Il clan politico dei Mitsotakis balla il sirtaki, Tsipras annaspa

Tra meno di un mese Alexis Tsipras non sarà più il presidente del Consiglio greco, se i sondaggi dovessero tradursi in voti. A prendere il suo posto, dopo quattro anni di tribolato governo, sarà Kyriakos Mitsotakis, membro di una delle famiglie più note del panorama politico greco dal secolo scorso.

Dopo la pesante sconfitta di Syriza – il partito di sinistra un tempo radicale di cui il premier è il leader – alle recenti elezioni europee, Tsipras aveva annunciato elezioni legislative anticipate “per evitare mesi di campagna elettorale che potrebbe avere conseguenze negative sull’economia del Paese”. Due giorni fa il presidente della Repubblica Pavlopoulos ha accettato di sciogliere le Camere e fissato le consultazioni legislative per il 7 luglio anziché a fine ottobre come stabilito prima del trionfo di Nea Demokratia. Dalle intenzioni di voto, il partito di centrodestra è in vantaggio di 7 punti sul rivale di sinistra che si fermerebbe al 25%.

Il merito della resurrezione di Nea Demokratia sembrerebbe dovuto al ‘nuovo’ segretario Kyriakos Mitsotakis, eletto nel 2016. In realtà, a spingere nuovamente i greci nelle braccia di Nea Demokratia alle scorse Europee e quindi alle Amministrative di due settimane fa, è stata la paura di nuovi tagli alle pensioni e un ulteriore aumento delle tasse. Che sono le ultime misure di austerity richieste a Tsipras dalla ex troika quando nell’agosto dell’anno scorso acconsentì all’uscita della Grecia dal memorandum.

Il secondo fattore che potrebbe far tornare i conservatori alla guida del Paese è il vento di destra che spira in Europa, anche se la tempesta sovranista non si è verificata.

Se il cinquantenne Mitsotakis vincerà, avrà come stretto alleato Kostas Bakoyannis, 40 anni, neo sindaco di Atene (eletto lo scorso 2 giugno al ballottaggio con una vittoria schiacciante di 25 punti), non solo perché collega di partito ma per ragioni familiari. Bakoyannis è infatti figlio della sorella di Kyriakos, Dora, vedova del deputato conservatore Pavlos Bakoyannis, assassinato nel 1989 dall’organizzazione terroristica di estrema sinistra ‘17 Novembre’. La donna, già sindaco della capitale greca nei primi anni del Duemila quando Atene stava per prepararsi a ospitare le Olimpiadi (2004) ricoprì anche il ruolo di ministro della cultura e, più tardi degli Esteri.

Kyriakos e Dora sono figli dell’ex primo ministro Constantine Mitsotakis, il patriarca della famiglia originaria dell’isola di Creta morto nel 2017 all’età di 98 anni. Il ‘gigante cretese’, come veniva chiamato per la sua imponente statura fisica, più che per l’abilità politica, ebbe incarichi ministeriali dagli anni 50 in poi fino ad arrivare a sedersi sulla poltrona di presidente del Consiglio (dal 1990 al 1993) in una amministrazione di Nea Demokratia di cui fu presidente dal 1984 al 1993. Kyriakos Mistotakis, economista formatosi ad Harvard, così come il nipote Kostas, ha già promesso “tagli fiscali, un sacco di buoni posti di lavoro, sicurezza per tutti e uno stile diverso di governo”. Entrambi durante le rispettive campagne elettorali hanno sottolineato di voler migliorare la sicurezza pubblica, cercando così di capitalizzare la falsa percezione di molti greci, ampliata dalla propaganda dei giornali e tv vicini al partito conservatore, circa l’inazione del governo Tsipras nei confronti del vandalismo anarchico. Il risultato delle elezioni amministrative ha reso ancora più euforici zio e nipote, visto che ben 13 regioni della Grecia sono andate al loro partito.

In uno dei suoi primi commenti dopo l’elezione, Bakoyannis ha detto di provare “choc e timore” per un risultato elettorale “che supera ogni aspettativa” e ha quindi aggiunto: “Vogliamo che tutti gli ateniesi si sentano parte del cambiamento che vogliamo portare in città”.

Il sindaco aveva solo undici anni quando il padre venne freddato, e con un linguaggio non proprio da statista ha detto che “lo ha fatto andare fuori di testa” la decisione dell’amministrazione Tsipras di concedere ripetutamente al principale sicario di ‘17 novembre’, Dimitris Koufodinas, condannato all’ergastolo, permessi premio per buona condotta. Un’accusa del tutto strumentale visto che tra le facoltà del primo ministro non vi è quella di intervenire sulle decisioni dei dipartimenti amministrativi carcerari. Il primo cittadino di Atene si definisce un maniaco del lavoro e nel 2010, all’età di 33 anni aveva ricoperto il ruolo di sindaco di una piccola città montuosa, Karpenissi, per poi diventare governatore regionale per la Grecia centrale. Il 7 luglio il clan politico Mitsotakis da Creta potrebbe soffiare il primato alla dynasty Papandreu che diede alla Grecia tre primi ministri, tra il 1944 e il 2009.

“La Cina vuole tutti in ostaggio”

“Se la legge che permette l’estradizione dei sospetti criminali da Hong Kong alla Cina venisse approvata, sarebbe preoccupante non solo per i suoi cittadini, ma anche per gli stranieri e per chiunque transiti sul suo territorio”. Andrea Sing-Ying Lee è il Rappresentante di Taiwan in Italia – l’isola a 180 km dalla costa cinese che dal 1949 rivendica la propria indipendenza da Pechino – ed è certo che la nuova norma aprirà le porte alla persecuzione anche politica di cittadini invisi a Pechino.

Per questo “le proteste di questi giorni del popolo di Hong Kong – spiega – sono assolutamente legittime”. “Taiwan appoggia i cittadini hongkonghesi che sono scesi in strada per difendere i diritti umani e lo Stato di diritto del loro Paese”, continua Lee. La norma contro cui più di un milione di persone a Hong Kong sta manifestando – scontrandosi con la polizia che ha caricato con proiettili di gomma e gas lacrimogeni, causando 70 feriti, di cui due gravi –, viola non solo l’accordo secondo cui l’isola non può subire interferenze né giuridiche né politiche da parte della Repubblica Popolare Cinese fino al 2047, cioè per i 50 anni successivi al ritorno sotto la sovranità cinese nel 1997. Ma, soprattutto “vedrebbe cancellate libertà che in Cina non esistono”, sostiene il rappresentante di Taiwan, quelle acquisite da Hong Kong sotto il sistema britannico di cui fu un governatorato dal 1898. “Esorto il governo ad ascoltare le preoccupazioni della sua popolazione”, è stato l’appello lanciato dal ministro degli Esteri britannico Jeremy Hunt. Eppure la governatrice Carrie Lam – che ha dichiarato di non avere intenzione di ritirare la legge tanto discussa, nonostante le proteste – sostiene che “la norma garantirebbe in alcuni articoli “l’applicazione della richiesta di estradizione in Cina soltanto di persone sospettate per stupro e omicidio oltreché il rispetto dei diritti umani”. “Il sistema giudiziario cinese è noto a tutti per le sua mancanza di trasparenza”, sostiene invece Lee, “non è detto che Pechino garantisca agli imputati gli stessi diritti di Hong Kong”. Dunque, si domanda Lee, “perché non lasciare che a processare gli accusati sia il proprio sistema giudiziario invece di inviarli in Cina?”.

Per non parlare dei danni “anche economici che potrebbero derivare a Hong Kong da questa legge”, spiega ancora Andrea Lee, al quale non sfugge che tra l’isola e Pechino “ci siano già leggi di cooperazione dal punto di vista giuridico” e che quindi questa “nuova concessione al governo di Xi JinPing non sarebbe poi così necessaria”.

“In questo modo – afferma – tutte le aziende straniere che operano sul territorio di Hong Kong potrebbero non sentirsi più protette da uno Stato di diritto con leggi eque, sensazione che avrebbe in realtà chiunque transitasse anche solo per l’aeroporto dell’isola rischiando di essere estradato in Cina se Pechino lo ritenesse in qualsiasi momento necessario”. Non nasconde il tema degli oppositori politici Lee, come i cittadini di Taiwan, Paese di dissidenti secondo Pechino, che a Hong Kong “ha investito 30 miliardi di dollari” e ha creato “centinaia di aziende in cui lavorano più di 100 mila taiwanesi”. “Una situazione preoccupante”, la definisce il rappresentante di Taipei in Italia. Intanto la Cina, che fin dalle prime proteste di domenica ha fatto sapere che appoggia la legge, ha negato le voci secondo cui avrebbe inviato forze di sicurezza dalla terraferma. “Sono solo notizie per creare il panico”, ha detto il ministro degli Esteri di Xi JinPing, Geng Shuang, dopo che fin dalle prime ore della protesta aveva chiesto all’Occidente di “non intromettersi nella questione”. Eppure, nonostante in teoria la nuova legge sia nata dopo la fuga a Hong Kong di un omicida cinese, i sospetti verso Pechino si sono rafforzati per una serie di sparizioni di oppositori al potere cinese, fra cui anche un gruppo di editori dissidenti e un miliardario, poi ricomparsi nelle prigioni della Cina continentale.

Non a caso a Pechino la copertura mediatica delle proteste è stata molto limitata. A differenza di quanto è accaduto in tutto il mondo, in cui gli scontri – ancora più imponenti “delle proteste degli ombrelli” che nel 2014 chiedevano il suffragio universale per l’elezione del governatore – hanno invaso social, tv e siti di news. “Speriamo che queste immagini tristi che ricordano Tienanmen e altri scontri del passato non diventino la norma in un Paese pacifico, ma siano un’eccezione”, si augura Lee. Intanto Pechino ieri ha fatto sapere di aver aperto la prima tratta ad alta velocità che collegherà Tianjin, nella Cina continentale, a Hong Kong, operativa dal 10 luglio. La tratta toccherà 12 stazioni, facendo salire così i collegamenti con l’ex colonia britannica a 58.

Magliette rubate, tutti i buchi nella difesa di Marco Carta

“È difficile credere alle cose belle, ma è possibile”, ha dichiarato il cantante Marco Carta a Domenica Live qualche giorno fa, quando per la prima volta ha parlato dell’ormai noto furto di magliette alla Rinascente di Milano per il quale sarà processato a settembre per direttissima. In effetti è davvero difficile credere a tutte le cose belle che ha raccontato, perché la sua versione dei fatti è lacunosa e zoppicante, costellata di “Non posso rispondere”. Decido quindi di chiamarlo per farmi chiarire alcuni punti.

Intanto l’antefatto: venerdì 31 maggio la Rinascente in Duomo è stracolma di persone, c’è il Black Friday. Poco dopo le 20, Marco Carta e l’amica che faceva shopping con lui, Fabiana Muscas, stanno uscendo dalla Rinascente quando suona l’allarme. Un uomo della sicurezza li porta nel retro e trova sei magliette del valore di 1.200 euro nella borsa della Muscas. Magliette a cui è stato asportato l’antitaccheggio rigido ma non quello flessibile nascosto all’interno. Nella borsa c’è anche un cacciavite. Carta e la Muscas vengono arrestati ma, dopo qualche ora in cella, l’arresto per il cantante non viene convalidato (per l’amica invece sì). Il giorno dopo si svolge l’udienza per direttissima e il processo viene fissato a settembre.

La testimonianza dell’addetto ai controlli è la seguente: “Ho notato una coppia che si guarda spesso intorno e visto il comportamento anomalo ho deciso di seguirla. I due prendono delle maglie dagli espositori per poi salire con la scala mobile fino al terzo piano. Marco Carta entra in camerino, l’amica gli passa delle maglie. Poi gli passa la borsa. Carta esce dal camerino e non hanno più le magliette. Vanno al quarto piano, Carta entra in bagno, esce subito. Al secondo piano il cantante acquista un costume, poi i due vengono fermati all’uscita”. Nel bagno in questione vengono trovate le placche dell’antitaccheggio abbandonate sul pavimento.

Per il giudice Stefano Cramellin, che non ha convalidato l’arresto di Carta “nessuna circostanza descritta nel verbale d’arresto costituiva sufficiente sintomo del concorso di Carta nel furto”. Dopo aver visto l’intervista di Carta a Domenica Live però, di dubbi ne restano parecchi. Intanto perché definisce l’amica di vecchia data Fabiana Muscas “una persona”. “Ero con una persona”, dice, come a voler prendere le distanze. Afferma di non ricordarsi cosa si sia detto con “la persona” e gli addetti alla sicurezza quando hanno trovato la merce rubata.

In compenso ricorda bene quello che è accaduto prima, perché sostiene che quello che ha riferito la guardia non sia vero: “Non so perché abbia detto queste cose”. Quindi la guardia si è inventata tutto?

Marco Carta, in tv hai confermato di essere entrato nel camerino, di aver provato le maglie e che lei te le ha passate. Confermi anche di essere entrato in bagno. Dopo che hai provato le maglie in camerino, non ti sei accorto della loro sparizione?

Non sono sparite, le ho lasciate in cassa.

E le magliette che la Muscas aveva in borsa da dove arrivavano?

Non lo so, lo shopping non lo abbiamo fatto sempre insieme.

Le maglie rubate erano da uomo?

Sì.

Erano quelle che ti sei provato in camerino?

No… cioè, non lo so, forse no, ma le ho viste da lontano in ufficio, le ho intraviste…

Come ha fatto la Muscas a togliere l’antitaccheggio senza che tu te ne accorgessi?

Non lo so.

Ti ha passato o no la borsa mentre eri in camerino?

Non me l’ha passata, l’ha poggiata sulla sedia in camerino.

Non ha molto senso che tu provi delle cose e ci sia la borsa della Muscas mentre lei resta fuori.

Mi ha detto che la borsa le pesava.

Strano pure che vengano trovate le magliette proprio in quella borsa che le pesava ed è rimasta senza proprietaria in camerino con te.

Se una persona si separa poi ha il tempo di fare delle cose. I video li ho visti e non solo per quel che riguardano me, so probabilmente quando è stata fatta la cosa.

Però in bagno ci sei andato tu e gli antitaccheggio sono stati trovati in bagno.

Io avevo un jeans e una maglietta, dove li mettevo sette antitaccheggi?

In bagno la Muscas non è andata.

Questo non lo so.

In tv l’hai detto tu di essere andato nel bagno del quarto piano.

Non posso dire queste cose, metto in difficoltà le indagini.

L’antitaccheggio è stato trovato nel bagno in cui sei andato tu o no?

No. O forse sì, ma anche altrove. E non si sa se quegli antitaccheggi sono di quelle magliette rubate… anzi ovvio che no, perché non erano dello stesso quantitativo delle maglie.

Ti hanno visto alla Rinascente anche il giorno prima del furto.

È un punto a mio favore, io sono andato a prenotare delle cose che poi ho comprato.

In effetti si possono prenotare prodotti alla vigilia del Black Friday. Il papà della Muscas ha detto che la figlia ti ha coperto, che si è presa la colpa.

Allora va a parlare con i miei, così uno a uno e palla al centro. Io comunque non parlo di questa persona.

Perché la chiami “questa persona” visto che è una tua amica di vecchia data, una tua fan?

Questo lo dici tu.

Lo hai ammesso tu in tv.

Sì, è un’amica carissima, ma non una fan.

Alla fine Marco Carta confessa che per questa cosa ci sta rimettendo la salute, le perplessità ci sono e le capisce, chiede solo che ci sia meno foga verso di lui. Gli rispondo che in tv è andato lui a parlarne. “Era giusto dire delle cose, ero spezzato”, risponde.

Certo, delle perplessità sulla sua versione restano, è strano che la sua carissima amica l’abbia raggiunto a Milano partendo da Cagliari, ma che alla famiglia abbia detto che andava a Roma in vacanza, per dire. Di certo, però, ci sono solo due cose: il giorno dopo l’udienza, Carta era già a Mykonos e guarda caso, per la prima volta veniva paparazzato in effusioni col suo fidanzato Sirio, commesso in un negozio in via Sant’Andrea a Milano.

Un anno fa il coming out era avvenuto giusto il giorno prima l’uscita del suo disco. Sempre nello stesso salotto tv. Aveva sostenuto di aver rivelato la sua omosessualità “anche per i ragazzi che ci guardano, per le famiglie”. Il primo giugno però è stato invitato al Modena Pride e ha chiesto 8.000 euro (gli hanno risposto “no, grazie”). Senza compenso, la causa LGBT gli sta un po’ meno a cuore. Ah, il 21 giugno esce il suo nuovo disco. Lo ha ricordato anche questa volta in tv, subito dopo aver difeso la sua innocenza. E forse sarebbe meglio per lui cantare e basta, fino a settembre, quando – si spera – uscirà da questa vicenda pulito come un foglio di Carta bianchissimo.

Mattarella, il Csm e le straordinarie virtù predittive del “Corriere”

Le benemerite fonti del Colle ci hanno informato ieri che no no, il capo dello Stato queste cose non le fa: “Non ha mai parlato di nomine di magistrati, né è mai intervenuto per esse”. Al massimo s’è permesso un intervento “di carattere generale, per richiamare il rispetto rigoroso dei criteri e delle regole” del Csm di cui è presidente. Siccome noi abbiamo un religioso rispetto del Colle e delle sue fonti diamo per scontato sia così. E dunque vogliamo celebrare qui le straordinarie virtù predittive del CorSera, che molti giorni fa sostenne – pur attribuendo a Mattarella pensieri mai fatti – che la nomina a capo della Procura di Roma sarebbe stata fermata prima di arrivare al plenum del Csm per adottare “l’ordine cronologico” (di liberazione della poltrona), una cosa inventata da Napolitano per bloccare anni fa una nomina sgradita alla Procura di Palermo. Non che il Quirinale si occupi di nomine, per carità, ma siccome l’altroieri il Csm si è buttato sull’ordine cronologico, per noi ormai il CorSera è la Sibilla Cumana: in questa fase di decantazione, vaticinò il quotidiano, emergerà “un nome nuovo” rispetto a quello prodotto dalla “inspiegabile accelerazione” precedente (Marcello Viola, che aveva preso più voti in commissione), un nome magari “in continuità giudiziaria” con la stagione di Giuseppe Pignatone. Ecco, al Quirinale di queste cose non si occupano, ma noi 10 euro su Giuseppe Lo Voi prossimo procuratore di Roma ce li mettiamo. Anche per la cabala: pure l’altra volta a Palermo dall’ordine cronologico venne fuori lui.

Il grande rogo della cultura

In tutto il mondo, la conservazione e alimentazione della memoria culturale è sempre meno importante nelle priorità politiche e negli investimenti pubblici. Musei, monumenti, archivi e biblioteche vengono contrapposti al vibrare sempre mutevole delle nuove tecnologie; e si diffonde la convinzione che la progettazione del futuro debba farsi a prezzo di una progressiva marginalizzazione del passato, inteso come un peso passivo e non come una forza attiva, una riserva di energia culturale e morale a cui attingere.

Ne è sintomo recente un articolo uscito pochi mesi fa su Forbes, secondo cui le biblioteche pubbliche sono inutili nell’era di Amazon e Google Books. L’autore, l’economista Panos Mourdoukoutas di Long Island University, invita a chiudere le biblioteche per risparmiare i soldi dei contribuenti. Un’ondata di proteste ha costretto Forbes a cancellare dal proprio sito questo articolo a 72 ore dalla pubblicazione, ma il sintomo resta. E questa tesi non è poi così diversa da quella di chi sostiene (anche in Italia) che a tenere in piedi musei e monumenti debbano essere i privati, e che biblioteche e archivi vadano definanziati perché non producono reddito.

La crisi del patrimonio culturale, o meglio della sua funzione, non nasce ieri. Nel 1968, anno di rivolte contro ogni passatismo, un esponente della pop art, Ed Ruscha, la espresse dipingendo il Los Angeles County Museum deserto e in preda alle fiamme. Un disastro metaforico e simbolico, che fu però quasi la profezia di un fatto reale, il terribile incendio della Los Angeles Public Library (29 aprile 1986) che distrusse mezzo milione di volumi.

Un libro recente (Susan Orlean, The Library Book, 2019) offre le coordinate di quest’evento: primo, non si è mai capito chi ne fosse responsabile; secondo, la scarsa prevenzione era stata denunciata da tempo (dal Los Angeles Times); terzo, il calo di finanziamenti pubblici era legato a conflitti di competenza fra le istituzioni. Le stesse identiche coordinate ricorrono, mutatis mutandis, in altre e più vicine catastrofi, che traducono l’incendio-metafora in desolanti fatti di cronaca. Per esempio, il fuoco che distrusse il Museo Nazionale di Rio de Janeiro (3 settembre 2018), partito da un singolo condizionatore d’aria, si diffuse rapidamente perché gli impianti di sicurezza erano disattivati o inesistenti per mancanza di fondi (il museo spendeva in prevenzione poco più di 1.000 euro l’anno). La carenza di finanziamenti nasceva dallo spostamento della Capitale da Rio a Brasilia e dalla conseguente devoluzione di competenze dallo Stato federale alle amministrazioni locali e all’università, con incerta suddivisione delle responsabilità, calo del bilancio e allentamento di ogni sorveglianza e prevenzione.

L’incendio di Notre Dame a Parigi è a prima vista un caso diversissimo, dato che la Francia investe nel patrimonio culturale molto più non solo del Brasile ma dell’Italia. Eppure qualcosa in comune c’è: la difficoltà di accertare responsabilità precise, l’insufficiente prevenzione, i conflitti di competenza. L’abile risposta mediatica di Macron, che ha chiamato a raccolta i capitali privati per ricostruire Notre Dame in quattro e quattr’otto, “più bella di prima”, evidenzia il mito della velocità che sovrasta la necessaria lentezza di un restauro serio; ma anche la tendenziale abdicazione al ruolo delle istituzioni pubbliche nella custodia del patrimonio culturale. Era un privilegio, è diventato un peso.

Il potere distruttivo del fuoco si presta all’uso metaforico degli eventi di Rio e di Parigi come condensazione simbolica di uno strisciante ripudio della memoria storica. In Italia tale processo è favorito dalla doppia perdita di potere del governo nazionale: verso “l’alto” (l’Unione europea) e verso “il basso” (le autonomie regionali). La devoluzione di essenziali funzioni culturali (dalla scuola alla tutela del paesaggio) alle Regioni è tema attualissimo come cavallo di battaglia della Lega: ma non va dimenticato che, se è oggi possibile rivendicare l’autonomia regionale in questi ambiti, è in conseguenza della riforma costituzionale promossa nel 2001 dal centrosinistra. Forme di autonomia furono chieste dalla Toscana già nel 2003, dalla Lombardia e dal Veneto nel 2007, cioè da regioni governate da una coalizione politica diversa da quella del governo nazionale del momento. Il precedente è, oggi come ieri, l’autonomia della Sicilia nell’ambito dei beni culturali e del paesaggio, concessa nel 1975, con irresponsabile incoerenza, pochi mesi dopo l’istituzione del ministero dei Beni culturali. E le devoluzioni che sono dietro l’angolo non hanno nulla a che vedere con i diritti dei cittadini e la funzionalità delle istituzioni, ma puntano solo alla spartizione del potere.

Si sfarina e si disperde per tal via il patrimonio civile della Costituzione (art. 9), secondo cui “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Della Nazione: inteso dunque come inscindibile unità, e non terra di conquista per “governatori” di qualsivoglia partito e relative clientele. La memoria culturale, viva sostanza della storia e dell’identità del Paese, anima della cultura e dell’idea stessa di cittadinanza, rischia così di diventare – contro l’evidente segno unitario dell’art. 9 – materia frammentata di micro-conflittualità localistiche. Eppure l’articolo 9 della Costituzione fu proposto in Costituente da Concetto Marchesi e Aldo Moro precisamente come un argine alla temuta “raffica regionalistica” (così negli atti della Costituente, 30 aprile 1947). Le prospettate devoluzioni non sono che il cavallo di Troia di una brutale lottizzazione che, all’insegna della deregulation, minaccia la stessa unità nazionale. Una sorta di secessione strisciante di marca leghista. Possiamo solo sperare che questo progetto anti-costituzionale trovi nelle istituzioni, dal Quirinale al Parlamento alla Consulta, i necessari controveleni.

Rai, “Realiti” porta il male in tv. Per combatterlo

Pubblichiamo parte dell’intervento che ieri Carlo Freccero ha tenuto nel Cda Rai

Gentilissimo Presidente, gentilissimi Consiglieri, vi trasmetto le mie riflessioni riguardo quanto accaduto durante la diretta di Realiti mercoledì 5 giugno u.s. Premetto che mi sono scusato pubblicamente, la frase imputata va condannata senza se e senza ma, ed è quello che è stato fatto da Lucci in diretta (…). La questione è più complessa ed è parte integrante dell’idea del programma. (…) Realiti mette in scena l’Italia del selfie, il narcisismo dei poveri. Ha come mentore Enrico Lucci, un conduttore che cerca di raccontare il Paese profondo, senza mai assumere una visione moralista e sprezzante. L’obiettivo è di cogliere ed esprimere la dimensione nazional-popolare, una visione che traghettò la Rai dalla televisione pedagogica a quella generalista. Lucci si muove nella scia dei grandi interpreti di questo passaggio (…) come Corrado (La Corrida), Tortora (Portobello), Funari (A bocca aperta). Tutti viviamo come se fossimo protagonisti di una puntata di un reality show. Per molti il mondo è diventato il set di Truman Show. Realiti è il primo programma che ha inconsapevoli concorrenti. I politici hanno abbandonato le dirette tradizionali sui canali tv ma si dedicano sempre più ai social network e così parlano direttamente al pubblico degli elettori. Lo stesso fanno cantanti e attori famosi, i cosiddetti vip. Ma al giorno d’oggi non sono i soli: anche le persone comuni sentono l’esigenza di “andare live”. Tutti realizzano video e dirette social come se fossero delle celebrità.

Realiti è intervallato dai giornalisti che presentano i propri reportage, a cui segue il talk. I due troni girevoli sono occupati dai personaggi che rappresenteranno le “parti in causa”. Attraverso di loro verrà polarizzata la discussione. Lucci accenderà e spegnerà il ritmo come un direttore d’orchestra che rende armoniche anche le dissonanze, stronca le stonature, bacchetta e interrompe anche con veemenza chi canta fuori dal coro se mette in discussione quello che ci rende una comunità civile. Ed è proprio questo che è accaduto. Il dispositivo ha funzionato, il programma ha fatto emergere uno dei tanti fenomeni della Rete, ha portato a galla l’ambiguità del gioco persona/personaggio, gli ammiccamenti alla criminalità che si nascondono sotto le maschere della produzione musicale.

Il cancro della mafia muta, ha fatto esplodere le sue origini virali grazie al libero accesso di produttori e fruitori alla Rete. La malattia attecchisce in un mondo fatto di non luoghi. Chi si occupa di comunicazione non può non capire e agire, bisogna alzare barriere etiche, ma si deve farlo utilizzando forme di comunicazione che ricreino luoghi di discussione e dibattito. Dobbiamo domandarci per quanti anni si è pensato di respingere ed espellere quello che non appartiene al politicamente corretto, ma questa esclusione ha fatto sì che il peggio trasformasse la condanna indiscriminata, e senza confronto, in una condizione di forza, che il male mitizzasse se stesso e diventasse seducente, divertente, melodico. Non esistono più luoghi marginali, la cultura urbana ha fatto della periferia il centro della comunicazione mediale e la rimozione non ha prodotto altro che fenomeni qualitativamente e moralmente deleteri, ma quantitativamente esplosivi.

Come possiamo intervenire nel caos della Rete in cui proliferano fenomeni mostruosi e deleteri per la convivenza civile, per immaginare un futuro migliore per la società. Con Realiti vogliamo dare un piccolo contributo. Vogliamo riportare all’interno del circuito della comunicazione quello che prolifera fuori per conoscerlo, confrontarci e, quando è il caso, come è accaduto nella prima puntata del programma, metterlo in discussione, combatterlo, denigrarlo. E per farlo serve coraggio.

Autosospendersi nel Csm: un “sotterfugio”

L’inchiesta della Procura di Perugia sull’ex vicepresidente dell’Anm ed ex Csm Luca Palamara, indagato per corruzione, ha portato alle dimissioni del componente Luigi Spina (Unicost) – per avere comunicato a Palamara notizie sull’indagine pervenute al Csm – e alla “autosospensione” di altri quattro componenti, tre di MI: Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli e Antonio Lepre, e l’altro di Unicost, Pierluigi Morlini per avere incontrato, unitamente allo Spina, il Palamara, uomo forte di Unicost, il deputato-magistrato Cosimo Ferri, ancora oggi “ras” di MI nonché il deputato del Pd, imputato, Luca Lotti per discutere delle nomine dei Procuratori di Roma e Perugia e di quella di Palamara a Procuratore aggiunto di Roma.

Sono proprio queste “autosospensioni” che stanno per travolgere, oltre il Csm, anche l’Anm ponendo fine al governo dell’associazione. Le correnti di Area e di Unicost hanno “scaricato” dalla giunta MI “colpevole” di non voler far dimettere dal Csm i suoi tre rappresentanti contro la volontà dell’Anm, tanto da determinare l’uscita da tale corrente dell’attuale presidente della giunta Pasquale Grasso che, in una lettera, ringrazia tutti, anche Cosimo Ferri che “propose a un oscuro giudice di provincia la candidatura all’Anm” (espressione che la dice lunga sui tanti “oscuri giudici di provincia” portati dai “signori delle tessere” prima all’Anm e, poi, al Csm per essere ivi “orientati”). Ma, è proprio sull’“autosospensione” che verte “il sotterfugio”. Giuridicamente non esiste l’istituto dell’“autosospensione” non essendo in facoltà di colui che è investito di pubbliche funzioni decidere di non esercitarle. Nel nostro ordinamento (a parte le dimissioni) esiste solo l’istituto della sospensione . L’art. 37 della legge istitutiva del Csm prevede la sospensione facoltativa (per il componente “sottoposto a procedimento penale per delitto non colposo”) e quella obbligatoria (per il componente colpito da “mandato di cattura o sottoposto a procedimento disciplinare”), entrambe deliberate dal “Plenum” del Csm. Ma non è solo l’“autosospensione” a essere illegittima, lo è anche – e, ancor di più – la “pretesa” dei quattro di esaminare le carte (che li riguardano) di un’indagine penale per decidere sul da farsi: se restare o dimettersi; “pretesa” irricevibile sia perché è sempre necessario il nullaosta dell’A.G. procedente sia perché tali atti potranno essere conosciuti dai quattro incolpati solo all’esito della istruttoria disciplinare, ieri finalmente aperta dal Pg della Cassazione.

E, allora, si evitino “sotterfugi” e si rispettino le regole: il Pg proceda, senza indugio, alla contestazione delle gravissime violazioni di natura etica e ontologica; il Plenum deliberi con urgenza la sospensione di diritto degli incolpati dalla carica ai sensi dell’art. 37 della legge suddetta. Il capo dello Stato sciolga il Csm a norma dell’art. 31 della medesima legge. Nel frattempo il Parlamento approvi il testo di legge tempestivamente presentato dal deputato del M5S Andrea Coletti che prevede la nomina dei membri togati prima con sorteggio – in numero multiplo rispetto a quello da eleggere per ciascuna categoria – e, poi, con un voto sui sorteggiati; sistema sempre osteggiato dalla Anm. E ciò avvenga immediatamente poiché il sorteggio, essendo “integrato”, non abbisogna di legge costituzionale, e non vi è necessità di istituire commissioni zeppe di ex Csm (togati e laici) che non hanno mai risolto nulla, e senza che le competenti commissioni parlamentari convochino la Anm sia perché, in quanto associazione privata, è priva di qualsiasi legittimazione a interloquire nell’iter di formazione di una legge concernente un organo di rilevanza costituzionale, sia per essersi resa, attraverso le sue correnti degenerate in centri di potere, responsabile di questa situazione che ha fatto perdere all’organo di autogoverno autorevolezza e credibilità.

Un esercito europeo contro il Trump style

“Indebolire l’Europa è l’obbiettivo di Trump” ha scritto Alessandro Sallusti nei giorni delle visite del presidente americano in Gran Bretagna e in Francia in occasione delle celebrazioni del 75° anniversario dello sbarco in Normandia. Per la verità questa non è una novità. È dalla fine della guerra mondiale che gli Stati Uniti hanno cercato e ottenuto di tenere in stato di minorità l’Europa, posizione politicamente legittima perché sono stati gli americani, i sovietici e gli inglesi i vincitori della Seconda guerra mondiale, mentre l’Europa quella guerra l’ha persa (gli inglesi, protetti dalla loro isola, non sono mai stati europei, non hanno mai sentito di avere un forte legame col Vecchio continente, come anche la Brexit oggi conferma). La novità è semmai che The Donald, com’è suo costume, manifesta questa sua volontà antieuropea in modo più diretto e brutale.

Quando Adenauer, De Gasperi, Spaak decisero di iniziare a costruire un’unità europea sapevano benissimo che questa avrebbe dovuto essere prima politica e poi economica. Ma sapevano altrettanto bene che gli americani non lo avrebbero permesso. Così l’unità economica ha dovuto farsi strada attraverso una serie di accordi parziali, per esempio la Ceca, per arrivare alla fine, faticosamente, all’Europa dell’euro di oggi. Ma una vera unità politica l’Europa non l’ha raggiunta tuttora. Per diverse ragioni. La prima affonda le sue radici nel passato. Ogni Stato europeo ha una sua storia molto diversa da quella di tutti gli altri. La seconda è molto attuale. E riguarda i miopi “sovranismi” che, giocando proprio sulle rispettive identità nazionali, si oppongono a un’Europa politicamente e concretamente unita senza capire che nessun Paese europeo può reggere da solo la competizione con i grandi aggregati politici, ed economici, come gli Stati Uniti, la Russia, la Cina e l’India.

Uno degli strumenti per mantenere l’Europa in uno stato di sudditanza nei confronti degli Stati Uniti è stato naturalmente quello militare. Quando a metà degli anni 80 francesi e tedeschi cercarono di costituire un primo nucleo di esercito europeo gli americani si opposero. “Che ve ne fate? C’è già la Nato”. Ma la Nato è stata sempre nel pieno dominio degli americani. Ed è la Nato, trasformatasi nel frattempo, contro il suo stesso statuto, da patto difensivo in offensivo, ad aver trascinato negli ultimi anni l’Europa nell’avventurismo degli yankee con guerre aggressive in cui l’Europa non aveva alcun interesse, dalla Serbia all’Afghanistan all’Iraq alla Libia (solo in quest’ultimo caso preceduti dai francesi spinti dall’interesse a scalzare l’Italia dalla posizione economica privilegiata che aveva con la Libia di Gheddafi). Senza una propria forza militare, autonoma, l’Europa non potrà mai avere una vera indipendenza. Ma adesso proprio l’“isolazionismo” di Trump contrario ad accordi multilaterali per privilegiare quelli unilaterali, da Paese a Paese, dove gli Stati Uniti saranno sempre vincenti, e che in ragione di ciò ha espresso insofferenza nei confronti della Nato, offre all’Europa un’opportunità inaspettata e imperdibile: svincolarsi finalmente dal soffocante abbraccio dell’“amico americano”. Lo aveva capito bene Angela Merkel che nel maggio 2017 affermò: “I tempi in cui potevamo contare pienamente su altri sono in una certa misura finiti. Noi europei dobbiamo veramente prendere il nostro destino nelle nostre mani. Dobbiamo essere noi stessi a combattere per il nostro futuro”. Era, per la prima volta, un invito esplicito a svincolarsi dalla Nato e a creare quell’esercito europeo che a metà degli ’80 era stato impedito a Germania e Francia di mettere in piedi. Qualche passo in questa direzione la Germania di Merkel l’ha già fatto, incorporando nella Bundeswehr due brigate olandesi, una rumena, una ceca e facendo la stessa proposta a Francia e Polonia. Naturalmente denunciare il Patto Atlantico e uscirne fuori è estremamente difficile per Paesi come la Germania e l’Italia che, proprio in ragione di questo Patto, hanno rispettivamente 80 e 60 basi militari, alcune nucleari, sul proprio territorio. Ma è questa, a nostro avviso, la strada che l’Europa deve seguire mettendo al margine gli isterismi sovranisti Salvini’s style. Vedremo se il successore della Merkel – perché è dalla Germania democratica di oggi che tutto in Europa dipende – avrà la stessa tempra.

Una notazione in finale. In uno speciale di Sky dedicato al D-Day, l’ambasciatore Sergio Romano, che è il commentatore politico del Corriere più svincolato dai soliti schemi, ha affermato: “È giusto ricordare e onorare i caduti del D-Day appartenenti ai Paesi vincitori, ma a me appare ingiusto che nemmeno una parola sia stata spesa per i caduti, altrettanto in buona fede, dell’altra parte, italiani e tedeschi”. Un’affermazione coraggiosa, controcorrente, che ci sentiamo di condividere pienamente. E non da oggi.

Mail box

 

Docenti, alunni e migranti: un brano per l’integrazione

Sono una giovane prof.ssa di filosofia e cantautrice impegnata nel sociale. Noi insegnanti siamo messi a tacere quando invitiamo gli studenti a pensare con le loro teste, quando insegniamo loro ad amare la Costituzione e a imparare dalla legge. Quando spieghiamo che l’Italia, protesa sul mare, ha sempre accolto nei suoi porti: viaggiatori, avventurieri, esseri umani bisognosi e pensatori; o quando insegniamo la sacralità dell’ospitalità, della condivisione e dello scambio interculturale. O quando mostriamo loro che non esiste un prototipo di italiano, per qualità o genetica, ma esiste un prototipo di essere umano ideale definito dalla nostra Costituzione. Quest’anno, oltre ad aver insegnato Legalità e Costituzione nel liceo scientifico Volterra di Ciampino, ho cercato di far integrare i miei studenti col vicino centro di Accoglienza Mondo Migliore. Potevo mettere a disposizione solo la musica, perché insegnare filosofia a chi non sa l’italiano e stenta con l’inglese sarebbe stata un’impresa titanica, mentre la musica è riuscita a fare miracoli. Durante questi laboratori musicali multietnici, sono emersi dei talenti ed è nata una canzone dal titolo Incontrare te, un manifesto di pace, integrazione e amicizia. Desideriamo donarvi il nostro lavoro, il video musicale Incontrare te, visibile sulla pagina Youtube di Dingomusic Top records: il nostro modo di dire sì alla pace, alla fratellanza e alla libertà.

Giulia Briziarelli

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile direttore, ieri mi è capitato di leggere un articolo firmato Antonio Armano secondo cui Walter Siti, durante una lezione, avrebbe riferito di una mia telefonata nella quale gli dichiaravo la mia invidia per il suo essere “frocio”. Più avanti, a proposito del mio romanzo Prima di sparire, Armano aggiungeva che avevo dovuto concordarne il contenuto con la mia “ex consorte” e che lei “si era comunque risentita”. Ora, non so se Siti abbia davvero detto ciò che gli viene attribuito, so che io non ho mai fatto quella telefonata e che, pur provando ammirazione per l’autore, sono del tutto indifferente alla sua omosessualità. So anche di non aver concordato niente del mio libro con nessuno. E so che la mia ex moglie non ha mai provato risentimento per ciò che ho scritto, o almeno non ha mai detto né a me né ad altri di provarne. Ma è possibile che Armano abbia fonti superiori, o attinga a poteri negromantici. In caso contrario lo inviterei a non cedere alla tentazione della fiction perché sta scrivendo su un giornale, il posto delle notizie sui fatti accaduti.

Mauro Covacich

 

Prendiamo atto della smentita di Covacich. La telefonata non c’è mai stata, né il sofferto accordo con l’ex moglie e il risentimento. Si è fatta dell’autofiction sull’autofiction. Da frequentatore di “casi editoriali”, mi permetto comunque di dire che la lezione per gli studenti della scuola Belville resta valida, anche spersonalizzandola.

A. A.

 

Con riferimento all’articolo “Una civile e una militare: il dilemma della doppia commessa identica per i sauditi”, precisiamo che in fase di offerta al cliente saudita nel 2017, la proposta tecnico commerciale di Teknel PTC 4113 Rev. 02 datata 20 settembre 2017 ha previsto due soluzioni alternative per la fornitura di gruppi elettrogeni, in quanto non si era ancora a conoscenza dell’utilizzo e dell’applicazione che il cliente intendeva fare dei generatori. La soluzione Industrial Grade (Civile) differisce tecnicamente dalla soluzione Mil-Std (Militare) in relazione alle prestazioni del prodotto e la prima soluzione non può essere utilizzata in alternativa alla seconda. In fase di ordine, il cliente ha confermato l’acquisto della soluzione Industrial Grade. Dagli importi indicati sulla licenza di esportazione è evidente e di facile verifica che il cliente ha optato per la soluzione Industrial Grade e non per quella Mil-Std in quanto l’applicazione è relativa ad attività di Disaster Recovery (rimaniamo a disposizione per eventuali evidenze documentali). Pur non essendo una procedura necessaria, su suggerimento del ministero competente, abbiamo provveduto all’inserimento di tale fornitura, regolarmente autorizzata all’esportazione, all’interno della gestione ex L. 185/90, in quanto destinata alla Guardia nazionale saudita, che come già evidenziato in precedenti comunicazioni e richieste di rettifica, è un ente che ha compiti di ordine pubblico e di protezione civile.

Dott. Raffaele Greco direttore generale Teknel S.r.l.

 

Ringraziamo il dott. Greco, le cui precisazioni confermano la bontà di quanto scritto: i materiali fermi in porto a Genova sono parte della commessa autorizzata dall’organismo interministeriale “Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento”. Prendiamo atto della ‘volontarietà’ di tale autorizzazione e restiamo in attesa delle menzionate evidenze documentali, limitandoci ad aggiungere che tutte le fonti consultate concordano nell’inserire la Guardia nazionale saudita fra le forze armate di quel Paese. Numerosissimi sono a tal proposito i riscontri del programma di rafforzamento e addestramento di tale corpo organizzato dall’esercito americano. Un coinvolgimento della Guardia nazionale nel conflitto yemenita, infine, trova plurimo riscontro in diverse fonti di informazione internazionali.

Andrea Moizo

San Carlo. La resistibile ascesa di Purchia, da Sovrintendente a Grand’Ufficiale

Illustrissimo Professor Isotta, gli asperrimi toni del Suo odierno appello al Presidente Mattarella, che Ella censura per la recente onorificenza di Ufficiale da lui tributata alla sovrintendente del San Carlo, Rosanna Purchia, lasciano senza parole; per la violenza ch’essi propalano, l’inumanità che li pervadono, l’aridità spirituale che evidenziano. Quali che siano i motivi che tanto l’hanno inasprita, essi non possono trovare giustificazione nelle feroci espressioni indirizzate all’indifesa persona della sovrintendente; che patisce oggi i deliri di un’onnipotenza verbale che la collaborazione con la testata giornalistica ospitante Le consente – impunemente – di esternare. Le sublimi note dei grandi compositori: Beethoven, Mozart, Schubert, Debussy, Stravinsky, Bartok, Bach, che hanno diffuso nel mondo i sentimenti di armonia e concordia e alimentato la Sua lunga vita professionale, non sembra che abbiano creato – nella Sua persona – alcun decente solco di umanità, solidarietà e indulgenza verso chi, nell’arte ha avuto orizzonti diversi dai Suoi. E meraviglia oltremodo, che personalità quali Isaiah Berlin, Giorgio Zampa, Luigi Baldacci, Emanuele Severino, Raffaele La Capria, Giuseppe Galasso, Fulvio Tessitore e Quirino Principe abbiano elogiato le Sue numerose opere letterarie. Immagino che non l’abbiano mai conosciuta sotto il sopito, e ben dissimulato, emergente profilo del risentimento, dell’astio, della malvolenza, della malignità e dell’accanimento, oggi copiosamente rivolti a una donna che ha dedicato la vita alla cultura, al teatro, al nostro San Carlo. Meritando ampiamente un’ambita onorificenza cavalleresca della Repubblica Italiana. Oltre alla grande ammirazione e affetto di chi veramente l’ha conosciuta. Anche la mia molto modesta persona, per qualche piccolo merito mietuto colando, per 40 anni, sulle argentee ali degli aeroplani con le coccarde tricolori dell’Aeronautica Militare Italiana, fu insignita del titolo di Ufficiale. Non gioirei affatto se tale onorificenza fosse tributata anche a Lei che non sembra nutrire quei sentimenti di concordia e pace che sono naturale umus spirituale degli insigniti. Prendo atto con gioia che nella chiusa del suo ingeneroso astio a mezzo stampa ha dichiarato, rivolto al presidente Mattarella: “Non accetterei mai alcuna onorificenza di Stato”. Stia certo: l’accontenterà. Cordialmente,

Giuseppe Lanzi

 

Mi è stata recapitata a casa l’alligata lettera, in ordine al mio ultimo articolo apparso sul “Fatto Quotidiano”. Desidero non privare i lettori dell’apprendimento del bello stile e degli elevati sentimenti e concetti. Manca solo “Dio-Patria-Famiglia” expressis verbis, ma ci sono le “argentee ali”. È bello vedere che esistono ancora animi così puri, che credevo scomparsi con le vignette degli anni Trenta del sublime Novello. Il mio cordiale interlocutore voglia solo prendere nota che humus ha un’“h” davanti; ed è di genere femminile. E che la favola di Esopo è “La volpe e l’uva”. Almeno quanto ad animali e frutti non sbagli, Cav. Uff.! Auguro alla rag. Purchia di trovarsi sempre ammiratori siffatti. Così la fanno Presidente dell’Accademia dei Lincei.

Polo Isotta