Calenda: “Evitare linguaggi oscuri, se sa qualcosa parli”

Scambio al vetriolo su Twitter fra Carlo Calenda e Luca Lotti. Calenda, in un tweet, ha esortato il Pd a prendere le distanze rispetto alla vicenda delle nomine al Csm: “Quello di Lotti non è affatto un comportamento normale. È al contrario inaccettabile da ogni punto di vista. Il Pd deve dirlo in modo molto più netto rispetto a quanto fatto fino ad ora”. Agli attacchi, Lotti reagisce autosospendendosi dal partito, “fino a quando questa vicenda non sarà chiarita”.

E a Calenda replica: “Sono convinto che diresti la stessa cosa se dovesse emergere che in passato altri nel Pd hanno messo bocca sulle nomine o incontrato magistrati. Come ho spiegato io non ho il potere di fare nomine, che spettano al Csm”.

Immediata la risposta dell’eurodeputato: “Non è un reato e gli stralci di intercettazione sui giornali fanno schifo. Ma una cosa non elide l’altra. Hai fatto un bel gesto. Fermati lì”. E per chiudere la discussione, Calenda scrive un post scriptum: “Evita linguaggi oscuri, se sai di qualcuno che si è comportato allo stesso modo: dillo, fai un esposto o lascia perdere”.

“Apprezzabile, ma è incredibile quello che ha combinato”

Un gesto “apprezzabile”, ma in una situazione ormai compromessa. Miguel Gotor, ex deputato del Pd poi passato ad Articolo 1, commenta così l’autosospensione di Luca Lotti. “È apprezzabile, ma allo stesso tempo un atto dovuto – sostiene Gotor – , già in passato denunciai in Parlamento i suoi comportamenti nella vicenda Consip, ritenendo opportuno che si dimettesse, ma registrai un certo isolamento”. Adesso la situazione non è cambiata: “Oggi come allora l’eventuale profilo penale non mi interessa, ma quello dell’opportunità politica sì. La politica deve arrivare prima dei giudici e autoregolamentarsi, porsi dei limiti”. Limiti che sarebbero stati oltrepassati dall’ex ministro: “Trovo incredibile che un parlamentare, per di più imputato, partecipi a dei conciliaboli notturni con altri magistrati per indirizzare le nomine alla direzione della Procura che lo sta giudicando. Bisogna aprire gli occhi e avere la testa libera”. Soprattutto ai vertici del Pd: “Zingaretti ha il dovere di marcare una discontinuità netta rispetto a queste pratiche e bene ha fatto un uomo di esperienza come Zanda a ricordarglielo”.

L’unanime coro degli amici garantisti contro la “furia giustizialista” del partito

Uno dopo l’altro, gli esponenti di Br (Base Riformista) si affrettano a cantare le lodi del loro capocorrente. Simona Malpezzi parla di esponenti dem che “hanno speculato su questa vicenda”. Alessia Morani stigmatizza la “furia giustizialista” del Pd di Zingaretti. Dario Parrini filosofeggia: “Ho imparato che solo se si tengono fermi i principi si possono evitare colossali ingiustizie umane e politiche”. Alessia Rotta si stupisce che qualcuno abbia chiesto un passo indietro. E poi, il capogruppo al Senato, Andrea Marcucci: “Il Pd deve chiarirsi su un principio fondativo, il garantismo non può essere usato a fasi alterne, o a seconda delle aree politiche”.

Non manca neanche il più “equilibrato” di tutti, Lorenzo Guerini: “La scelta compiuta da Luca Lotti dimostra la sua sensibilità e la sua volontà di mettere al primo posto il bene del Partito democratico”. Ma più vanno avanti le ore, più al coro si uniscono “giachettiniani” e pure esponenti della maggioranza.

“Il segretario dem doveva muoversi prima e dire no agli intrallazzatori”

“Con questa faccenda siamo tornati ai livelli di Berlusconi”. Luca Lotti si autosospende dal Pd, eppure il suo è un passo indietro che porta con sé rancori e accuse, tra attacchi ai compagni di partito (“Zanda è coinvolto in pagine buie della storie repubblicana”, ha detto l’ex ministro) e una rivendicata estraneità ai fatti (“Io sono innocente, spero di cuore che lo sia anche chi mi accusa”). E così Massimo Cacciari, filosofo ed ex sindaco di Venezia, non nasconde il disappunto per una vicenda che doveva chiudersi ben prima e che ora, dopo settimane di tentennamenti della segreteria e novità giudiziarie, ricorda persino i modi e il linguaggio del leader di Forza Italia.

Professor Cacciari, Lotti si è autosospeso dal partito. È una mossa tardiva?

Lotti ha fatto quel che doveva, ma il punto è che a questa mossa non saremmo neanche dovuti arrivare, perché serviva ben prima una presa di posizione forte da parte di Zingaretti.

Secondo lei il segretario del Pd non si è esposto abbastanza contro l’ex ministro?

Ricordo che Zingaretti ha condotto tutta la campagna elettorale per le ultime primarie celebrando una discontinuità rispetto alla leadership di Matteo Renzi. Ma allora sarebbe stato logico, oltre che utile dal punto di vista politico, che un segretario coerente dicesse chiaro e tondo che quanto è successo tra Lotti, Ferri e il Csm è incompatibile con la nuova linea che il Pd intende assumere, ammesso che a questo punto intenda assumerla.

Dunque questa autosospensione non cambia le cose?

Rimane intatto il fatto politico. Zingaretti doveva esser chiaro nel dire che nel nuovo Pd gli intrallazzatori non sono più ammessi. Lotti ha fatto un gesto doveroso, ma era Zingaretti a doversi esprimere, a dare una visione in prospettiva, al di là della singola vicenda.

Lotti però si professa innocente.

La valutazione politica prescinde dalla questione penale. Nel Pd non può esserci posto per personaggi che intrallazzano in questo modo su nomine della magistratura, della Rai o di qualunque altro posto.

Lotti, nella sua difesa, accusa Zanda di esser coinvolto nella famosa seduta spiritica in cui uscì il nome di via Gradoli, durante il sequestro di Aldo Moro. Piuttosto indicativo dei rapporti interni al partito, non trova?

Nel Partito democratico è bene che ognuno parli per se stesso, perché nessuno ha la lingua abbastanza lunga per poter accusare il prossimo di alcunché. Il 90 per cento del partito è corresponsabile di quegli errori sciagurati che hanno portato alla catastrofe renziana degli ultimi anni, una leadership che ha preso una situazione certamente già in difficoltà ma l’ha portata alla definitiva dissoluzione, sia a livello elettorale sia come partito. E Lotti ovviamente è coinvolto in questa storia.

È mancato uno strappo deciso con quella stagione?

Senza dubbio fin da subito doveva esserci più coraggio e franchezza, almeno nella vicenda tra Lotti e il Csm.

Oltre a dichiarare la propria innocenza, Lotti allude al fatto che chi lo accusa possa essere in malafede.

Mi sembra di essere tornati a quel che diceva Berlusconi.

In che senso?

Quando scoppiarono gli scandali per le feste a Arcore, Berlusconi si giustificava chiedendo che cosa ci fosse di male se a casa sua andava a puttane. Nulla, certo, ma era un po’ strano che lo facesse un presidente del Consiglio, o era normale anche questo? E allora che cosa c’entra la questione penale in questo discorso? Quella sarà competenza dei giudici, io mi occupo di politica, non di processi. Sono cose dell’altro mondo: c’è una totale confusione tra la rilevanza politica e quella giudiziaria. Siamo all’assenza dei fondamentali.

Zingaretti ancora nel guado: rebus scissione per Luca

E pensare che per lui Nicola Zingaretti aveva ipotizzato persino un posto in segreteria. Una segreteria di gran peso politico con il gotha delle correnti interne al Pd. Perché nel nuovo partito pacificato nessuno si sentisse escluso, a cominciare dall’ormai minoranza renziana. Ma il “salto di gravità” nel coinvolgimento di Luca Lotti nell’affaire Csm, evidenziato da Luigi Zanda, ha fatto deflagrare una guerra intestina che ha mandato a monte tutti i piani e gli auspici del segretario per dare una prospettiva unitaria al partito. Dove ormai è guerra di tutti contro tutti.

Come certifica l’affondo di Carlo Calenda in mattinata contro l’ex ministro. Dietro, il lavoro per la costruzione di una sorta di gamba centrista da affiancare al Pd, insieme a Paolo Gentiloni, facendo fuori i renziani. E come dimostra non solo la lettera indirizzata a Zingaretti dallo stesso Lotti che riserva parole velenose al numero due dei dem Zanda e al suo bacio della morte anche per conto del segretario. Ma pure le parole di Antonello Giacomelli che con Lotti e Lorenzo Guerini anima l’enclave di Base riformista che non pare intenzionata a farsi mettere nell’angolo e che anzi rilancia: “L’iniziativa politica di Base riformista non è in discussione. La scelta generosa e leale di Luca di autosospendersi ha un significato molto più ampio e profondo e non va immiserita mischiandola con logiche di equilibri interni”.

Ora che la pax è saltata, Nicola Zingaretti dovrà rivedere tutti i suoi progetti a cominciare da quelli sulla segreteria inclusiva di alta caratura politica, una delle due ipotesi affinate per il rilancio del Pd. Ne aveva parlato a lungo con i suoi collaboratori più stretti e prevedeva appunto il coinvolgimento di tutti i rappresentanti delle diverse anime del partito, a cominciare da Lotti per Br. Immaginando poi di affiancare a questa struttura alcuni dipartimenti tematici (giustizia, cultura, rapporti istituzionali eccetera). Ora tutto questo, almeno per la parte che riguarda direttamente Lotti è saltata e rimandata a non si sa quando. E il rebus per Zingaretti è come evitare lo strappo totale con l’ex ministro che lo rimprovera per l’alzata di toni via Zanda, come se della vicenda Csm non avessero mai parlato in questi giorni: c’è stato almeno un incontro tra i due, ma si racconta di numerosi contatti telefonici. Finché la posizione di Lotti non si è fatta insostenibile arrivando a imbarazzare il Pd, dopo che il pg di Cassazione Riccardo Fuzio ha messo per iscritto che nel caso degli incontri che hanno visto la partecipazione non casuale di Lotti con alcuni consiglieri del Csm e con oggetto le nomine in rilevantissimi uffici giudiziari, “si è determinato l’oggettivo risultato che la volontà di un imputato (Lotti rispetto al caso Consip) abbia contribuito alla scelta del futuro dirigente dell’ufficio di Procura (quella di Roma) deputato a sostenere l’accusa nei suoi confronti”.

Zingaretti non vuol rompere definitivamente con Lotti e suoi fedelissimi che poi sono fedelissimi di Matteo Renzi, ancora maggioranza nei gruppi parlamentari. “Non si sa bene cosa potrebbero fare nel caso si sentissero messi con le spalle al muro”, come un big del partito confida al Fatto: “Nessuno allo stato si sente di escludere una scissione”. Sta di fatto che la riorganizzazione dei vertici politici del Pd va chiusa da Zingaretti. Con il leader dem che sfoglia la margherita prendendo in considerazione un altro schema su cui pure ha sondato la disponibilità di uomini secondo lui utili al progetto: una segreteria di minor peso con un profilo soprattutto organizzativo affiancata da un “ufficio politico” con dentro non solo le anime del Pd ma anche esponenti di area ad alta riconoscibilità nella cosiddetta società civile. E a cui nessuno, in un partito pure balcanizzato dalle lotte intestine, potrebbe dire no.

Lotti si autosospende e manda tre “pizzini” ai vertici del Pd

Mancano pochi minuti alle 16 quando Luca Lotti consegna a un post su Facebook la sua “autosospensione” dal Pd. Una decisione che gli amici si aspettavano, ma nei prossimi giorni, magari in presenza di un’indagine a suo carico, dopo le notizie sul suo ruolo uscite nell’inchiesta di Perugia su Luca Palamara. Invece, l’amico di sempre di Matteo Renzi ha deciso – in totale autonomia, ma non senza consultarsi con l’ex premier, che per la vicenda è arrabbiatissimo con il neo segretario – di cambiare gioco. Troppo pesanti le notizie emerse, ma anche la voglia di trovare una strada di rilancio. Fino ad oggi, si era difeso attaccando, aveva fatto pesare il suo ruolo e il suo passato. Lui era quello che parlava con tutti, per conto dell’ex premier, ma anche di se stesso. Oggi quel capitale di rapporti, di segreti, di connessioni, di favori fatti e ricevuti, di decisioni sulle nomine nei posti chiave, di potere del passato che si riverbera nel presente, decide di farlo pesare in un altro modo.

Si autosospende dal gruppo parlamentare del Pd alla Camera, ma facendolo lancia “pizzini” e minacce, a tutti. Si iscriverà al gruppo misto, ma da lì, attraverso la sua corrente, Br (Base Riformista), cannoneggerà Nicola Zingaretti. O almeno, ci proverà.

“Caro segretario – scrive dunque Lotti – apprendo oggi dai quotidiani che la mia vicenda imbarazzerebbe i vertici del Pd. Il responsabile legale del partito mi chiede esplicitamente di andarmene per aver incontrato alcuni magistrati e fa quasi sorridere che tale richiesta arrivi da un senatore di lungo corso già coinvolto – a cominciare da una celebre seduta spiritica – in pagine buie della storia istituzionale del nostro Paese”. A chiedere il passo indietro, con un’intervista al Corriere della sera, è stato il tesoriere, Luigi Zanda. Previa interlocuzione con il segretario. Al quale Lotti rinfaccia una cosa su tutte: la presunta seduta spiritica del 4 aprile 1978, nella quale alcuni giovani quadri Dc (tra cui Prodi) cercarono di individuare il luogo in cui era detenuto Aldo Moro. Zanda recapitò al capo della polizia, Giuseppe Parlato, l’indicazione emersa dalla seduta con un biglietto autografo non datato. Una vicenda piena di tutte le ombre che hanno caratterizzato il caso Moro.

Il secondo “pizzino” è per lo stesso Zingaretti: “I fatti sono chiari. Tu li conosci meglio di altri anche perché te ne ho parlato in modo franco nei nostri numerosi incontri”. Un modo per tirare dentro il segretario, sostenendo che lui sapeva tutto. E poi, il passaggio che già delinea una strategia politica: “Sono nato e cresciuto come uomo di squadra. Per questo l’interesse della mia comunità, il Pd, viene prima della mia legittima amarezza. Ti comunico dunque la mia autosospensione dal Pd fino a quando questa vicenda non sarà chiarita. Lo faccio non perché qualche moralista senza morale oggi ha chiesto un mio passo indietro. No. Lo faccio per il rispetto e l’affetto che provo verso gli iscritti del Pd”. Ancora: “Continuerò il mio lavoro con tanti amici in Parlamento per dare una mano contro il peggior governo degli ultimi decenni”.

La rivendicazione di un ruolo politico che va avanti: d’altra parte Lotti ha scelto di fondare una corrente con Antonello Giacomelli e Lorenzo Guerini, che controlla la maggioranza dei parlamentari dem. E il suo è un modo per ribadire che darà battaglia dentro al partito. Come? Per arrivare a cosa? La settimana prossima Br farà una serie di riunioni, proprio per stabilirlo. C’è già un appuntamento, dal 5 al 7 luglio a Montecatini. In quell’occasione le mosse saranno chiare. La guerra alla segreteria pare già decisa, però. Nel frattempo, uno dopo l’altro, escono tutti i parlamentari della corrente, in difesa del loro leader. Un avvertimento preventivo a Zingaretti. “Gli arriverà un messaggio forte”, dicono i vicinissimi. La conclusione del post di Fb è di quelle che potrebbero investire chiunque, a partire da Zingaretti per i rapporti con Palamara e dall’ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che avrebbe manovrato per portare a capo della Procura di Napoli Giovanni Melillo: “Quanti miei colleghi, durante l’azione del nostro Governo e dopo, si sono occupati delle carriere dei magistrati? Davvero si vuol far credere che la nomina dei capiufficio dipenda da un parlamentare semplice e non da un complicato quanto discutibile gioco di correnti della magistratura?”. Finale con citazione di Enzo Tortora: “Io sono innocente. E spero di cuore che lo sia anche chi mi accusa di tutto, senza conoscere niente”.

La risposta di Zingaretti non si fa attendere: “Ringrazio Luca Lotti per un gesto non scontato che considero di grande responsabilità nei confronti della politica, delle istituzioni e del Pd. Sono consapevole della difficoltà umana di questi giorni, ma ciascuno di noi ha una responsabilità alta nei confronti della nostra comunità e verso il Paese”. Formalmente non lo scarica, di fatto ha lavorato per farlo. Ma neanche adesso si può permettere di andare fino in fondo.

La campagna d’estate

Un mese fa il gruppo francese Kering che controlla fra l’altro il marchio Gucci ha chiuso le sue pendenze con il fisco italiano sborsando sull’unghia 1,25 miliardi di euro: un quinto del costo del Reddito di cittadinanza, un quarto di quello di Quota 100, un dodicesimo di quello dell’annunciato taglio delle aliquote fiscali (detto impropriamente Flat tax), un ventesimo di quanto occorre per scongiurare l’aumento dell’Iva. Il governo, alla vigilia di una legge di bilancio lacrime e sangue, si arrabatta in supercazzole spericolate per risparmiarci una procedura d’infrazione e promettere all’Europa coperture che, anche se fossero vere, coprirebbero pochissimo del fabbisogno. E continua a dar la caccia agli spiccioli, senza far nulla per affondare il mestolo in quell’immenso serbatoio di fondi neri accumulati da chi ogni anno ruba al fisco, cioè allo Stato, cioè ai contribuenti onesti almeno 107 miliardi di euro (evasi fra Irpef, Iva, Ires, Irap, locazioni, accise, Imu, Tasi e contributi). Senza contare chi evade ed elude a norma di legge: per esempio le multinazionali del web, che fanno profitti da capogiro in tutto il mondo, ma non ci pagano le tasse da nessuna parte. Tantomeno in Italia: gli ultimi dati disponibili, quelli del 2017, dicono – tenetevi forte – che Airbnb, Amazon, Booking, Facebook, Google e Twitter tutte insieme hanno versato la miseria di 9 milioni di imposte. E non perché evadano: perchè lo Stato italiano ha deciso così.

Ora, il Fatto è un piccolo vascello corsaro. Ma, quando si fa sentire, ogni tanto qualche risultato lo raccoglie. Siamo stati i primi, per dire, quando tutti gli altri divagavano e fischiettavano, a squarciare il velo d’ipocrisia dei giornaloni e dell’establishment retrostante: cioè a ricordare che lo scandalo del Csm – politicamente parlando – è tutto targato Pd, per la presenza inquinante di Lotti&Ferri, due soggetti che abbiamo raccontato per anni in solitudine. Ieri Lotti s’è “autosospeso” dal Pd: una mossa senza conseguenze pratiche, ma anche la prova che – a furia di insistere – qualcosa può succedere persino in quel partito di salme tartufate. Ora abbiamo lanciato la campagna per una vera lotta all’evasione, che proseguirà per settimane nella speranza di smuovere la maggioranza giallo-verde. Anche perché le basterebbe attuare un punto cruciale del suo Contratto: là dove, accanto alla Flat tax, Di Maio e Salvini promettevano che “sarà inasprito il quadro sanzionatorio e penale per assicurare il ‘carcere vero’ per i grandi evasori”. Un impegno che fu imposto dai 5 Stelle, ma che Salvini aveva già assunto in campagna elettorale.

“Sono d’accordo – disse a Porta a porta il 18.1.2018 – per la galera per chi evade: se io riduco le tasse e tu non paghi io butto la chiave, sul modello americano”. Il 24 settembre, intervistato dal Fatto, Di Maio annunciò che “a fine mese nel decreto fiscale verrà previsto il carcere per chi evade”. Poi la Lega propose un mega-condono fiscale, eliminato solo a patto del ritiro delle manette agli evasori, rinviate al giorno della Flat tax. A febbraio però il ministro della Giustizia Bonafede, sempre sul Fatto, si impegnò a cancellare la peggior eredità del renzismo, cioè il “vergognoso aumento delle soglie di punibilità per alcune fattispecie di reato”, abbassandole. Invece sono rimaste tali e quali: nessun reato per chi omette nella dichiarazione dei redditi fino a 50 mila euro, per l’omesso versamento fino a 150 mila euro, per chi presenta una dichiarazione infedele fino a 150 mila euro e per chi non paga fino a 250 mila euro di Iva. In pratica, come scriveva ieri Stefano Feltri, chi fa ogni anno 300mila euro di fondi neri (pari a 150mila di mancate imposte) non rischia un minuto di galera, anzi non commette proprio reato, mentre chi ruba mille euro da un portafogli o due salami in un supermercato rischia fino a 6 anni di carcere. E questa è la principale ragione per cui si evade: perché il guadagno è altissimo e il rischio è zero. Il 3 giugno il premier Conte ha parlato agli italiani e ha promesso “un’organica riforma del fisco: non solo aliquote più basse, ma anche più semplicità e rapidità nel rapporto tra fisco e cittadini e un contrasto più duro all’evasione”.

Siccome, compatibilmente con i conti traballanti, c’è un sostanziale accordo fra Conte, Di Maio, Salvini e persino Tria sulla riduzione fiscale nella legge di bilancio (purché non in deficit), e proprio alla cosiddetta Flat tax il Contratto subordinava le manette agli evasori, è ovvio che queste debbano procedere di pari passo col taglio delle aliquote. Sarebbe un bel segnale di equità e di “cambiamento”: chi paga le tasse ne pagherà meno, e il mancato gettito verrà colmato a spese degli evasori. Non solo spaventandoli con pene più alte e soglie di non punibilità più basse. Ma anche disincentivando drasticamente l’uso del contante fino a farlo gradualmente sparire; approvando la Web Tax sui colossi della rete; e introducendo un sistema che consenta ai cittadini di “scaricare” tutte le spese, cioè di avere tutto l’interesse a pretendere lo scontrino, la ricevuta e la fattura per ogni acquisto o servizio pagato. Come propone Claudio Bisio, nei panni di uno strano premier, nell’ultimo film Bentornato Presidente. Ecco: su questi punti il Fatto racconterà esperienze virtuose di altri paesi, ascolterà esperti, formulerà proposte e continuerà a martellare il governo perché rispetti anche quell’impegno. Che è il più cruciale di tutti. Se la prossima legge di bilancio la farà Bonafede, anziché Tria, c’è persino la possibilità che lo Stato italiano si scopra meno povero del previsto. E che il “governo del cambiamento” si dimostri addirittura tale, smettendola di fare il Robin Hood alla rovescia e cominciando a far pagare la crisi ai ladri anziché agli onesti.

Mortina è tornata, pronta a sfidare ancora i vivi

Mortina era una zombie che viveva con sua zia a villa Decadente. Lei finalmente, dopo tanto tempo, andò in vacanza, in occasione del solstizio d’estate che quell’anno coincideva anche con la Grande Luna Rossa. Dove? A casa di sua zia Megera, Villa Fronzola, che si trovava sul lago Mistero. Tre giorni dopo la chiamata della zia, lei, il topolino Marcio, zia Dipartita, il prozio Funesto e il cane Mesto partirono con un vecchio furgoncino nero. Una volta arrivati, sistemarono le valigie e andarono subito a farsi un bagno nel lago. Però, nel frattempo, una macchina nera si fermò davanti alla villa e un ometto appese un cartello all’inferriata. Su questo cartello si leggeva “Casa all’asta. Immobile in stato di abbandono. Nessun erede noto. Se nessun erede legittimo si farà avanti presso l’ufficio pubblico del villaggio, la casa sarà messa all’asta venerdì 13 luglio”. Quando lesse il cartello, la zia Megera fu presa dal panico. Suo cugino Dilbert però aveva un piano: riuscirà l’allegra combriccola a rendere nuovamente viva la zia Megera? Riusciranno a non far mettere all’asta la villa prima che sia troppo tardi? Il quarto libro di Mortina è il più bello di tutti e il più divertente. Con illustrazioni bellissime che valgono quanto il testo. Questo libro è molto adatto ai bambini, anche a quelli più grandi.

 

La ferrea logica che porta alla strage: cosa c’è nella mente di un assassino

Cosa succede nella testa di chi decide di comprare un fucile di precisione, salire su una torre e uccidere i passanti? La risposta è spesso impossibile, perché questi assassini casuali vengono a loro volta uccisi dalla polizia che cerca di fermarli. Quando sopravvivono, come nel caso del norvegese Anders Breivik, la società scopre di non avere gli strumenti analitici e morali per interagire con chi ne ha rigettato le regole più basilari. Nel mirino è quindi un coraggioso e riuscito esperimento: lo scrittore Thomas Gosselin e il disegnatore italiano Giacomo Nanni ci portano nella testa di un ex marine di 25 anni, di Austin, in Texas, che il primo agosto del 1966 compie la sua strage. Per funzionare questo fumetto aveva bisogno dei disegni e del talento di Giacomo Nanni che qui usa retini, colori pastello senza sfumature e disegni scarnificati per ricostruire i percorsi di una mente malata. Nella testa di Charles Whitman tutto ha una logica ineluttabile, lui non ha alcuna responsabilità, anzi, spera che qualcuno farà una sua autopsia per dimostrare che la propensione alla violenza derivava da un tumore al cervello (immaginario). Uccidere la madre e la moglie incinta è spiacevole, ma coerente con il resto. E dopo aver vissuto e rivissuto ogni singolo momento del massacro nelle proprie fantasie, compierlo è ben poca cosa. Le tavole di Nanni evocano i disegni dei bambini a scuola, costringono il lettore ad abbassare le proprie difese emotive ed etiche, la logica perversa di Whitman diventa rassicurante perché tornare alla realtà diventa uno sforzo faticoso e da ripetere troppo spesso, a ogni vignetta. Meglio lasciarsi trascinare fino all’inevitabile conclusione. Un capolavoro di tecnica narrativa ed empatia. Disturbante come tutti i capolavori devono essere.

 

La pittura “informale” del dr. Burri

La “frattura” è la pietra angolare di quella materia, abilmente impastata dagli scrittori romantici e tardo romantici, che è la narratologia: all’interno di una narrazione vi è una rottura, che innesca dinamiche per addivenire a una nuova continuità, un nuovo equilibrio. Ma se anche chiediamo alla scienza, o meglio alla medicina – all’anatomia, ancora più precipuamente –, cosa sia una frattura, vedremo che è “la rottura di un osso provocata da un trauma”.

Alberto Burri(1915-1995), lui che era medico di professione, volle essere il trauma dell’arte della sua epoca, quel trauma che lui stesso subì durante i sedici mesi di prigionia nel “criminal camp” del Campo di Concentramento di Hereford in Texas, dopo essere stato catturato dagli inglesi in Africa Settentrionale, mentre prestava servizio nell’esercito italiano durante la Seconda guerra mondiale.

La frattura come vita nova è dunque il punto di mira della mostra a lui dedicata, affabulante già a partire dal titolo: Burri. La pittura, irriducibile presenza , curata da Bruno Corà, all’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia.

Tornato in Italia alla fine delle ostilità, Alberto Burri si disse suggestionato dalle povere cose che si era visto attorno nel campo di prigionia, abbandonò la professione medica e si consacrò a una precisa idea di pittura, che presto si impose nel rinnovamento del gusto detto “Arte informale” (che rifiuta la forma). Così, mentre Antoni Tàpies in Spagna dipinge Collage de arroz y cuerdas, un volto di riso e corda, e in Francia Jean Dubuffet intitola Vita Irrequieta un quadro in cui si possono distinguere delle piccole figure umane come graffiate sugli strati di colore, Alberto Burri brucia e buca sacchi di tela e plastica, lavora con colla vinilica e altri materiali. Il suo intento è conferire dignità alla materia non più alla forma.

La retrospettiva veneziana procede dai primi e rarissimi Catrami (1948) e Muffe (1948) in dialogo con l’opera feticcio, i Sacchi degli anni 50, periodo in cui lavorò anche su legno e ferro, fino alle Plastiche contorte degli anni 60, i Cretti degli anni 70 (caolino e vinavil mischiati a pigmento e fissati su cellotex, per raffigurare terreni arsi) fino ai grandi Cellotex realizzati negli anni 90.

Attenzione, però: chi etichetta Burri come un visionario, si ricrederà perché era in perfetto dialogo col suo tempo. Perché, altrimenti, si sarebbe messo a bruciare plastiche negli anni del piano Marshall dell’espansione culturale americana in Europa?

BURRI. Pittura, irriducibile presenza Venezia, fino al 28.07