Ilva, non c’è accordo sullo scudo penale Slitta il dl Crescita

Ci sarebbe il nodo sulla responsabilità penale per gli amministratori dell’ex Ilva di Taranto, ora passata al gruppo Arcelor Mittal, dietro lo slittamento alla prossima settimana dei lavori sul decreto Crescita. Nel testo, come noto, il governo ha inserito una norma, peraltro concordata con l’acquirente, che ha ridotto lo scudo penale garantito ad Arcelor per l’attuazione del piano ambientale fino a settembre. Arcelor, però, avrebbe alzato il tiro e – secondo fonti parlamentari citate dall’Ansa – avrebbe chiesto un’esimente penale per cinque anni per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro. Richiesta assai ardita, e infatti secondo l’Ansa il problema potrebbe anche essere molto più complessivo, ovvero quello di mantenere condizioni per cui resti fattibile portare avanti sia il piano ambientale sia quello produttivo dell’azienda. Il M5s non vorrebbe cambiare la norma ma sarebbe in corso un confronto, anche con l’obiettivo di garantire condizioni per portare avanti sia il piano ambientale sia quello produttivo anche alla luce delle circa 1.400 richieste di cassa integrazione avanzate da Arcelor Mittal, che ha anche tagliato la produzione.

Riecco i renziani: ora vogliono parlare col M5S

“Come si cambia per non morire”: potrebbe essere il titolo di una canzone di Fiorella Mannoia a spiegare le manovre dei renziani, intenti a riallacciare un impensabile dialogo con i Cinque Stelle.

Stamattina a Barga, in provincia di Lucca, nel teatro dei Differenti, una strana coppia celebrerà il bicentenario della nascita del patriota garibaldino, Antonio Mordini. Si tratta del capogruppo in Senato del Pd Andrea Marcucci e del presidente della Camera, Roberto Fico. Il primo è uno degli uomini più vicini in origine a Matteo Renzi e ora a Luca Lotti. Il secondo è esponente di rilievo dell’area più a sinistra dei Cinque Stelle, quello che più ha sofferto il governo con Matteo Salvini. Lucca è praticamente il feudo di Marcucci che ha pure sposato una Mordini. Ed è da lui che è partito l’invito per Fico. Il Presidente della Camera l’avrebbe ricevuto e accettato mesi fa, visto che si tratta di un evento istituzionale. Ma dato il momento in cui arriva, con le incognite sul futuro del governo gialloverde, per Marcucci è un’occasione per provare a far partire un dialogo.

Obiettivo: evitare il voto. Ma come, non erano proprio i renziani i più ostili a un’alleanza con il Movimento? Le cose cambiano. Se si dovesse andare a votare i piu penalizzati sarebbero i Cinque Stelle e i renziani, che nelle liste di Zingaretti avrebbero una rappresentanza assai scarsa. Ottimo motivo per cercare di evitare le urne a tutti i costi. D’altra parte, la riunione di un paio di settimane fa di Br (Base Riformista), la corrente di Lotti, di cui fa parte Marcucci, si è concentrata tutta su questo, argomentando con la necessità di evitare di consegnare il paese a Salvini.

Nei giorni scorsi, dicono, Antonello Giacomelli (altro big “lottiano”) ha sostenuto in chiaro che è arrivato il momento di dialogare col M5S. Che andare al voto subito sarebbe un problema per il Pd lo vanno dicendo anche Graziano Delrio e Dario Franceschini. Tutto questo potrebbe convergere con la volontà di Sergio Mattarella di non sciogliere immediatamente le urne. Una maggioranza organica Pd – Cinque Stelle, trainata dai renziani è comunque ipotesi abbastanza remota. Anche perché Nicola Zingaretti si troverebbe stretto in un angolo paradossale, come l’unico che vuole votare.

Questa complessa tela dovrebbe però tener conto di un altro personaggio, Giuseppe Conte, oggi tra i riferimenti dello stesso capo dello Stato. “Non va di moda Fico, ma Conte”, scherzava ieri Maria Elena Boschi. E lei il premier lo conosce da anni. A proposito di convergenze.

Grosso guaio su Foa Nella lite gialloverde si rivede Paragone

Appoggiato al bancone della buvette, con l’aria di chi ha messo a fuoco la più asfissiante delle verità, un deputato Cinque Stelle ammette: “Il punto è che l’abbiamo ripulito. Chi se li ricorda più i 49 milioni? Con noi al governo, Salvini s’è rimesso a nuovo”. Insoddisfatti del regalo fatto in questi 12 mesi di convivenza a palazzo Chigi, ieri, gliene stavano facendo un altro. Di prima mattina, alle 8, a palazzo San Macuto.

La commissione di Vigilanza Rai – dopo mesi di penare – doveva esprimersi sull’incompatibilità di Marcello Foa, presidente della Rai e pure di RaiCom, la controllata di viale Mazzini che si occupa di distribuire i prodotti della tv di Stato all’estero. Come al solito, i gialloverdi sul punto sono divisi: la Lega è dell’idea che non esista un divieto al doppio incarico, tanto più che Foa ha rinunciato al secondo stipendio. I Cinque Stelle – così come il Pd – sono del parere opposto, convinti si tratti di un “eclatante conflitto di interessi tra controllore e controllato”, per dirla con Primo Di Nicola, il senatore 5 Stelle vicepresidente della Vigilanza, che più si è speso perchè le due poltrone tornassero a dividersi.

Da settimane vanno avanti le trattative per una mediazione, che non ha trovato sponde nell’amministratore delegato Fabrizio Salini: detta in estrema sintesi, patisce già a sufficienza il ruolo di Foa in viale Mazzini per mettersi a battagliare anche su questo fronte. Una “delusione”, quella ricevuta durante l’audizione dell’ad la scorsa settimana, che i Cinque Stelle ancora faticano a digerire. E che non ha fatto altro che rafforzare l’idea per cui se in Rai sono stati “asfaltati” un po’ è anche colpa dell’uomo che doveva arginare Foa e la Lega e che invece finora ha mostrato “poca grinta”. Così ci hanno provato da soli a contrattare con gli alleati di governo un compromesso accettabile. Solo che in casa leghista, al solito, hanno interpretato la faccenda a modo loro: un auspicio ad arginare i conflitti di interesse, senza minimamente impegnare la Rai a trovare un nuovo presidente per la sua partecipata.

Per respingere l’affronto, però, i Cinque Stelle ci hanno messo più di un’ora. Gianluigi Paragone, l’altro big che pesa nei 5 Stelle sulle questioni Rai (tra i più critici con Di Maio dopo la sconfitta alle Europee), sosteneva che quella della Lega fosse un’apertura sufficiente, “una mezza vittoria” da portare a casa. La lite – a cui hanno assistito mezza Vigilanza – dalla strada è proseguita nei corridoi, e poi in ascensore, e ancora in Aula: fino a che a tutti è parso chiaro che stavano consegnando l’ennesimo scalpo a Salvini e se ne sono andati: seduta annullata per mancanza di numero legale.

Un pasticcio, come minimo. Perché intanto i colleghi di governo, alla Camera, stavano votando insieme al Pd il salvataggio di Radio Radicale, nonostante il parere negativo della viceministra Laura Castelli. A poco sono servite, dal punto di vista dei Cinque Stelle, le interlocuzioni che il Quirinale nel weekend ha avuto con palazzo Chigi sulla necessità di garantire il diritto all’informazione assicurato dall’emittente fondata da Marco Pannella. La Lega fa come gli pare. “Bisogna sempre stare pronti alle elezioni”, ha detto ieri il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti. Di Maio non ha gradito, Paragone non si sa.

Pd e Lega salvano ancora una volta Radio Radicale

Si spacca ancora il governo gialloverde. Questa volta il casus belli è l’approvazione in Commissioni Bilancio e Finanze della Camera di un emendamento al decreto Crescita del Pd, riformulato dalla Lega con il parere contrario della viceministro dell’Economia Laura Castelli (M5S), che concede a Radio Radicale altri 3 milioni nel 2019 (e 4 milioni nel 2020) per aver svolto attività di informazione di interesse generale. Soldi che si vanno ad aggiungere ai 9 milioni già stanziati per l’anno in corso.

L’ira dei Cinque Stelle è palpabile. “Secondo noi è una cosa gravissima, di cui la Lega dovrà risponderne davanti ai cittadini”, tuona su Facebook il vicepremier Luigi Di Maio. Che ricorda all’alleato di governo di “aver appoggiato un’indecente proposta del Pd”. Poi a finire nel mirino del vicepremier è Laura Boldrini, colpevole di aver gioito “per aver regalato altri milioni di euro delle nostre tasse a una radio privata e di partito”. La linea M5S, contraria da sempre ai finanziamenti pubblici, prevedeva solo lo stanziamento di 1 milione di euro nel triennio per la conversione in digitale e la conservazione degli archivi multimediali, vincolandoli a un uso pubblico. Che di fatto avrebbe spento Radio Radicale. Ma a un Matteo Salvini che ha ribadito che “non si cancella l’esistenza di una radio con un emendamento e con un tratto di penna”, risponde un astioso Vito Crimi, sottosegretario Cinque Stelle con delega all’editoria: “Sono soldi dei cittadini che vanno nelle casse di una radio di partito. I principi della campagna elettorale si rispettano”.

Fino allo scorso anno Radio Radicale poteva contare sui 10 milioni di euro lordi garantiti dalla convenzione con lo Stato – che dura dal 1994 e il cui decreto legge, mai convertito, è stato rinnovato 17 volte in 25 anni portando nelle casse dell’emittente un totale di 250 milioni di euro – e sui 4 milioni che ottiene ogni anno dal fondo per l’editoria. Da quest’anno, invece, sulla radio fondata da Marco Pannella nel 1976 si è abbattuta una doppia mannaia: la convenzione, scaduta lo scorso 21 maggio, non è stata rinnovata ed è anche scattato il taglio dei finanziamenti dell’editoria.

Ora, per il 2019,Radio Radicale avrà come entrate solo 5 milioni di euro lordi assicurati dalla convenzione per il primo semestre (e che non sono stati ancora incassati), più i 4 milioni dal fondo per l’editoria. Che, però, incasserà solo nel 2020. Più i 3 milioni stanziati con il dl Crescita.

I conti della radio sono però tutt’altro che al sicuro: le casse sono vuote e i fondi che arriveranno l’anno prossimo sono stati già anticipati (e spesi) dalle banche, a cui la radio dovrà restituire anche gli interessi. Ma l’ad della radio, Paolo Chiarelli, assicura che “per il momento i 52 dipendenti, tra cui 20 giornalisti, non corrono pericoli”. E, rispondendo anche a chi sostiene che i suoi giornalisti guadagnino più di 100 mila euro all’anno, risponde che “la media è di 2.000-2.500 euro netti”. “Solo il direttore e io – sottolinea – guadagniamo poco più di 100mila euro lordi, circa un terzo di quanto percepiscono i dirigenti Rai”.

La sopravvivenza della radio resta, quindi, appesa alla possibilità di partecipare alla nuova convenzione per la trasmissione delle sedute parlamentari che il governo in autunno dovrà mettere a gara, come ha previsto il governo gialloverde prima che andasse in scena l’ultima spaccatura. Ma anche in questo caso la soluzione è lontana.

Fino a oggi l’unica convenzione, datata 1994, è stata cucita addosso a Radio Radicale. Il testo prevede, infatti, l’obbligo di trasmettere nel corso dell’anno almeno il 60% delle sedute delle due Camere nella fascia oraria che va dalle 8 alle 21, di non trasmettere nessuna pubblicità e la copertura dell’85% delle Regioni.

“Si tratta, insomma, di una norma che di fatto ha tagliato le gambe a tutte le altre emittenti e che, a suon di milioni di euro pubblici, ha permesso a Radio Radicale di acquisire spazi e tecnologie, trasformandosi in un unicum inarrivabile. Questo limita la concorrenza”, spiega Crimi al Fatto. Che ora si augura di poter scrivere il nuovo testo di legge che autorizzi il ministero dello Sviluppo economico o la presidenza del Consiglio a stipulare la convenzione che annullerà il vantaggio di radio Radicale. “Vorrei – dice Crimi – che non venissero inseriti dei requisiti preventivi che può vantare solo Radio Radicale. Ma che queste competenze possano essere acquisite nel corso degli anni, come è stato permesso a Radio radicale, grazie ai finanziamenti pubblici”. Ma per il sottosegretario M5S la soluzione è a portata di mano: “Basta istituzionalizzare il servizio fornito da Rai Gr Parlamento che, a costo zero (viene già sovvenzionato con il canone, ndr), fornirebbe anche un servizio più completo fornendo sia la trasmissione delle sedute per radio che per televisione”. Toccherà invece al governo, strappi permettendo, gestire la partita della conversione in digitale e la conservazione degli archivi di Radio Radicale come previsto dalla mozione bipartisan votata al Senato lo scorso 11 giugno.

Pop Bari, assemblea rinviata. Nuove perdite per 25 milioni

Il Consiglio di Amministrazione della Banca Popolare di Bari ha deciso ieri nuove rettifiche sui crediti per il bilancio 2018, e deciso di spostare l’assemblea degli azionisti per l’approvazione dei conti da 30 giugno al 13 e al 14 luglio prossimi “al fine di consentire la migliore definizione delle operazioni in corso”. Lo ha annunciato l’istituto, che ha spiegato anche di “aver deliberato la contabilizzazione di ulteriori rettifiche su crediti per circa 25 milioni, relative a posizioni, di valore unitario non significativo, classificate unlikely to pay. In sostanza altri 25 milioni di perdite, che portano il “rosso” 2018 a 397,2 milioni: i ratio patrimoniali di Gruppo si rideterminano al 7,52% per quanto concerne il CET1 ratio e il Tier One ratio e al 9,78% per il Total Capital Ratio: “Già in data 13 maggio il Cda aveva deliberato il Piano di conservazione del capitale, trasmesso alla Vigilanza per l’approvazione. Il Piano consentirà di riportare in tempi brevi i ratio su valori superiori alle soglie di Overall Capital Requirement correnti”. L’istituto si prepara anche a vendere CariOrvieto a Sri Global. Sullo sfondo la partita per la presidenza, con l’ipotesi di uscita dello storico presidente Marco Jacobini, caldeggiata da Bankitalia.

Ue compatta sull’infrazione all’Italia. Tria: “No correzioni”

Il negoziato con la Commissione Ue è partito e il fronte europeo si compatta a sostegno di Bruxelles e chiede all’Italia misure concrete per evitarla. La soluzione andrà trovata prima dell’Ecofin, la riunione dei ministri delle finanza dell’Ue dell’8-9 luglio. “Servono aggiustamenti considerevoli per quest’anno e per il prossimo”, ha detto il vicepresidente Valdis Dombrovskis all’Eurogruppo di ieri (i ministri economici dell’eurozona). Ma Giovanni Tria ha ribadito che il governo esclude una manovra correttiva: “Non ne abbiamo bisogno”. Posizione confermata ieri dai vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini.

All’Eurogruppo di Lussemburgo l’Italia non è sull’agenda, ma i protagonisti del negoziato preparano il terreno. La Commissione vuole avere un mandato politico per poter andare avanti sia nella trattativa col governo che nell’iter formale della procedura, ormai avviato due settimane fa. Bruxelles si aspetta dal governo che nelle prossime settimane individui il modo per fare risparmi già da quest’anno, anche senza una manovra correttiva, ma soprattutto impegni concreti sul 2020. Servono “fatti, cifre, dati per il 2019 e 2020”, ha spiegato il commissario Pierre Moscovici. Tria ha avviato il negoziato, spiegando i nuovi elementi che a fine luglio dimostreranno che il deficit 2019 si fermerà al 2,1% o al 2% del Pil, inferiore al 2,5 stimato dalla Commissione. Si tratta delle entrate fiscali supplementari del primo semestre e dell’uso dei risparmi di Quota 100 e Reddito di cittadinanza. Ma Bruxelles si aspetta indicazioni precise su come disinnescare non in deficit i 23 miliardi di aumenti automatici dell’Iva per il prossimo anno. Sempre che basi la promessa che la flat tax non sarà fatta in disavanzo.

Solo la lotta all’evasione può aiutare l’Italia a sanare i conti

Il problema è noto: dove si trovano i 23 miliardi che servono a impedire l’aumento dell’Iva da gennaio 2020? E tutti gli altri – nessuno sa quanti – per flat tax, aiuti alle famiglie e sgravi fiscali? Il governo sembra avere un’unica risposta: ci vuole più deficit, e dunque più debito pubblico, la Commissione europea e i mercati se ne faranno una ragione. Eppure ci sarebbe un’altra strada: avviare una seria lotta all’evasione e all’elusione fiscale. Come, peraltro, promesso dal contratto di governo Lega-Cinque Stelle.

Dopo aver annunciato la cancellazione di alcuni strumenti di accertamento giudicati “vessatori” (spesometro, redditometro, split payment), il contratto di maggio 2018 prometteva quanto segue: “Anche in considerazione della drastica riduzione del carico tributario grazie alla flat tax e alle altre misure sopra descritte, sul piano della lotta all’evasione fiscale, l’azione è volta a inasprire l’esistente quadro sanzionatorio, amministrativo e penale, per assicurare il ‘carcere vero’ per i grandi evasori”. E poi ancora la promessa di rafforzare “la cooperazione internazionale in materia di scambio di informazioni” e di “prevenire l’elusione fiscale internazionale favorendo la tassazione dei grandi capitali esteri, nonché introdurre adeguate misure per il contrasto d’interesse”. Gli strumenti “vessatori” sono stati neutralizzati, ma di tutto il resto – soprattutto del “carcere vero per i grandi evasori” – non c’è traccia.

Nell’autunno 2018 i Cinque Stelle avevano provato a introdurre in un decreto fiscale l’articolo 11: “Inasprimento dell’esistente quadro sanzionatorio, amministrativo e penale per assicurare il carcere vero per i grandi evasori”. La Lega, invece, voleva un gigantesco condono per gli evasori. Il negoziato si è chiuso con un armistizio: condono ridimensionato e niente manette agli evasori (che, in teoria, dovrebbero essere condivise anche dalla Lega, firmataria del contratto). Il M5S ha più volte promesso di riprovarci. Ancora a febbraio 2019 il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede annunciava al Fatto una legge per cancellare “alcuni interventi vergognosi del governo Renzi sull’evasione fiscale, per esempio l’aumento delle soglie di punibilità per alcune fattispecie di reato. E per questo proporrò all’esecutivo di abbassarle”. Non è successo e le soglie di punibilità sono rimaste quelle alzate dal governo Renzi che nel 2015 ha reso quasi impossibili indagini e processi per reati fiscali: la soglia che fa scattare il reato di omessa dichiarazione di un reddito è salita da 30 mila a 50 mila euro; quella per gli omessi versamenti da 50 a 150 mila euro; se l’imposta non versata è l’Iva, la soglia è oggi addirittura 250 mila euro; e per la dichiarazione infedele si passa da 50 mila euro di imposta evasa a 150 mila. Cioè: chi fa ogni anno 300 mila euro di fondi neri (pari a 150 mila di mancate imposte) non commette reato, mentre chi ruba mille euro da un portafoglio rischia 6 anni di carcere.

Intendiamoci: abbassare quelle soglie e permettere ai magistrati di perseguire in sede penale evasori oggi impuniti non può risolvere i problemi del bilancio 2020 nell’immediato. Le entrate aggiuntive dalla lotta all’evasione sono, per definizione, incerte e quindi non dovrebbero essere usate per coprire spese certe e strutturali. Anche se il governo Conte lo ha fatto. Nel Documento di economia e finanza di settembre 2019, per rispettare almeno sulla carta i parametri europei, l’esecutivo ha già impegnato entrate aggiuntive dal contrasto all’evasione fiscale per lo 0,1 per cento del Pil nel 2021 e per lo 0,4 nel 2022 (1,7 e 6,8 miliardi circa). A oggi, però, non è chiaro da quali misure dovrebbe arrivare questo nuovo gettito.

Secondo l’ultimo rapporto del ministero dell’Economia, relativo all’anno fiscale 2016, oggi allo Stato mancano circa 90 miliardi di entrate ogni anno. È il tax gap, la differenza tra quanto il fisco dovrebbe incassare e quanto incassa davvero. Le imposte più evase, o eluse, sono l’Irpef sul lavoro autonomo (33,9 miliardi in un anno) e l’Iva (34,9 miliardi). Al conto vanno poi aggiunti 11 miliardi di evasione contributiva. Si può quindi dire che ci sono oltre 100 miliardi da recuperare, soldi che lo Stato – inteso come Tesoro, Inps, Inail e altre declinazioni – non incassa e lascia a evasori ed elusori. L’Agenzia delle entrate, nelle sue attività di contrasto all’evasione, riesce a riscuotere in un anno circa 20,1 miliardi. Anche se il grosso di questa cifra – 10,8 miliardi – deriva da controlli formali sulle dichiarazioni inviate, in cui l’Agenzia può notare imprecisioni o tentativi di nascondere reddito. L’attività di accertamento vera e propria, la caccia agli evasori, porta solo 8 miliardi di euro.

Ridurre anche solo da 100 a 80 o 70 miliardi le risorse che lo Stato non riesce a incassare permetterebbe di fare molte cose che oggi paiono impossibili: rispettare gli impegni già messi a bilancio, contenere il deficit e finanziare qualche intervento di spesa sul fisco (parte delle entrate dalla lotta all’evasione sono in teoria già vincolate a ridurre le tasse). Alzare le pene agli evasori farebbe arrabbiare tanti. Ma renderebbe più accettabili i sacrifici che il governo dovrà chiedere a quella vasta parte di Italia – i lavoratori dipendenti e gli onesti – che non può, o non vuole, evadere.

“Salvò” dall’arresto Zamparini, perquisito capo dei Gip Palermo

Il presidente dell’ufficio del gip di Palermo Cesare Vincenti e il figlio Andrea, avvocato d’affari nello staff legale del Palermo Calcio, sono indagati per rivelazione di segreto d’ufficio. Ieri il giudice ha subìto una perquisizione domiciliare (non nell’ufficio). “Visitata” anche la Fondazione Falcone e acquisito l’elenco delle scuole che hanno partecipato, nel 2017, alla commemorazione del magistrato ucciso a Capaci. Con un blitz disposto ieri i pm nisseni imprimono una svolta all’inchiesta sulla “talpa”’ che informò Zamparini dell’imminente arresto: secondo l’accusa Vincenti potrebbe avere avuto un ruolo nella diffusione della notizia. Gli investigatori intercettarono l’ex presidente rosanero Giovanni Giammarva che chiedeva un appuntamento a Zamparini, mentre pendeva su di lui una richiesta di arresto per bancarotta. Le dimissioni scongiurarono il carcere. Indagata per abuso d’ufficio anche Alida Marinuzzi, giudice civile: Vincenti le avrebbe sollecitato un provvedimento sul figlio. E’ emerso che una delle scuole avrebbe partecipato alla commemorazione su segnalazione Giuseppe Sidoti, giudice del collegio che respinse il fallimento del Palermo.

La “questione morale” finisce in rissa

Sedici parlamentari, più d’un quarto del totale, tra cui il presidente della commissione Bilancio, e quattro assessori indagati, un terzo della giunta Musumeci. Ieri, a oltre due mesi dalla richiesta M5S, forse sulla spinta dell’arresto dell’ex consulente della Lega Paolo Arata, l’Assemblea regionale siciliana si è interrogata sulla questione morale per circa tre ore in un clima a tratti incandescente che ha costretto Miccichè a una sospensione per cinque minuti.

È successo quando il capogruppo M5S Francesco Cappello ha iniziato a inveire contro Musumeci, che aveva appena accusato Giancarlo Cancelleri di strutturare il suo partito come una sorta di “mediatore” delle istanze regionali con il governo nazionale. Poi Cappello ha attaccato: “Quello che accade dentro l’Ars non è normale. Quattro assessori e sedici deputati indagati. Lei presidente Musumeci con il suo silenzio si è reso complice di questo stato”. Gli ha fatto eco Fava, ricorrendo all’immagine della diligenza da assaltare, “di un bottino da conquistare”: “Qualche settimana fa ho sentito un’intercettazione di Giovanni Lo Sciuto è stato ascoltato mentre diceva: ‘Alla Regione ci sono 370 incarichi, la prossima volta se vinciamo non possiamo mancare’. A me preoccupa – ha aggiunto – quando Antonello Montante diceva: “Con le attività produttive facciamo la terza guerra mondiale”.

Dati ed esempi che non hanno scosso i presidenti di governo e Parlamento regionale attestati entrambi nella difesa di tutti gli indagati sul principio costituzionale di non colpevolezza: “Sono orgoglioso di ogni assessore della mia giunta, eventuali responsabilità penali attengono all’esercizio di chi le commette – ha detto Nello Musumeci – una cosa è l’avviso di garanzia e altra cosa il rinvio a giudizio o la condanna”. “Ricordo il mio amico Gaspare Giudice – gli ha fatto eco Gianfranco Miccichè – che morì per tumore provocato, come dissero i medici, dallo stress che gli provocò quell’indagine da cui fu assolto. Facciamo attenzione dunque, usiamo prudenza” Anche di fronte all’immagine rilanciata da Fava di una Regione in cui si è consolidata che basta spingere con un calcio una porta per entrare e sentirsi padroni di casa e se il caso determinare anche il destino di decine di milioni di contributi per costruire impianti eolici o biogas” all’assessorato all’Energia e ai Rifiuti dove Musumeci, dopo avere sostenuto che “Arata voleva un impianto privato, la Regione siciliana ha invece finanziato un impianto pubblico”, ha confessato la propria impotenza: “Al Dipartimento rifiuti della Regione ancora oggi sei servizi su nove rimangono senza dirigente, a nulla sono valsi gli interpelli interni. Nessuno vuole andare in quel dipartimento, e il governo non ha alcun potere normativo per prendere un dirigente e nominarlo lì”. Il bilancio finale lo ha tirato Fava: “Questo non è il processo a qualcuno o a qualcosa, ma nemmeno una cerimonia patriottica. E invece ho la sensazione che queste occasioni vengano utilizzate per mettere in fila alcuni punti esclamativi”.

Arata e l’incontro alla Dia San Marino, rogatoria per Siri

L’indagine della Procura di Roma corre parallela a quella di Palermo: perché se in Sicilia due giorni fa è stata emessa un’ordinanza di misura cautelare che ha portato in carcere Paolo Arata – l’ex parlamentare forzista poi nelle grazie del Carroccio, che lo ha interpellato per ideare il progetto sulle Energie – nella Capitale continuano gli accertamenti su un’altra vicenda dove pure è coinvolto. Quella in cui è indagato per concorso in corruzione con Armando Siri, l’ex sottosegretario della Lega costretto alle dimissioni dopo che venne fuori la notizia dell’inchiesta a suo carico. La Procura di Roma ha infatti inoltrato una rogatoria a San Marino per chiedere chiarimenti sul mutuo che Siri aveva chiesto ed ottenuto per acquistare una palazzina a Bresso. Si tratta di un mutuo da 585 mila euro erogato dalla Banca Agricola Commerciale di San Marino senza garanzie. È una vicenda questa priva di profili penali.

A Roma infatti Siri è indagato solo per corruzione per aver tentato di promuovere provvedimenti per favorire Arata in cambio di 30 mila euro, dati o promessi. A prova di ciò c’è una intercettazione fra Paolo Arata e il figlio Francesco in cui si parla della “somma di denaro pattuita a favore di Siri per la sua attività di sollecitazione dell’approvazione di norme che l’avrebbero favorito”. L’analisi dei flussi finanziari potrà dire se sia vero o meno.

“Il figlio di un mafioso uguale mafioso”

Intanto due giorni fa la Procura di Palermo ha emesso un’ordinanza di misura cautelare. Oltre Paolo Arata, in carcere è finito anche il figlio Francesco. Stessa misura per Vito Nicastri – l’imprenditore siciliano ritenuto dai pm socio occulto di Arata e vicino all’entourage del boss latitante Matteo Messina Denaro – e il figlio Manlio.

Dall’ordinanza di misura cautelare emergono però nuovi dettagli. Come i tentativi di Paolo Arata “di elaborare una strategia che gli consentisse di mettersi al riparo da eventuali attività investigative che avrebbero potuto portare alla luce il suo rapporto societario occulto con l’imprenditore alcamese”.

Così l’ex parlamentare pensa addirittura di bussare alle stanze dei vertici della Dia (la Direzione investigativa Antimafia) di Trapani, che stava svolgendo le indagini. “Paolo Arata – è scritto nell’ordinanza – aveva pensato di chiedere un incontro con il responsabile della Sezione operativa della Dia di Trapani, dando incarico di fissare l’appuntamento al figlio Francesco”. Tutto questo emerge durante una conversazione dell’11 aprile 2018 tra Francesco Arata e un altro uomo il quale “raccomandava al giovane di specificare agli inquirenti della Dia che Vito Nicastri era solo un loro collaboratore (…), ammonendolo anche sul pericolo derivante dalla prosecuzione del rapporto lavorativo col figlio Manlio”. “La presenza di Manlio è pesantissima. Purtroppo è così. Manlio è un bravo ragazzo, è una persona pulita, seria, però è il figlio di Vito Nicastri… Quindi figlio di un mafioso uguale mafioso (Nicastri era finito in carcere in passato per concorso esterno, ndr)”, dice l’uomo. “Il sodalizio si deve smantellare”, conclude poco dopo. L’appuntamento alla Dia viene fissato: l’incontro avviene solo per non destare sospetti ma nulla viene rivelato.

La copertura dell’Enel smascherata

Ma c’è un’altra vicenda che ha insospettito stavolta Vito Nicastri. L’uomo sembra avere qualche dubbio quando vede un operatore dell’Enel che stava lavorando di fronte casa sua. Era una copertura: l’operatore era un uomo della Dia che tentava di piazzare una telecamera. Successivamente Manlio Nicastri e Francesco Arata trovano una cimice in un’auto. Decidono di non rimuoverla, ma per i pm “è di tutta evidenza che tutti i protagonisti avevano ben chiaro che erano sottoposti a indagine”.

I contatti con la politica al vaglio dei pm

Intanto la Procura di Palermo sta passando al setaccio tutti i contatti di Paolo Arata, non solo con il mondo forzista di quando era parlamentare ma anche con quello della Lega. Agli atti, per esempio, ci sono anche alcune telefonate – non penalmente rilevanti – fatte alla segretaria del sottosegretario a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti (non direttamente con quest’ultimo), a cui fa capo il Dipartimento dove un altro figlio di Arata, Federico (non indagato), aveva ottenuto un contratto di consulenza esterna, poi congelato. Alcuni dei suoi contatti (non quello con la segreteria di Giorgetti, estraneo alle indagini), Arata li ha messi a disposizione del “re dell’eolico”. Lo scrive il gip Gugliemo Nicastro: “È emerso che Arata ha portato in dote alle iniziative imprenditoriali con Nicastri gli attuali influenti contatti con esponenti della Lega”.

Intanto ieri davanti al Gip Francesco Arata, Vito e Manlio Nicastri si sono avvalsi della facoltà di non rispondere.