Giallo “christiano” attorno alle Tavole Eugubine (che noi italiani ignoriamo)

L’Italia superficiale che snobba i suoi tesori archeologici. Alzi la mano chi si ricorda delle Tavole Eugubine, custodite a Gubbio. Che cosa sono? “Tavole di bronzo ritrovate tra le rovine del teatro romano nel 1444 da una donna che ci pascolava le sue pecore e che, dodici anni più tardi, un certo Paolo Di Gregorio le ha cedute al libero comune in cambio di un diritto di pascolo”. Un ritrovamento eccezionale. “I segni bruni impressi profondamente nel metallo sono le parole di un archivio sacro, una specie di messale primitivo concepito tremila anni fa, quando è arrivato da oriente un flusso di profughi (forse i sopravvissuti di Troia appena distrutta) che sono stati accolti negli insediamenti dei pastori italici”.

A Gubbio, nel Quindicesimo secolo, fu inventata l’archeologia. E non solo. Le due lingue delle Tavole, etrusco e latino, rivelano che gli Umbri inventarono parole; riti e sacrifici di una religione civica; finanche un sovranismo primitivo. E attorno alle Tavole Eugubine si cela il mistero di una bella giornalista che la mattina di Capodanno viene trovata morta in una stradina dominata dalla Piazza in alto. “È qui che cadono quando si buttano dalla Piazza”. A indagare è il capitano Agostino con l’aiuto di un giovanissimo carabiniere. La ragazza ha lasciato un lunghissimo racconto che parte appunto dalla storia delle Tavole Eugubine. Il manoscritto contiene anche il tormento d’amore per l’uomo più potente della Regione, un ex comunista. Indagini e racconto si alternano e forse non si tratta di suicidio. Il talento della vittima di Patrizia Zappa Mulas è varie cose: un giallo psico-christiano (nel senso di Agatha), un atto d’amore per Gubbio, un memorandum per noi italiani ignoranti.

 

Un solo pioppo è più intelligente di tutti noi

Nel canto Alla Primavera, o delle favole antiche, parlando di boschi Giacomo Leopardi usa la parola “vissero”: da intendersi sia nel senso che quando Pan abitava i boschi lì era la vita, sia che un tempo, finché in ogni tronco abitavano gli occhi di dèi e ninfe, gli alberi vivevano. Non è nostalgia irrazionalistica o fragile estetismo l’afflato che ha spinto il romanziere americano Richard Powers a far rivivere gli alberi ne Il sussurro del mondo, vincitore del Pulitzer 2019, appena edito da La nave di Teseo. I grandi autori classici sentivano il mormorio dei boschi: nell’Edipo a Colono Sofocle fa il suo inno all’ulivo dicendo che proteggeva Atena perché l’ulivo era Atena, non c’era soluzione di continuità tra il respirante protettore della città dalla distruzione e la dea, tanto che nessuno lo poteva “brutalmente distruggere o saccheggiare”. È pensabile interdire la distruzione di un ulivo, oggi? Dei cedri e delle sequoie d’America, giganti parlanti e sofferenti? Al contrario, in nome di dèi e di miti spietatamente più potenti, non facciamo altro che abbatterli. Powers disegna concentricamente nove biografie di figli d’America – discendenti di coloni seminatori di castagni, bambine-pianta che diventeranno scienziate, eredi cinesi di Buddha intarsiati, ragazze che dopo esser quasi morte folgorate sentono le voci dei boschi, piloti che dall’atterraggio su un albero hanno salva la vita e ragazzini che cadendo da un albero restano paralizzati – tutti destinati a incontrarsi seguendo il richiamo di un albero; e questo spettacolare disegno linfatico compone le 700 pagine di un’epopea contemporanea in cui echeggia la voce dei classici. Ma quando, come civiltà, abbiamo smesso di credere che negli alberi dimori un principio divino che emana dalla materia? Ancora in Petrarca si trova: l’analogia tra l’aura, il lauro e Laura non è un gioco di parole: raffigura la comunione con la deità in allegorie vegetali. Laura, morta, cioè mutata (come Dafne), viene emanata dall’Aurora popolata di sospiri di piante, nella luce dorata, tradotta nei versi liquidi del Canzoniere. La perdita d’aura è erosione della poesia: perciò Powers mette la vita vegetale al centro del racconto del mondo. “La gente non sa nulla delle cose che fanno gli alberi”. Ignoriamo che condividiamo con loro un quarto dei nostri geni. Tentiamo di interrompere i loro progetti millenari distruggendoli, togliendo loro l’aria che per Petrarca era soffio d’amore dai morti ai vivi. Ma la natura è panica: un pioppo tremulo o un cedro della Virginia supererebbero in magnificenza, forza e intelligenza tutti i geni che hanno abitato la Terra in miliardi di anni. La scienza sa che gli alberi si parlano tra loro: se uno viene attaccato da un parassita, gli esemplari limitrofi rilasciano insetticidi per difendere la foresta. Così è sempre stato e così sempre sarà: solo che oggi il loro nemico siamo noi.

L’opera di Powers è un sussurro per gli alberi: l’umanità, malata, è stata solo “un esperimento aberrante. Presto il mondo ritornerà alle intelligenze sane, quelle collettive. Le colonie e gli alveari”. (In fondo, lo aveva profetizzato Petrarca, accorgendosi che la pianta, lasciata in terra da Laura, era disabitata: “Ma io che debbo far del dolce alloro? Che se ’l vo riveder, conven ch’io mora”).

 

Ficarra e Picone, insieme da 25 anni tra set e palcoscenico

Sono iniziate a Ouarzazate, in Marocco, le riprese del settimo film di Ficarra e Picone prodotto da Attilio De Razza per Tramp Limited e da Medusa, che lo distribuirà da metà dicembre.

Girata tra Nordafrica e Lazio, la nuova commedia con titolo da definire – scritta di due insieme con Nicola Guaglianone e Fabrizio Testini – è interpretata anche da Massimo Popolizio e si avvale della fotografia di Daniele Ciprì. Per celebrare i loro 25 anni di carriera i comici siciliani hanno intanto annunciato un nuovo spettacolo teatrale che li rivedrà in scena insieme in 20 città a partire da maggio 2020.

Milano Calibro 9, il celebre poliziesco di Fernando Di Leo del 1972 – cult movie di Quentin Tarantino – sta per avere un sequel: Calibro 9, diretto da Toni D’Angelo (Falchi) e prodotto da Minerva Pictures in co-produzione con Gapbuster e con la collaborazione del Mibac. Interpretato da Marco Bocci e Ksenia Rappoport, oltre che da due attori-icone del fortunato prototipo come Barbara Bouchet e Mario Adorf, il film verrà realizzato a partire da fine giugno tra Catanzaro, Milano e Anversa.

Pietro Castellitto, dopo il premio Biraghi ricevuto nei giorni scorsi come giovane attore rivelazione per La profezia dell’armadillo e la fine delle riprese di Freaks Out di Gabriele Mainetti di cui è uno dei protagonisti, sta per debuttare nella regia con I predatori, prodotto da Fandango e sul set a fine giugno a Roma, di cui sarà anche interprete. Il figlio 27enne di Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini porterà in scena una sua sceneggiatura incentrata su due famiglie di estrazione sociale diversa che si incontrano nella giungla metropolitana romana.

 

Mario Incudine: da Sud a Sud, sulle note di Modugno il grande precursore

“Raccontare il Sud, per narrare il mondo. Un po’ come diceva Tolstoji: ‘Racconta il tuo villaggio e sarai universale’”. È un viaggio carico di colore, passione e sentimento, dalla Puglia alla Sicilia fino al successo internazionale, quello in cui ci conduce Mario Incudine, artista e cantante, che porta a teatro la storia e il repertorio di uno dei padri della musica leggera italiana: Domenico Modugno. Un percorso storico e metaforico nello spettacolo “Mimì”, con i testi di Sabrina Petyx e la regia di Moni Ovadia e Giuseppe Cutino, in scena fino a stasera al Teatro dell’Elfo di Milano. La produzione di Modugno mantiene immutata la freschezza e la forza comunicativa, anche 60 anni dopo: “Mi ha appassionato la sua capacità di anticipare, il suo essere precursore di tutta una serie di mode, basti pensare al teatro-canzone, alla pizzica – spiega Incudine –. Fu il primo a cantare in dialetto. A usare gli animali per personificare vizi e virtù. Un modo naturale e ancestrale di comunicare sentimenti universali”. Ma la peculiarità dell’opera di Modugno, autore di oltre 230 canzoni, non è solo nei temi trattati; musicalmente, puntava a stravolgere lo status quo: “Con Volare ha sovvertito le regole della scrittura, comincia con la stessa nota, ripetuta nove volte: una provocazione al belcanto all’italiana, incentrato sulle melodie. Se oggi componiamo così, lo dobbiamo a lui”, racconta Incudine. In onore della sua attitudine ribelle, le sue canzoni non vengono presentate nelle loro veste originale, ma sono spogliate, “nude” nella loro forma più pura, con nuovi arrangiamenti o a cappella, per coinvolgere ancor di più gli spettatori. Incudine non ha dubbi sul valore dell’artista salentino, e sul suo lascito, una lezione universale: “L’eredità di Modugno è puntare all’unicità, la riconoscibilità, l’identità: solo così ci si garantisce il passaggio all’eternità”. Ma Mimì, acuto osservatore, cosa penserebbe dell’Italia di oggi? “Ora più che mai vale il messaggio di Volare: nella condizione attuale, ci direbbe di aspirare a migliorare le nostre vite e spiccare il volo”.

 

“Visite” poetiche ai vecchi sposi

Solo i giovani hanno di questi momenti: guardare alla vecchiaia con occhi incantati, immaginarla con grazia, raccontarla con poesia, quando invece la vecchiaia è brutta, sporca e cattiva. Non ditelo al Teatro dei Gordi perché il loro Visite è delizioso così com’è: poca importano il candore e la rarefazione; anzi evviva il candore e la rarefazione.

Prodotto dalla giovane compagnia insieme con il Franco Parenti di Milano, che lo ospita per la seconda volta in stagione (a grande richiesta), Visite si ispira al mito di Filemone e Bauci di Ovidio, una longeva e affiatata coppia di sposi, assurta a simbolo di fedeltà e ospitalità.

Ideato e diretto da Riccardo Pippa, è il secondo spettacolo di figura dell’ensemble, i superlativi e autoironici Cecilia Campani, Giovanni Longhin, Andrea Panigatti, Sandro Pivotti, Maria Vittoria Scarlattei e Matteo Vitanza: in scena vanno i corpi, più o meno deformati da caratterizzazioni e maschere di cartapesta (dell’artista Ilaria Ariemme); molta musica, pochissime parole, e quelle poche rigorosamente poetiche, da Lavorare stanca di Cesare Pavese a La cipolla di Wislawa Szymborska. La concertazione è splendida, e la drammaturgia (firmata da Giulia Tollis) molto più sensata, pensosa e sostanziosa di tanto teatro contemporaneo, nonostante nulla si dica, tutto si evochi.

La trama ha come luogo d’elezione (non l’unico, ma l’altro è d’indicibile sorpresa) una camera da letto, ora ordinata ora a soqquadro, ora vuota ora affollata, ora set triste ora talamo di festini sfrenati: è questa la meta (non l’unica, ma l’altra è d’indicibile sorpresa) delle “visite” del titolo; visite di amici e parenti, fidanzati e fantasmi. È un susseguirsi di tranche de vie di due innamorati, poi coniugi, poi vedovi; o meglio, la donna invecchia prima dell’uomo, ma gli sopravvive: che squisita cattiveria. Nel mezzo, passano incontri, party, tradimenti, ospiti, figli, lutti, screzi e danze, deliri e incubi, litigi e riconciliazioni.

Pare sempre uguale la vita, quasi banale, lo dice anche il papa: i riti si ripetono identici eppure diversi, sempre più condizionati e modificati dall’età e dalla salute che se ne va; persino le feste comandate – i compleanni, i Natali e i Capodanni – girano a vuoto, come liturgie stanche, buone solo per celebrare il tempo che passa, inaridendo i corpi e gli spiriti. Tutto torna, ma ogni volta la notte è un po’ più in qua e la morte un po’ più addosso: la costruzione della storia è abilmente, fintamente circolare, fino all’ultimo atto – chiamiamolo così, benché la recita duri poco più di un’ora – spiazzante, commovente e di raro lirismo insieme.

Visite non è tanto una storia d’amore, né solo uno spaccato di vita e quotidianità qualunque, ma una riflessione sulla “metamorfosi e sulla visita come ultimo, possibile, atto di resistenza”, fa niente se risibile, fa niente se fallibile. Al fondo, insomma, l’opera è sul tempo, ma quale opera degna di questo nome non lo è?

Milano, Teatro Franco Parenti, fino al 27 giugno Visite Ideazione e regia, Riccardo Pippa, Teatro dei Gordi

La magia di Bob raccontata dall’amico Martin

“La vita non riguarda trovare se stessi, riguarda creare se stessi”. Bob Dylan lo rivela a Martin Scorsese mentre insieme ripercorrono quel 1975 che li segnò entrambi: il primo stava partendo per il glorioso Rolling Thunder Revue tour, il secondo ultimando uno dei suoi capolavori, Taxi Driver. Fa impressione unire questi due giganti della Cultura (laddove la maiuscola sintetizza il meglio di cultura e del suo contro…) a riflettere sul duecentenario della nascita degli States alludendo al presente senza mai riferire né citare alcunché di attualità.

Cose di alta raffineria del pensiero, cose che Scorsese ha inserito nelle sue due ore e venti del documentario Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story da mercoledì disponibile su Netflix, che presto porterà “sul piccolo schermo” anche l’atteso The Irishman, salvo incursioni anche sul big screen e dunque a qualche festival. Per ora accontentiamoci, si fa per dire, dell’essenza di Bob Dylan, immenso nel suo straordinario universo di musica e poesia attorno a cui Scorsese costruisce un film-omaggio assai diverso dalla sua fertile e precedente produzione documentaria sul rock: non siamo infatti né nel total concert movie alla Shine A Light me neppure nelle nostalgie anglo-buddhiste di George Harrison: Living in The Material World. Il mago delle ballate, il cantastorie delle profezie, il genio con l’armonica e quanti mai sufficienti epiteti al controverso premio Nobel si possano trovare, vive nel doc dell’amico e “fan” Marty nell’eterno presente del gesto creativo e performativo. Forse perché l’immortalità dei suoi testi era già chiara a chi li ascoltava negli anni 60, e dunque il suo ritorno “live” nel ’74 fu accolto con messianica attesa. L’urgenza suonava chiara: Nixon era in pieno Watergate, la sciagurata guerra in Vietnam trasudava di orrore, i giovani americani rabbiosamente manifestavano per la pace, e quelle “migliori menti della mia generazione distrutte da follia” urlate da Allen Ginsberg un ventennio prima si rianimavano, sempre più hipster, sempre più accese. Per questo, per intuire e marcare il cambiamento in corso allora, e auspicabile oggi (Trump è forse peggio di Nixon?) serviva un prestigiatore di canzoni in versi come Dylan e non è casuale che Scorsese apra il film con un estratto da The Vanishing Lady del “mago del cinema” Georges Méliés, l’altro suo grande amore omaggiato in Hugo Cabret. Bob oggi e Bob ieri, l’uno che dialoga attraverso l’intervista fatta dal regista (mai inquadrato o ascoltato) l’altro immortalato in storici footage e con lui, come lui, i suoi amici: da Joan Baez a Sam Shepard, da Patti Smith a Ramblin’ Jack Elliot passando per il mitico Rubin “Hurricane” Carter e un’inedita Sharon Stone che da ragazzina andava in tour con The Dylan Band per stirare le camicette alla Baez. Ma la scena madre resta quella di Dylan e Ginsberg (“uno dei pochi poeti capaci di toccare il fondo della coscienza” dice di lui Bob) insieme presso la lapide del comune amico Kerouac: “Sediamoci con Jack e cantiamogli una canzone”.

Il Cencelli delle radio. chi decide cosa ascoltiamo?

“Tu decidi il tempo, il senso e la durata, il talento è fuori dalla tua portata”: era il 2005 quando Renato Zero cantava Radio o non radio, atto d’accusa ai grandi network, colpevoli di scegliere la musica in base all’interesse e non al merito, determinando il successo o l’insuccesso di un pezzo, addirittura di un artista. Sono passati anni, è cambiata la scena musicale italiana e il mondo radiofonico nell’era digitale, non la polemica, dalla battaglia per le “radio pulite” di Edoardo Vianello agli attacchi di Francesco Baccini e Tosca. L’ultimo, soltanto in ordine di tempo, è Francesco De Gregori: nel suo splendido concerto alle Terme di Caracalla il cantautore ha ricordato come le sue Pezzi di vetro e Sempre e per sempre non siano mai state hit perché le radio “trasmettono solo musica di merda”. Di sicuro, trasmettono sempre la stessa musica.

Prendiamo la Top Ten italiana delle rotazioni radiofoniche, registrata ogni settimana dal portale EarOne. A inizio giugno troviamo Tiziano Ferro e Elisa, Ligabue e TheGiornalisti: tutti i big che non potrebbero mancare in una hit-parade. Ancora più interessante è guardare la classifica non per cantanti, ma per etichette: le case più famose si spartiscono le migliori posizioni. Quattro per Island Records, tre per Sony, due alla Warner, una alla Virgin: praticamente un manuale Cencelli della musica. I rapporti con le major sono fondamentali, bisogna stare attenti a non scontentare nessuno. Quando esce una canzone nuova di un artista top per una grande etichetta, entra direttamente al primo posto o giù di lì; la casa discografica produce un comunicato stampa trionfale e il gioco è fatto. Il successo, tale o presunto che sia, si autoalimenta. Con i primi posti monopolizzati, però, per le piccole firme non c’è spazio.

“Quello che passa in radio lo decidono le radio”, diceva Laura Pausini. Sembra un’ovvietà ma non lo è. Ci sono logiche complesse, regole ben definite, una sintassi da seguire: un brano musicale ogni 2-3 minuti di parlato, la sequenza di canzoni secondo un ordine preciso. Prima un successo consolidato per agganciare l’ascoltatore, poi un disco nuovo per conquistarlo. Funziona così. “La scelta delle canzoni da passare si basa essenzialmente su due criteri: il suono e l’interesse”, spiega chi in radio ci lavora da una vita. Nelle rotazioni troviamo al 50 per cento brani che la gente si aspetta di sentire (gli ascolti sono tiranni, il pubblico va accontentato), al 50 per cento brani che il network vuole “spingere”.

Sono interessi di vario tipo, spesso intrecciati con quelli delle case discografiche. Il più smaccato è la promozione di un cantante della propria scuderia, visto che a volte un network possiede anche una sua etichetta. Ancora più frequenti sono le partnership: se una radio sponsorizza il concerto di un artista, oppure ha il suo nuovo singolo in anteprima, lo trasmetterà più e più volte al giorno (mentre sul principale competitor lo ascolterete il minimo indispensabile). E poi ci sono i rapporti personali, i suggerimenti informali, le richieste di favori. In tutto ciò non c’è nulla di illegale. “Si tratta solo di un discorso commerciale”, conclude l’esperto. “Però il mecenatismo musicale, se mai è esistito, è finito”.

In questo ingranaggio restano schiacciati gli autori più giovani, le etichette minori, i pezzi di nicchia: non li ascolterete mai, o solo raramente. Le eccezioni sono poche, ancor meno i casi di chi scommette su un autore per puro gusto artistico. Certo, negli ultimi anni si sono affermati anche nuovi canali, come Spotify o Youtube, dove la musica la sceglie l’utente: da questi ascolti però agli artisti viene in tasca solo una piccola percentuale, il business resta nei circuiti tradizionali dove la radio gioca un ruolo decisivo. La stessa ondata della cosiddetta musica “indie”, che ha aperto le porte a una nuova generazione di cantanti, appena ha varcato le porte del mainstream si è un po’ stereotipata, tra chi ha cambiato genere o proprio etichetta per adeguarsi alle logiche dell’industria radiofonica. “Radio o non radio, questa musica raggiunge la sua meta”, cantava Renato Zero. Con un grande network alle spalle però è più semplice.

Memphis, torna la guerriglia: la polizia uccide un giovane nero

L’ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump aveva interrotto la striscia di sangue di neri inermi uccisi da poliziotti bianchi, che aveva segnato la presidenza Obama. Quanto avvenuto a Memphis l’altra notte rischia, però, di accendere l’ennesima estate di tensioni razziali negli Usa. Ce ne sono già state avvisaglie, anche se l’episodio ha contorni incerti e ricostruzioni contraddittorie. Un giovane nero, Brandon Webber, 20 anni, colpito da diversi mandati di cattura per reati violenti, è stato ucciso mentre sfuggiva a un controllo di polizia: contro di lui sarebbero stati esplosi una ventina di colpi d’arma da fuoco. L’Fbi locale ha aperto un’indagine sull’episodio, perché le versioni sono contrastanti: secondo fonti della polizia, Webber avrebbe puntato un fucile contro gli agenti; ma testimoni oculari smentiscono la circostanza. L’uccisione del giovane ha subito scatenato la rabbia della comunità nera della città del Tennessee sul Mississippi, dove c’è Graceland, con la residenza e la tomba di Elvis Presley. È stata una notte di tensione e di incidenti: le manifestazioni di protesta sono iniziate pacificamente, ma si sono poi trasformate in guerriglia. Il bilancio degli scontri è di almeno 24 agenti e due giornalisti feriti; tre manifestanti sono stati arrestati. Sei persone hanno dovuto essere ricoverate in ospedale. Tra il 2012 e il 2016, erano stati almeno una dozzina, in diversi Stati dell’Unione, i giovani neri, quasi sempre inermi, uccisi da poliziotti o vigilantes bianchi. Il movimento Black Lives Matter aveva risposto con manifestazioni ovunque, ma in Louisiana e in Texas i neri avevano reagito uccidendo agenti bianchi. L’uso apparentemente sproporzionato della forza da parte della polizia contro i neri venne collegato al sentimento d’insicurezza creato fra i bianchi con venature razziste dalla presenza alla Casa Bianca d’un presidente nero. Di fatto, l’elezione di Trump, che equipara le violenze razziste alle proteste anti-razziste, segnò la fine di quegli episodi. Fino a ieri

Oman: il mistero delle petroliere in fiamme

Due petroliere giapponesi in fiamme nel Golfo di Oman. Unità di salvataggio della marina iraniana, ma anche almeno un’altra nave, statunitense, intervengono, mettendo in salvo decine di uomini degli equipaggi. Teheran prima parla di un incidente, poi di un attacco. Media locali riferiscono d’esplosioni e incendi a bordo di entrambe le navi, il Telegraph precisa che una sarebbe stata colpita da un siluro. Il ministro del Commercio giapponese Hiroshige Seko afferma che le petroliere “sono state attaccate”. Da chi? Arabia saudita e Oman sostengono la responsabilità sarebbe iraniana (“Teheran provoca caos e morte da 40 anni”). Il segretario di Stato Usa è netto: Sono loro i responsabili, per colpire i nostri alleati”. Proprio nelle ore dell’episodio, visita Teheran e incontra la guida suprema Ali Khamenei Shinzo Abe, il premier nipponico (il primo a recarsi in Iran dal ’79, cioè dalla rivoluzione khomeinista).

È l’ennesimo sussulto di tensione dai contorni incerti, in una delle zone del Mondo dove il filo cui è appesa la pace è più sottile. Il mese scorso, c’era stato un altro attacco, nello Stretto di Hormuz, con rimpalli di responsabilità analoghi. Secondo le fonti giapponesi, le due petroliere erano da poco uscite proprio dallo Stretto di Hormuz e facevano rotta verso il Giappone. Gli iraniani dicono di avere tratto in salvo 44 uomini e di averli portati al porto di Bandar-e-Jask. La nave Usa Bainbridge avrebbe raccolto 21 marinai. Il Giappone importa la quasi totalità dei suoi consumi – tre milioni di barili giornalieri di greggio – dai Paesi del Golfo, specie dall’Arabia Saudita. Causa lo stop dei flussi dall’Iran, una conseguenza delle sanzioni reintrodotte dagli Stati Uniti, dopo la denuncia unilaterale dell’accordo nucleare, Tokyo ha aumentato le importazioni da altri produttori, come Emirati arabi uniti e Qatar: “Ho dato istruzioni perché il sistema delle forniture d’energia continui a funzionare e perché l’acquisizione d’informazioni prosegua”, dice il ministro Seko. In una giornata scandita da dichiarazioni ufficiali anti-americane a Teheran e anti-iraniane a Riad, Mohammad Javad Zarif, ministro degli esteri iraniano, rileva su Twitter che “gli attacchi contro cargo legati al Giappone sono avvenuti mentre il premier Abe aveva con l’ayatollah Khamenei colloqui approfonditi e amichevoli…Tutto ciò è sospetto ….”.

Ma un dirigente americano, coperto dall’anonimato, sostiene che è “altamente probabile che l’Iran sia dietro gli attacchi”. La Casa Bianca è però più prudente: “Valutiamo le informazioni”. I russi invitano a non addossare subito la colpa agli iraniani e giudicano “prematuro” trarre conclusioni.

“Non solo l’estradizione, il Paese sta morendo”

Sembra tutta un’altra piazza, Tamar Square. Ieri pomeriggio il parco, la sopraelevata di Harcourt Road, le strade che circondano l’edificio del parlamento di Hong Kong non mostrano quasi più i segni del giorno prima, quando centinaia di migliaia di ragazzi sono stati dispersi a colpi di spray urticanti, gas lacrimogeni e proiettili di gomma dalla polizia. Il bilancio: 72 feriti, di cui due in gravi condizioni e nove arresti. I più giovani, in questa battaglia contro l’emendamento sull’estradizione in Cina, hanno 15 anni, i più vecchi oltre 60 e ancora non si capacitano della violenza con cui le forze dell’ordine hanno risposto alla protesta.

Ieri i giardini intorno al Legco sono tornati verdi, con i loro prati ironicamente all’inglese a malapena stropicciati e gruppi scarsi di studenti che cantano in cerchio, riposano sdraiati sull’erba in un clima quasi surreale, che sarebbe più appropriato per una gita fuori porta che per il day after della più grande protesta che Hong Kong abbia visto nella sua storia recente. Sono tutti vestiti in nero, “in lutto per Hong Kong” spiegano, con la mascherina di ordinanza per difendersi dai gas ma anche per coprire una buona parte dei connotati. Sono per lo più studenti di una generazione successiva a quella di Occupy Central e dell’Umbrella Revolution, il movimento che nel 2014 ha occupato per 79 giorni le strade di Admiralty, il cuore finanziario di Hong Kong, per chiedere – senza successo – di potere scegliere democraticamente i candidati del governo.

Con un piglio molto più pragmatico e meno sognatore dei loro predecessori, da domenica scorsa stanno portando avanti la protesta contro l’approvazione di un emendamento che consentirebbe l’estradizione di chiunque venga arrestato sul territorio di Hong Kong verso una serie di Paesi, tra cui la Cina Mainland. Paesi, sostengono i dimostranti e con loro almeno tremila avvocati e giudici di Hong Kong (che hanno sfilato separatamente, per primi, la settimana scorsa) nei quali non verrebbero garantiti i diritti fondamentali al giusto processo e a una pena equa.

L’estradizione è certamente il fattore scatenante ma non è però il motivo profondo alla base della rabbia dei manifestanti. “Hong Kong is dying”, sta morendo, ci ripetono alcuni di loro. Il patto che la Cina ha fatto con il Regno Unito nel luglio 1997 di mantenere indipendente, dal punto di vista legislativo ed economico, la ex colonia britannica fino al 2047 sembra farsi sempre più sottile, quasi come se bastasse un niente ormai per far precipitare tutto velocemente verso l’inevitabile: seppure con uno statuto speciale, Hong Kong è già Cina. Ribellarsi a un dato di fatto, sostengono molti, non servirà a nulla. “Genitori, insegnanti, dite ai vostri ragazzi di pensarci almeno due volte prima di scendere in piazza”, consigliava mercoledì la governatrice Carrie Lam. Un monito che è stato recepito dai ragazzi come una minaccia, soprattutto, circa il proprio futuro. A differenza dei colleghi di Occupy Central, pochi sono disposti a parlare con la stampa, con gli stranieri, e comunque prestano tutti molta attenzione a non rivelare la propria identità. Mercoledì pomeriggio il clima era già cambiato, rispetto a cinque anni fa. Cordoni di studenti si passavano con ritmo serrato elmetti gialli, soluzione salina per ripulire gli occhi dai lacrimogeni, ombrelli per ripararsi dagli attacchi diretti degli spray, mascherine, bottiglie d’acqua. Erano pronti agli attacchi, a differenza dei loro colleghi dell’Umbrella Movement.

Cosa succederà, ora? Mentre i manifestanti si organizzano per un’altra mobilitazione domenica e uno sciopero lunedì, la strategia del Governo sembra quella di procrastinare il voto, che ieri è stato spostato per la terza volta a data da destinarsi, in modo da far affievolire il tono della protesta.

I commentatori si dicono certi che l’emendamento passerà, d’altronde la stessa Carrie Lam ha dichiarato che dovrà essere approvato entro il 20 luglio. Intanto, corre virale su whatsapp un messaggio in cui si chiede a tutta la società civile di Hong Kong, locale o expat, di indossare oggi per tutta la giornata qualcosa di nero per sostenere chi contrasta l’emendamento. Una piccola manifestazione di dissenso pacifico per neutralizzare le violenze.