Film su Sole e Baleno in tutta Italia ma non in città: “Una precauzione”

È un “atto di sensibilità e rispetto nei confronti della città”.

Così Alfredo Federico, uno dei produttori, definisce la scelta di non distribuire nei cinema di Torino il film Soledad sulla vita di Maria Soledad Rosas, anarchica argentina morta suicida a 24 anni l’11 luglio 1998, mentre si trovava agli arresti domiciliari per un’inchiesta della procura torinese.

La pellicola, una produzione indipendente della regista Agustina Macri (figlia del presidente argentino Mauricio), è arrivata giovedì in 26 sale cinematografiche, ma non a Torino, dove la storia di “Sole” si è intrecciata a quella di Edoardo Massari, detto “Baleno”, suo compagno, e di Silvano Pelissero.

Erano considerati degli ecoterroristi sospettati di sabotaggi e attentati in Valsusa contro obiettivi legati al Tav Torino-Lione. Per questo il 5 marzo 1998 “Sole e Baleno” furono arrestati nell’ex manicomio di Collegno occupato dagli anarchici. Massari si è impiccato in cella il 28 marzo e “Sole” si è uccisa alcuni mesi dopo, prima dei processi (Pellissero fu assolto nel 2002).

“Suicidi ad alta velocità”, li definisce un libro dello scrittore anarchico e No Tav Tobia Imperato.

Gli antagonisti difendono ancora la memoria di Sole e Baleno tanto che nell’autunno 2017 avevano contestato i casting e le riprese: “Quasi vent’anni dopo il ‘sistema’ vorrebbe farne un prodotto commerciale, rendendoli protagonisti di un film spazzatura”, avevano scritto in un comunicato. Per questo la produzione aveva dovuto spostarsi e ora ha deciso di non distribuire la pellicola in una città in cui gli anarchici sono tornati a manifestare con forza dopo lo sgombero dell’Asilo occupato, uno dei loro centri.

Processo Cucchi, i periti del gip: “Senza quella frattura Stefano non sarebbe morto”

Se non avesse avuto la frattura, Cucchi non sarebbe stato ospedalizzato e probabilmente non sarebbe morto”. Lo dichiarano in aula al processo i periti nominati dal Gip nell’ambito dell’inchiesta bis sulla morte del giovane detenuto romano. E dopo dieci anni, come spiega Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, viene per la prima volta presa in considerazione la correlazione tra le lesioni subite e la morte, avvenuta il 22 ottobre 2009 all’ospedale Pertini di Roma.

I medici legali hanno chiarito quanto contenuto nella loro perizia. L’ipotesi principale è la morte improvvisa e inaspettata in un paziente affetto da epilessia. Ma non sarebbe stato l’unico fattore determinante. L’ipotesi secondaria è la frattura traumatica sacrale. In entrambi i casi una delle concause è la dilatazione abnorme della vescica che avrebbe provocato problemi cardiaci. Un’altra concausa, spiegano, può essere la malnutrizione. Ma la partita per stabilire le cause del decesso si gioca ora proprio su quella frattura sacrale, che per l’accusa sarebbe stata causata da violenti colpi inferti a Stefano il 15 ottobre 2009 durante il suo arresto da due dei tre carabinieri ora imputati al processo per omicidio preterintenzionale. Rispondendo al giudice a latere, il professor Francesco Introna, medico legale del policlinico di Bari e perito del gip, ha aggiunto in aula: “Nessuno può avere certezze sulla morte di Stefano Cucchi. Se non ci fosse stata la lesione ‘s4’ il soggetto non sarebbe stato ospedalizzato. Cucchi era immobile nel letto e non riusciva più a muoversi per la frattura. Se non fosse stato in questa condizione, non avrebbe avuto una vescica atonica, ma avrebbe avuto probabilmente lo stimolo alla diuresi. Dunque se non avesse avuto la frattura, Cucchi non sarebbe stato ospedalizzato e probabilmente la morte non sarebbe occorsa o sarebbe sopraggiunta in un altro momento”. “Sono veramente emozionata – è il commento di Ilaria Cucchi – Oggi è stata riconosciuta l’evidenza“.

La Sea Watch a 16 miglia da Lampedusa, Salvini riparte con la litania “porti chiusi”

Una nave pirata che ciondola nel Mediterraneo. È il punto di vista del ministro dell’interno Matteo Salvini rispetto alla SeaWatch ancorata a circa 16 miglia marittime dall’isola di Lampedusa che rappresenta il “porto sicuro più vicino alla posizione del soccorso”. A bordo ci sono 53 persone di cui 5 minori, 2 molto piccoli. Come ogni volta sembra di assistere a una commedia: il capo del Dicastero che considera la Libia un approdo come un altro, soprattutto sicuro e i volontari che da quelle acque le persone le hanno raccolte. In mezzo la Commissione europea che ha di fatto messo una pietra tombale con una dichiarazione chiara: ”La Libia non è un porto sicuro”. Per Salvini quindi “i porti italiani restano sbarrati, la SeaWatch ha caricato a bordo degli immigrati che stavano per essere salvati dalla guardia costiera libica. La Ong si è messa a girovagare per il Mediterraneo costringendo donne, uomini e bambini a inutili sofferenze. Poi ha chiesto indicazioni all’Olanda. Successivamente – ha aggiunto – ha contattato ancora l’Italia, ma per le navi pirata i nostri porti restano chiusi. Siamo di fronte all’ennesima sceneggiata dei finti buoni: a questo punto vadano verso il Nord Europa”. Dal nord Europa la proposta del sindaco di Rottenburgs che insieme ad altre città, tra cui Berlino, annuncia la propria disponibilità ad accogliere i migranti, inviando autobus dalla Germania. A meno che le autorità nazionali non decidano di far semi circumnavigare il mar Mediterraneo fino all’Olanda, Stato di bandiera della SeaWatch. Da Malta il premier Conte ha commentato: “Non voglio infierire ma più trasparenza dalle Ong”. La trasparenza è il video che diffondono dalla nave in cui spiegano di aver avvisato i porti di Libia, Malta, Lampedusa e Olanda. La risposta è giunta solo da Tripoli, non considerato porto sicuro. “Se riportassimo queste persone in Libia verrebbe commesso il crimine di respingimento collettivo”. La farsa è che la Libia abbia una zona Sar (Search and rescue) nonostante non sia in grado di assegnare un porto sicuro.

“Una pizza e 25-50 euro se mi dai il voto”. Indagati due consiglieri e il marito pizzaiolo

In Sicilia l’ultima frontiera del mercato dei voti ha aperto le sue porte alla pizza. Così il consenso elettorale non si baratta più soltanto per denaro ma anche a tavola, davanti a margherite e capricciose. Questo particolare incontro tra domanda e offerta viene fuori dalle ultime elezioni amministrative tenute un anno fa ad Adrano, 35 mila abitanti non lontano da Catania.

Quattordici persone sono finite sott’inchiesta per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Tra loro ci sono anche due consiglieri comunali del centrodestra, eletti con centinaia di consensi nel giugno dello scorso anno in una lista civica, nonostante la sconfitta del candidato sindaco che sostenevano. Per i magistrati della procura etnea i consiglieri Grazia Ingrassia e Federico Floresta avrebbero “condiviso”, oltre alle pizze, somme di denaro “comprese tra 25 e 50 euro ad elettore”. Con la complicità del marito della consigliera, titolare proprio di una pizzeria e anche lui finito tra i principali indagati. Gli altri sono coloro che avrebbero “accettato l’offerta o la promessa“.

Per Floresta, un tempo militante del Popolo delle libertà e fan dell’ex ministro dell’Interno Angelino Alfano, di cui sfoggia una foto su Facebook, l’elezione del 2018 non è stata la prima. Cinque anni prima si era candidato, senza però ottenere lo scranno in Consiglio comunale, sostenendo l’ex sindaco e deputato regionale Fabio Mancuso. Ancora prima, nel 2008, era invece riuscito a farsi eleggere.

Ma nelle carte dell’inchiesta c’è di più. I due candidati avrebbero effettuato una vera e propria “schedatura”. Affiancando nomi e cognomi alle sezioni di appartenenza degli elettori: per la “conseguente verifica tra denaro corrisposto e voti ottenuti”, si legge nell’avviso di conclusione indagini. Il database elettorale avrebbe avuto anche un’utilità in chiave futura: un vero e proprio “pacchetto di voti” già ben garantito e pronto da offrire. Gli investigatori, inoltre, fanno riferimento alla consegna di normografi per facilitare le operazioni di scrittura del voto.

La notizia in città è stata accolta in modo tiepido. I diretti interessati rimandano al mittente le accuse mentre la politica da un lato “attende che la magistratura faccia il suo corso” e, dall’altro si traduce in qualche timida richiesta di autosospensione dei consiglieri. In realtà sul voto ad Adrano ruotano non poche ombre. Perché se da un lato questa inchiesta era partita con l’ipotesi dell’aggravante mafiosa, poi caduta, c’è una seconda pista, anche questa legata al connubio tra le cosche locali e le elezioni. Un pentito – non si conosce il nome – starebbe parlando da alcuni mesi con i magistrati ma i suoi verbali, almeno per il momento, rimangono top secret. Tra gli ultimi, e più noti, a saltare il fosso Valerio Rosano. Immediatamente disconosciuto dal padre capomafia e con i picciotti del clan Santangelo che tappezzarono la cittadina di necrologi. A tutti bisognava comunicare che quel giovane era morto.

Il 19 giugno esame sulle bobine con la voce di Scarantino

Cosa contengono le 19 bobine su cui il 19 giugno verranno effettuati, dai Carabinieri di Roma, accertamenti tecnici non ripetibili nell’ambito dell’inchiesta di Messina sul depistaggio sulla strage di Via D’Amelio? È l’interrogativo che serpeggia negli ambienti giudiziari di Caltanissetta e Messina. E come mai le bobine sono finite da Caltanissetta alla Procura di Messina, pur non essendo noto il loro contenuto? Altre domande. L’unica certezza è che le microcassette riguardano l’ex pentito di mafia Vincenzo Scarantino, che ha più volte ritrattato le sue dichiarazioni nell’ambito dei processi sulla strage in cui persero la vita Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta.

Le 19 bobine contengono registrazioni trasmesse alla Procura di Messina “in originale dalla Procura di Caltanissetta”, come si legge nell’avviso di accertamento tecnico non ripetibile inviato tre giorni fa sia alle parti offese che ai due magistrati indagati Annamaria Palma e Carmelo Petralia, che devono rispondere di calunnia aggravata in concorso. Le intercettazioni sono prodotte con strumentazioni della Radio Trevisan, denominata RT2000, nel frattempo ovviamente diventate obsolete.

Video hard e lupara bianca

La Procura di Palermo ha da poco archiviato l’ultima indagine a carico degli imprenditori Francesco Paolo Alamia e Giuseppe Di Maggio, accusati dell’omicidio di Antonio e Stefano Maiorana, padre e figlio, imprenditori, scomparsi da Isola delle Femmine (Pa) nel 2007.

Secondo quanto emerso dall’inchiesta, tuttavia, Maiorana sarebbe entrato in possesso di video hard che coinvolgevano Alamia e l’avrebbe ricattato pretendendo, in cambio del silenzio sul video, le sue quote della società immobiliare Kalliope. I boss di San Lorenzo Salvatore e Sandro Lo Piccolo avrebbero avviato un’istruttoria interna per tentare di capire cosa fosse successo. Il pentito Andrea Bonaccorso ha raccontato ai magistrati di aver saputo dal capomafia di Bagheria Scaduto che il giorno dell’arresto dei Lo Piccolo, il 5 novembre del 2007, questi avevano un appuntamento col latitante Matteo Messina Denaro per discutere di un fatto importantissimo. L’ipotesi è che proprio il caso Maiorana fosse al centro del summit.

Messina Denaro, il “femminaro” nella rete della bella Karina Andrè

Sangue, sesso, soldi, ricatti. In che storia si è andato a infilare Matteo Messina Denaro, l’ultimo depositario del patto segreto tra mafia e Stato. Consumato narratore del mito di se stesso, accumulatore seriale di ricchezza e killer spietato, a Matteo la fama di femminaro è sempre piaciuta. E così il boss prudente al limite della paranoia ogni tanto si mette nei guai per una donna. Nel 1991 fece ammazzare un rivale d’amore. E nel 2007, per una bella argentina trapiantata in Sicilia, rischiò la pelle. Una tragedia che ha fatto morti e scatenato una guerra di mafia in cui Matteo, sull’orlo del precipizio, potrebbe aver commesso il più ignobile dei peccati di Cosa nostra: vendere un capomafia, il suo rivale Salvatore Lo Piccolo, a quel tempo padrone di Palermo.

La scomparsa dei Maiorana. Il sangue è quello di Antonio e Stefano Maiorana, padre e figlio, imprenditori edili di Palermo svaniti nel nulla il 3 agosto 2007, visti per l’ultima volta nel cantiere dell’anziano costruttore Francesco Paolo Alamia a Isola delle Femmine. La loro auto viene trovata all’aeroporto. Telecamere di sorveglianza spente. Non si saprà mai perché. Lupara bianca, si dice in Sicilia. Nel territorio di Salvatore Lo Piccolo. Il boss, all’oscuro di tutto, è furibondo. Chi ha osato sfidare la sua autorità?

Il pm Roberto Tartaglia, che ha riaperto l’inchiesta nel 2015, ricostruisce la storia così: Antonio Maiorana lavora per Alamia, tra i due c’è una lunga vicenda di umiliazioni, tradimenti, rancori familiari. Alamia è un intoccabile. Famelico prenditore del “sacco di Palermo”, socio occulto di Vito Ciancimino, in affari con Marcello Dell’Utri, vicino a Riina e Provenzano. Con un punto debole: i Carabinieri scoprono la sua “reiterata abitudine a procurarsi prostitute particolarmente giovani”. Attenzione: dieci giorni prima della scomparsa dei Maiorana, Alamia aveva ceduto le quote della sua società all’argentina Karina Andrè, la compagna di Antonio Maiorana. Karina è giovane, provocante, un’irresistibile manipolatrice. Prezzo della transazione: zero euro.

L’ombra di Matteo. Lo Piccolo indaga. Chiede informazioni al suo fedelissimo Giuseppe Di Maggio, imprenditore locale con pedigree mafioso. Di Maggio risponde: “Non ne so nulla”. Clamorosa bugia. È l’ultimo ad aver incontrato i Maiorana: il 3 agosto, lasciata Isola delle Femmine, lo vanno a trovare per trattare l’acquisto di un terreno. E lì che scatta la trappola mortale? Ma perché Di Maggio mente a Lo Piccolo? Chi deve coprire? A domanda del pm Tartaglia, il socio di Alamia, l’ambiguo Dario Lopez, risponde: “Alamia conosceva Messina Denaro. È capitato più volte che mi dicesse di fermare la macchina per chiamare da una cabina telefonica. Telefonate molto riservate. E anche Maiorana cercava un contatto con Messina Denaro”.

Topolino. Il 6 gennaio 2009 si uccide Marco, il secondo figlio di Maiorana. Un anno dopo la madre Rosella Accardo trova in casa un fumetto e lo consegna in Procura: un Topolino in cui Marco aveva scritto la soluzione del giallo: “Mio padre diceva che se vuoi sconfiggere il nemico devi fartelo amico. Paolo era il suo peggior nemico e doveva pagarla. Bastava trovare il suo punto debole. Ricattare Paolo (Alamia, ndr) e Dario (Lopez, ndr) per avere il 50% delle quote. Karina avrebbe fatto da spalla mentre lui conquistava tutti sollecitando interessi sessuali. Non ho mai creduto che mio padre e mio fratello si siano allontanati per scelta. Ho pensato che fosse successo il peggio e con Karina abbiamo distrutto la memoria del pc dove si conserva il materiale con cui si teneva Paolo e Dario ricattabili”.

Potrebbe essere la svolta. E invece quel Topolino rimane inspiegabilmente sepolto in un fascicolo riservato. Finché nel 2015 – 5 anni dopo – finisce per caso sulla scrivania di Tartaglia, che non crede ai suoi occhi e si mette al lavoro con i Carabinieri. Incrociano le dichiarazioni di Alamia, Lopez, Andrè. Il puzzle è complesso: Maiorana vuole fregare Alamia. Karina è molto affettuosa con Alamia. Maiorana e Karina fanno festini a sfondo sessuale. Maiorana procaccia prostitute ad Alamia e non solo. Tartaglia convoca Andrea Avellino. È il tecnico informatico che ha aiutato Marco Maiorana e Karina a estrarre l’hard disk con i video porno dal pc.

Andrea è uno degli amanti di Karina. Tartaglia lo torchia: è vero che Karina ha una relazione con un mafioso trapanese “importantissimo”? Avellino trema, fa sì con la testa. È Matteo Messina Denaro? Avellino crolla a terra svenuto. Maiorana filmava tutti gli incontri sessuali di Karina. Anche quelli con Matteo? Maiorana filma di nascosto Alamia con una ragazza minorenne che gli pratica un rapporto orale. Lo ricatta: “Ti faccio finire sui giornali”.

Alamia è all’angolo.

Il 24 luglio cede a Karina le quote. Lui, Maiorana, forse anche Matteo: sono tutti complici di Karina. Ma lei da che parte sta? Il 3 agosto i Maiorana spariscono. Marco Maiorana, Karina e Andrea Avellino smontano l’hard disk con i video porno. A chi lo consegnano? Mistero.

Alamia e Di Maggio sono indagati per omicidio. Ma i cadaveri non ci sono e il pm ha chiesto l’archiviazione. Dario Lopez, il socio di Alamia, è finito in carcere per una pistola con la matricola abrasa. L’ex moglie di Maiorana ha invitato la minorenne filmata con Alamia a farsi avanti.

Salvatore Lo Piccolo covava vendetta. Il 5 novembre 2007, tre mesi dopo la scomparsa dei Maiorana, aspettava qualcuno in un casolare. Racconta il pentito Andrea Bonaccorso che un’auto giunse nei pressi del casolare ma l’autista notò volteggiare un elicottero della Polizia e tornò indietro. In quell’auto c’era Matteo Messina Denaro. “Se i poliziotti avessero aspettato un’ora sarebbe successo il quarantotto”. All’appuntamento Salvatore Lo Piccolo, il padrone di Palermo, si era portato suo figlio Sandro, il più fidato dei killer. Erano armati fino ai denti. Avevano da discutere cose importanti con Matteo. Cose che non si potevano risolvere a parole. Ma alla fine arrivarono i nostri.

Voli “in ostaggio” di Casellati. Alitalia: ora basta privilegi

Oltre la storica esibizione del potere, che pure ha ispirato cinema, romanzi, leggende, ci sono i viaggi di Maria Elisabetta Alberti Casellati che hanno scatenato una rivolta in Alitalia, stufa di registrare l’ennesimo ritardo per le bizze del presidente del Senato. Questo è un frammento d’Italia racchiuso nelle sdegnate relazioni che i capiscalo di Alitalia di Fiumicino e di Venezia hanno inviato all’azienda.

Fiumicino, principale aeroporto della capitale, mercoledì 12 giugno, volo Roma-Parigi delle 15:20, Palazzo Madama ha prenotato otto posti per la visita in Francia: Casellati più sei in prima classe e una sciagurata collaboratrice nel settore economico. Il presidente del Senato pasteggia nel salottino riservato di Alitalia, servita al solito tavolino che, su inderogabile richiesta, viene collocato in una posizione di assoluta riservatezza e perciò di decoro istituzionale. Il personale di Alitalia apre l’imbarco, fa salire i passeggeri che defluiscono con ordine, monitora con apprensione il tempo scandito dai minuti e più volte sollecita la delegazione di Palazzo Madama di raggiungere il velivolo. Casellati, però, è irremovibile: la seconda carica dello Stato, per ragioni ignote, non può lasciare la stanza dei clienti Freccia Alata finché la folla a bordo non è seduta, non ha alzato il tavolino e allacciato le cinture. A quel punto, in silenzio, lontano dai rumori e, chissà, dai cattivi odori, il gruppo di Casellati può accettare l’invito a prendere posto. Ogni secondo aumenta la tensione, e allora, caspita, ecco l’imprevisto. Ci siamo, sono le 15:20, l’orario fatidico per il decollo, il portellone è spalancato, Casellati è ancora in cammino verso l’imbarco.

Alitalia l’ha sfangata, forse. Anzi, no: la delegazione senatoriale pretende un salto in prima classe della sciagurata collaboratrice che per errore è finita nel settore economico. Alitalia dice no, la differenza di prezzo è alta. L’amica del presidente, però, d’imperio occupa una poltrona alle spalle di Casellati e rifiuta le indicazioni degli assistenti di volo: la prego, non può stare qui. Il colloquio è cordiale, i dipendenti di Alitalia non insistono per non aumentare il disagio dei clienti. Con sconforto, s’arrendono. Il comandante, però, deve fronteggiare un guaio più grosso. Perso lo spazio per decollare alle 15:20 per colpa dei capricci di Casellati, il traffico di Fiumicino fa slittare la partenza a dopo le 16:30. Troppo. E dunque Alitalia supplica l’Enav, l’ente nazionale per l’aviazione civile, di reperire un pertugio in pista. E ci riescono, così l’aereo atterra a Parigi una ventina di minuti dopo il previsto.

Aeroporto di Venezia, lunedì 10 giugno, il presidente del Senato, che risiede con la famiglia a Padova, deve rientrare a Roma. L’avvio di settimana è sempre traumatico, occorrono calma e sfarzo. Casellati sorseggia un caffè ai divani di Casa Alitalia, mentre i collaboratori snocciolano il prontuario del presidente agli addetti dell’ex compagnia di bandiera: accomodarsi per ultima a bordo senza attendere tra la gente, ricevere un’accoglienza adeguata, cioè tre cappelliere per sé perché ogni ritorno è un trasloco. E pazienza per i cittadini col bagaglio a mano: motivi di Stato, integrità della Repubblica. Roba seria. Chi accompagna Casellati, a volte, vuole sistemare le valigie del presidente a imbarco ancora chiuso. A Venezia i collaboratori di Casellati riscontrano una scottante inadempienza di Alitalia: un signore non famoso ma pagante, estraneo al contingente senatoriale, ha un biglietto che gli permette di viaggiare quasi accanto, quasi a una intollerabile distanza di un metro dal presidente del Senato. Con risolutezza, lo staff di Palazzo Madama chiede di rimuovere il signore e magari di spingerlo al centro della cabina. Alitalia dice no, è un normale cliente, mica un pericoloso latitante.

Il Roma-Parigi non era nient’altro che la replica del Venezia-Roma o del Roma-Venezia di giovedì 6 giugno. Ogni tratta di Alitalia toccata da Casellati subisce un disguido, un ritardo. Il caposcalo di Venezia, esasperato, scrive ai superiori: “Questa è una prassi? Mi fate capire?”. A Roma hanno riformato addirittura il parcheggio per avvicinare al salottino di Casellati il “braccio” che conduce al volo per Venezia. Non è mai accaduto per i predecessori dell’avvocata che fu agguerrita berlusconiana o per i ministri di centro, destra, sinistra.

I lavoratori di Alitalia protestano: aspettando il danaroso salvatore, l’ex compagnia di bandiera è diventata la più puntuale al mondo nel 2019 e il presidente del Senato mette a rischio il primato? Enrico Laghi, Stefano Paleari e Daniele Discepolo, i commissari straordinari nominati dal governo, hanno risposto che l’azienda non tollera privilegi e che nessun favore è legittimo, soprattutto se ha un impatto negativo sul servizio. I commissari non hanno citato Casellati, ma ribadito un principio per sostenere i dipendenti in subbuglio, perché non è facile respingere le prepotenze di chi rappresenta la seconda carica dello Stato. Maria Elisabetta Alberti Casellati vuole trasmettere il suo blasone ai posteri. Ce l’ha fatta. Con ritardo.

Alitalia, c’è un’altra proroga per l’offerta: ancora un mese

Salvini lancia l’ennesima frecciatina a Di Maio, bocciando Lotito e ribadendo l’appoggio alla soluzione Atlantia per Alitalia mentre la procedura per salvare l’ex compagnia di bandiera ottiene come atteso una nuova proroga (fino al 15 luglio). Ieri, alla vigilia della scadenza per l’offerta vincolante di Fs, il ministero dello Sviluppo economico ha autorizzato i commissari a comunicare a Fs la proroga: “Ciò al fine di permettere il consolidamento del consorzio acquirente con i soggetti che sinora hanno manifestato il proprio interesse in relazione al dossier”, precisa una nota del Mise. Finora l’unica offerta formalizzata è quella di Lotito, mentre il Gruppo Toto avrebbe espresso interesse via lettera e Atlantia non ha fatto passi ufficiali. “Occorre affrontare la situazione senza pregiudizi – ha detto ieri Salvini – e scegliere la soluzione migliore”. Che non può essere il patron della Lazio, Lotito: “Li vedo due mondi abbastanza lontani”. Poi indirettamente si riferisce ad Atlantia, che però resta in posizione di attesa con il M5s giustamente ostile per il crollo del Morandi. Sul tavolo, tra i due, ci sono la revoca della concessione, investimenti da sbloccare e tariffe. Di Maio ha convocato i sindacati di Alitalia per mercoledì 3 luglio.

Il burattinaio delle tangenti: “Ero il delegato della Comi”

Sette ore di interrogatorio. Tanto è durato il primo incontro tra la Procura di Milano e Nino Caianiello, il presunto burattinaio del nuovo tangentificio Lombardia, accusato di associazione a delinquere e alcune corruzioni. L’ex coordinatore di FI a Varese ha così messo a verbale le prime parole dopo l’arresto del 7 maggio scorso nell’inchiesta “Mensa dei poveri” che ha colpito i forzisti della Regione. È indagato per abuso d’ufficio anche il governatore leghista Attilio Fontana.

È stato un interrogatorio movimentato, dove Caianiello ha detto: “La delega per operare politicamente sul territorio mi fu data da Lara Comi e dagli altri ex coordinatori provinciali”. E ancora: “È avvenuto dopo che mi sono spogliato di ogni carica politica” e nonostante questo “sono rimasto una persona influente”. Dunque Caianiello ha ribadito lo stretto rapporto politico con l’ex eurodeputata di FI indagata in questo fascicolo per finanziamento illecito e corruzione. Caianiello nel dire questo separa i reati che gli vengono contestati dall’attività politica. Per lui, è emerso dall’interrogatorio, tutto ciò che ha deciso in questi anni, dalle nomine nelle partecipate a quelle degli assessori, anche a livello regionale, rientrava nella delega politica. Questo ha fatto: un “cappello” generale sull’ambiente in cui ha operato. Davanti ad alcune intercettazioni ha dato spiegazioni definite “inverosimili”.

Sono le 11.15 quando Caianiello assieme al legale entra nell’ufficio del pm Luigi Furno. Appena un’ora di verbale e qualcosa inizia a sentirsi da dietro la porta. Urla. Il magistrato esce e dice all’avvocato: “Controlli il suo cliente”. L’animosità si è poi diradata, lasciando spazio ad altro. Il presunto burattinaio, secondo quanto ricostruito, si è seduto davanti al pm senza mai aver letto i fatti che gli vengono contestati. Per lui la vicenda va rubricata a una mera attività politica. Anche i soldi. “I soldi – ha detto Caianiello – erano per il partito”. Ma anche qui bisogna fare la tara. Il denaro che intende è quello in chiaro e del tutto lecito bonificato dai politici o dai dirigenti delle partecipate sui conti, ad esempio, dell’associazione Agorà. “Nulla – ha spiegato – è stato retrocesso in contanti”, e in nero.

In questo modo, però, Caianiello salta l’intero castello accusatorio. Davanti poi ai nuovi fatti, ricostruiti dalla Procura attraverso le confessioni di diversi indagati, Caianiello è rimasto spiazzato. Tra i vari punti nuovi ci sono quelli raccontati in oltre 700 pagine di verbale dal “fedelissimo” Alberto Bilardo già dirigente di una partecipata, scarcerato ieri e messo ai domiciliari. Qui Caianiello non ha saputo rispondere. Tanto che il verbale è stato interrotto per permettere all’indagato di confrontarsi con il suo legale Tiberio Massironi. Un colloquio proficuo, visto che l’avvocato ha spiegato: “Faremo delle valutazioni”. La parola “valutazioni” fa pensare a una volontà di Caianiello di chiarire la sua posizione avendo però consapevolezza dei fatti contestati. Un dato che l’indagato alla fine ha compreso. Tocca a lui decidere. Lo farà entro dieci giorni.