“Noi parenti non abbiamo dimenticato le vittime del Ponte Morandi. E voi?”

Dieci mesi fa 43 persone determinanti nella nostra vita sono morte, le nostre 43 famiglie sono state devastate dal dolore. Noi stiamo cercando con fatica erculea di accettare ciò che non si può cambiare, stiamo cercando di provare a vivere e non sopravvivere. Cerchiamo anche di reagire all’indifferenza e all’oblio che calano su coloro che non ci sono più, senza dimenticare che questi nostri cari sono 43 vittime. Confidiamo nella magistratura e negli inquirenti: solo punizioni esemplari possono ridare speranza a noi e alle persone oneste.

Sentiamo parlare di futuro per Genova ma sarebbe più giusto parlare di futuro per tutto il nostro Paese. Nel futuro immaginiamo che stragi come quella del ponte Morandi non debbano accadere, immaginiamo che i parenti delle vittime vengano accompagnati da subito con un supporto specializzato di psicologi e altri esperti per sostenerli nelle scelte individuali e per farli sentire meno abbandonati. Immaginiamo che le famiglie che nella tragedia abbiano perso la fonte di reddito ricevano supporto economico per le esigenze contingenti. Oggi, invece, tutto questo manca oppure dipende da iniziative sporadiche.

Così non può funzionare. Alcuni di noi hanno costituito un Comitato per ricordare, per lottare e per provare a trovare un po’ di speranza, proviamo con le nostre esigue forze a contribuire al cambiamento, perché solo così potremo onorare le vite spezzate.

Il comitato è parte della Rete Nazionale “Noi non dimentichiamo”, che riunisce altri comitati con storie altrettanto tristi di morti inaccettabili. Sosteniamo lotte comuni, conosciamo bene la disperazione di un dolore così grande ed è per questo che il nostro Comitato ha chiesto un incontro sia al Presidente del Consiglio, sia al presidente della Repubblica per portare loro il nostro modestissimo contributo di idee e di forza. Vorremmo stimolare altre energie positive nel nostro Paese. Non bisogna rassegnarsi. Mai.

* Presidente del Comitato Ricordo Vittime del Ponte Morandi

Il sindaco del Jobs Act ora si scopre sindacalista

Tra poco lo vedremo anche alle manifestazioni dei ragazzi di Greta, con il plastico del Tav e dell’aeroporto di Firenze nascosti sotto la giacca. Ieri Dario Zelig Nardella, sfilando tra i metalmeccanici, ha tuonato: “Il governo non può più rimanere sordo di fronte a questo grande movimento che vede unite anche le istituzioni”. Chissà se ricorda che quando qualcuno fece notare a Renzi presidente del Consiglio che i sindacati avrebbero potuto dissentire dalle sue politiche economiche (era il 2014), la risposta rimase proverbiale: “Ce ne faremo una ragione”. La disintermediazione e la delegittimazione dei sindacati conosceva allora il suo apice, e Nardella era una fedelissima voce del coro renziano. Quando Maurizio Landini dichiarò che il Pd renziano “sul lavoro ha fatto solo cose sbagliate, nemmeno Berlusconi era arrivato a cancellare l’articolo 18”, Nardella rispose sprezzante che “la sinistra italiana deve decidere se essere una grande sinistra moderna, riformista di stampo liberal e innovatrice o una sinistra conservatrice ormai legata al modello insostenibile del welfare del secolo scorso”. Lo stesso Nardella che definì “irresponsabile” lo sciopero della Cgil per i diritti dei lavoratori del Maggio Musicale, e si fece dire (a ragione) dai sindacati della scuola che “Nardella, come Renzi, non ascolta nessuno”. Lo stesso Nardella che difese a spada tratta il Jobs Act del suo mentore: “In questi primi quattro mesi da sindaco, ho constatato che soltanto riformando il mercato del lavoro possiamo dare una spinta vigorosa all’economia”.

Intendiamoci, le ragioni di questo sciopero sono sacrosante, e il fallimento di Di Maio come ministro del lavoro è clamoroso: e chiunque lo dica ha ragione. Ma, come ha ricordato ieri dal palco il segretario della Fiom fiorentina Daniele Calosi, in piazza c’era il Paese reale, non carne da macello elettorale. E chi non ha ancora posato il coltello della peggior macelleria sociale, dovrebbe avere almeno il buongusto di tacere.

Sulle tute blu, le prove dello sciopero generale

Hanno sfilato in tre piazze collocate al nord, al centro e al sud della Penisola: Milano, Firenze e Napoli. In migliaia hanno aderito allo sciopero unitario dei metalmeccanici indetto da Fiom, Fim e Uilm. E, in questa ennesima giornata di protesta del mondo del lavoro che va avanti ininterrotta dal 9 febbraio, si consolidano due percorsi importanti: l’unità sindacale da un lato e l’ipotesi di uno sciopero generale contro il governo, dall’altro.

L’unità è un segno importante della giornata di ieri perché le categorie metalmeccaniche in passato hanno visto le maggiori divisioni sindacali. Fratture, come quella alla Fiat, ormai ricomposte. A Milano, ad esempio, hanno sfilato fianco a fianco il segretario Fim-Cisl, Marco Bentivogli e il segretario della Cgil Maurizio Landini. A Firenze la segretaria Cisl Annamaria Furlan e quello della Uilm Rocco Palombella. A Napoli quello della Uil, Carmelo Barbagallo e Francesca Re David, leader della Fiom. “Il Governo deve sapere che se non cambia non ci fermiamo” ha detto Landini dicendo di “non escludere nulla” a proposito dello sciopero generale. Bentivogli ha invece paragonato il governo al comandante della Costa Concordia, Francesco Schettino.

Nel campo metalmeccanico le ragioni, del resto, sono molte. Il contratto, la sicurezza sul lavoro – a Napoli il corteo è stato preceduto dalla sirena dei portuali a ricordare i morti sul lavoro – le tante crisi industriali che non si risolvono mai. Al tavolo del Ministero dello Sviluppo economico la lista delle emergenze somma sempre 150 tavoli. Le ultime portano i nomi di Mercatone Uno o Whirlpool ma nel complesso ci sono 210 mila più 70mila lavoratori a rischio dell’indotto che scontano le varie difficoltà del tessuto produttivo: Alitalia, Piaggio Aerospace, Iveco Defence Vehicles, l’Aferpi di Piombino o l’Alcoa di Portovesme. Fino all’annuncio di ArcelorMittal di cassa integrazione per 1400 operai all’ex Ilva di Taranto.

Quindi problemi concreti, vivissimi e poca politica. Ma se sono vere le cifre fornite dai sindacati che parlano di adesioni altissime ribadite da una percentuale complessiva, comprendendo quindi anche con le micro-fabbriche, del 19% fornita dagli imprenditori di Federmeccanica, il clima che si respira nel sindacato è anche molto politico. Non perché ci siano chissà quali progetti partitici, ma perché nel vuoti della rappresentanza del mondo del lavoro, le piazze si riempiono di chi sconta la crisi e chiede di essere tutelato. “Non ci spetta fare opposizione politica, ha detto Bentivogli, ma quando si attacca il lavoro non è un optional mobilitarsi: è il nostro dovere”.

E politiche sono quindi le conseguenze di una giornata come questa. La prima riguarda la strategia sindacale vera e propria perché lo sciopero, unitario, dei metalmeccanici, segue quello dell’Agroindustria, degli Edili, del Pubblico impiego, dei Pensionati e precede di una settimana la manifestazione unitaria del 22 giugno a Reggio Calabria, nel ricordo dei fatti di 40 anni, la rivolta del “Boia chi molla” che sconvolse la rappresentanza politica e sindacale al sud. Cgil, Cisl e Uil decidono di ricordare quelle giornate per protestare contro la riforma dell’autonomia voluta dalla Lega. Ma, è chiaro ormai, che non fanno che consolidare un percorso di unità interna che fra poco potrebbe sfociare anche in novità formali, ma rilevanti, come i comizi fanno da un solo esponente del sindacato, magari a rotazione.

E poi lo sciopero generale. Non è stato proclamato, è solo accennato, ma è chiaro che sta per essere preparato. “Dipende da settembre” dicono nelle stanze sindacali. Ma se ne parla molto. Sarebbe una novità rilevante perché l’ultimo sciopero unitario di otto ore di Cgil, Cisl e Uil risale al 16 aprile 2002, venti giorni dopo la grande manifestazione della sola Cgil di Sergio Cofferati al Circo Massimo. Dopo di quello si ricorda uno sciopero di quattro ore nel 2004, sempre contro Berlusconi e uno di 3 ore contro la riforma Fornero.

Scioperare contro un governo è l’atto più forte che il sindacato ha a disposizione. Ma in ballo ormai ci sono la capacità di tenere insieme una base sempre più disorientata e stanca, di colmare il vuoto politico nel mondo del lavoro, di riuscire a strappare qualche minimo risultato senza il quale lo stesso sindacato perde di senso. Ieri è stata una prova generale di tutto questo.

Pronta la criptovaluta di Facebook: dentro anche Visa e Uber

Facebook è pronta a entrare nel mercato finanziario con una propria valuta virtuale che si potrebbe chiamare “Libra” o “Global Coin”. Una sorta di bitcoin, ma più solido, a disposizione degli utenti per scambiarsi denaro e fare acquisti sia dentro il social sia sul web. A sostenerla, anche economicamente, Visa, Mastercard e PayPal insieme a una dozzina di compagnie tra cui – scrive il Wall Street Journal – anche Uber e Booking.com. Ciascuna investirà circa 10 milioni di dollari in un consorzio che governerà la moneta virtuale. Il denaro servirà a finanziare la creazione della moneta, che sarà ancorata a un paniere di valute internazionali per scongiurare i problemi di volatilità tipici delle criptovalute elettroniche, a cominciare dalla più nota: il bitcoin. Per lanciare la moneta elettronica, su cui è al lavoro da oltre un anno, a Facebook però serve di più: secondo indiscrezioni recenti, Mark Zuckerberg starebbe cercando di raccogliere un miliardo di dollari. Zuck avrebbe anche ricontattato i gemelli Cameron e Tyler Winklevoss, i suoi ex compagni di Harvard che sono i fondatori di Gemini, una delle piattaforme più note per le criptovalute. Facebook dovrebbe rivelarlo in un libro bianco che sarà diffuso il 18 giugno.

Eurogruppo, Roma ha una settimana per fornire i dati

Il Governo ha circa una settimana di tempo per rispondere ai dubbi dell’Ue sui conti, portando i nuovi elementi che ha promesso: è quanto emerso al termine della due giorni di riunioni in Lussemburgo, nella quale il ministro Giovanni Tria ha avviato il negoziato, ascoltando le richieste della controparte. I tempi si stringono, la Commissione deve valutare i nuovi dati prima di preparare la raccomandazione di apertura della procedura contro l’Italia sul debito. Si guarda quindi all’ultimo mercoledì di giugno, il 26, come data possibile per adottare la raccomandazione sulla procedura. La quale dovrà poi essere approvata da Eurogruppo ed Ecofin dell’8-9 luglio. Nel vertice europeo di giovedì e venerdì prossimi, il premier Conte incontrerà il presidente Juncker.

Intanto, è stato anche raggiunto un accordo sul bilancio della zona euro, dopo oltre dieci ore di negoziati. Si chiamerà “strumento per la convergenza e competitività”, e dovrebbe sostenere riforme strutturali e investimenti pubblici che riflettono “le linee guida strategiche” decise annualmente da Eurosummit ed Eurogruppo, e “definite nel semestre europeo”, si legge nelle conclusioni dell’Eurogruppo. Per accedere ai fondi, gli Stati membri presenteranno proposte di riforma e investimenti motivate, che includeranno la stima dei costi nonché il calendario per la loro attuazione. Verrà fissato un tasso minimo di cofinanziamento nazionale che potrebbe variare in base a una procedura concordata. Il sostegno sarà erogato sotto forma di sovvenzioni (cioè contributo finanziario diretto). L’importo del sostegno di cui uno Stato membro può beneficiare sarà determinato in base alla stima dei costi. I fondi disponibili per Paese saranno decisi successivamente, così come la portata totale del fondo, di cui dovrebbero discutere i leader nel summit della prossima settimana.

Carcere agli evasori, la lezione degli Usa ignorata dall’Italia

In Italia, si sa, nessuno è mai andato in galera per il solo fatto di aver evaso le tasse. Il trend degli ultimi interventi legislativi (il più recente nel 2015) è stato di restringere sempre più il campo d’azione della magistratura verso i contribuenti infedeli, innalzando le soglie oltre le quali il reddito o l’Iva evasi spalancano in teoria le porte del carcere. Inoltre con il sistema normativo e giudiziario italiano la prescrizione è alla portata di qualsiasi avvocato. Tanto che la principale sanzione, per dirla con l’ex sostituto procuratore di Torino, Bruno Tinti, ormai “è la parcella da pagare al legale”.

Il reato di omesso versamento dei contributi previdenziali è depenalizzato per i versamenti di importo inferiore ai 10mila euro. La dichiarazione fraudolenta è punibile solo se l’imposta evasa è superiore a 30mila euro, soglia riferita a ciascuna singola imposta, e i redditi non dichiarati superano il 5% del totale o comunque 1,5 milioni di euro. In precedenza il limite era di un milione. La dichiarazione infedele comporta una denuncia se l’imposta evasa è superiore ai 150mila euro, i redditi non dichiarati superano il 10% del totale o comunque i tre milioni, prima erano due. L’omessa dichiarazione è penalmente sanzionabile se quanto non versato al fisco supera i 50mila euro, in precedenza i 30mila. Per l’omesso versamento Iva la soglia di punibilità è stata fissata, sempre dal governo Renzi, a 250mila euro (era 50mila nella versione del 2011). L’evasione di massa, la vera pietra al collo dell’economia del Paese, è abbondantemente fuori dal raggio d’azione del codice penale. Ma la minaccia del carcere può essere veramente un deterrente efficace contro l’evasione diffusa?

Negli Stati Uniti il tax gap puntualmente causa ogni anno una perdita netta di gettito ai danni dell’erario federale pari all’incirca a 500miliardi di dollari e viene contrastato principalmente riempiendo i centri speciali di detenzione, riservati a chi sconta pene connesse alla frode e all’evasione fiscale. Nel triennio 2015-2017 l’Irs, l’equivalente dell’Agenzia delle Entrate italiana, ha incriminato e fatto condannare a pene detentive 8.340 contribuenti, anche per reati fiscali che contemplano la presentazione della dichiarazione con redditi eccessivamente “modesti”. In media il periodo di detenzione è di circa 3 anni e mezzo, con un trend in crescita.

Negli Usa le condanne comportano pene che oltre al carcere prevedono anche gli arresti domiciliari o, in alternativa, un controllo continuo del soggetto anche ricorrendo a sistemi elettronici e informatizzati, segnala la nostra Agenzia delle Entrate. Insomma oltre oceano non si scherza, l’evasione è considerata un furto ai danni della collettività. Quei soldi, per dare un’idea, sarebbero sufficienti ad allargare a tutti i cittadini statunitensi l’assistenza sanitaria pubblica sul modello europeo.

“Malgrado a Udine si accentrino gran parte degli stabilimenti produttivi della Regione sono pochissime le denunce che arrivano con queste soglie e praticamente nessuna sopravvive alla prescrizione” osserva il Procuratore della Repubblica del capoluogo friulano, Antonio De Nicolo. Ma riportare i parametri di riferimento dei reati perlomeno a come erano nel 2011 per il magistrato non basta: “Abbiamo bisogno di personale, per dare la possibilità alla Guardia di Finanza e all’Agenzia delle Entrate di fare i controlli e ai tribunali di funzionare al meglio, la rimodulazione delle soglie deve essere accompagnata dagli adeguamenti degli organici che dopo il varo della ‘quota 100’, che ha spinto molti ad andare in pensione, sono diventati un’emergenza nella Pubblica amministrazione e nel comparto della Giustizia”, conclude De Nicolo.

“Hanno demolito il codice penale nell’ultimo quarto di secolo, la repressione della normativa penale serve per dissuadere, non solo per punire, nell’800 la bancarotta fraudolenta era punita con l’ergastolo”. Gian Gaetano Bellavia, esperto in diritto penale dell’economia e consulente di numerose procure, la prende larga. Ma solo in apparenza. “Oggi la sanzione penale non è più dissuasiva perché ci sono mille sistemi per aggirarla se uno ha i soldi: c’è la prescrizione, la certezza della pena non esiste, si può mentire in tribunale – incalza Bellavia – per il Tributario il sistema è ancor più inefficace non solo perché le soglie sono state triplicate, troppo alte e non dissuadono, ma perché ci sono una serie di meccanismi premiali”. La prescrizione, ricorda l’esperto di antiriciclaggio, è facilmente raggiungibile e si può essere non puniti semplicemente pagando le imposte dovute prima dell’apertura del procedimento di primo grado. “Eliminiamo la normativa penale, così risparmiamo e basta – suggerisce provocatoriamente Bellavia – sarebbe molto più efficace una sanzione patrimoniale da cui non si può scappare, ma per questo occorre togliere dal tavolo la prescrizione, come ha imposto la normativa europea dal 2001 anche alle società italiane che si affrettano regolarmente a patteggiare perché una volta che ti ho preso il reato non si prescrive”.

Fatturato industria, calo dell’1% ad aprile. Ordini sotto del 2,4%

Consoliamoci con il cibo: anche perché quello alimentare è il settore che traina l’industria italiana mentre, nel suo insieme, si registra un trend negativo con un calo dell’1%. I dati Istat sul fatturato nazionale, infatti, parlano chiaro: peggio di tutti va l’industria farmaceutica (-9%), seguita dai mezzi di trasporto (-8,9%), prodotti chimici (-6,4%) e metallurgia (-3,6%). La flessione del fatturato è spiegata dal calo registrato dai prodotti italiani sul mercato estero (-2,9%), resta invece quasi invariato il mercato interno. Preoccupa la perdita di ordinativi, che diminuiscono, sia su base mensile (-2,4%) che annua (-0,2%). “Dopo il calo di aprile della produzione, è la volta di fatturato e ordini. Di questo passo torniamo in recessione”, dice Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori.

Sono pochi i settori in controtendenza: il comparto del food è tra quelli che registrano un incremento: +5,5% ad aprile 2019, rispetto allo scorso anno, grazie al successo dato dall’export alimentare, in crescita dell’8%. Bene anche computer ed elettronica (+11,8%).

Ilva, lo strano asse tra Arcelor e la Lega

Arcelor Mittal chiama, Lega risponde. “Coniugare rispetto dell’ambiente e garanzia occupazionale”, “Risolvere Ilva e Alitalia”, “evitare di mettere in difficoltà 25mila persone”: ieri il vicepremier della Lega, Matteo Salvini, con questa serie di dichiarazioni, ha offerto una sponda ad Arcelor Mittal, nuovo padrone dell’ex Ilva, che su Taranto sembra voler alzare l’asticella. Mossa arrivata dopo che giovedì è slittata la discussione sul decreto Crescita alla Camera proprio per un presunto stallo sul tema del siderurgico.

Le questioni in gioco sono diverse: nel decreto Crescita, infatti, il governo ha inserito una norma, voluta dai 5Stelle e concordata con Mittal che ha ridotto la durata dello scudo penale garantito agli acquirenti dell’Ilva dal governo Renzi fino a settembre (lasciandolo invece per i Commissari). Fin qui tutto tranquillo.

Secondo quanto fatto trapelare da fonti parlamentari alle agenzie di stampa, però, giovedì Arcelor avrebbe alzato il tiro e chiesto un’esimente penale per cinque anni per la sicurezza sul lavoro. Posizione sostenuta in commissione proprio dai parlamentari dalla Lega, anche se – per quanto risulta ad oggi – l’articolo 46 non dovrebbe uscire comunque modificato da questo tira e molla.

Non è l’unica mossa arrivata da Mittal. A maggio ha annunciato il taglio della produzione di acciaio a Taranto (a causa della crisi del settore) e, nei giorni scorsi, anche 1400 richieste di cassa integrazione.

L’annuncio è arrivato a pochi giorni dall’avvio delle procedure di riesame dell’Autorizzazione integrata ambientale deciso dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa. Il risultato sarà quasi certamente la richiesta di accelerare gli interventi ambientali previsti (e per i quali Mittal ha “impegnato” 2,3 miliardi). In teoria c’era l’assenso anche dell’acquirente dell’ex Ilva, che però subito dopo ha annunciato il ricorso agli ammortizzatori sociali alimentando il sospetto di voler recuperare parte della spesa per gli interventi dal lato del costo del lavoro. In ballo c’è la tenuta dell’accordo con cui a settembre 2018 il siderurgico è passato a Mittal. Che ora invece lancia segnali di nervosismo, raccolti dalla Lega.

Radio Radicale, dove sono finiti i 300 milioni di fondi pubblici

Trecento milioni di euro arrivati quasi sempre a fine anno nelle leggi di Stabilità, nei decreti Milleproroghe o in altri provvedimenti ad hoc hanno permesso a Radio Radicale di svolgere per 25 anni “servizio pubblico”, senza alcun tipo di valutazione (come l’affidamento con una gara) e nonostante sia una radio privata e legata a un partito. Ed è una ricorrente che il salvataggio dell’emittente fondata nel 1976 da Marco Pannella arrivi sempre in extremis grazie a denaro pubblico. Come l’ultima boccata di ossigeno arrivata dall’accordo Lega-Pd che giovedì ha concesso a Radio Radicale altri 3 milioni nel 2019 (e 4 milioni nel 2020). Che si vanno ad aggiungere ai 5 già stanziati per l’anno in corso. Un unicum nel panorama editoriale quello conquistato dall’emittente.

Radio Radicale nasce 43 anni fa, per iniziativa di un gruppo di deputati militanti dell’omonimo partito, e diventa subito il megafono delle battaglie di Marco Pannella, tra cui quella contro il finanziamento pubblico ai partiti. Ma senza quei fondi e a fronte di costi di gestione sempre più alti, sono costretti a chiudere nel luglio 1986. I dirigenti decidono di sospendere tutti i programmi per lasciare la parola agli ascoltatori che tra messaggi di stima e bestemmie la trasformano nell’emittente più ascoltata d’Italia (l’esperimento è stato ripetuto anche nel 1993, sempre per salvarsi dalla chiusura). Ma la svolta arriva nel 1990 con la legge 230 quando si aprono le porte dei contributi pubblici: da allora la radio percepisce ogni anno circa 4 milioni di euro. La secondo svolta è datata 21 novembre 1994: viene firmata la convenzione, approvata con un decreto del ministro delle Telecomunicazioni Giuseppe Tatarella, che da allora eroga alla società Centro di produzioni S.p.a. (ossia Radio Radicale con il suo archivio in via Principe Amedeo a Roma) 10 milioni di euro ogni anno per la trasmissione delle sedute parlamentari. È merito di un bando del governo Berlusconi, che i maligni dicono sia stato cucito su misura (niente musica e zero pubblicità), se la radio – che navigava in cattive acque – si salva di nuovo. I Radicali continuano a essere contrari a dare i soldi dei contribuenti ai partiti, ma da allora la radio ha incassato oltre 300 milioni di euro. Il bando, fatto per decreto, non è stato mai convertito in legge. È stato rinnovato per ben 17 volte, da tutti i governi, con una specie di regime transitorio. Contributi all’editoria e rinnovo della convenzione che hanno permesso di percepire 14 milioni di euro ogni anno.

Chi c’è dietro la radio? Fino alla fine degli anni Novanta l’azionista unico dell’emittente era l’Associazione politica nazionale Lista Marco Pannella. Poi l’assetto proprietario cambia nel marzo 2000 quando l’imprenditore Marco Podini (già padrone della catena di supermercati A&O e dei discount Md), aderendo all’appello pubblico di Pannella in un altro momento di difficoltà della radio, acquista tramite la Pasubio Spa il 25% di Radio Radicale per 25 miliardi di lire. Emittente finanziata fino ad allora solo da soldi pubblici, e il cui valore totale schizza così a 100 miliardi di lire. Pochi mesi prima la Rai aveva fatto un’offerta per rilevare tutta la società per una ventina di miliardi. Podini annuncia un aumento della sua partecipazione al 50%, che però non avverrà mai. L’imprenditore siede insieme alla sorella Maria Luisa nel cda della società (la quota è passata nel frattempo alla Holding Lillo) ed è anche il presidente della Dedagroup, una società che si occupa di information technology. Così come l’altro gruppo che possiede, la Piteco, una software house italiana quotata in Borsa.

Da allora le quote della società che controlla la radio sono rimaste immutate: all’associazione Pannella, editore dell’emittente, resta il 62,68% e un’altra piccola quota, del 6,17%, è in mano alla commercialista Cecilia Maria Angioletti. Il resto è in mano alla holding finanziaria Lillo attiva nel campo della distribuzione alimentare che fattura 2,3 miliardi di euro l’anno. Nel 2017, ultimo dato aggiornato del bilancio, i ricavi complessivi della radio hanno raggiunto gli 8,3 milioni con un incremento di 21mila euro sull’anno prima, garantiti dagli introiti della convenzione. A cui si aggiungono 4 milioni di contributi dal fondo dell’editoria. Il costo del personale (a Radio Radicale lavorano 52 dipendenti tra cui 20 giornalisti impiegati) è salito a 4 milioni dai 3,8 del 2016 (compresi contributi e Tfr) con il direttore Alessio Falconio e l’ad Paolo Chiarelli che guadagnano poco più di 100mila euro. Utili ce ne sono stati pochi negli ultimi anni, ma non è sempre andata così. Il 2010, per dire, si chiuse con un utile di 168 mila euro, ma il cda deliberò di distribuire un dividendo di 600 mila euro attingendo alle riserve. Negli ultimi 3 anni i conti hanno sempre chiuso in rosso (nel 2017 di 6.500 euro).

Ristoranti etnici in Italia, uno su due a rischio sanitario

Cibi scaduti, scongelati e ricongelati, mancato rispetto delle norme igieniche, etichette incomprensibili, importazioni vietate. I controlli dei Nas dei Carabinieri in tutta Italia su ristoranti etnici e depositi di alimenti, nel solo mese di maggio hanno accertato irregolarità in 242 strutture, quasi la metà dei locali ispezionati. Le situazioni più critiche sono state riscontrate nel settore della ristorazione, specie negli “all you can eat”: nel 48% dei locali sono state trovate irregolarità. Stessa situazione nel 41% dei depositi di alimenti etnici. Chiuse o sospese 22 attività, riscontrate 477 violazioni di legge. Sequestrate 128 tonnellate di cibo, per un valore di 232mila euro. In particolare prodotti ittici, carnei e vegetali non idonei al consumo, perché privi di tracciabilità ed in cattivo stato di conservazione. I Nas inoltre hanno trovato magazzini abusivi di stoccaggio dei prodotti, cucine in pessime condizioni igienico-sanitarie, ambienti mancanti dei minimi requisiti sanitari, strutturali e di sicurezza per i lavoratori. Sono stati applicati provvedimenti di chiusura o sospensione dell’attività per 22 imprese commerciali, per un valore di 5,3 milioni di euro. Complessivamente sono state contestate 477 violazioni.