Quanto è operoso Renato Brunetta. Il ministro della Pubblica amministrazione mette in mostra la propria laboriosa attività anche sui social e su Twitter ieri mattina posta questa frase: “In ufficio da stamattina presto. Ora in videocollegamento con il partito per discutere delle nostre proposte per fronteggiare il caro bollette e l’aumento dei costi dell’energia e delle materie prime”. La foto lo vede in maniche di camicia, seduto alla sua scrivania, le bandiere italiana ed europea sullo sfondo, un manuale in evidenza. Insomma, l’indefesso servitore dello Stato che non ha tempo da perdere e che si muove per il bene della Patria. Salvo per due particolari. L’annuncio è di un’attività in “videocollegamento”, quindi a distanza, modalità telelavoro come molti commenti sotto il suo post non mancano di evidenziare. Quindi anche Brunetta utilizza un po’ di smartworking. Ma per fare cosa? Una riunione “con il partito”, quindi un’attività privata che non c’entra nulla con l’attività ministeriale, praticamente un abuso della funzione pubblica. Lo faranno tutti, certo, ma solo Brunetta, che è il più operoso, la rende nota sui social.
Fisco: mentre Draghi mentiva, campagna social contro il Fatto
Dopo che l’Ufficio parlamentare di bilancio ha reso evidente l’iniquità della riforma fiscale è utile ripercorrere la cagnara social organizzata contro il nostro giornale. “Sdeng” è stato l’hastag utilizzato, per lo più veicolato dal mondo renziano, per stigmatizzare la domanda posta a Draghi dal collega Manolo Lanaro del fattoquotidiano.it. L’esperto di “tecnologia e cultura digitale” Massimo Mantellini ha definito quel botta e risposta “la cifra del Fatto in 10 secondi”. E anche ieri, ammettendo l’errore, ha dovuto esibire la sua “sorpresa”. L’economista Riccardo Puglisi, liberale e Draghi-consigliere, ritwitta lo “sdeng” sopra citato mentre il docente del Politecnico di Milano, Alfonso Fuggetta, sottolinea “la potenza del non è vero” pronunciato da Draghi. Il renziano Luigi Marattin rilancia con impeto la risposta di Draghi, appoggiato da ultra-liberisti come Carlo Stagnaro, ma poi deve fare una retromarcia imbarazzante mentre la pagina Fb Renzi news spara contro le “bufale” del Fatto. Il tutto condito da “meme” contro Lanaro. Che ha avuto il torto (ovviamente il merito) di fare l’unica domanda giusta in una conferenza stampa fatta da giornalisti in piedi ad applaudire il premier.
Sui servizi segreti, i colpi di mano sono solo quelli del governo Conte
Come cambiano i tempi. Nell’autunno 2020, una modifica inserita dal governo Conte II nel decreto d’agosto che prorogava l’emergenza mandò su tutte le furie una parte dei 5Stelle, il Pd e l’opposizione. Riguardava la durata degli incarichi ai vertici dell’Intelligence (Aise, Aisi e Dis) specificando che potevano essere rinnovati di altri 4 anni con provvedimenti successivi. La mossa serviva a rinnovare il capo dell’Aisi Mario Parente e Palazzo Chigi fu accusato di un colpo di mano anche per le modalità scelte.
Ora anche il governo Draghi sceglie un decreto last minute, il Milleproroghe, per intervenire sulla stessa materia. Nella bozza è inserito un comma che, confermando il limite di 8 anni per i mandati interviene permettendo più proroghe temporanee senza soluzioni di continuità dei vertici. La mossa serve sempre per prorogare Parente, che scade a maggio 2022 ed evitare a un governo elettorale di dover fare una nomina rilevante. Solo che stavolta nessuno grida al colpo di mano. E pensare che la stessa norma concede un altro anno ai vertici di polizia e forze armate, compreso il Comandante della Guardia di Finanza Giuseppe Zafaran, che scadrebbe anche lui a maggio prossimo.
Caro Arlacchi, il “Referendum cannabis” danneggerà le mafie
Caro direttore, Pino Arlacchi insiste con la sua campagna contro la legalizzazione della cannabis e il referendum che in meno di una settimana ha raccolto le firme necessarie per essere consegnato in Cassazione. Liberissimo. Meno libero però di diffamare. Prima di entrare nel merito di quanto previsto dal testo, in quanto presidente del Comitato promotore respingo al mittente le accuse di ispirazione mafiosa del quesito e il paragone con il “papello” di Totò Riina.
Lungi dal controllare, o contenere, il fenomeno delle droghe, il Testo Unico sulle droghe del 1990 ha concorso a far entrare nel circuito penale centinaia di migliaia di persone che, nella stragrande maggioranza dei casi, non hanno fatto altro che coltivare o usare sostanze incluse arbitrariamente (cioè senza alcuna evidenza scientifica) nelle tabelle delle Convenzioni delle Nazioni unite.
L’inasprimento di pene imposto dalla legge “Fini-Giovanardi” del 2006 ha messo fuori legge le nostre carceri facendo diventare l’Italia osservata speciale della Corte europea sui diritti umani perché responsabile di “trattamenti inumani e degradanti”. Nel momento in cui si denuncia la mancanza di rispetto delle Convenzioni Onu non mi pare cosa da poco dimenticare il mancato rispetto degli obblighi internazionali in materia di diritti umani.
Il referendum cannabis vuole togliere le pene per le coltivazioni di piante, anche medicinali, mantenendo sanzionabile “produzione” e “fabbricazione” di sostanze con principi attivi e tutte le altre condotte previste dall’articolo 73 della legge ex-Iervolino Vassalli. Posto che nessuno è mai riuscito a coltivare la foglia di coca al di fuori della regione andino amazzonica, la depenalizzazione di colture potenzialmente “stupefacenti” non è pensata per dare il via libera a coltivazioni di massa, ma per andare incontro a scelte “non-violente” individuali di decine di migliaia di persone consentendo il controllo sulla qualità di quanto coltivato e consumato.
Se si ha notizia di distruzione di campi di cannabis in Italia, altrettanto non risulta relativamente a campi di papaver somniferum (la pianta per produrre l’oppio); eppure, contrariamente a quanto sostenuto da Arlacchi altrove, le mafie resistono. E il traffico illecito di cannabis vale il 40 per cento del mercato nero delle droghe, possibile che i narcotrafficanti aspettassero qualche utile idiota antiproibizionista per far il salto di qualità?
Il secondo ritaglio riguarda le sostanze contenute nelle tabelle II e IV della legge, quelle che in gergo riguardano le “droghe leggere”. L’esperienza di chi ha legalizzato ci dice che non solo il fenomeno si contiene e migliora la qualità, ma senza lo stigma criminale diminuiscono le preoccupazioni socio-sanitarie se il consumo diventa problematico. La cancellazione di queste sanzioni penali va letta in relazione alla normativa che comunque manterrebbe sanzioni per condotte più gravi, non riconducibili a scelte personali o quantità minime.
Screditare l’avversario con gravissime insinuazioni è una tecnica che usa chi non ha argomenti.
Secondo Arlacchi la droga doveva esser estirpata dalla faccia della terra entro il 2008. Dopo tutti questi anni, da un ex senatore, ex alto funzionario dell’Onu, ex eurodeputato i cui proclami non hanno portato da nessuna parte ci si sarebbe aspettati di più. O forse no.
B. e il conflitto che può scoppiare al Quirinale
Fra le tante buone ragioni – politiche, giudiziarie e morali – che vengono enumerate da più parti contro l’inquietante autocandidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale, sorprende che abbia trovato poco spazio finora quella che precede e sovrasta tutte le altre: e cioè il conflitto d’interessi in capo a Sua Emittenza.
Evidentemente, siamo tanto assuefatti a questa mostruosità, anestetizzati e narcotizzati dalla droga televisiva, che ormai ci siamo rassegnati o non ci facciamo più caso come se fosse un “male incurabile”. Eppure, il conflitto fra gli interessi pubblici e privati del tycoon di Segrate, da una parte politici e dall’altra aziendali e familiari, pesa come un’ipoteca sulla sua aspirazione alla presidenza della Repubblica. Un macigno sulla strada per il Colle.
Sta di fatto che, a prescindere dalle vicende che in forza della legge Severino avevano privato Berlusconi dei diritti politici con la successiva riabilitazione dopo tre anni di condanna ai servizi sociali, il conflitto d’interessi resta tuttora intatto. Ed è, come abbiamo sempre sostenuto, un conflitto insanabile perché riguarda il suo status di concessionario pubblico, titolare di un contratto con lo Stato per la gestione delle frequenze televisive. Qui non c’è trust o blind trust che tenga. In realtà, il leader di Forza Italia era e rimane ineleggibile. Anzi, per essere più precisi, bisognerebbe dire incandidabile.
La materia è regolata da una legge del 1953 sulle incompatibilità dei parlamentari che vieta a deputati e senatori di “ricoprire cariche in associazioni o enti che gestiscano servizi di qualunque genere per conto dello Stato o della pubblica Amministrazione”. E questo è, appunto, il caso di Mediaset. Tanto più che anche il Testo unico degli Enti locali, aggiornato al settembre 2019, prevede simili incompatibilità per gli amministratori comunali: per citare solo un esempio, un consigliere è finito sotto accusa perché la moglie gestisce all’interno di un parco pubblico un chiosco per il quale la società versa al Municipio un canone annuo, con l’onere della manutenzione ordinaria e straordinaria di una piazza antistante destinata a parco giochi.
Per analogia, se il principio riguarda i parlamentari e gli amministratori locali, a maggior ragione si deve applicare al presidente della Repubblica e al Quirinale, dove solitamente non si svolgono attività ludiche. E in realtà, non c’è Paese democratico in cui il capo del governo o dello Stato controlli direttamente o indirettamente la quasi totalità delle tv nazionali.
Nel 1994 fu la Giunta per le elezioni della Camera dei deputati, a maggioranza di centrodestra, a decretare che formalmente non era Berlusconi il titolare effettivo della concessione, bensì il legale rappresentante della società Reti televisive italiane, di proprietà della stessa Mediaset, licenziataria delle concessioni televisive: presidente l’avvocato Aldo Bonomo; amministratore delegato Adriano Galliani, lo stesso del Milan. Ma si trattò evidentemente di un escamotage, di una scappatoia, per aggirare ed eludere la sostanza della legge. Ora, per di più, il presidente di Rti è il figlio Pier Silvio che è anche vicepresidente di Mediaset, di cui a sua volta è presidente il fedelissimo Fedele Confalonieri.
A chi appartieneoggi Mediaset? Nel prospetto di Mediobanca sulle società quotate in Borsa, si legge che tra gli “azionisti diretti” c’è Fininvest, la finanziaria di famiglia, con a fianco il nome di Silvio Berlusconi come “dichiarante ovvero soggetto posto al vertice della catena partecipativa” con il 49,175 per cento. Un altro “pacchetto” del 3,795 per cento, giusto per fare maggioranza, è detenuto dalla stessa Mediaset SpA: totale 52,97 per cento. “What else?”, come chiede George Clooney nello spot del famoso caffè, tanto per restare in argomento.
È stato lo stesso Berlusconi, del resto, a darsi – per così dire – la zappa sui piedi, quando nelle settimane scorse Mediaset ha improvvisamente sospeso due talk show accusati di sostenere i no-vax. Ovviamente, non c’è la prova certa che sia stato lui in persona a impartire quest’ordine. Ma i retroscena riferiscono di un’irritazione di Sua Emittenza per una campagna che avrebbe potuto danneggiarlo nella scalata alla presidenza della Repubblica. E il Quirinale val bene una messa.
Colle, famolo strano. Le norme della Carta non sono “consigli”
Urge un breviario minimo per i commentatori quirinalizi che negli ultimi giorni, complice la variante Omicron, danno evidenti segni di disorientamento: su giornali e tv stanno dicendo e scrivendo di tutto con la disinvoltura dell’emergenza. Ogni scorciatoia è consentita, fuorché quello che è scritto nella Costituzione. Potremmo sorriderne, solo che a forza di FantaQuirinale si rischia di fare danni permanenti alla democrazia.
Due giorni fa Repubblica ha interpellato il professor Gaetano Azzariti per capire come la variante Omicron possa influire sul voto. Per esempio, dato che ci saranno i positivi e i contatti di positivi, perché non si riducono i numeri dei quorum previsti? Il professore prova a spiegare che no, proprio non si può: “La Costituzione espressamente prevede all’articolo 64 che le deliberazioni del Parlamento siano adottate ‘a maggioranza dei presenti’, ma aggiunge ‘salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale’ com’è richiesto, nel nostro caso, dall’articolo 83”. Ma insomma, obietta l’intervistatrice, “quando è stata scritta la Carta nessuno immaginava una pandemia come questa…” Che sarà mai un’aggiustatina ai numeri? “Guardi che c’è un valore costituzionale di fondo che non può venir meno in nessun caso. Deve essere eletto il rappresentante ‘dell’unità nazionale’. Dunque una persona che deve quantomeno essere espressione della maggioranza assoluta di tutti i nostri rappresentanti, del Parlamento nonché delle Regioni”. E via così finché Azzariti, armato di Costituzione e buon senso, ricorda che semmai sono le forze politiche a dover trovare al più presto un accordo.
Stesso giorno, sulla Stampa, nell’analisi della possibile candidatura di Giuliano Amato, si sostiene che chi ha parlato con il dottor Sottile “giura che nelle sue intenzioni non ci sia quella di portare a termine il mandato”. Speriamo di no, perché è un’affermazione quasi eversiva per un giudice costituzionale: la stabilità delle istituzioni dipende anche dalla precostituzione dei tempi. E come mai? “Ha 83 anni, potrebbe decidere di andar via in anticipo (favorendo proprio un passaggio del testimone con Draghi). Ma non prima che il Paese venga messo al sicuro sia dal punto di vista della pandemia che da quello dei mercati, con la rinegoziazione – l’anno prossimo – del Patto di Stabilità”. E chi decide quando il Paese è al sicuro? I mercati? Il Cts? L’oroscopo? Sono solo due esempi tra mille, ma val la pena ricordare che se ieri si accusava Giuseppe Conte di violare la Costituzione con il ricorso ai Dpcm, oggi il combinato disposto di pandemia e aspirazioni del nonno d’Italia induce il sistema dei media trasformare la più importante elezione del Paese in una seduta dell’assemblea di condominio (in cui tra un po’ andrà bene anche la delega alla signora Pina). Basta che Mario Draghi sia contento, sennò “governo militare” come incautamente è stato scritto qualche mese fa.
Detto ciò, noi speriamo che che se alle prime tre votazioni non si troverà una maggioranza qualificata tra i grandi elettori, dalla quarta e in fretta si arrivi a quella assoluta possibilmente su un nome che non sia quello del bisnonno di Arcore. E soprattutto: proviamo a farlo senza acrobazie che getterebbero una sinistra luce di legittimità sulla presidenza della Repubblica e senza costringere Sergio Mattarella a restare, adducendo scuse ridicole (il parlamento è rimasto aperto anche durante il lockdown). L’inutile rielezione di Giorgio Napolitano ha fatto danni a lungo termine: li vediamo bene adesso che tutto sembra possibile, fuorché la strada maestra. La prossima boutade sarà abolire le elezioni in nome della post-democrazia. Anzi in realtà è già stato scritto anche questo…
Boom di gatti elettronici, troppi tacos al caviale e l’attesa roulette russa
E ora, per la rubrica “Ultime notizie”, le ultime notizie.
Politica. Votare il prossimo presidente della Repubblica usando slot-machine con le foto dei papabili: perplessità sulla nuova idea di Renzi.
Politica. Ricconi, frodatori fiscali, puttanieri e mafiosi sperano in Berlusconi presidente.
Politica. Cossiga finalmente informato della sua elezione a presidente nel 1985, la notizia gli fu tenuta nascosta per motivi di salute.
Politica. Inarrestabile il cupio dissolvi di Veltroni: intervista la Gialappa’s sul Corriere.
Politica. Il Parlamento converte in legge un decreto Draghi un attimo prima che Draghi lo presenti, sconvolta la legge fisica sulla velocità della luce.
Giustizia. Il Csm a Davigo: “Muori”.
Chiesa. Successo tv del messaggio natalizio di papa Francesco: 2 miliardi di telespettatori. La svolta della benedizione finale: “Ognuno per sé, Dio per tutti”.
Covid. La Cei annulla la marcia della pace di fine anno. “Tanto non serviva a niente”.
Tecnologia. Gatto elettronico il regalo più venduto a Natale. Si fa i fatti suoi, come un gatto vero.
Chiesa. Commovente scambio di doni natalizi fra i due papi. Ratzinger regala a Francesco una t-shirt rossa con il ritratto di Che Guevara, Francesco regala a Ratzinger una rara prima edizione del Mein Kampf.
Politica estera. Drone Usa abbatte Babbo Natale e renne in volo su Kabul.
Emergenza sanitaria. Cresce la denutrizione in Africa, epidemia di gotta alla Fao. “Troppi tacos al caviale”, denuncia un whistleblower.
Meteo. Temperature estive: è l’inverno più anomalo dallo scorso inverno. Aspetto positivo: più modelle in bikini su TikTok.
Tecnologia. Zuckerberg preoccupato per l’insuccesso del suo Metaverso: “La gente è troppo distratta da lavoro, famiglia, libri, sopravvivenza”.
Meteo. Uragano cancella conferenza mondiale sull’emergenza climatica.
Intrattenimento. Rimandata causa Covid la riapertura del Casinò di Campione, resta grande l’attesa per la novità annunciata: la roulette russa.
Buone notizie. Migliorano le condizioni di salute della regina Elisabetta, a Natale si era fratturata un femore facendo snowboard a Saint Moritz.
Cultura. Boom di turisti al Colosseo, funziona la trovata di aprirlo di notte e rimetterci cristiani e leoni.
Alla fine pure Super Mario si è “disunito”
Si potrebbe dire a Mario Draghi “non ti disunire” – la battuta dell’ultimo film di Paolo Sorrentino che domina la conversazione pubblica – se Mario Draghi non avesse già cominciato a disunirsi, a partire dalla conferenza stampa del “nonno”. Espressione che ha focalizzato l’attenzione mediatica per le implicazioni sul Quirinale (il nonno disposto a servire la più alta istituzione della Repubblica ma pronto a tornare a fare solamente il nonno, eccetera) distogliendoci da quel certo distacco, quasi esistenziale, che promanava dalle risposte del premier. Da quel suo insistere sull’azione di governo, a suo avviso felicemente avviata e che dunque d’ora in avanti potrebbe serenamente fare a meno di lui, si coglievano le comprensibili ambizioni per il raggiungimento della vetta. Ma forse pure tedio e logorio per l’esercizio di una funzione divenuta ripetitiva, o vissuta come tale. Mettetevi nei panni di un signore che da presidente della Bce, entità quasi fisicamente irraggiungibile, muoveva le leve dell’economia europea, e anche globale, da un anno costretto a sorbirsi le molestie di un Salvini o i piagnistei di un Bonomi. Detto che non glielo ha ordinato il medico di fare il presidente del Consiglio un certo disunirsi progressivo, e preoccupante, del governo lo si nota nella comunicazione vieppiù confusa e contraddittoria su quarantene, green pass e tamponi che imperversa in questa fine del 2021 nel segno di Omicron. Senza contare la legge di bilancio, entrata festosamente in Parlamento come la prima dell’era Pnrr e uscita raffazzonata come sempre. Perché se gli italiani eternamente in fila avrebbero tutto il diritto di cominciare a stufarsi, chi si è assunto la responsabilità di guidare il paese tra i marosi ha il dovere di tenere ben saldo il timone. Ragion per cui il nome di chi ci governerà in futuro da palazzo Chigi, e con quale energia politica e personale lo farà, è molto più determinante del nome che salirà al Colle. Non ti disunire, ovvero non dimenticare il tuo ruolo, il tuo compito, dice il regista Capuano a Fabietto che non sa bene cosa fare del suo futuro. È stata la mano di Dio, il film. È stata la mano di Draghi, la politica (che in fondo, per alcuni, sono la stessa cosa).
Le Camere del bunga-bunga e di Ruby nipote di Mubarak
2011, 13 gennaio. La Corte costituzionale dichiara incostituzionale gran parte della legge Alfano sul legittimo impedimento per il premier e i ministri, là dove prevede la sospensione automatica e insindacabile dei processi di sei mesi in sei mesi: spetta invece al giudice valutare gli impedimenti caso per caso. Per la parte superstite, in giugno si terrà il referendum abrogativo indetto da Antonio Di Pietro. I processi a Berlusconi sui casi Mills, Mediaset e Mediatrade ripartono.
14 gennaio. La Procura di Milano, che ha atteso il verdetto della Corte per non turbarne la serenità, invia al premier Berlusconi un invito a comparire per concussione e induzione alla prostituzione minorile. È lo “scandalo Ruby”, anticipato dal Fatto a dicembre. Al centro di tutto c’è la giovane immigrata Karima El Mahroug, detta “Ruby Rubacuori”, nata in Marocco l’11 novembre 1992, che risulta aver partecipato a numerosi festini nella villa di Arcore con decine di altre ragazze, molte delle quali escort professioniste. Indagati anche (per sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione) i tre procacciatori di donne assoldati dal premier: il direttore del Tg4 Emilio Fede, l’agente delle star Lele Mora e la consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti. Berlusconi è accusato di avere fatto sesso a pagamento con la minorenne (reato punito più gravemente dalle leggi Prestigiacomo e Carfagna varate dal suo governo); e di avere concusso il capo di gabinetto della Questura di Milano, Pietro Ostuni, telefonandogli ben sette volte nella notte del 27 maggio 2010 da un vertice internazionale a Parigi, per indurlo a rilasciare la diciassettenne Ruby (fermata dalla Polizia per furto), paventando una crisi diplomatica con l’Egitto in quanto la giovane marocchina era “la nipote di Mubarak”. Così la Questura la affidò nelle mani della Minetti, che poi la riportò dall’amica prostituta Michelle Conceicao, contro le disposizioni del pm minorile che chiedeva di trattenerla in attesa di trovarle un posto in una comunità per minori immigrati. I pm Ilda Boccassini, Pietro Forno e Antonio Sangermano intendono chiedere il processo con rito immediato per il premier e lo convocano per interrogarlo.
17 gennaio. La Procura di Milano chiede alla Camera l’autorizzazione a perquisire l’ufficio milanese del ragionier Giuseppe Spinelli, il contabile del Cavaliere che stipendia per lui decine di squillo (dette “olgettine” perché alloggiate in uno stabile in via dell’Olgettina a Milano): l’ufficio di Spinelli risulta incredibilmente coperto da immunità parlamentare in quanto “segreteria politica dell’onorevole Silvio Berlusconi”. Negli atti inviati a Montecitorio ci sono montagne di imbarazzanti prove (documenti e intercettazioni) a carico del premier puttaniere. Che scatena i suoi giornali, le sue tv e i suoi parlamentari nell’ennesimo assalto dei pm. Lo scandalo del “bunga-bunga” (la pratica di sesso anale che, secondo Ruby, Silvio avrebbe imparato dall’amico Gheddafi) fa il giro del mondo. Invano il premier assicura che i festini hard erano semplici “cene eleganti”, paga profumatamente i possibili testimoni e si spaccia per monogamo impenitente esibendo una fidanzata nuova di zecca: Francesca Pascale, ventiseienne napoletana già fondatrice del circolo “Silvio ci manchi”.
22 gennaio. L’onorevole Totò Cuffaro, ex presidente della Sicilia, da poco passato dall’Udc al Pdl e condannato in Cassazione a 7 anni per favoreggiamento alla mafia, si consegna nel carcere romano di Rebibbia per scontare la pena.
15 febbraio. Il gip Cristina Di Censo dispone il giudizio immediato per Berlusconi, attribuendone la competenza al Tribunale di Milano e non al Tribunale dei ministri come chiede il premier perché, per concutere Ostuni, “abusò della sua qualità e non della funzione di presidente del Consiglio”. Prima udienza il 6 aprile.
5 aprile. La Camera, presente il governo al gran completo a eccezione di Berlusconi, approva la proposta del Pdl di sollevare alla Consulta un conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato contro il Tribunale di Milano, che avrebbe “leso le prerogative del Parlamento” negando la natura “ministeriale” dei reati a lui contestati. È la famosa mozione “Ruby nipote di Mubarak”, che certifica la bufala del Cavaliere sulle sue telefonate in Questura fatte “nell’esercizio delle funzioni di governo” e scriminate dall’avere “agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” o “per un preminente interesse pubblico”: cioè per far rilasciare Ruby nella ferma convinzione che la minorenne marocchina fosse la nipote del presidente egiziano e che l’Italia rischiasse un incidente diplomatico con il Cairo. Mentre fuori da Montecitorio protesta il Popolo Viola, l’aula approva la barzelletta con 314 sì e 302 no. Votano a favore i deputati del Pdl (precettati a uno a uno dallo staff berlusconiano), della Lega, dei Responsabili, più i centristi Nucara, Mannino e Misiti. Luca Barbareschi di Fli si astiene. Contrari centrosinistra e Fli (la scena si ripeterà il 15 settembre al Senato, con un’identica mozione approvata con 151 sì e 129 no). Non contento, il premier accusa i magistrati milanesi di “brigatismo giudiziario”.
Maggio. Berlusconi e il Pdl perdono rovinosamente le elezioni amministrative. A Milano e Napoli trionfano i sindaci “arancioni” Giuliano Pisapia (contro l’uscente Letizia Moratti) e Luigi de Magistris (candidato da Di Pietro).
12-13 giugno. Il referendum voluto da Di Pietro per abrogare la parte restante della legge sul “legittimo impedimento” raggiunge il quorum con il 54,78% dei votanti: i Sì sfiorano il 95%. Passano anche i due quesiti contro la privatizzazione dei servizi idrici e quello contro le nuove centrali nucleari. Inizia l’estate nera del terzo governo Berlusconi: crisi finanziaria, Borsa in picchiata, spread oltre quota 400. E scandali à go-go sui pezzi grossi del sistema di potere berlusconiano. Salta fuori la loggia P4 intorno al faccendiere piduista Luigi Bisignani, vicinissimo a Gianni Letta. Viene arrestato (caso unico in trent’anni) il deputato Pdl Alfonso Papa. Viene indagato il deputato Pdl Marco Milanese, braccio destro di Tremonti. Il faccendiere Valter Lavitola fugge a Panama da un mandato di arresto per aver pagato mezzo milione per conto del premier a Gianpi Tarantini in cambio del silenzio sulle escort a Palazzo Grazioli. Il presidente di Finmeccanica Pierfrancesco Guarguaglini si dimette per le indagini sulle tangenti e i fondi neri del colosso pubblico. Lele Mora finisce in carcere per bancarotta. Crisi nera per il gruppo Ligresti e per il San Raffaele del prete craxian-berlusconiano don Luigi Verzé (che morirà d’infarto il 31 dicembre), mentre si susseguono gli arresti e le indagini per corruzione alla Regione Lombardia, feudo di Roberto Formigoni. La fine dell’impero s’avvicina a passo di carica.
(23 – continua)
Finocchiaro candidata di bandiera per tenere sotto controllo i gruppi
“I numeri, il rischio è che non ci siano i numeri”. L’allarme che viene lanciato da più parti, soprattutto nel Pd, è che manchino non tanto i voti per eleggere l’uno o l’altro candidato al Quirinale, ma che non ci siano proprio fisicamente i grandi elettori. La variabile Omicron arriva con forza pure sull’urna quirinalizia: si stima che potrebbe mancare il 10% degli aventi diritto al voto. Questo aumenta da una parte il caos, dall’altra il desiderio di congelare la situazione così com’è.
Sarà per questo che l’unico candidato condiviso che gira in casa giallorossa è quello di bandiera, nella persona di Anna Finocchiaro. Enrico Letta, per ora, non si espone neanche a metterla in campo come figura da opporre “simbolicamente” a Silvio Berlusconi. Ma se si va avanti così, con il centrodestra che non scopre le carte e lascia il fu Caimano in campo per le prime tre votazioni, il Pd non potrà che opporgli un nome. Un modo, questo, anche per Letta per contarsi, per capire fino a che punto i franchi tiratori sono pronti a esporsi: i segnali partono dal disattendere la linea anche sul candidato di bandiera. Nell’elezione del presidente della Repubblica, i precedenti fanno scuola: nel 1992, quando alla fine in maniera tortuosa si arrivò a Oscar Luigi Scalfaro, ciascuno aveva il suo: nei primi tre scrutini la Dc votò Giorgio De Giuseppe, il Pds Nilde Iotti; il Psi Giuliano Vassalli e la Lega Nord Gianfranco Miglio. Allo stato, non ci sono proprio le condizioni per una partita complessa come fu quella. Ma in attesa di perfezionare gli accordi – che per ora propendono ancora per Mario Draghi al Colle – una contrapposizione tra centrodestra e centrosinistra non è affatto da escludere.
La parola chiave di queste ultime ore, comunque, è “congelamento”. Che di fondo è l’altra faccia della medaglia di mettere in campo una figura che serve a prendere tempo. Al Nazareno, soprattutto, sono molto preoccupati per l’emergenza sanitaria. E se pure Letta si prepara il 13 (giorno della direzione del Pd) ad andare sul premier, in realtà tra i dem cresce il fronte di quelli che lavorano per Giuliano Amato (con l’idea di una presidenza a tempo) e di chi ancora insiste sulla necessità di non cambiare nulla, con il bis di Mattarella.
Una battaglia per il voto a distanza la sta conducendo il deputato Stefano Ceccanti (uno degli irriducibili per il bis): tra le proposte, quella di far votare i deputati dalla Camera: una parte dall’emiciclo, una parte in tribuna, altri in Transatlantico, altri nelle commissioni parlamentari. I senatori potrebbero votare dalle stanze di palazzo Madama e poi i 58 delegati regionali potrebbero essere distribuiti tra Camera e Senato. E nel frattempo, cresce pure la pressione per rimandare il più possibile il voto: ora si parla della settimana che inizia il 24 gennaio. Nel tentativo di intercettare la curva discendente.