamo il porto? Fatte salva la bravura del poeta (D’Annunzio è stato un bravo poeta, grande non sapremmo) e il ciarpame del personaggio di cui paghiamo ancora le conseguenze – tracce di dannunzianesimo sono rintracciabili nella bile di Vittorio Sgarbi come nell’etilometro di Mauro Corona – che ci azzecca il “porco alato” con Trieste? Dal punto di vista letterario poco, essendo Trieste la città più letteraria d’Italia nonché la più appartata, antimondana, mitteleuropea. La città dove Italo Svevo prese lezioni di inglese da James Joyce e Joyce prese lezioni di triestino. La città del Sentiero Rilke, del “nero antro sofferto” del libraio-poeta Umberto Saba. La città di Zeno Cosini, che con Andrea Sperelli non avrebbe preso nemmeno un caffè, perché non si sarebbero mai incontrati. Dunque l’idea di un monumento all’eroe dell’impresa di Fiume è una chiara mossa politica. Un tentativo di celebrare il Vate sovranista, che certo oggi si inchinerebbe non al Duce, ma al Capitano. L’ennesimo segno di come nell’imbarazzante Italia di oggi la politica si stia annettendo tutto, perfino la poesia. Fanno bene i triestini a non mangiare la foglia (di fico). Che ci azzecca D’Annunzio con l’anima di Trieste? Un mare di nulla.

Evasione. C’è un nesso tra la lotta contro i criminali del fisco e il debito pubblico?

 

Caro Stefano Feltri, ho trovato ottima la sua iniziativa di spiegare a noi italiani, lavoratori dipendenti e onesti cittadini, come sia possibile risanare i conti dello Stato facendo pagare le tasse agli evasori con leggi che prevedano pene più severe, come il carcere. Il recupero dell’Iva comporterebbe anche un proporzionale aumento del Pil, con una conseguente e sempre auspicata diminuzione del cosiddetto “sommerso”. Credo tuttavia che, per capire meglio l’Italia, lei dovrebbe spiegarci cosa accade nella Ue. Perché i sottoscrittori di Bund tedeschi sono disposti a pagare interessi per avere i Bund e invece non sono mai appagati dai rendimenti dei titoli degli altri Paesi della Ue: sono matti o più semplicemente scommettono sulla fine dell’euro e il ritorno alle monete nazionali? Mi chiedo anche perché le autorità europee, compresa la Bce, non intervengano.

Lucio Planera

 

Gentile Lucio, lei mette insieme temi solo indirettamente connessi tra loro. Primo: la lotta all’evasione. Far emergere gran parte del nero e recuperare tutti i 35 miliardi di Iva evasa ogni anno (nei prossimi giorni pubblicheremo varie proposte su questo) cambierebbe di sicuro profondamente la struttura della nostra economia che è assestata su un equilibrio perverso in cui gran parte del carico fiscale grava solo su alcuni blocchi sociali mentre altri prosperano e competono senza tasse. Difficile dire quali sarebbero gli effetti netti sul Pil nel breve periodo (la misura attuale del Pil già include una stima della cosiddetta “Economia non osservata”). Nel giro di poco, comunque, il Paese nel suo insieme trarrebbe sicuri benefici da una redistribuzione più equa del carico fiscale e da una competizione non più distorta dal “nero”.

Veniamo al lato europeo: in assenza di Eurobond, cioè di un titolo europeo ad alto rating e rischio zero, gli investitori che hanno bisogno di un collaterale da usare nelle transazioni comprano i Bund. Anche se questo significa, di fatto, pagare per il servizio (il tasso negativo equivale a un costo sostenuto per detenere il titolo di debito). I titoli di Stato decennali dell’Italia devono invece corrispondere un interesse elevato, del 2,31 per cento. Nessun complotto, nessuna decisione dall’alto. È il mercato. L’unica soluzione politica al problema sarebbe una maggiore integrazione delle economie dell’eurozona fino all’emissione di Eurobond. Ma per farlo bisogna essere molto più credibili di ora. E fare una seria lotta all’evasione sarebbe un buon primo passo.

Stefano Feltri

L’acqua non può essere privatizzata

Il 18 aprile 1947 il Governo De Gasperi (Presidente della Repubblica De Nicola) fondava l’Ente per l’Irrigazione in Puglia, Lucania e Irpinia (Einpli), risolvendo così, in modo esemplare, il bisogno di acqua delle regioni dell’Italia meridionale.

Il Governo Monti, ispirato dalle false teorie neoliberiste, in data 6 dicembre 2011 con decreto legge numero 201, articolo 21, comma 10/11, ha soppresso detto Ente e previsto la sua gestione temporanea da parte di commissari.

L’attuale governo, procedendo sulla stessa via neoliberista di Monti, ha dato attuazione a detta disposizione statuendo, all’articolo 24, che: “A decorrere dalla data di trasferimento delle funzioni di cui al primo periodo del presente comma, i diritti su beni demaniali già attribuiti all’Ente di cui al comma 10 in forza di provvedimenti concessori si intendono attribuiti alla società di nuova costituzione”.

Questa disposizione, come si nota, realizza il fenomeno fraudolento della privatizzazione e cioè il trasferimento di un bene demaniale di assoluta e primaria importanza, come l’acqua, da un Ente pubblico, tenuto a perseguire interessi pubblici, a una società privata, sia pur con partecipazione statale, che è tenuta, secondo il codice civile, a perseguire gli interessi dei soci e non quelli del popolo italiano.

Si precisa che, ai sensi dell’articolo 144 del decreto legislativo numero 156 del 2006 (Codice dell’ambiente), “l’acqua è un bene demaniale” e cioè un bene che appartiene al popolo sovrano e che, essendo fuori commercio, non può essere ceduto a una società privata. Anche la captazione e la distribuzione dell’acqua, inoltre, devono essere in mano pubblica, come prevede l’articolo 43 della Costituzione in relazione alla gestione dei servizi pubblici essenziali. Infatti, non esiste società privata, anche se partecipata da Enti territoriali o da alcuni Ministeri, che sia in grado di attuare la disciplina che il citato articolo 144 del Codice dell’ambiente sancisce per la gestione dell’acqua, la quale deve tendere al “rinnovo delle risorse, non pregiudicare il patrimonio idrico, la vivibilità dell’ambiente, l’agricoltura, la piscicoltura, la fauna e la flora acquatiche, i processi geomorfologici e gli equilibri idrogeologici”, non è chi non veda che se l’Ente gestore è costituito da una società, il cui fine è solo il profitto economico, il perseguimento di questi obiettivi di interesse generale diviene impossibile, e comunque certamente recessivo rispetto all’interesse economico privato.

Privatizzare l’acqua inoltre contrasta con il referendum del 2011, che negò allo Stato il potere di affidare la captazione e la distribuzione dell’acqua a società private, divieto ribadito da due sentenze della Corte Costituzionale.

Nel descritto quadro, è evidente che il riferimento agli Enti pubblici territoriali e ai Ministeri è solo fumo negli occhi e che prima o poi questo bene assolutamente primario per il suo valore umano cadrà nelle mani di singoli privati, molto probabilmente di multinazionali straniere. È ben noto infatti che le S.p.A., anche se al loro interno ci sono partecipazioni pubbliche, possono essere scalate da chiunque.

Questo provvedimento decreta in sostanza la perdita della sovranità nazionale sul bene più essenziale della vita dell’uomo: l’acqua. È per questo che la privatizzazione in questione viola in pieno numerosi articoli della Costituzione e persino l’articolo 1 secondo il quale “la sovranità spetta al popolo”.

Ci rivolgiamo al Presidente della Repubblica e a tutti i parlamentari affinché impediscano che questa essenziale e vitale fonte di ricchezza sia sottratta al popolo e trasferita nelle mani di pochi con tutte le conseguenze che ne derivano.

I gialloverdi alla prova dell’informazione

“Mi colpirebbe positivamente un governo che mettesse da subito in cantiere una riforma del settore televisivo”.

(da Oggi è un altro giorno di Giovanni Floris – Rizzoli, 2013 – pag. 95)

Non è affatto un caso che la prima rottura della maggioranza gialloverde in Parlamento sia avvenuta sul terreno minato dell’informazione: in particolare, sul controverso finanziamento a Radio radicale e contemporaneamente sulla presidenza della Rai, cioè sul doppio incarico di Marcello Foa che ricopre al momento anche il ruolo di presidente di RaiCom. Tanto più che sulla sua nomina pende ancora in Commissione di Vigilanza la richiesta di una verifica delle schede, da parte del Pd, per accertare la regolarità della votazione a scrutinio segreto.

Non si tratta, dunque, di un caso perché la Lega ha fatto prevalere in quest’occasione la sua appartenenza al vecchio centrodestra, dominato dal regime televisivo e dal conflitto d’interessi che ha condizionato la vita politica italiana dalla metà degli anni Novanta sotto l’egida di Silvio Berlusconi. Con tutto il rispetto e l’apprezzamento per la funzione di servizio pubblico svolta da Radio Radicale, soprattutto con le “dirette” delle sedute parlamentari, la verità è che a questo compito dovrebbe adempiere istituzionalmente la Rai, pagata dal canone d’abbonamento e quindi da tutti i cittadini. Altro discorso è quello sugli archivi dell’emittente che fa capo a un partito e appartiene a una società privata, come ha rilevato ieri lo stesso sottosegretario all’Editoria, Vito Crimi, in un’intervista alla Stampa: questo è un patrimonio di memoria storica che va certamente recuperato e salvaguardato, attraverso un’acquisizione a carico della collettività.

In nome del pluralismo e della libertà d’informazione, Radio Radicale merita senz’altro di essere tutelata all’interno di una logica che deve riguardare necessariamente l’intero sistema. Altrimenti, si rischia di accreditare anche le richieste o le pretese di quelle reti televisive private e di quelle emittenti locali che rivendicano una quota del canone Rai in forza di un presunto servizio pubblico, reso ai propri telespettatori e ascoltatori nell’ambito di una produzione commerciale che attinge alla raccolta pubblicitaria. E ha ragione di nuovo Crimi ad avvertire che, nella distribuzione dei fondi all’editoria, ciò che è dato a uno è tolto agli altri.

Torniamo così ancora una volta all’origine del problema. Vale a dire a quella mancata riforma del servizio pubblico radiotelevisivo che neppure il “governo del cambiamento” è riuscito finora a realizzare. La Rai dovrebbe essere il cardine del sistema dell’informazione e invece continua a essere l’oggetto di una lottizzazione permanente, all’insegna della partitocrazia, a scapito delle competenze e dei meriti, a danno della comunità nazionale.

In questa cornice d’antiquariato, il “caso Foa” rappresenta la sintesi di un antico malcostume che la maggioranza gialloverde non ha voluto o potuto sradicare. Non solo per il doppio incarico di un presidente che controlla direttamente una società controllata. Ma soprattutto per le procedure e le modalità della sua elezione, dopo una prima bocciatura da parte della stessa Vigilanza.

Perché la presidente del Senato ha rifiutato la verifica delle schede, come ha chiesto ripetutamente il “dem” Michele Anzaldi? Che senso ha, allora, conservare “a vita” questa documentazione negli archivi parlamentari? Non sarebbe meglio per tutti, a cominciare proprio da Foa, accertare la legittimità di quella nomina in seconda battuta? Ecco, è dalle risposte a queste domande che forse si potrebbe avviare il “cambiamento” alla Rai.

La guerra fantasma nel Golfo dell’Oman

Se tre coincidenze costituiscono una prova, sei attacchi (di varia intensità) nel giro di un mese ad altrettante navi, di cui 5 petroliere, nel Golfo dell’Oman dovrebbero costituire una certezza. Al contrario sui motivi di questi sabotaggi la luce è fioca.

Certo non è un mistero che una virulenta rivalità religiosa, politica ed economica tra Iran e Arabia Saudita infiamma il Golfo Persico e il resto del Medio Oriente da 40 anni, quando la rivoluzione khomeinista detronizzò lo Scià di Persia. Dal Libano a Gaza, dallo Yemen all’Iraq, dall’Afghanistan all’Algeria, dalla Libia alla Siria, dall’Egitto al Bahrain, non esiste conflitto, guerra civile, crisi interna dove i due rivali islamici non si fronteggino senza esclusione di colpi. Usano milizie locali, mercenari, tribù o movimenti politici, coinvolgendo Usa, Russia, Turchia, Israele e Paesi europei (inclusa l’Italia) in un dedalo di alleanze, tradimenti, atrocità e bassezze.

Le primavere arabe del 2011 hanno aggiunto un’ulteriore vetriolica linea di faglia: il conflitto tra l’Islam politico – di cui la costellazione dei Fratelli Mussulmani è la punta di lancia – e la monarchia saudita (appoggiata strenuamente da quelle emiratine e dall’Egitto) che ritiene tale organizzazione una minaccia esistenziale.

Quest’ultima frattura ha finito per disarticolare l’unità politica dei paesi della Penisola Arabica che resisteva dai primi anni ’70 quando l’Impero Britannico abbandonò la regione e l’Opec prese a dominare il mercato mondiale del petrolio. L’Arabia Saudita, il Bahrain e gli Emirati arabi da alcuni anni hanno isolato il Qatar accusandolo di complicità con l’Iran e con i Fratelli Mussulmani. Il Kuwait e l’Oman (che mantiene rapporti amichevoli con l’Iran) cercano di mediare senza successo.

In questo contesto, le petroliere in fiamme nel Golfo dell’Oman rappresentano fosche pennellate su un drammatico affresco. Sulle prime si era ipotizzato che le esplosioni fossero state causate da siluri o da mine vaganti in mare, il che avrebbe attribuito la colpa a una marina militare, non a terroristi. Ma l’ipotesi è stata scartata.

Tuttavia il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, dopo l’iniziale prudenza, ha puntato il dito contro l’Iran. Ieri gli ha fatto eco il presidente Donald Trump durante un’intervista a Fox TV. A supporto dell’accusa, un comunicato della Marina Militare Usa affermava di aver ricevuto il 13 giugno due SOS, uno alle 6:12 locali dalla petroliera norvegese Front Altair e uno alle 7:00 dalla petroliera giapponese Kokuka Corageous che navigavano in acque internazionali a 10 miglia l’una dall’altra dopo aver seguito una rotta quasi identica attraverso lo Stretto di Hormuz.

Il comunicato era corredato dalla foto di un oggetto simile a una mina inesplosa sul fianco della Kokuka Courageous e un filmato che riprende un motoscafo (identico a quelli di classe Hendijanin in uso alle forze speciali della marina iraniana) il cui equipaggio appare intento a rimuovere una mina sul fianco della Kokuka (anche se dalle immagini non è sicuro che sia proprio la Kokuka). A complicare la faccenda il presidente della società proprietaria della Kokuka Courageous, Yutaka Katada, ha dichiarato che secondo l’equipaggio la nave è stata colpita da un oggetto volante, e ha espresso scetticismo sull’ipotesi di una bomba o di un ordigno attaccato al fianco della nave.

Insomma, l’evidenza sembra puntare verso Teheran – che ovviamente nega e accusa gli americani di orchestrare una messa in scena (stile Golfo del Tonchino) – ma non si tratta della proverbiale pistola fumante.

Se anche i pasdaran avessero rimosso una mina dalla fiancata (per il momento è solo una congettura) ciò non implicherebbe che siano stati loro a metterla. Magari erano alla ricerca di evidenze che portassero ai responsabili.

Ma se pure l’ordine di sabotare fosse venuto da Teheran, la questione non si esaurisce facilmente.

Il regime teocratico sciita non è un monolite. Al suo interno si scontrano fazioni sbrigativamente descritte come moderate o oltranziste. Da quando Trump ha ripudiato l’accordo sul nucleare e ha reintrodotto le sanzioni contro l’Iran, la situazione economica sta precipitando. Di fronte al tracollo i moderati vorrebbero trovare una via d’uscita onorevole per evitare rivolte sociali. Gli oltranzisti invece vorrebbero costruire la bomba atomica per minacciare il Grande Satana, costi quel che costi, e assicurarsi la sopravvivenza. I sabotaggi sono stati condotti durante la visita in Iran del Primo Ministro giapponese Abe venuto in cerca di una mediazione. E quindi la nazionalità della Kokuka non sarebbe casuale. Rappresenterebbe la firma degli irriducibili decisi a contrastare qualsiasi cedimento interno. Di sicuro c’è solo che il prezzo del petrolio dopo aver toccato i minimi da 5 mesi ha subìto un’impennata.

In solitudine sull’autostrada

C’è un dramma nascosto in Italia, quello dei “padroni emarginati”. Ce lo spiega uno stralcio del libro La ribellione delle imprese anticipato dal Sole 24 Ore: “Forse per la prima volta nella storia, l’ imprenditore italiano vive nell’ era del populismo una condizione inedita di ‘emarginazione sociale’. Si tratta di un grande paradosso. Non solo economico. Ma anche sociale: l’ imprenditore è il principale generatore di occupazione e di ricchezza, nonché l’ unico pilastro su cui (a monte) può reggersi qualsiasi operazione di distribuzione della ricchezza e di miglioramento del benessere e della qualità della vita di tutti i cittadini”. L’autore è Francesco Delzio, la scheda biografica ci dice quasi tutto di lui, incluso che ha scritto un saggio “riferimento dei giovani italiani nell’era della flessibilità”. Da alcuni anni Delzio è però piuttosto stabile. Lavora per Atlantia, la holding dominata dai Benetton che controlla Autostrade per l’Italia, come Direttore Relazioni Esterne, Affari Istituzionali e Marketing (dettaglio omesso nella scheda). È chiaro che da quella prospettiva, magari da Genova con vista sulle macerie del ponte Morandi, si possa maturare un po’ di senso di abbandono. Noi automobilisti e contribuenti, spremuti al casello per gonfiare i conti di Autostrade, esprimiamo il massimo della compassione e dell’empatia.

Militare, nasce la joint venture Fincantieri-Naval

Per una fusione che salta, quella tra Fca e Renault, c’è un’alleanza che nasce sull’asse Italia-Francia. Due anni dopo i contrasti nati sull’acquisizione dei cantieri Stx di Saint-Nazaire, lo storico capo di Fincantieri Giuseppe Bono centra il suo vero obiettivo: il colosso italiano della cantieristica e la francese Naval Group hanno siglato ieri una joint venture paritaria, 50% delle azioni a testa, che opererà nel settore militare delle navi di superficie. La sigla è arrivata ieri a La Spezia tra Bono e il suo omologo di Naval, Hervè Guillou.

Il quartier generale della nuova società sarà a Genova, ma disporrà anche di una consociata a Ollioules, vicino Tolone, dove Naval ha un centro di ricerca sui sistemi di combattimento e le nuove tecnologie (e che dovrebbe ospitare il centro d’ingegneria comune). Il cda sarà paritetico, con tre consiglieri espressi dalle due parti. Per i prossimi tre anni il presidente non esecutivo sarà Bono e Fincantieri avrà il direttore operativo, mentre i francesi avranno l’ad (Claude Centofanti, dirigente di Naval) e il direttore finanziario.

Non è una fusione, non ci sarà cessione di asset né scambio di azioni. Almeno non subito. La nuova società servirà a gestire e acquisire gare internazionali, con offerte congiunte e programmi condivisi per ricerca e tecnologia, razionalizzando gli acquisti e sfruttando le economie di scala. Insomma, non nascerà il colosso comune della cantieristica militare ma è un primo passo verso una maggiore integrazione.

A maggio 2017 Bono ha acquisito i cantieri Stx, falliti per mano dei coreani. Due mesi dopo il neo presidente francese Macron ha stracciato il patto siglato dal predecessore. Lo scontro si è concluso con una doppia mossa: un accordo che garantirà il controllo dei cantieri della Loira a Fincantieri grazie a un 1% “prestato” per 12 anni dallo Stato francese (che avrà il 33%, con Naval all’11%); e un’intesa sul militare, chiusa ieri.

Per il primo accordo, che riguarda la cantieristica civile, si attende l’ok dell’Antitrust Ue, attivato da Germania e Francia. Per il secondo servirà valutare la gestione delle forniture militari. All’inizio dei negoziati Bono è stato criticato per lo scarso ruolo riservato a Leonardo, l’ex Finmeccanica, che fornisce i sistemi di combattimento, d’arma e i radar. Mentre Naval ha come azionista di peso Thales, la rivale francese di Leonardo, ben più grossa.

Dopo mesi di confronto, il risultato è neutrale. Leonardo non viene esclusa e – ha spiegato ieri Bono – ha già accordi con la nuova joint venture. Per le forniture, la linea decisa è questa: per le commesse militari nazionali verranno usati i fornitori nazionali; per quelle internazionali sceglierà il cliente. Se non lo fa, si valutano le offerte.

Resta il nodo del diverso rapporto che lega Thales a Naval Group. Replicarlo con Fincantieri-Leonardo si è subito rivelato complicato. L’ex Finmeccanica, guidata dal 2017 da Alessandro Profumo, un banchiere, arranca da tempo. Nel 2010, ai tempi di Pier Francesco Guarguaglini, fatturava 18 miliardi, oggi 12. Conserva alcune eccellenze, ma in un mercato che richiede giganteschi investimenti è indietro su molti programmi militari rispetto a inglesi, francesi e tedeschi, che alle spalle hanno il supporto dello Stato. L’obiettivo del 73enne Bono, ultimo dei grandi boiardi di Stato rimasti, è portare l’Italia a sedersi al tavolo della difesa europea con Fincantieri, e per questo ha iniziato ad ampliare, con acquisizioni e investimenti, il comparto militare del gruppo. Ma dietro Bono c’è solo Bono.

Savona si scorda i guai della Consob e parla solo di euro

Più che il tradizionale discorso annuale del presidente della Consob, ieri alla Borsa di Milano pareva di ascoltare la relazione di un fantascientifico governatore di Bankitalia, o ministro dell’Economia. Paolo Savona sembra sentirsi stretto nei panni di numero uno della commissione di controllo dei mercati finanziari, dedica poco spazio ai compiti della Consob, che pure negli scorsi anni non ha certo brillato per efficacia dei controlli e indipendenza dalla politica. Preferisce guardare lontano, ai sistemi finanziari globali, ai rapporti difficili con l’Europa. Dice di voler uscire dalla “caverna di Socrate” (in realtà di Platone) “dove le luci fioche della conoscenza che in essa penetrano proiettano sulle pareti un’immagine distorta della realtà, per giunta in presenza di un continuo vociare a senso unico che stordisce”. Compito “di chi riveste posizioni di vertice della politica, dell’economia e dei mezzi d’informazione” è allora di “rafforzare la luce e abbassare i toni, per ristabilire la fiducia sul futuro del Paese”.

L’Italia, secondo Savona, non è il Paese in difficoltà descritto dai “giudizi negativi non di rado espressi da istituzioni sovranazionali, enti nazionali e centri privati”. Quei giudizi “appaiono prossimi a pregiudizi”, perché basati su parametri finanziari convenzionali che non tengono conto dei due pilastri che, fuori dalla caverna, “reggono la nostra economia e la nostra società: la forza competitiva delle nostre imprese sul mercato globale e il nostro buon livello di risparmio”. “Le esportazioni restano la forza trainante della nostra economia”, afferma il presidente della Consob. E il risparmio (16 trilioni di euro!) “resta il punto di forza della società italiana”. E allora che cosa ci manca? La fiducia, risponde Savona. “Se la fiducia nel Paese è solida e la base di risparmio sufficiente, livelli di indebitamento nell’ordine del 200 per cento rispetto al Pil non contrastano con gli obiettivi economici e sociali perseguiti dalla politica”. Lo dimostra l’“istruttivo” esempio del Giappone (Paese fuori dall’euro, ovviamente).

Le regole degli organismi sovranazionali e la religione del rapporto debito-Pil frenano la crescita. Certo, “non è che non esista un limite all’indebitamento”, ma le rigidità non fanno bene. I trattati dell’Unione europea indicano la ricerca di “un equilibrio tra istanze di stabilità e istanze di crescita”. Ma mentre la stabilità “ha strumenti sovranazionali” per essere mantenuta, la crescita è affidata ai singoli Stati membri. Va perseguita con decisione, ricordando che “non esiste alcun vincolo oggettivo insuperabile”.

“I sospetti sulla possibilità di insolvenza del nostro debito pubblico” sono “oggettivamente infondati”. Dunque lo spettro del crac è strumento di speculazione, oppure di ricatto, quando le autorità usano “il rischio di rimborso” dei titoli di Stato italiani “come vincolo esterno per indurre gli Stati membri a rispettare i parametri fiscali concordati a livello europeo”.

Così l’Italia “non rappresenta un problema finanziario, ma una risorsa alla quale molti Paesi attingono per soddisfare le loro necessità”: “contrariamente a importanti Paesi sviluppati”, dagli Stati Uniti alla Francia, dal Regno Unito al Canada, “l’Italia non assorbe flussi di risparmio dall’estero, ma ne cede in quantità superiori al suo debito pubblico”. Savona propone la creazione “di un titolo europeo privo di rischio (European safe asset)”. Oggi l’unico Safe asset esistente in Europa è il Bund tedesco. La nascita di un Safe asset europeo potrebbe servire “per concedere prestiti agli Stati membri che disporrebbero di una fonte alternativa e a basso costo per il rifinanziamento del loro debito pubblico”.

Nella platea di Palazzo Mezzanotte, abituata ai discorsi senza scosse del presidente Consob quando questi si chiamava Giuseppe Vegas, applausi di rito. Più convinti quelli del sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti, tiepidi quelli del governatore di Bankitalia Ignazio Visco.

Chiude il magazzino degli “Iper”: tre feriti nel Cremonese

Un lavoratore turco con una gamba fratturata e altri due feriti. Così è finita la protesta dei facchini organizzata dall’Usb e dal Si Cobas davanti al magazzino FinIper di Soresina (Cremona), proprietaria dei supermercati “Iper” in varie Regioni. I lavoratori, accompagnati dalle famiglie con i bambini, hanno bloccato i camion all’ingresso, le forze dell’ordine li hanno portati via di peso, qualche manganellata, brevi colluttazioni, poi alcuni lacrimogeni. Lo stabilimento chiude: FinIper lo riapre 50 chilometri più in là nella Bassa Bergamasca, cambia l’appalto per la gestione – come succede di frequente nella logistica – e non intende riassumere i 170 facchini, in larga parte stranieri, “come non dovrebbe accadere – sostiene Riad Zaghdane dell’Usb – nemmeno con il cambiamento di sede. Qui ci sono lavoratori sindacalizzati, è applicato il contratto nazionale, sono stati riconosciuti livelli superiori. L’azienda vuole ricominciare da zero”. Molti dei 170 lavorano a Soresina da anni, da quindici il 50enne turco con la gamba fratturata. “La Finiper – scrive l’Usb – ha un fatturato di 2 miliardi e una quota di mercato della grande distribuzione pari al 20,5 %“. Il sindacato ha fatto iniziative anche negli ipermercati.