No ad Ali Mohamed “La Familia” xenofoba vuole cambiargli nome

Ali Mohamed è considerato il miglior giocatore della Premier League israeliana. Nato in Niger 23 anni fa, ha appena giocato un campionato straordinario vestendo la maglia del Maccabi Netanya. È stato comprato qualche giorno fa dal più blasonato club israeliano – il Beitar Jerusalem – per 2,5 milioni di dollari, una cifra importante per il calcio israeliano. Nonostante le sue prodezze e la possibilità di diventare la stella della squadra, nemmeno 24 ore dopo l’annuncio, il proprietario del club Moshe Hogeg ha iniziato a ricevere minacce dagli ultrà della curva per aver comprato un giocatore con un nome dal suono musulmano. Ali ha subito chiarito attraverso il sito ufficiale della squadra e il suo profilo Facebook di essere di religione cristiana e un devoto praticante, ma questo non è bastato a un vasto settore della tifoseria, quello più famigerato e minaccioso che si ritrova sotto il nome de “La Familia”.

Un gruppo dell’ultradestra, razzista e suprematista ebraico nato nel 2005 – 36.000 i suoi follower sui social media – con ramificazioni anche nella malavita e nel traffico di stupefacenti. Secondo loro Ali Mohamed, anche se cristiano porta un nome musulmano che non può essere pronunciato nel Teddy Kollek Stadium di Gerusalemme, il “loro” stadio che è soprannominato “l’Inferno” per il clima ostile, violento e razzista nei confronti delle squadre ospiti.

Il nuovo presidente della squadra – il terzo in 6 anni – dopo aver ricevuto le minacce ha detto di non essere preoccupato. “Il 99% delle reazioni sono di sostegno e incoraggianti perché abbiamo preso un grande giocatore”, ha spiegatoHogeg “ci sono state alcune risposte aggressive, se queste proseguiranno partiranno delle denunce”. Intanto la sicurezza privata intorno agli impianti e ai giocatori del Beitar è stata rafforzata.

Il club che affonda le sue radici nella destra nazionalista è l’unico a non aver mai fatto indossare la sua maglia a righe gialle e nere a un giocatore arabo, sebbene siano decine quelli che giocano in Prima divisione. Molta gente importante fra i suoi supporter, come l’ex ministra della Cultura Miri Regev, l’ex premier Ehud Olmert o Benjamin Netanyahu, l’attuale capo dello Stato Reuven Rivlin ne è stato addirittura presidente.

Il Beitar nacque in circostanze particolari e tuttora è un club unico nel suo genere, venne fondato nel 1936 come squadra di calcio del movimento giovanile del Partito revisionista sionista. Il revisionismo è una particolare corrente del sionismo secondo la quale l’obiettivo a lungo termine di Israele è ottenere la sovranità su tutta “Eretz Yisrael”, cioè la terra che secondo gli ebrei Dio ha donato loro migliaia di anni fa, dal fiume Giordano al Mediterraneo. Il Likud, che governa Israele è ispirato a queste teorie, così come Israel Beitenu, il partito della destra nazionalista guidato da Avigdor Lieberman, ex ministro degli Esteri ed ex vice primo ministro d’Israele.

Ma da una decina di anni sono gli ultrà de La Familia a essere diventati il tratto distintivo di una tifoseria razzista e spesso violenta. Lo stretto legame tra il club e la politica – specie con il Likud e i nazionalisti di Avigdor Lieberman – è la base su cui si fondano le accuse rivolte al governo dalle altre società di calcio e dai partiti, secondo i quali si cerca sempre di sminuire gli episodi riguardanti La Familia e tollerare il comportamento razzista, anti-arabo e anti-musulmano dei suoi membri.

Nel 2103 per protesta contro l’allora presidente Arkady Gaydamak – colpevole di aver comprato due talentosi giocatori ceceni di religione musulmana – impianti e uffici del club vennero bruciati. I possibili autori dell’incendio non vennero identificati, il presidente vendette la squadra. Forever Pure, il film documentario della regista Maya Zinshtein sulla squadra e il suo gruppo di fan estremisti de La Familia, che nel 2018 ha vinto un Emmy Award, racconta proprio quei giorni.

Nel 2016 dopo l’inchiesta dello Shin Bet – il servizio segreto interno di Israele che infiltrò diversi suoi uomini fra gli ultrà – 56 membri de La Familia vennero arrestati per reati che andavano dal sabotaggio al possesso di armi, al traffico di droga. I suoi affiliati sono spesso protagonisti il venerdì sera (inizio dello Shabbat e giorno sacro per gli arabi, ndr) di raid nel centro di Gerusalemme, dove provocano gli avventori arabi di bar e ristoranti, e minacciano i gestori di esercizi commerciali ebrei che impiegano personale arabo.

Hogeg ribadisce che “la religione, come nel passato, non è più un criterio per gli acquisti dei calciatori e non lascerà che una minoranza possa offuscare la reputazione del club”.

Dall’altroieri però sull’account de La Familia è comparsa questa dichiarazione. “Dopo richieste e verifiche sull’identità del giocatore Ali annunciamo che non c’è alcun problema dal momento che è un devoto cristiano. Ma abbiamo un problema con il suo nome, che non può essere pronunciato nel nostro stadio né può essere stampato”. Invito e minaccia son chiari: Ali Mohamed scelga un nickname, un soprannome, un alias, ciò che vuole. Perché nessun Mohamed potrà mai indossare la maglia del Beitar o la guerra del football può ricominciare.

Dove canta Arbore batte sempre il sole

Correva l’anno 1991. Dopo Quelli della notte, Indietro tutta e Il caso Sanremo l’Italia reclama a gran voce una nuova invenzione di Renzo Arbore in tv, perché Arbore è un inventore di stati d’animo prima che di format, dunque non ripete mai lo stesso successo. E Renzo che fa? A 54 anni, si inventa l’Orchestra Italiana. Chitarre, mandolini, fisarmoniche, tamburelli per dare consacrazione sinfonica a Maruzzella e Malafemmina, chiarire quali sono gli effetti e quale la causa. Nel “caso Arbore” tutto parte sempre dalla musica. Il talk come prosecuzione della jam session, non come premonizione del pollaio; i complici con cui improvvisare scovati dal nulla (ma quale talent show). Invece l’orchestra è una festa dal vivo, è teatro, è Napoli portatile. Può e deve fare a meno del video, fatta qualche eccezione a confermare la regola. L’eccezione si intitola L’arte d’‘o sole, da mercoledì sera in onda su Rai5. Nella stessa aula magna trasformata in ‘Aula a mare’ di Guarda, stupisci, coadiuvato da Maurizio Casagrande (un Frassica alla pummarola, lievitazione naturale), Renzo rievoca i 28 anni trascorsi in giro per il mondo con i classici del repertorio partenopeo, gli omaggi scanzonati a Renato Carosone, commossi a Roberto Murolo, Ray Charles che interpreta O’ sole mio al Madison Square Garden accompagnato dall’Orchestra Italiana. Niente male come eccezione. E la regola? La regola sono gli ascolti di cui Arbore è sempre capace: 2,1 di share, quattro volte la media di Rai5.

La disfatta non è della Calabria, ma dell’intero Paese

Due storie concatenate sulla Calabria e sul Paese. La prima: una spietata guerra si sta svolgendo sulla pelle dei cittadini calabresi. Il commissariamento del servizio sanitario (cioè di tutto ciò che muove soldi in Calabria insieme alle opere pubbliche) a tutto guarda tranne che alla salute dei calabresi. Nessuna idea sul potenziamento dei servizi di emergenza-urgenza e sull’efficientamento di quelli territoriali (ambulatori, medici di famiglia, laboratori, specialistica): nessuno – né il ministro, né i sottosegretari, né i commissari, non il presidente della Regione, neanche i sindaci – dice niente su come far rimanere in Calabria i soldi e i malati che sono consapevolmente, dolosamente espulsi, mandati a curarsi in altre regioni. Una vergogna che costa ai calabresi 300 milioni all’anno. È la questione gravissima del ceto politico e dirigenziale della regione. E qui comincia la seconda storia.

La rinascita di un popolo, quello calabrese, paradigma di un Paese in ginocchio, non passa attraverso la dichiarazione di incostituzionalità di un decreto di commissariamento che espropria le istituzioni delle loro legittime funzioni, ma attraverso la riqualificazione della propria classe dirigente, che ha perso ogni contatto con i cittadini e ha raggiunto ormai un tale livello di decozione politico-morale da renderla scollata dalla realtà.

Se il cittadino non sa cosa fare della scheda elettorale da cosa dipende? Lasciando da parte le superficiali disamine del giorno dopo, non possiamo non dire che dipende dalla legge elettorale che ha scientemente reciso ogni legame tra elettori ed eletti, creando il sistema dei nominati e consolidando un ceto politico autoreferenziale che risponde non ai cittadini ma ai capipartito.

La Corte costituzionale ha già dichiarato incostituzionale una prima legge elettorale (il Porcellum) invitando il Parlamento a farne un’altra che tenesse conto della necessità di rispettare la connessione tra l’espressione di voto e il sistema di elezione. Allora il Parlamento dei nominati ne ha fatta un’altra, peggiore, l’Italicum, abbinandola finanche a una sedicente riforma costituzionale fatta per annullare definitivamente le elezioni, la Corte costituzionale e il Senato. E qui oltre alla Consulta (con una nuova dichiarazione di incostituzionalità) sono intervenuti venti milioni di italiani che hanno sonoramente bocciato il referendum proposto dagli statisti Renzi e Boschi con la pletora di nominati al seguito. Dimostrazione plasticamente chiarissima che il Parlamento (dove la riforma aveva avuto una larga maggioranza) è lontano anni luce dal comune sentire del Paese. Ma gli occupanti hanno spudoratamente prodotto l’ennesima legge elettorale che premia e consolida lo schifo (non v’è altro modo per definirlo) delle nomine: il Rosatellum. Che sarà dichiarato incostituzionale anch’esso, rendendo chiara una surreale spirale di leggi incostituzionali fatte solo per inchiodare i nominati alle loro poltrone.

Insomma, il vecchio sistema proporzionale puro con le preferenze assicurava un contesto istituzionale stabile e controllabile dagli elettori. Questo attuale papocchio ci porta a tollerare, senza un plissé, che un organo istituzionale come un Consiglio regionale sia ridotto al silenzio e all’inutilità, sostituito da commissari nominati dal governo. Siamo nel ’19; le elezioni sono una farsa, le istituzioni mortificate, serpeggia un certo razzismo e si affermano gli uomini soli al comando: precisamente di quale secolo parliamo? Poi, riprendendoci dalla strana sensazione e rendendoci conto di essere nel Ventunesimo, pensiamo che, poiché il ventennio l’abbiamo già subito anche in questo secolo, adesso occorre una resistenza culturale e politica volta a respingere questo pericolosissimo attacco alla democrazia.

Alitalia, ultima Chiamata: delta o un piano B

Domani scade il termine per comporre il risiko delle alleanze, raccogliere un miliardo di euro e risollevare le sorti di Alitalia. L’esito più probabile è però un rinvio. La compagnia è strategica per la mobilità italiana a medio e corto raggio e per l’incoming turistico, ma ha anche un peso negli equilibri del mercato aereo intercontinentale e delle influenze geopolitiche. Lo dimostrano l’interesse americano di Delta e quello, malcelato, di Lufthansa e di Ryanair. Queste due compagnie attendono la messa in liquidazione di Alitalia e la vendita dei suoi asset: la prima, per estendere il dominio tedesco sui cieli europei verso il bacino del Mediterraneo (Alitalia affiancherebbe altre aerolinee del gruppo Lufthansa, già ristrutturate, come Austrian, Brussels Airlines, Swiss ed Eurowings) e per consolidare le rotte intercontinentali verso il Nord America; la seconda, per avventurarsi nel lungo raggio e stabilire una posizione di definitivo predominio nelle tratte italiane e regionali, da e verso l’Europa, in modo da imporre le proprie regole commerciali e determinare la fortuna o il declino di aeroporti e territori con la propria notevole forza di mercato, la corporate tax irlandese e comportamenti che ignorano il fair play.

L’attuale timidezza di Delta, accreditata di una partecipazione intorno al 15 per cento della futura Alitalia per stabilire una presenza nel mercato europeo, potrebbe dipendere dal peso che la politica avrà nella compagnia italiana anche dopo un’intesa con l’attuale governo gialloverde. Delta ha una flotta di oltre 800 aerei (Alitalia ne ha 118) con più di 80 mila dipendenti ed è finanziariamente solida, perciò sarebbe un ottimo candidato per acquisire il controllo del vettore italiano, avendo la forza per sostenerne il rilancio. Potrebbe sviluppare da subito economie di scala, preziose per ridurre i costi operativi, innanzitutto quello del carburante.

La dimensione degli azionisti industriali in Alitalia sarebbe la migliore garanzia per un rilancio espansivo della compagnia e per minimizzare eventuali esuberi. Pochi altri operatori, oltre a Delta, avrebbero forza e interesse strategico a concludere una simile acquisizione. La potente ma relativamente piccola Lufthansa, con la sua flotta di 357 aeromobili, avrebbe bisogno d’apportare interventi drastici su Alitalia per sostenere l’operazione.

Se Alitalia continuerà a operare, dovrà lavorare sull’offerta intercontinentale e su un nuovo modello di collegamenti a medio-corto raggio, migliore di quello delle low cost. Delta potrebbe contribuire a questo progetto anche mettendo a disposizione aeromobili della propria flotta, già ammortizzati, per strutturare in poco tempo un network di connessioni a corto e medio raggio, così da accelerare la ripresa di Alitalia. La sfida ai principali operatori europei si giocherebbe su un servizio di qualità a tariffe competitive, oltre che su un innovativo modello di trasporto, che coniugherebbe alta velocità ferroviaria e aereo sul territorio italiano.

Se Delta rimanesse disponibile ad acquisire solo un sesto della nuova Alitalia e mancasse all’appello ancora un socio al 40 percento, una public company privata, con primi azionisti i dipendenti di Alitalia e cinque milioni di piccolissimi investitori da 160 euro, potrebbe rivelarsi una soluzione inesplorata: una comunità d’investitori e di professionisti del volo con una sola voce, uniti da un veicolo societario non scalabile, guidato da manager indipendenti, competenti, onesti e capaci. Persone determinate a confutare le profezie che si autoadempiono sul destino di Alitalia insieme al resto del futuro consiglio d’amministrazione. Astenersi capitani coraggiosi e figli d’arte.

Salvini e lo sfregio del non sapere

La notizia dell’arresto dell’imprenditore equivicino tanto alla Lega quanto a Cosa Nostra viene battuta alle 7:36 di mercoledì mattina. Per quattro lunghe strazianti ore ci siamo chiesti: che s’inventerà, su chi sputerà, chi attaccherà oggi Salvini per uscire dal megaframe giudiziario che gli impalla i selfie? A metà mattina, dal tetto del Viminale evidentemente privo di balconi, offrendo le carni straziate ai famelici gabbiani allevati dalla Raggi Salvini ci ha fornito la risposta. “Scrivi che ti passa”: nella coda al trascurabile messaggio social alla Nazione, ecco il veleno per “il signor Andrea Camilleri”, uno che ha il grave torto di essere popolare senza dover ricorrere agli espedienti dei demagoghi.

Quella meno che volgarità, quella – come chiamarla? – puzzetta all’indirizzo di un intellettuale novantatreenne che poco prima si era permesso di esprimere la sua opinione – “Quando Salvini impugna il rosario mi fa vomitare” – partecipa del metodo liquidatorio solito, trito e ritrito, con cui Salvini finta la capacità di incassare dello sportivo (“bacioni”) negando di patire la ferita narcisistica. “Non pensavo che il rosario, parlare del cuore immacolato di Maria, di San Benedetto, di San Francesco, di San Pio da Pietralcina (ora pro nobis) potesse far vomitare o essere segno di volgarità”, ha finto di fraintendere il Cattivo dal cuore d’oro, che quando fa il finto tonto in un punto della matrice si può star sicuri che stia facendo il vero furbo in un altro.

Ora noi gli si vorrebbe spiegare che Camilleri ha detto che a far vomitare non è il rosario, né il mostrarlo, bensì il fatto che sia Salvini a mostrarlo, il che è ben diverso, a voler scendere giù nel significato sotteso; cioè che poiché impugnare un rosario è un gesto devozionale e non neutro, egli l’esercita abusivamente; insomma ci sono tanti livelli di lettura delle cose, di cui sicuramente il guru Morisi, laureato in filosofia-e-qualcheccosa, potrebbe avergli già illustrato sensi e controsensi. Ma quel che a Salvini preme è fare ogni giorno un’infrazione per attirare l’attenzione, come i bambini. La sua figura è un misto di regressivo (Pierino che fa i peti con le ascelle) e paternalistico (“Ho 60 milioni di figli”: oh, potenza spermatica dell’uomo che mangia cibo da camionista! Ci viene in mente a proposito che a noi che elencammo l’orgia social dei suoi pantagruelici pasti diede via Twitter il consiglio beffardo “Magna che ti passa”, ma noi non abbiamo mica il suo metabolismo da silfide, magari potessimo!)

Insomma: il copione è collaudato, benché incredibile: far passare lo scrittore da milioni di copie e centinaia di repliche della serie tv tratta dai suoi gialli come un “intellettualone” lontano dal mondo, che deve dedicarsi solo alla scrittura come Baglioni deve dedicarsi solo al canto, mentre il ministro dell’Interno può sindacare su cambi del Milan, scaletta, risultati e televoto di Sanremo. I menestrelli e gli scribacchini dell’Elisio che non prendono la metropolitana e non sanno che siamo invasi dagli africani sono indegni di ragionare di questioni politiche, perché distanti dal popolo che invece bacia le mani a lui e con cui lui ingaggia la performance incessante dei selfie (esiste cosa più virtuale? Più irreale? Più irrazionale e narcisistica? Manco Marina Abramovic passerebbe giorni, mesi, anni della sua vita a posare per strada ostentando finti sorrisoni affettuosi di presso agli sconosciuti), e allora basta una parola per ritrarli nelle loro torri d’avorio, caricature di signornò parrucconi refrattari al potere pop del sacro cuore di Maria, estasi prêt-à-porter per fidelizzare le casalinghe come Berlusconi faceva con le soap opera di Rete 4. Come il bullo che l’autorità relega all’ultimo posto e però la marmaglia elegge a capoclasse, Salvini si permette di dire al maestro quel che un normale gregario non si permetterebbe mai. Perché forse c’è ancora, presso “il popolo”, il rispetto per chi pensa e dunque sa, da parte di chi conserva il pudore e la coscienza di non sapere. Mentre Salvini dice a tutti noi, contando sulla certezza della statistica: non vergognatevi di non sapere niente, non fatevi scrupolo ad augurare la morte a Saviano, non abbiate timore reverenziale a comunicare il vostro disprezzo a Camilleri. Questi intellettuali senza nerbo non stanno dalla vostra parte: che scrivano, dunque (e sta tutto lì: che per Salvini la scrittura è un’attività inferiore al governare), e solo di fiction, per intrattenerci senza impegno. Siamo oltre, anzi al di qua del “culturame” di Scelba, al di qua pure dei “professoroni” di Renzi, che era già troppo. Salvini è (anzi, più che è: vuol essere) l’ignorante fiero di esserlo, uno che abita e esercita l’orgoglio e lo sfregio del non sapere, che è già mezzo potere.

Mail box

 

Migranti morti in mare, vergogna senza confini

Le immagini di un gommone riprese da un aereo della Ong tedesca Sea-Watch ci mostrano dall’alto solo un puntino in mezzo al mare blu. Un puntino che dopo alcuni istanti sparisce nel mare. Sparisce per sempre. Era un uomo? Una donna? Morto affogato. Aveva un nome. Una storia, come ce l’abbiamo tutti. Una meta. Forse un sogno. Aveva il suo posto nel mondo e magari quel posto lo voleva cambiare. Non ne rimarranno tracce. Il mare non le lascia. Il mare che è divenuto un immenso contenitore di vite perdute. Vite qualunque, dimenticate dalle nostre coscienze. E ogni giorno è uguale all’altro nella sua indifferenza. Eppure quel puntino in mezzo al mare siamo anche noi. Un piccolo puntino in mezzo al mare blu che sparisce, mentre la nostra vergogna non ha più confini.

Angelo Briscioli

 

Hong Kong: il progresso cinese costa la perdita di libertà

Chi mai vorrebbe essere estradato a Pechino per le sue idee politiche? Le proteste a Hong Kong contro la nuova legge sull’estradizione sono un problema scottante, che riguarda tutti. La Cina si propone al mondo come esempio di progresso del XXI secolo, in maniera acritica e senza alcuna discussione di sorta. Davvero vogliamo aderire a un modello sociale e politico in grado di eliminare ogni tipo di libertà?

È questo che vogliamo, in cambio del 5G e della Nuova Via della Seta? Forse, guardando le manifestazioni a Hong Kong, possiamo aprire gli occhi.

Il mondo non può essere governato esclusivamente con l’uso della forza, e le nazioni non possono regolare le loro controversie esibendo i missili nucleari. Serve un ordine democratico che coinvolga le popolazioni.

Aver confuso la crescita economica con il benessere dei cittadini è stato un errore gravissimo, non deve più accadere. E se la Cina promette una vita migliore mostrandoci un futuro meraviglioso, pretendendo in cambio il nostro silenzio sui crimini commessi dalla politica repressiva del regime, noi dobbiamo rifiutare.

Cristiano Martorella

 

Per Matteo sono tutti presunti innocenti. Anche i colpevoli

Questa mattina, alla radio, ho ascoltato un’intervista in cui Salvini, commentando l’arresto di Arata, diceva che siamo tutti, fino a prova contraria, “presunti innocenti”.

Con tutte le evidenze e i riscontri che ci sono, se il vicepremier vuole continuare a far finta di niente, trincerandosi dietro a slogan, arriverà un giorno in cui il popolo, che gli tributa i trionfi odierni, aprirà gli occhi e gli indirizzerà solo sonore e meritate pernacchie. Se però si volesse perseguire la strada indicata da Salvini, suggerisco una scorciatoia: eliminare il reato di associazione per delinquere. Così politici, magistrati, giornalisti, imprenditori, funzionari pubblici e tutti gli altri interessati potrebbero accordarsi per compiere ogni sorta di reati perchè tanto “siamo tutti presunti innocenti”!

Paolo Benassi

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile Redazione, in merito all’articolo pubblicato giovedì 13 giugno dal titolo “Rifiuti, biometano & C: la Lega fa leggi per le aziende amiche”, a firma Marco Palombi, ritengo che fosse doveroso da parte vostra sottolineare come l’esclusione del “mini-idroelettrico” dagli incentivi del Decreto FER stia causando la forte preoccupazione di un intero comparto, quello dell’idroelettrico appunto, che riunisce in Assoidroelettrica circa 400 associati. Una preoccupazione manifestata in modo trasparente dall’associazione in un documento inviato al Mise e al Minambiente e condivisa anche da Anbi, FederBim, Finco che rappresenta 8.500 imprese, Sev e altre 192 aziende e 80 consorzi. Il rischio concreto dell’esclusione dagli incentivi è quello di determinare il declino di una delle due principali fonti energetiche rinnovabili del nostro Paese, di un importante settore economico, di una filiera totalmente italiana, di uno strumento di sostegno dell’economia montana e, non da ultimo, di uno strumento di tutela idrogeologica (…) Per queste ragioni l’impegno della Lega e la mia partecipazione ai tavoli di confronto con le associazioni del settore – che pare implicitamente mi si contesti – è quindi quello di tutelare un comparto, non un’azienda, e quanti vi sono impiegati, favorendo l’ascolto e la ragionevole interlocuzione (…) Questo è quanto. L’ascolto e la disponibilità al dialogo coi cittadini, le imprese e le associazioni contraddistingue da sempre il mio impegno politico ed è il modo con cui intendo condurre con la massima trasparenza questa attività in futuro. Ogni altra considerazione o artificioso accostamento del mio nome ad altri modi di operare è del tutto privo di fondamento.

Senatore Paolo Arrigoni

Gentile senatore, l’articolo racconta, in un breve passaggio, anche lo scontro in atto tra Lega e ministero dell’Ambiente sugli incentivi al mini-idroelettrico (solo il mini, così evitiamo di mischiare le pere delle grandi derivazioni con le mele delle minidighe) e racconta che lei – come si evince dalla sua lettera – da responsabile energia del partito ha adottato sul tema la prospettiva delle imprese. Più in generale l’articolo sostiene che – anche al di là dei casi patologici (Arata, per capirci) – questa è la politica “ufficiale” della Lega in materia ambientale, scelta legittima quanto è legittimo criticarla.

Ma. Pa.

Da Pennacchi a Scurati, Mussolini val bene un Premio Strega

Gentile redazione, da appassionata lettrice ho seguito lo spoglio delle schede per la cinquina del Premio Strega. Come sempre accade, da mesi si parla di un libro che sarebbe “favorito”: M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati. Sicuramente le campagne di stampa e le ospitate in tv contribuiscono al successo dei volumi, ma mi chiedo e vi chiedo: sembra che in questo Paese, ancora una volta, a farla da padrone sia Mussolini, come se nei periodi di crisi questa figura ingombrante torni a farci compagnia. È così? E poi, un’altra considerazione (e un’altra domanda): visto che tre dei cinque finalisti appartengono a un grande gruppo editoriale (Mondadori), non si è riusciti a sconfiggere il potere del “marchio” neanche cambiando le regole del Premio?

Gentile Ornella, sicuramente il romanzo di Antonio Scurati ha beneficiato, oltreché del battage pubblicitario, del risorto dibattito su fascismo e antifascismo: dal “fascistometro” di Michela Murgia ai numerosi titoli di saggistica sul ventennio (come quelli, notevoli, di Francesco Filippi ed Emilio Gentile); senza dimenticare la pelosa querelle del Salone del Libro di Torino, che ha escluso l’editore amico di CasaPound. “M. Il figlio del secolo” ha, insomma, dimostrato di avere il polso del tempo e infatti, dall’autunno scorso, ha già venduto 160 mila copie, quattro volte più di “Fedeltà”, il libro del favorito dell’altroieri Marco Missiroli. Probabilmente Mussolini e soci tengono “compagnia”, come scrive lei, “nei periodi di crisi”, epperò l’Italia pare essere perennemente in crisi: anche nel non lontano 2010, lo Strega andò a un altro Antonio – Pennacchi – sempre per un titolo sul duce, “Canale Mussolini”. Quasi un evergreen, un passepartout di idee in mancanza di amiche geniali, una camicia nera che si porta su tutto, e pure sfina. Quanto allo strapotere di Mondadori – presente in cinquina con ben tre opere (“Il rumore del mondo” di Benedetta Cibrario più, con Einaudi, “Addio fantasmi” di Nadia Terranova e il succitato “Fedeltà”) –, è notizia vecchia: da sempre i grandi gruppi condizionano il premio più importante del Paese, e sempre lo condizioneranno; persino la Bompiani che edita Scurati ora fa squadra con Giunti, così come la “piccola” Guanda, che ha vinto l’anno scorso grazie a Helena Janeczek, è in capo a Gems. È destino dei grandi (editori) accaparrarsi i grandi (autori): è fisiologico, soprattutto in un mercato parcellizzato e inflazionato come il nostro.

Il premio Ferrari “Copertina dell’anno” a FQ MillenniuM

FQ MillenniuM il mensile del Fatto diretto da Peter Gomez, ha vinto il Premio Ferrari per la copertina dell’anno. Il riconoscimento – che consiste in mille bottiglie dello spumante brut prodotto dalla casa trentina – è stato consegnato al direttore nella serata di mercoledì 12 giugno, organizzata alla Triennale di Milano. Sul palco, anche l’art director del mensile Piepaolo Balani, autore della cover che ha vinto il premio: quella del numero di settembre 2018, dedicata a povertà e lavoro sotto il titolo “Come non diventare un nuovo schiavo”. “Due mani che stringono le sbarre dalle quali filtra una scritta ‘Come non diventare un nuovo schiavo’ e dati crudeli come gli stipendi sempre più bassi, una disoccupazione oltre il 10% e diritti negati”, recita la motivazione del premio. “Millennium ha ritratto l’Italia con una copertina di forte impatto che, volutamente fredda, è la denuncia della spersonalizzazione del lavoro e dell’indifferenza per la persona, prigioniera del codice a barre”. La giuria, composta da noti giornalisti, da Giulio Anselmi a Isabell Bossi Fedrigotti, da Ferruccio de Bortoli a Monica Maggioni, da Roberto Saviano a Sarah Varetto, ha selezionato la copertina vincitrice fra cinque nomination finali.

“La carica dei 104” falsi invalidi si salva grazie alla prescrizione

Era settembre 2014, quando ad Agrigento scoppiò il caso dei falsi invalidi, la cosiddetta “Carica delle 104”: medici, operatori del 118, insegnanti incastrati da telecamere mentre inscenavano disabilità e sottoscrivevano falsi certificati per ottenere i benefici della legge 104 sulle agevolazioni per disabili o persone con portatori di handicap a carico. Cinque anni dopo quel blitz, costato anni e anni di indagini, tutto rischia di essere vanificato: il processo non è mai partito e incombe la prescrizione. Eccetto i dieci imputati che hanno scelto la via del rito abbreviato (nove condanne e una assoluzione) gli altri 48, rinviati a giudizio nel marzo del 2018, rimarranno impuniti sicuramente a causa di un processo che non riesce a partire. Come accaduto già in diversi in dibattimenti al tribunale di Agrigento, ad esempio nel caso del “Villaggio dei vip” di Realmonte, le villette costruite a pochi passi della Scala dei turchi, errori grossolani faranno cadere in prescrizione le posizioni degli imputati. Nel caso dei falsi invalidi a bloccare tutto dopo un anno è l’assegnazione automatica del processo al presidente della prima sezione penale Alfonso Malato, incompatibile in quanto si era occupato del caso già in qualità di giudice per le indagini preliminari. Prima ancora, a ritardare l’avvio diversi rinvii per difetto di notifica, poi ancora tempo per trovare un collegio di giudici idoneo, rintracciato solo dopo 15 mesi. Il nuovo rinvio per l’inizio del processo è fissato per il 26 giugno, quando alcuni reati contestati avranno già superato addirittura i dieci anni dal periodo delle investigazioni. Altre posizioni andranno in prescrizione entro l’anno, quando sicuramente il processo non sarà terminato, o addirittura non avrà ancora avuto luogo.

L’Asl ferma le ambulanze del corteo per “Mister Fritture”. Intanto Alfieri vara la giunta

E ora le ambulanzeche hanno festeggiato la vittoria di Franco Alfieri a Capaccio Paestum si fermeranno ai box. Ieri l’Asl di Salerno ha sospeso le convenzioni per l’affidamento del servizio trasporto infermi nel Cilento alla onlus protagonista del carosello, la ‘Croce Azzurra’. La decisione segue di un giorno le ispezioni dei carabinieri di Agropoli e del Nas di Salerno che hanno contestato irregolarità varie, acquisendo documentazione e segnalando anomalie. Mentre un inquirente dietro garanzia di anonimato commenta così al Fatto: “Raramente si è vista una sfida allo Stato a un livello così alto come quella lanciata da certi ambienti a Capaccio Paestum”. Fa riferimento agli ambienti che hanno sostenuto il candidato sindaco Pd, Alfieri, e che nella notte di domenica hanno organizzato la scorribanda di cinque ambulanze a sirene spiegate per esultare al successo del braccio destro del governatore Pd, Vincenzo De Luca. L’uomo che rese celebre Alfieri per la metafora delle “clientele scientifiche” a base di “fritture di pesce”. Ieri De Luca ha preso le distanze dal corteo, senza infierire: “Cafoneria, piccoli episodi di imbecillità che vanno trattati così”.

Il giorno dopo il carosello, il dominus della ‘Croce Azzurra’, Roberto Squecco, condannato con sentenza definitiva per reati di camorra, e coindagato con Alfieri in un’indagine del pm Dda di Salerno Vincenzo Montemurro sul ‘sistema Cilento’ che spazia dal voto di scambio politico-mafioso ad alcuni appalti sospetti, si è fatto intervistare dall’emittente locale Stile Tv per minimizzare l’accaduto: “Un gesto goliardico, chiedo scusa”. Una “goliardia” che il presidente della commissione antimafia Nicola Morra al Fatto ha rietichettato così: “Un messaggio in codice mafioso”. In una lista di Alfieri si era candidata la ex moglie di Squecco, Stefania Nobili. Prima eletta con 348 preferenze. Ieri il sindaco Alfieri ha varato la giunta, ma tra i cinque assessori lei non c’era.