Il renziano che apre la bocca solamente per nomine e potere

Passo lento, capigliatura elettrica. Ogni mattina il misterioso Luca Lotti porta a spasso i pensieri del suo capo e qualche volta i suoi. Dei primi sappiamo tutto, dei secondi quasi nulla. Salvo che devono avere la forma degli algoritmi coi quali ha accudito la maestosa parabola del capo, da Rignano fino a Palazzo Chigi, poi la caduta. Il tutto in una dozzina d’anni di carriera. Prima capo della sua segreteria a Firenze, ai tempi del Giglio nascente. Poi il doppio assalto al partito democratico con gli arredi ben spesi della Leopolda. La conquista del governo. La delega alla organizzazione del partito e quella ai Servizi segreti. Il cacciavite e le pinze per lavorare alle grandi nomine, Eni, Enel, Poste, Ferrovie, Cassa Depositi e Prestiti: la ciccia del Paese. Poi la luminosa idea degli ottanta euro da organizzare. La guerra di logoramento con D’Alema, Bersani e i detestati comunisti, fino alla scissione. La pace con Denis Verdini, volto nobile del centrismo che lui chiama amichevolmente “il mostro”, fino al celebre Patto del Nazareno, l’inizio della fine del suo capo. Che fu spettacolare quanto un fuoco d’artificio.

Un milioncino di chilometri esistenziali, percorsi senza mai aprire bocca in pubblico o quasi, persino durante il suo anno e mezzo al dicastero dello Sport, 2016-2018, passato a braccetto del suo provvisorio amico Giovanni Malagò, presidente del Coni, a inaugurare federazioni, palestre e a progettare candidature olimpiche rimaste sulla carta.

Quando deroga dal silenzio e parla, non fa mai bella figura. “Io i giornali non li leggo” ebbe a dire una volta entrando a Montecitorio. Proprio mentre il suo capo lo aveva promosso sottosegretario con la delega all’Editoria, anni 2014-2016, cioè titolare del destino dei giornali che campano con i contributi pubblici oltre che con quello dei lettori.

Oggi che a chiedergli di parlare sono le procure – quella di Roma per il caso Consip, quella di Perugia per il caso Palamara – dovrà per forza contravvenire alla sua natura, pensare al suo futuro, e di sicuro al suo passato.

Radici nella remota Montelupo Fiorentino, Luca Lotti nasce nel 1982 a Empoli, famiglia cattolica, padre funzionario di banca, madre casalinga, adolescenza senza storia, l’oratorio, la chiesa, il liceo, il calcio giocato in Eccellenza, la laurea in Scienza dell’amministrazione.

Era l’anno 2005 quando avvenne il fatale incontro proprio davanti alle pregiate ceramiche di Montelupo allestite per la mostra-mercato. Matteo Renzi, 30 anni, presidente della Provincia è l’ospite d’onore. Luca, 23 anni, è il più giovane consigliere comunale in quota Margherita. Uno viene dai Boy Scout, l’altro dall’Azione cattolica. Si intendono al volo. Parlano di sport in generale e di calcio in particolare, anche perché Luca, in un’altra sua memorabile dichiarazione dirà: “A quei tempi di politica non capivo nulla, ma proprio nulla”. Perfetto. E infatti a quel tempo allenava una squadra di bambini, tifava Milan, andava al bar con i suoi due amici di paese, il Nocio e il Ciancio che lo chiamavano il Lampadina.

Ma siccome era sveglio e forse persino allegro, Matteo non lo archivia tra gli sfaccendati di paese, lo ingaggia nel suo staff, cambiandogli la vita destinata al posto fisso di una banca. Subito si trasferisce a Firenze. Poi sei mesi a Bruxelles a studiare come è fatto il mondo e come girano le poltrone degli euroburocrati. Per poi applicarsi a quelle in miniatura di Palazzo Vecchio, con Matteo in corsa per diventare sindaco, e la coda del Giglio magico che si addensa, ingaggiando, dopo di lui, l’ex berlusconiano Marco Carrai, eclettico imprenditore che si occupa di tutto, dai materiali edili al software. E poi la sua personale nemica-amica Maria Elena Boschi, che viene dal presepe vivente di Laterina, provincia di Arezzo, porta in dote sorrisi luminosi e nuvole nere.

Tutti e tre, curiosamente, hanno a che fare con le banche del territorio. Carrai è dentro Monte dei Paschi di Siena e la Cassa di Risparmio di Firenze. Maria Elena ha il babbo sistemato in Banca Etruria. Mentre quello di Luca fa il funzionario nel Credito Cooperativo di Pontassieve. Nessuna delle tre porterà bene al Giglio. Di Monte Paschi e Banca Etruria è inutile parlare, perché da tempo ne parlano i tribunali.

In quanto al Credito di Pontassieve, passa i suoi guai giudiziari quando nel 2009 concede un prestito di 496 mila euro più spicci proprio al babbo di Matteo, il celebre Tiziano Renzi, che prima di dichiarare fallimento, gira una parte dell’azienda di nome Chill alla moglie, che sposta la sede legale a Genova, in società con il fratello del marito di una delle due figlie, cioè il fratello del genero. Se non avete capito il labirinto, pazienza. Ci hanno pensato i giudici di Genova a sbrogliare la matassa quando la società è andata in malora, indagando Tiziano per bancarotta fraudolenta. Indagini lunghe, qualche inciampo, poi il lieto fine dell’archivio. Meglio così.

Lotti figlio ne esce indignato per le ingiuste accuse al padre. Deve essere da allora che ha deciso di avere ravvicinati rapporti con chi indaga e fa processi, in modo da prevenire le cattive sorprese anziché curarle. Così tutte le parole che non pronuncia in pubblico, se le spende in privato a ricamare rapporti personali, la cosa che gli riesce meglio, sebbene senza il borotalco del suo amico e maestro in cerimonie Gianni Letta.

Renzi lo incorona sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Da lì tiene d’occhio i Servizi, non si sa mai, e accarezza gli editori che ricambiano. Seleziona i questuanti, tratta sui sindaci e i governatori. Nuota dentro l’assemblea nazionale del pd. E come ai vecchi tempi, allena la segreteria del partito a immagine del capo.

A parte l’anticomunismo, un debole per la Terza via e lo Sport come ristoro sociale, non si conoscono opinioni profonde a suo carico. In compenso fa vita lineare: si sposa, ha due figli, non spegne mai il cellulare.

Peccato resti impigliato nell’affare Consip, un appalto da 2,7 miliardi che fa gola a un sacco di grandi imprenditori, come Alfredo Romeo, e a piccolissimi come un tale Carlo Russo di Scandicci e al suo amico Tiziano Renzi, ancora lui, l’infaticabile pensionato. Secondo i magistrati Luca Lotti è una delle gole profonde che svelano l’inchiesta in corso agli indagati. Lui nega e si arrabbia. Come negano gli altri sotto inchiesta per la fuga di notizie, in primis il comandante generale Tullio Del Sette, numero uno dell’Arma e il generale Saltalamacchia, capo della Legione Toscana.

Ma siccome i guai funzionano come le ciliegie, quel che accade nell’inchiesta Consip – cominciata nell’estate del 2016 – si tira dietro cattive conseguenze nel 2019, cioè oggi, quando si scopre che Lotti va a cena con Luca Palamara, ex presidente della Associazione nazionale magistrati, e altri togati, a discutere le imminenti nomine della Procura di Roma e di Perugia, proprio quelle che indagano su Consip e su tutta l’allegra compagnia. Un capolavoro di intrighi che fa saltare per aria il Consiglio superiore della magistratura oltre che il sopracciglio del presidente Mattarella.

Per la terza volta Lotti parla e fa danno: “Adesso uscire con me a cena è diventato un reato?”. In quanto ai giri di valzer tra politici e magistrati ci pensa Renzi a seppellire tutto come “festival dell’ipocrisia”. Non perché non sia accaduto niente, ma perché è accaduto sempre, “e il metodo non l’ha inventato Lotti”.

Ai tempi d’oro, che poi erano le ricorrenti stagioni delle nomine e delle liste di candidati, Luca si vantava di collezionare “telefonate perse”, fino a 216 in un giorno, per dire quanto fosse affollata la sua vita. E su quante superfici luminose la giocava. Oggi fa buio presto: troppi tribunali intorno, troppi temporali in vista.

Le consulenze durante la fusione, altri guai per il papà della Boschi

Pier Luigi Boschi, padre dell’ex ministro Maria Elena, è tra i 17 amministratori di Banca Etruria ai quali la Procura di Arezzo ha notificato la chiusura indagini per uno dei filoni della maxi-inchiesta sul default del credito aretino. Accusato di bancarotta semplice o colposa, perché avrebbe affidato “incarichi di consulenza esterna”, durante il processo di aggregazione e fusione con altre banche, mentre la BPEL si trovava in “condizioni di dissesto”, “consumando una notevole parte del patrimonio”, senza osservare i principi di “prudenza” e “tecnica commerciale”, e violando il “regolamento interno”. Nell’informativa della GdF, depositata già due anni fa, risultavano le centinaia di migliaia di euro fatturati tra giugno e ottobre 2014. Il cda, in cui figurava Boschi, ha conferimento un “mandato in bianco” al presidente e al dg, per “determinare il compenso, la durata e quant’altro necessario” delle consulenze, senza nessun “obbligo di rendicontazione”. Consulenze faraoniche per gli studi legali Scotti-Camuzzi (108 mila euro), Portale (205 mila euro), Di Gravio e Zoppini (800 mila euro). A questi si aggiungono i 532 mila euro a Mediobanca, che in qualità di “advisor finanziario” era incaricata di trovare un partner per la fusione. In soli due mesi, Mediobanca però si sarebbe limitata solo a “un contatto per via mail” con potenziali investitori, conclusa “senza alcuna manifestazione di interesse”. Mentre risultava già una consulenza per lo stesso motivo alla Rotschild Spa (186 mila euro) e alla Lazard Srl (183 mila euro). Più di 2 milioni di euro alla Bain & Co, che pur incassando la somma non avrebbe redatto “un nuovo piano industriale”, e prodotto nessuna “documentazione attestante le prestazioni rese”, ma solamente “mere slide di natura illustrativa”. Archiviata l’accusa di falso in prospetto per Boschi e altri 17, tra componenti del cda e sindaci revisori, per i bond che l’istituto aveva redatto per collocamento in Consob. A processo restano l’ex presidente della banca Giuseppe Fornasari e il dg Bronchi; già condannati per bancarotta fraudolenta in abbreviato a 5 anni, con il vicepresidente Alfredo Berni (2 anni), e all’ex membro del cda Rossano Soldini, un anno. A settembre inizierà il processo per 25 ex consiglieri di amministrazione, revisori e dirigenti di Banca Etruria che ha provocato il crac dell’ex istituto.

Zingaretti si tiene l’imbarazzante Luca e quello, per ringraziarlo, lo bastona

Neanche la slavina, neanche il terrore, se non la certezza, che l’inchiesta di Perugia su Luca Palamara, possa allargarsi ancora, diventando sempre più pesante per il Pd, porta Nicola Zingaretti ad assumere una posizione dura nei confronti di Luca Lotti. Non lo scarica, non lo invita neanche ad autosospendersi dal gruppo del Pd. Anzi, alla fine la giornata fa registrare un vero e proprio braccio di ferro tra i due, con l’ex ministro che vuole avere l’ultima parola.

Questo avviene mentre le carte dell’inchiesta, che via via vengono fuori, raccontano l’attivismo di Luca Lotti per allontanare da Firenze Giuseppe Creazzo, il magistrato che si occupava delle indagini su Tiziano Renzi e la moglie Laura Bovoli, nonché la sua volontà di mandare un “messaggio forte” a David Ermini, eletto grazie ai renziani (e a Lotti) vicepresidente del Csm, ma poco fedele alla causa.

Lotti si affida a un lungo post Facebook a metà giornata, nel quale derubrica le sue manovre a “parole in libertà”. E ci tiene a sottolineare che la Procura di Roma l’ha già rinviato a giudizio (come a dire che non ha alcun interesse personale): “Anche se il futuro Procuratore dovesse essere mio fratello, la richiesta di rinvio a giudizio è già stata fatta e sto affrontando il procedimento penale”. Soprattutto, nel post di Lotti contano le omissioni: il Quirinale negli scorsi giorni ci ha tenuto a smentire il fatto che Sergio Mattarella abbia mai trattato sulle nomine, sostenendo pure che l’ultimo incontro con Lotti risale al 6 agosto 2018, mentre l’interessato, parlando come dice lui “in libertà”, avrebbe sostenuto di essersi recato al Quirinale per parlare della sua vicenda giudiziaria. Al Colle l’ex ministro non dedica neanche una parola.

La reazione di Zingaretti è tiepida. Dalla mattina diventa chiaro che qualcosa dovrà dire. Nonostante le sue personali difficoltà (dati i rapporti con Luca Palamara, prima di tutto) e nonostante la contiguità del suo Pd con quello renziano. Persino i “lottiani doc” hanno difficoltà a difendere il loro capo corrente. Tutti preferiscono tacere o ammettere, a mezza bocca, che in effetti la situazione diventa sempre più insostenibile. L’ipotesi che si fa strada è che il segretario chieda a Lotti di autosospendersi dal gruppo. Quando alla fine arriva la nota ufficiale non c’è niente di tutto questo: “Ogni processo sommario celebrato sulla base di spezzoni di intercettazioni va respinto – dice il segretario dem –. Ma il Pd non ha mai dato mandato a nessuno di occuparsi degli assetti degli uffici giudiziari. Dal punto di vista dell’opportunità politica il partito che ho in mente non si occupa di nomine di magistrati”. E poi si rifugia in calcio d’angolo: “Se emergeranno rilievi penali, mi atterrò sempre al principio garantista e di civiltà giuridica secondo il quale prevale la presunzione di innocenza fino alle sentenze definitive”.

È a quel punto che Lotti risponde: “Ringrazio Zingaretti per aver ricordato che non ho commesso nessun reato e che va respinta e condannata ogni forma di processo sommario”. Però, “sono un po’ sorpreso che lo stesso segretario abbia sentito la necessità di dire che il ‘suo’ Pd non si occupa di nomine di magistrati: perché anche io faccio parte del ‘suo’ Pd e – come ho personalmente detto a lui e spiegato oggi in una nota – non ho il potere di fare nomine, che come noto spettano al Csm”.

“Creazzo va tolto dai coglioni”: così parlavano dopocena

Per Luca Lotti erano i “ragazzi”. Invece erano magistrati in forza alla procura di Roma e consiglieri del Csm. Avrebbero dovuto evitare di discutere con il parlamentare Pd, per di più imputato proprio nella Capitale, delle future nomine. Ma ne parlavano eccome. Il gruppo si preoccupava non solo dei vertici di Roma, ma anche di quelli di Torino. “Però a Torino chi ci va? Scusate se faccio questa domanda”, dice Lotti a quelli che più volte interpella come “ragazzi”. Gli risponde il pm Luca Palamara: “Torino secondo me ormai è aperta”. “Non so – continua l’ex sottosegretario allo Sport – però per me è un pizzico legata alla difesa d’ufficio che devono fare loro due di una situazione fiorentina che sinceramente ve lo dico con franchezza… è imbarazzante”. “Cioè – interviene l’ormai ex consigliere del Csm Luigi Spina – l’unico che se ne va (incomprensibile) e noi te lo dobbiamo togliere dai coglioni il prima possibile omissis)”.

A giudicare dalla conversazione il magistrato che bisogna “togliere dai coglioni” sembra proprio l’attuale procuratore capo di Firenze. “Ma non ha fatto domanda per Torino Creazzo”, interviene un terzo interlocutore. “No, no”, risponde Lotti. E Palamara: “Non perché lui… se lo mandi a Reggio, liberi Firenze”. Lotti replica ancora: “Se quello di Reggio va a Torino è evidente che quel posto è libero e quando lui capisce che non c’è posto per Roma fa domanda non lo sposta nessuno ammesso che non ci sia come voi mi insegnate…”. “Un altro motivo”, interviene il terzo uomo. “… A norma di regolamento un altro motivo”, conclude Lotti.

Il punto è che su Creazzo c’è un esposto che la procura di Genova ha fatto confluire in un fascicolo (nel quale non risulta essere indagato, ndr) e che agli intercettati non pare per nulla pretestuoso. È Palamara che, riferendosi all’esposto presentato da un collega fiorentino di Creazzo, dice: “… che ha raccolto tutte queste cose in un dossier, tutte le cose che non andavano su questa inchiesta e su Creazzo… e ha fatto l’esposto quindi non è proprio una cazzata…”. L’esposto su Creazzo riguarda un’inchiesta fiorentina sulle nomine nell’università di Medicina.

Oltre Creazzo, il consesso commenta anche i comportamenti del vice presidente del Csm David Ermini. Dice il consigliere del Csm Corrado Cartoni: “Ho problemi anche al disciplinare, ho problemi con Ermini”. Gli risponde Palamara: “… e appunto fammi capi’ questo…”. Interviene Lotti: “… Eh ragazzi, vanno affrontate queste cose”. “Digli qualcosa, si deve sveglia’”, dice Cartoni. Ferri aggiunge: “Lo mette sempre in minoranza… raccontagli”. “Corra’ – dice Lotti – te che non c’eri all’inizio ma Ermini non è che… però qualche messaggio gli va dato forte”. I quattro raccontano un ulteriore episodio che però negli atti viene omissato. “Sentito che è successo oggi?”, dice Cartoni. “Sì, diglielo dai” interviene Ferri. E dopo aver raccontato l’episodio Lotti commenta: “Questo non va bene però”. Trovando l’accordo di Palamara: “Non va bene no”. E Lotti: “Mica me lo avete detto questo”.

Il cuore della discussione comunque resta la nomina del procuratore di Roma, che vedrà vincere al primo voto il procuratore generale di Firenze Marcello Viola. Il consigliere del Csm Gianluigi Morlini, è scritto nelle carte, indica “citando il nome di un componente del Csm, Alessio Lanzi, che il risultato di questa conta portava a un ipotizzabile consenso di 13 membri”. Ferri chiede: “Ma Lanzi tiene?”. Interviene Palamara: “Ma Lanzi non lo vedo manco se… Lanzi vota Viola”. E Lotti: “Si vira su Viola, sì ragazzi”.

Poi si passa ai futuri procuratori aggiunti di Roma. “Semmai si fa prima il procuratore”, dice Ferri. “Però – risponde Lotti – entro l’estate gli aggiunti li chiudete?”. E Spina: “No, prima”. “La fine di maggio”, precisa Palamara, “una volta che fai il procuratore”.

Un altro dei presenti dice: “Poi è tutto a scendere, fatto quello è tutto a scendere…”. Nell’atto di incolpazione contro Morlini si sottolinea che lo stesso Palamara era “tra gli aspiranti alla funzione di procuratore aggiunto di Roma” e i “consiglieri presenti a tale conversazione” attuavano secondo l’accusa “un indebito comportamento scorretto”.

E sempre sulla nomina di Viola al vertice della procura di Roma Morlini dice: “… ci sono in commissione quattro intenzioni di voto a favore di Viola, un’intenzione di voto a favore di Lo Voi, un’intenzione di voto a favore di Creazzo (…) fatta da me (…) si dice riflettiamoci un attimo perché sarebbe opportuno non avere un frazionamento a tre, quattro giorni per arrivare al lunedì successivo. Noi contattiamo Creazzo e gli diciamo: ‘Peppe guarda che qui noi ti possiamo votare, ci sono cinque voti nostri e magari un laico, ma tu qua perdi, che si fa?’”. Su Viola invece immaginano di migliorare il profilo della candidatura: “Se avessi un rapporto di fiducia con (omissis) io potrei dire: fai in modo che il profilo di Viola sia bello”, dice Morlini.

Il Csm perde un altro pezzo. Il Colle ordina le suppletive

Giorno dopo giorno cade un pezzo di Csm. Ieri, si è dimesso il terzo consigliere togato, Antonio Lepre, di Mi (conservatori) che segue Luigi Spina e Pierluigi Morlini (Unicost, centristi). Il Presidente della Repubblica Mattarella ha indetto per il 6 e 7 ottobre le elezioni suppletive per sostituire Spina e Lepre con altri togati in quota pubblici ministeri. Per gli altri dimissionari, giudici di merito, ci sono i primi dei non eletti.

Il Quirinale è contrario al tutti a casa: “La richiesta di scioglimento anticipato comporterebbe la rielezione dei suoi membri con i criteri attuali e contrasterebbe con la necessità di cambiare le procedure elettorali da più parti richieste”. Poco prima Silvio Berlusconi aveva chiesto un incontro con Mattarella “per chiedere lo scioglimento del Csm”. E ieri al procedimento disciplinare per 5 consiglieri, aperto dal Pg della Cassazione Riccardo Fuzio, si è aggiunto quello del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: “Condividendo il provvedimento del Pg, ho avanzato ulteriori contestazioni (non come episodi, ma come riferimento normativo)”.

Il fulcro dello scandalo è sempre il dopo cena sulle nomine per il procuratore di Roma alla presenza sconcertante, tra le altre, di Luca Lotti, deputato renziano e imputato per Consip a Roma. Nell’atto di incolpazione del Pg emerge quanto di grave è avvenuto: consiglieri, magistrati e politici, che calpestano le istituzioni per condizionare le nomine di vertici giudiziari, Roma in testa, e consumare “vendette” come quella di “togliere dai coglioni (è Spina che parla, ndr)” il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, perché il suo ufficio indaga i genitori di Matteo Renzi. Lotti si lamenta anche del vicepresidente del Csm David Ermini, suo amico fraterno dal 2005 e super alleato politico, tanto da spingere per la sua elezione a vicepresidente del Csm. Ma Ermini, evidentemente, si smarca, tanto che Lotti sbotta: “Gli va dato un messaggio forte”.

Secondo il pg, non c’è nulla di casuale in quell’oscuro incontro, come hanno sempre fatto sapere i consiglieri dimissionari Spina, Morlini e Lepre e quelli che restano al loro posto, sia pure autosospesi: Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli. Sono di Mi, come il loro mentore, Cosimo Ferri, ex segretario di Mi, ex sottosegretario alla Giustizia con i governi Letta, Renzi e Gentiloni e ora deputato renziano del Pd.

Con loro, Luca Palamara, pm di Roma, ex consigliere Csm potentissimo di Unicost e indagato per corruzione a Perugia. È grazie al trojan inoculato nel cellulare di Palamara che è stata registrata quella riunione del 9 maggio scorso.

Il pg parla di riunione “perfettamente programmata” e ciascuno dei partecipanti “sapeva esattamente e preventivamente chi sarebbe intervenuto e di cosa si sarebbe discusso”. Fuzio scrive che il comportamento dei consiglieri “appare certamente idoneo a influenzare in maniera occulta la generale attività funzionale della Quinta commissione dell’Organo di autogoverno (che tratta le nomine, ndr)”, infatti “sono stati non solo invitati soggetti completamente estranei all’attività consiliare, il dott. Palamara, il dott. Ferri, il dott. Lotti, ma ne è stato accettato e recepito il contributo consultivo, organizzativo e decisorio anche in relazione a una pratica, la nomina del procuratore di Roma, di diretto e diverso interesse personale per almeno due di essi (Lotti e Palamara, ndr)”. Palamara, Ferri e Lotti, dunque, sarebbero i “pupari”.

A Cartoni, giudice disciplinare autosospeso, il pg attribuisce “un’attività propalativa ai soggetti estranei, in particolare a Lotti, di fatti e circostanze inerenti i suoi rapporti con il vicepresidente del Csm, nonché la sua specifica funzione di componente della sezione disciplinare. E ciò non senza esimersi dal rilevare come tali propalazioni abbiano lambito addirittura il segreto della Camera di Consiglio”.

Cartoni, insieme a Criscuoli, sono gli unici consiglieri che non si sono dimessi ma solo autosospesi. Ribadiscono, a chi è loro vicino che non sapevano che avrebbero incontrato Lotti e che chiameranno testimoni in merito al disciplinare.

L’unica cosa che ammettono è che hanno sbagliato a non andar via. Cartoni avrebbe preso male l’accusa della combutta con Lotti, dice in giro che lo vide solo prima dell’elezione di Ermini.

La macchina del tango

L’ultimo grido del tartufismo nazionale è smentire notizie inesistenti per cancellare quelle esistenti e rispondere alle domande sbagliate per eludere quelle giuste. Tipo dialogo tra sordi. “Che ora è?”, “Vigevano”. “Come ti chiami?”, “L’altroieri”. Con questo trucchetto ciascuno può fare e dire quel che gli pare, senza che si arrivi mai al nocciolo della questione: cioè a stabilire cosa è vero, cosa è falso, chi ha fatto (o non ha fatto) cosa. Una grande fumeria d’oppio dove convivono mezze, doppie e triple verità, le une incompatibili con le altre. Prendete lo scandalo del Csm. Il 5 giugno il Corriere narra che Mattarella auspica l’azzeramento del voto sul procuratore di Roma della commissione del Csm, che ha tributato 4 voti a Marcello Viola e 1 a testa a Giuseppe Creazzo e a Francesco Lo Voi, per dare la precedenza agli uffici scoperti da più tempo: l’“ordine cronologico”, purtroppo inesistente fra le regole e le prassi del Csm, che infatti lo adottò una sola volta, sempre su richiesta del Quirinale (èra Napolitano) e sempre per rimettere in gioco lo sconfitto Lo Voi. Il tutto in attesa di un “nome nuovo” in “continuità giudiziaria” col dogma dell’Immacolato Pignatone.

Abbiamo atteso una smentita del Quirinale a quell’incredibile entrata a gamba tesa via Corriere. Invece è arrivata la conferma: il Csm ha congelato il voto del Plenum su Roma in ossequio all’inedito “ordine cronologico”. Non contento, Mattarella ha mandato avanti le consuete “fonti del Quirinale” per far sapere che “non ha mai parlato di nomine, né mai è intervenuto per esse”. È il Csm che ha spontaneamente deciso di calpestare le proprie regole e seguire l’ordine cronologico, ma non perché gliel’ha chiesto Mattarella, bensì perché tutti gli altri consiglieri gli hanno letto nel pensiero. Oppure hanno letto il Corriere e han preso per buono un auspicio falso, che però Mattarella si era scordato di smentire facendolo apparire vero. Nel frattempo sono emerse altre due circostanze imbarazzanti: il verbale del pm Luca Palamara, indagato per corruzione a Perugia, sulla voce circolante nell’ambiente che lui fosse intercettato con un Trojan e che fosse partita dal consigliere giuridico del Colle; e una frase intercettata del deputato-imputato Pd Luca Lotti, che racconta a Palamara di essersi recato al Quirinale per lamentarsi della persecuzione giudiziaria della Procura di Roma contro di lui su Consip. La prima è stata subito smentita dal Quirinale. La seconda no, anzi: il Colle fa sapere che l’ultimo incontro fra Mattarella e Lotti risale al 6 agosto, prima delle richieste di rinvio a giudizio degli imputati Consip.

Dunque è vero che l’imputato Lotti chiese e ottenne udienza da Mattarella per parlare del suo processo: il Quirinale e le sue fonti si scordano di spiegare a che titolo, e se tutti gli italiani imputati possano recarsi in processione a lagnarsene col capo dello Stato. C’è un apposito Ufficio Reclami Vittime Malagiustizia, con tanto di centralino? E qual è il numero? Per aggiungere surrealismo a surrealismo, Repubblica titola: “Il fango su Mattarella”. E perché non il tango? O il mango?

La storiella del “fango” funziona sempre e si porta su tutto, quando si vuole svicolare dai fatti. Tant’è che la racconta pure Lotti, mentre escono le sue intercettazioni (sempre con Palamara) in cui dispensa consigli inferiori al Consiglio superiore su quali magistrati nominare in quali Procure. Dice che a David Ermini, il renziano piazzato da Pd, Unicost e MI alla vicepresidenza del Csm, “qualche messaggio gli va dato forte”, perché non è abbastanza pron(t)o a obbedire. Invece a Creazzo, che a Firenze ha osato far arrestare i genitori di Renzi, Palamara dice che “va messa paura con l’altra storia” (un esposto di pm fiorentini contro il loro capo) e così “liberi Firenze, no?”. Ma la competenza di Lotti si estendeva su tutto il territorio nazionale: “A Roma si vira su Viola, ragazzi… Poi però a Torino chi ci va? Scusate se vi faccio ’sta domanda”. Che gli fregava di Torino? Voleva metterci il procuratore di Reggio Calabria, dove a quel punto sarebbe andato Creazzo, liberando Firenze per le terga di un amico degli amici. Conclusione del Pg della Cassazione: “Si è determinato l’oggettivo risultato che la volontà di un imputato abbia contribuito alla scelta del futuro dirigente dell’ufficio di procura deputato a sostenere l’accusa nei suoi confronti”. Uno normale, in un partito normale, si dimetterebbe e andrebbe a nascondersi. Ma Lotti non è uno normale e il Pd non è un partito normale. Infatti Zingaretti continua a balbettare che “non c’è nulla di illecito” e a non muovere un dito. E Lotti fa addirittura la vittima: strilla alla “montagna di fango contro di me”, oltre “i livelli minimi di accettabilità” (li decide lui). E i suoi traffici intercettati? “Ho espresso liberamente le mie opinioni: parole in libertà, non minacce o costrizioni. Quindi ho commesso reati? Assolutamente no. Ho fatto pressioni o minacce? Assolutamente no. In questi anni ho incontrato decine di magistrati, per i motivi più svariati: se è reato incontrare un giudice non ho problemi a fare l’elenco di quelli che ho incontrato io, in qualsiasi sede”. La classica smentita che respinge accuse (minacce, costrizioni e pressioni) mai lanciate da alcuno e nega reati (incontrare magistrati) mai contestati da alcuno, per non affrontare l’unico, vero scandalo che lo riguarda: un parlamentare imputato che suggerisce i nuovi procuratori di Roma (dove ha un processo) e di Firenze (dove vive e opera) a chi deve nominarli e richiama all’ordine il vicepresidente del Csm che lui stesso, senz’averne alcun titolo, ha contribuito a far eleggere. Il classico dialogo tra (finti) sordi. “Vai a pescare?”, “No vado a pescare”, “Ah credevo che andassi a pescare”.

“La Bonansea l’ho scoperta io: una Barbie Gambelunghe”

Da domenica pomeriggio tutti gli italiani sono diventati allenatori di calcio femminile. Solo uno, però, può dire di aver fatto esordire in Serie A Barbara Bonansea, la ragazza che con due gol ha battuto l’Australia, senza passare per impostore: io.

Barbara, gambe lunghe per scattare, era già alta un metro e 70 quando aveva 15 anni, proprio oggi ne compie 28. La conobbi che giocava nella Primavera del Torino calcio femminile, allenata da Roberto Panigari, il suo vero scopritore. Panigari me la fece convocare la prima volta nella squadra maggiore per una partita di Coppa Italia che giocavamo a Sanremo e che vincemmo facilmente perché la Matuziana, il nostro avversario, era in Serie B.

In queste ore in cui i giornalisti cercano di scandagliare la vita sportiva (e non) di Barbara gira un papelito nel quale Bonansea è segnata con il numero 14, in panchina, insieme a un’altra giovanissima, il portiere Serafino. La calligrafia è quella di Alberto Cerutti, il team manager di allora, ma la decisione di portarla in panchina fu mia. Era il 7 gennaio 2006.

Barbara entrò a mezz’ora dalla fine, a partita già decisa. Le avevo chiesto di fare l’esterno di centrocampo (giocavamo con il 4-4-2) e lei si mise sulla destra, proprio davanti alla mia panchina. Aveva una corsa impetuosa e un po’ scomposta, la tecnica era da raffinare, ma con la sua falcata andava più veloce della palla. Non dribblava l’avversaria, la saltava prepotentemente. La sua fase offensiva mi entusiasmava, doveva però imparare anche a rientrare, a ricompattare la linea e a contrastare.

Niente. Quando l’azione ripartiva, lei corricchiava o addirittura camminava. La ripresi una volta. La ripresi la seconda. Alla terza alzai la voce. Non era infrequente che lo facessi anche se stavamo vincendo. Barbara si girò verso la panchina, mi guardò e mi disse: “Perché continui a urlare, lasciami giocare in pace”. Non la tolsi solo perché non avevo altri cambi e poi perché non sarebbe stato giusto mortificare una ragazzina, anche se ero stizzito per il suo comportamento. Dissi a Panigari: “Ma chi è questa Bonansea?”.

Lo capii un anno dopo quando, a seguito di prestazioni sempre più convincenti, entrò nella rosa della prima squadra, fece il suo debutto in Serie A e cominciò a segnare con continuità. Non che fosse una bomber, piuttosto una polivalente capace di assolvere i ruoli di centrocampista di fascia e di attaccante esterno, però aveva una marcia in più quando si trattava di azzannare il pallone e calciare. Ma aveva anche imparato a servire una compagna meglio piazzata e ad affrontare un’avversaria senza paura.

Non so se fosse cambiata da sola e quanto, fatto sta che non mi rispose più, si mostrava umile e disponibile, lavorava per la squadra anche negli allenamenti. Una volta le chiesi di sostituire Ilaria Pasqui durante un’esercitazione undici contro zero, cioè quando si provano i movimenti nella costruzione del gioco senza avversario. Era ancora una riserva, ma mi serviva un attaccante esterno e le dissi: “Barbara, quando non c’è, tu fai Pasqui”. Mi prese talmente alla lettera che più di una volta, mentre assegnavo le casacchine (in gergo i “fratini”), lei mi anticipava con la solita domanda: “Mister, io faccio Pasqui?”.

Pasqui, ora responsabile del settore femminile dell’Inter, è stata una nazionale di lungo corso, ha giocato un Europeo nell’Italia di Carolina Morace e, pur essendo più attaccante di Barbara, le è stata di aiuto nella sua crescita.

Con Bonansea molti allenatori e allenatrici sono stati più bravi di me. Milena Bertolini, il c.t. della Nazionale, l’aveva già avuta a Brescia. Rita Guarino l’ha chiamata a Torino nella Juve. Barbara ha vinto sia dall’una che dall’altra parte (tre scudetti in tutto), ma ha anche imparato cosa sia la tattica ad alto livello, la dedizione per la causa comune, il rispetto per il lavoro. Anche se adesso la chiamano BB (da noi era Barbie) non si crede una primadonna, sa che nel calcio tutto è effimero e perciò ha pudore del successo che ti investe e, come un’onda, ti trascina dove non vuoi.

Negli ultimi anni l’ho incontrata solo due volte e non sapevo cosa dirle. Addirittura un po’ mi imbarazzava ricordare il passato. Allora le ho sillabato all’orecchio: “Ma quanto brava sei diventata?”. Lei mi ha guardato con il suo sorriso lucente e ha scosso la testa quasi fosse un segreto.

Il problema è che adesso lo sanno tutti. Specialmente le avversarie (e domani, alle 18, c’è la Giamaica, battuta 3-0 dal Brasile) e la marea montante di italiani che, allo stadio e da casa, chiederanno a Barbara Gambelunghe di non fermarsi ancora, di non fermarsi più.

Morgan: “Occupiamo la mia casa pignorata”

Un flash mob per evitare lo sfratto. A chiederlo è Morgan, il cantante e personaggio televisivo che presto dovrà lasciare la sua abitazione di Monza per effetto di un pignoramento deciso dal Tribunale della stessa città a fine 2017. I giudici avevano accolto le ragioni delle ex mogli di Morgan, Asia Argento e Jessica Mazzoli, che lamentavano i mancati pagamenti degli alimenti per le figlie Anna Lou e Lara, ma da mesi l’ex leader dei Bluvertigo sostiene di non aver rispettato gli obblighi perché trovatosi all’improvviso senza soldi per colpa di chi gli gestiva gli introiti. Adesso, a ridosso dello sfratto e della vendita all’asta della casa, Morgan ha inviato una richiesta d’aiuto ad amici e colleghi. Obiettivo: aiutare “un uomo-artista-cittadino che viene cacciato da casa sua ingiustamente”, ricorrendo anche all’occupazione se necessario.

Nell’appello il cantante rivendica il suo impegno “di divulgatore musicale a livello nazionale, che sarebbe bastato a non consentire una simile e umiliante circostanza”, prima di dare appuntamento ai suoi: “Monza, venerdi 14, ore 9 di mattina. Se verrò arrestato per questo e non per aver commesso un reato sarà perché sono stato lasciato solo”. D’altra parte Morgan ha più volte ribadito come, in caso di sfratto, non avrebbe a disposizione altre abitazioni: “Se verranno a sbattermi fuori dormirò sul marciapiede davanti a casa, come un cane che non vuole abbandonare la propria dimora”, aveva spiegato a Libero qualche giorno fa. Motivo per cui mobilitare gli amici: “Nessuno è riconoscente? Nessuno è complice? Tutti hanno impegni proprio quel giorno? Dove siete artisti che scrivono canzoni? La pietà dov’è? Indignatevi, vi sto chiedendo esplicitamente di appoggiarmi”. A nulla, secondo Morgan, sono serviti i compensi televisivi di questi anni – il cantante è tuttora impegnato come giudice di The Voice, dopo le esperienze ad Amici e X-Factor – perché affidati alle persone sbagliate: “Da una giorno all’altro – aveva scritto su Facebook – sono venuto a sapere che ho un gigantesco debito con l’Agenzia delle entrate, accumulatosi in dieci anni di tasse mai pagate. Non sapevo nulla perché nessuno me lo aveva detto”. Da lì i mancati alimenti e la causa in Tribunale, in un momento in cui, stando a quanto dichiarato dal cantante, neanche la vendita della casa risanerebbe i suoi conti in rosso.

Nonostante le vicende giudiziarie, oggi Morgan giura agli amici di essere sempre stato “integro, civile e serio” e di essere protagonista di “una situazione insostenibile e moralmente inaccettabile”. Per questo il cantante è pronto ora a disobbedire alla legge per mantenere la casa: “Come dice Silvano Agosti, una volta che uno ha un tetto, dei vestiti e del cibo tutto il denaro in più è una sconfitta, una protesi per comprarsi il pezzo di mondo che non ha dentro di sé. Bene, a me stanno togliendo il tetto”.

Il coach uccide il sesso. Sul set non serve il garante

“Da regista, non lo permetterei mai”. A rispedire Oltreoceano l’intimacy coordinator è Michele Placido: “Nel film che mi accingo a girare su Caravaggio, ci starebbe come un ascensore: io devo attenermi alla verità di Michelangelo Merisi. Le modelle che impiegava erano tutte prostitute minorenni, poveracce, diseredate, grazie a Dio siamo registi italiani: gli americani si facciano i loro film surgelati e si tengano il garante del sesso, noi ci teniamo il Rinascimento”.

Dell’intimacy coordinator, figura nata in epoca #MeToo sui set statunitensi per salvaguardare e disciplinare gli interpreti nelle scene di nudo e sesso, Placido non si capacita: “Il maestro Orazio Costa ci faceva spogliare, ma difficile era mettere a nudo l’anima, non il corpo”. Il regista e attore rispolvera Leonardo da Vinci: “Diceva, ‘io non sono un uomo né una donna, io sono un artista, e non ho il problema della carnalità, ma di essere al servizio dell’arte’” e traduce sul set: “Un conto è l’ispettore di produzione, che tutela i minori e l’incolumità fisica; un altro sono le possibilità del corpo, le ragazze devono essere al servizio della produzione e della regia”. Ne va della stessa espressione artistica: “Nel mio primo film, Il caso Pisciotta per la regia di Eriprando Visconti, finivo sodomizzato: la messa in scena è sovente oscena. Anche nei dipinti commissionati dalla Chiesa nel Rinascimento, non dimentichiamolo”. Tornando a Caravaggio, “non potrei oggi filmare un quattordicenne nudo come quello ritratto in Amor vincit omnia, ma il quadro scandaloso custodito a Berlino posso riprenderlo, così magari in America non mi fanno uscire il film…”.

Più morbido Mimmo Calopresti, che pure non dissimula la sorpresa: “Un garante per le scene di sesso? Incredibile! Una garanzia sui diritti, sull’etica bisogna imporla sul set, ma chi lo decide, gli attori, la produzione, chi?”. Di fronte all’ipotesi di importazione, eccepisce: “Basterebbe un po’ più di buon senso, buon vivere e onestà intellettuale, e affrontare le situazioni con serenità”. Ma è vero che “dall’altra parte dell’oceano tutto è regolato da contratti, sicché se c’è qualcuno che garantisce il più debole io ci sto”. Alle nostre latitudini, dove “il rapporto tra regista e interprete è sovente personale e intimo”, servirebbe piuttosto “qualcuno che crei una distanza: ci sono momenti troppo forti, di tensione e violenza, e raffreddare aiuterebbe. I registi odiano i coach degli attori, invece, io li ritengo importanti: creano un utile diaframma. Perché nelle scene più intense non vuoi sentire ragioni, tantomeno obiezioni, dagli attori: ‘Ma perché – ti chiedi – questo mi rompe i coglioni?’”.

“Ho fatto tante scene di nudo, e non ho mai avuto problemi: ho sempre trovato la giusta misura con gli autori”, dichiara Claudia Gerini, nelle sale con A mano disarmata di Claudio Bonivento. “In Italia se non te la senti, non ti possono imporre nulla, devono chiederti l’autorizzazione anche per eventuali take con la controfigura: si è abbastanza tutelati, per così dire, sulla parola”. Al contrario, negli Stati Uniti “tutto è gerarchico e normato: ci sono attrici che addirittura mettono sul contratto il divieto di guardarle negli occhi, per paura di persecuzioni dei fan, provocazioni sessuali e sguardi penetranti. Esasperano ogni cosa, ancor più col #MeToo: in un sistema industriale è comprensibile mettere dei paletti, ma finché non si lede l’interprete non è un peccato chiudere i centimetri di pelle scoperta dentro quattro regole?”. Per la Gerini “buon senso e sensibilità posson bastare: capisco che perdere una giornata per il diniego di un’attrice possa costare 300 mila dollari, ma serve un garante del sesso? A me creerebbe solo intralcio, di più, fastidio. Il nudo è di per sé complesso, ci sono attori che hanno un brutto rapporto col proprio corpo, qui da noi l’intimacy coordinator garantirebbe solo ulteriori imbarazzi”.

“Le scene di sesso sono problematiche sia per chi dirige sia per chi deve farle. Negli Usa sono maniacali, anche nella divisione dei ruoli, al contrario, noi ci fondiamo sulla commedia dell’arte, sull’improvvisazione”, precisa Ricky Tognazzi. Della sua esperienza da aiuto di Tinto Brass per La chiave, ricorda: “Descriveva fino al più piccolo dettaglio nella sceneggiatura, dalla cimice all’occhiello alla pipì della Sandrelli nella calle: Stefania aveva qualche dubbio, ma – le spiegai – ‘se ha scritto così vuole così’, e infatti”. Pur avendo girato una “una scena molto erotica con Zingaretti e la Ferilli in Vite strozzate”, il regista non si fa illusioni: “Brass, Salvatore Samperi, Helmut Newton, i pochi maestri dell’erotismo ne hanno fatto un genere, perché il sesso al cinema è complicatissimo. Non ha nulla di sensuale, sei in mezzo a cinquanta persone, devi simulare ancor di più, e il garante del sesso a che pro?”. Eppure, a qualcuno sarebbe servito: “Alle attrici che hanno lavorato con mio padre Ugo: era un seduttore naturale, anche quando non ci provava. Trovava sempre il modo di rapportarsi in termini amicali, perfino sensuali. Del resto, erano altri tempi: rispetto alla libertà degli anni 60 e 70 oggi siamo tornati indietro, eccome”.

 

Netflix “rilegge” un caso di stupro: l’ex procuratore si sente diffamato

Ci vollero 25 anni per fare (forse) giustizia, ché i dubbi restano: roba da Italia, non da Stati Uniti, dove i tempi delle inchieste e dei processi sono rapidi. Ma la storia dei Central Park Five, cioè cinque ragazzi di colore condannati per lo strupro nel 1989 di una broker di Wall Street che faceva jogging a Central Park e incarcerati per anni, prima di essere scagionati, non finisce mai. Aveva già ispirato un documentario di Ken Burns, intitolato proprio Central Park Five e presentato ai Festival di Cannes e di Toronto nel 2012; e adesso ispira una serie di Netflix, When They See Us, che, uscita il 31 maggio, riapre ferite e polemiche.

A prendersela, è soprattutto Linda Fairstein, che, all’epoca, era alla Procura di Manhattan: sostiene che la serie televisiva la diffama e non racconta nel modo giusto il suo ruolo e il suo operato. In un intervento sul Wall Street Journal, che ha avuto ampia eco sulla stampa americana, lFairstein scrive che la serie è “così piena di distorsioni e falsità da essere una completa invenzione” e sostiene di esserne “diffamata”. Ma c’è chi ha notato che neppure alcune sue affermazioni trovano riscontro nella ricostruzione ufficiale della vicenda. La storia ci porta nel 1989: Manhattan è una giungla violenta; Central Park un luogo da evitare, soprattutto la notte; il tempo dello sceriffo di Law and Order, e poi sindaco dell’11 Settembre 2001, Rudolph Giuliani, sta per arrivare, ma non è ancora giunto. Cinque ragazzi, Kevin Richardson, Yusef Salaam, Antron McCray, Raymond Santana, Korey Wise, tutti neri o ispanici, tra i 14 e i 16 anni, vengono arrestati per lo stupro di Trisha Meili, una donna bianca e, dopo lunghi interrogatori, confessano; ma poi ritrattano, sostenendo che la confessione era stata loro estorta. Sono lo stesso tutti condannati a pene dai 6 ai 13 anni.

Nel 2002, un giudice annulla le loro condanne, dopo che un altro uomo, Matias Reyes, un ‘latino’, detenuto per altri stupri, confessa il crimine, sostenendo di avere agito da solo. Il test del Dna ne conferma la colpevolezza. Fairstein guidò l’unità ‘crimini sessuali’ della Procura di Manhattan dal 1976 al 2002 ed è poi diventata un’autrice di gialli di successo.

Nel 2014, la città risarcì con 40 milioni di dollari quei cinque ex ragazzi, ormai uomini fatti. Ma qualcosa ancora non quadra: medici che curarono la broker aggredita e stuprata sostengono, in base alle lesioni riscontrate, che Reyes non può avere agito da solo. La confessione di Reyes fu la base per un’azione legale da 250 milioni di dollari contro New York, intentata dai cinque per violazione dei diritti civili. Dopo un decennio di contese giudiziarie, il sindaco Bill de Blasio decise di riparare il danno: i Central Park Five sono in libertà dal 2002; e ora sono milionari: un milione di dollari ciascuno per ogni anno passato in galera. Loro si sono sempre proclamati innocenti. La Meili non ha mai ritrovato la memoria di quanto accadde. I medici gettano ombre sulla confessione di Reynes, che, in carcere per altri delitti, non fu mai processato per questo perché il caso era prescritto.