Presentazione dei palinsesti senza i conduttori. Questa la novità di Raiuno per la prossima stagione. Ieri, infatti, durante un lungo Cda Rai, i direttori di rete hanno presentato i programmi 2019/2020. Mentre però Carlo Freccero e Stefano Coletta hanno elencato anche i nomi dei protagonisti, Teresa De Santis li ha tenuti per sé: “Motivi di riservatezza. E poi con alcuni le trattative sono ancora in corso”. Salini, però, ha fatto sponda a De Santis. Ma alcuni nomi già circolano. Da Monica Setta – cui dovrebbe essere affidato un programma d’informazione al mattino – a Lorella Cuccarini, che avrà uno spazio al pomeriggio forse con Alberto Matano. O la conferma di Roberto Poletti pure per la versione invernale di Unomattina. Tutte scelte in salsa sovranista che stanno facendo innervosire M5S, da cui arrivano segnali di forte insofferenza verso l’ad Salini. Il quale, uscito indebolito dal voto europeo, ora sembra stia cedendo alle richieste leghiste. “Non ci sentiamo tutelati. Un conto è trattare per arrivare a mediazioni, un altro è alzare sempre bandiera bianca…”, sono le voci che arrivano dal M5S. Insomma, se non è una sfiducia, poco ci manca.
Fu il governo francese a indicare Fca alla Renault
Un tentativo di fare pressione su Nissan con una fusione pensata e poi disfatta dallo stesso governo francese: è la sintesi spicciola di quanto venuto fuori dalle parole di ieri del presidente di Renault, Jean – Dominique Senard. All’assemblea dei soci, Senard ha da un lato sottolineato i vantaggi “evidenti” dell’operazione con Fiat Chrysler, dall’altro ha messo l’accento sulla “priorità” del rafforzare l’asse con Nissan-Mitsubishi. Priorità è la chiave di lettura. Renault da tempo cerca di aumentare la sua influenza sulla casa nipponica, il soggetto forte dell’alleanza ventennale a cui è legata. Nei giorni scorsi Senard ha minacciato di bloccare la riforma della governance di Nissan a meno che Renault non ottenga più seggi nei nuovi comitati di gestione dell’azienda giapponese, che l’ha presa assai male. Ma c’è di più: Senard ha detto che fu il ministro delle Finanze del governo francese (primo azionista di Renault) Bruno Le Maire a suggerirgli di prendere contatto con Fca. “L’ho fatto: abbiamo iniziato un lavoro proficuo e realizzato che c’erano aspetti interessanti per Renault e l’alleanza, che per me sono inseparabili”. A quel punto sono partiti i negoziati culminati con la proposta di fusione da Fca. Senard ha ricordato che è stato proprio il governo francese ad averla poi bloccata nel cda decisivo, chiedendo più tempo. Le parole del manager francese sembrano suggerire che Fca sia rimasta schiacciata, o forse proprio usata, nella guerra tra Parigi e Nissan, nel tentativo dei francesi di mettere pressione a Tokyo. Guerra che aveva già fatto saltare la poltrona dell’ad della partnership Carlos Ghosn.
Da Toto a Lotito, le offerte spot su Alitalia
Il salvataggio di Alitalia si arricchisce ogni giorno di novità surreali. L’ultima è la manifestazione di interesse formalizzata ieri ai commissari della compagnia dal patron della Lazio, Claudio Lotito, dopo giorni di rumors citofonati alla stampa. Prima di lui era toccato al gruppo guidato da Carlo Toto, ex patron di Air One che possiede Strada dei Parchi (la Roma-Pescara-Teramo) farsi avanti.
In quanto manifestazioni di interesse nessuno dei due pretendenti ha messo per iscritto cifre o dettagli sull’eventuale ingresso nella nuova Alitalia. I dubbi sulle reali possibilità di intervento sono però numerosi. La holding del vulcanico presidente che possiede il 67% della squadra capitolina, Lazio event srl, ha chiuso il bilancio consolidato 2018 con ricavi (in crescita) a 193 milioni, un utile di 37 milioni, debiti per 122 milioni e una posizione finanziaria netta negativa per 75 milioni. Lotito controlla poi al 50% altre tre società che fatturano circa 38 milioni, con utili striminziti. Il giro d’affari di Toto si aggira sui 400 milioni. Cifre che appaiono incompatibili con quelle che servono per Alitalia: 300 milioni per completare il quadro dei salvatori, che al momento vede le Fs col 30%, e Tesoro e Delta con il 15% a testa. Entrambi i pretendenti, peraltro, non pare godano del favore delle Ferrovie e degli americani.
L’uscita dei rumors alimenta il sospetto di un tentativo di mettere pressione all’Atlantia dei Benetton, che controlla Aeroporti di Roma e Autostrade, l’unico vero pretendente rimasto. Va però risolta la grana della revoca della concessione dopo il disastro del Morandi di Genova. Come ha scritto il Fatto, Palazzo Chigi, che da un mese ha in mano il dossier, ha fatto pervenire ai Benetton una lista di richieste (mini revoca del tratto autostradale di Genova, più indennizzi alle vittime e revisione delle tariffe). In risposta c’è stata un’apertura, ma serve un accordo formale. Salvini ha già dato l’avallo pubblicamente ad Atlantia, e ieri lo ha ribadito. La palla, ora, è in mano ai 5Stelle, ed è politicamente esplosiva.
Whirlpool prende tempo. Calenda accusa Di Maio
Dura appena mezzora il nuovo round tra Whirlpool, governo e sindacati sull’ipotesi di cessione del sito di Napoli della multinazionale americana. Dopo il sostanziale ultimatum da parte del ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, che ha minacciato la revoca degli incentivi pubblici alla multinazionale americana degli elettrodomestici, il tavolo al ministero dello Sviluppo economico ieri pomeriggio incassa una promessa e un po’ più tempo: Whirlpool ha annunciato di non voler chiudere e nemmeno di disimpegnarsi sul sito di Napoli. Ma per i dettagli su come si riuscirà a tenere gli stessi livelli occupazionali e proseguire l’attività si dovrà aspettare il nuovo incontro, convocato per lunedì prossimo. “Questa è la base su cui costruire e ci aspettiamo risposte entro la settimana prossima”, ha commentato Di Maio.
Già l’altroieri Whirlpool – dopo la diretta Facebook del ministro dove ha firmato gli atti con cui chiedere “la revoca dei finanziamento concessi nel corso di questi anni al Gruppo nel caso Whirlpool non mantenga gli impegni sottoscritti” – ha annunciato che “non intende procedere alla chiusura del sito di Napoli” mettendo a rischio il lavoro di 412 dipendenti. Ma ora il punto resta l’accordo sottoscritto il 25 ottobre 2018, visto che la multinazionale non è “ancora in condizione di trovare una soluzione”. La riconversione e la cessione dell’impianto non sono state escluse. E il timore dei sindacati resta quello di un’eventuale vendita a terzi, vale a dire il primo passo verso la chiusura. “È difficile – spiegano i sindacati – che si faccia avanti una società che si occupi già di grandi elettrodomestici, mentre è più probabile l’entrata in scena di una cordata che assicuri la continuità occupazionale per qualche anno grazie alle commesse”.
Un timore non smentito dal Mise e che non smorza le polemiche innescate dall’ex ministro del ministero dello Sviluppo economico Carlo Calenda che, durante un’intervista a L’aria che tira (La7), ha accusato: “Il ministero è a conoscenza almeno dal 13 aprile dei piani della multinazionale. Di Maio ha mentito al Paese e agli operai. Ha incaricato Invitalia di analizzare il nuovo possibile investitore e non ha ricevuto i sindacati, aspettando le Europee per annunciare le intenzioni di Whirlpool di chiudere lo stabilimento di Napoli”. Mentre sulla questione della revoca dei fondi pubblici, Calenda ha spiegato che “è già prevista da 30 anni nelle clausole dei contratti che si stipulano con Invitalia”. E che “parte di questi incentivi” revocati, 7 milioni di euro sui 15 annunciati da Di Maio, “non sono stati ancora erogati per la fabbrica di Napoli, mentre i restanti 8 milioni sono relativi all’altro impianto campano di Carinaro, che non è messo in discussione e dove sono già stati spesi”.
Un’accusa che si è trasformata in un’interrogazione del Pd. Questa mattina il Mise dovrà rispondere in commissione Lavoro e spiegare se Di Maio fosse a conoscenza delle intenzioni dell’azienda già da aprile. E se nei mesi successivi all’accordo di ottobre 2018 il ministro abbia lasciato che fossero i sindacati a seguire gli incontri trimestrali per verificare l’avanzamento del piano industriale, abbandonando il tavolo con Whirlpool.
Dal ministero dello Sviluppo economico hanno smentito questa ricostruzione. Mentre è chiaro l’accordo sottoscritto otto mesi fa: investimenti da parte della multinazionale per 250 milioni di euro (80 dei quali già realizzati nei primi quattro mesi del 2019) e nessun licenziamento, grazie ai contratti di solidarietà, fino ad aprile 2020. Si calcola poi che siano stati concessi 17 milioni di euro per contratti di sviluppo su Napoli. Soldi che si vanno ad aggiungere a quelli stanziati nel febbraio 2018 dall’ex ministro Calenda che chiuse la crisi dello stabilimento di Riva di Chieri della Embraco, nel Torinese, controllata del gruppo Whirlpool, con un piano di reindustrializzazione facente capo alla Ventures Srl che permise il reinserimento lavorativo dei dipendenti dello stabilimento. Ma meno di 7 mesi dopo la Whirlpool ha riaperto la crisi su Napoli.
S’indaga sul corteo di ambulanze per Mister Fritture
Arriva una rispostadello Stato al carosello di cinque ambulanze della onlus di un condannato per reati di camorra, Roberto Squecco, che nella notte di domenica, secondo il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra, ha lanciato un messaggio “in codice mafioso” intorno ai festeggiamenti del neo sindaco Pd di Capaccio Paestum, Franco Alfieri. I carabinieri della compagnia di Agropoli e dei Nas di Salerno, agli ordini del capitano Francesco Manna e del maggiore Vincenzo Ferrara, hanno ispezionato uffici, veicoli e documentazione della onlus Croce Azzurra di Squecco, coindagato con Alfieri per voto di scambio politico-mafioso. I militari hanno riscontrato una serie di irregolarità: multe a raffica per l’uso scorretto delle sirene, un’ambulanza della Croce Azzurra di Capaccio priva di alcuni dispositivi obbligatori, la partecipazione di due ambulanze che sarebbero in carico ad altri comuni del Cilento. I Nas chiederanno all’Asl la sospensione delle convenzioni con la onlus. Intanto Alfieri si è insediato e ci sono rumors sull’ingresso in giunta dell’ex signora Squecco, Stefania Nobili.
Salvare ’a Purpetta: la sceneggiata di Camera e Senato
Forza Italia è intenzionata a resistere fino allo stremo pur di salvare Luigi Cesaro, accusato di aver promesso posti e commesse di lavoro in cambio di voti per suo figlio Armandino alle Regionali in Campania del 2015. E tale ostinata determinazione, appoggiata e sostenuta dalla Lega, pare immutata pure ora che la decisione della Giunta per le autorizzazioni a procedere di Palazzo Madama, presieduta dal forzista Maurizio Gasparri, di dichiararsi incompetente sulla richiesta di usare alcune intercettazioni compromettenti formulata dai magistrati del Tribunale di Napoli, ha innescato un cortocircuito tra Senato e Camera. Che, se non verrà risolto, aprirà inevitabilmente un conflitto tra poteri di fronte alla Corte costituzionale. Ma questo scenario, a quanto pare, non basta a convincere i centurioni di Cesaro che sembrano intenzionati a tirare dritto, fino alle estreme conseguenze.
Ma ricapitoliamo: a gennaio la Giunta in questione ha deciso che i magistrati napoletani avrebbero dovuto chiedere l’autorizzazione a Montecitorio dove Cesaro era deputato all’epoca dei fatti contestati, anziché bussare agli uffici di Palazzo Madama dove oggi è senatore. Decisione ritenuta a quantomeno anomala, almeno a parere della Giunta della Camera dei deputati. Che invece, regole e precedenti inequivoci alla mano, ha stabilito che la competenza a decidere su tali richieste, spetti a quel ramo del Parlamento a cui attualmente appartiene il parlamentare: e in base a questa impostazione si è dichiarata incompetente a decidere sul caso del leghista Roberto Marti, oggi senatore e deputato all’epoca dei fatti oggetto di indagine. “La nostra decisione è stata assunta ai sensi della legge 140 del 2003 sul riparto delle competenze: il significato letterale e sistematico della norma non lascia dubbi e una diversa interpretazione restituirebbe invece l’idea di un privilegio ad personam. E poi c’è un clamoroso precedente che taglia la testa al toro perché, nel caso di Denis Verdini, Senato e Camera confermarono nel 2012 che l’autorizzazione si debba chiedere all’attuale Camera di appartenenza” spiega il presidente della Giunta di Montecitorio, Andrea Del Mastro Delle Vedove che da settimane ha aperto una interlocuzione con Gasparri. In claris non fit interpretatio aggiunge respingendo una suggestione che pure qualcuno ha usato al Senato per smontare il precedente, ossia che fosse stato Verdini stesso a optare tra le due Giunte. “Non è certo l’indagato che si può scegliere il giudice”, taglia corto Del Mastro delle Vedove.
Fatto sta che, dati gli opposti orientamenti, la situazione paradossale che si è venuta a creare è la seguente: la Giunta della Camera e quella del Senato risultano entrambe incompetenti su Cesaro e pure su Marti. Il che, detta così, suona come una barzelletta che però non fa ridere. Ora proprio perché la gravità di questa situazione non sfugge ai due presidenti Fico e Casellati si è infine deciso che oggi gli uffici di presidenza delle due Giunte si riuniscano per cercare un soluzione che consenta di uscire dall’impasse, imbarazzante a dir poco. Come? Per evitare che sia la Consulta a dover intervenire, la Giunta del Senato dovrebbe rivedere la sua decisione, cosa che non è consentita dal regolamento della Camera. Oppure dovrà essere l’aula di Palazzo Madama o quella di Montecitorio a smentire le decisioni assunte dalle rispettive Giunte. Nel frattempo il tempo scorre e i magistrati aspettano.
A Cesaro, come detto, viene contestato l’attivismo suo e dei suoi due fratelli, sodali dell’imprenditore Antonio Di Guida, ritenuto vicino al clan dei Polverino, per far eleggere a Palazzo Santa Lucia suo figlio Armandino. A Marti vengono invece contestati i reati di tentato abuso di ufficio, falso ideologico aggravato e tentato peculato per l’assegnazione, tra le altre cose, di una casa popolare a Antonio Briganti. Ossia il fratello di Pasquale Briganti del clan omonimo ritenuto bacino elettorale di Luca Pasqualini, considerato il delfino di Roberto Marti. Insomma due storiacce ben poco onorevoli.
Lo Sblocca Cantieri passa con la fiducia: oggi sarà legge
Via liberaallo Sblocca-cantieri. Oggi la Camera lo approva definitivamente, ma ieri ha già votato la questione di fiducia: 318 i favorevoli e 236 i contrari. Palazzo Chigi, dopo un passaggio molto travagliato in Senato, ha deciso di tagliare il dibattito alla Camera con un’approvazione lampo. Non un buon viatico per un decreto “criminogeno” secondo il presidente dell’Anticorruzione Cantone. Sotto accusa, in particolare, le norme che sospendono alcuni pezzi del Codice degli appalti: fino al 2020 viene assai attenuato l’obbligo di gara per i lavori fino a un milione di euro (sotto quella cifra, con diversi obblighi a seconda del valore dell’appalto, si andrà avanti con la “procedura negoziata”, cioè una selezione tra imprese “invitate” dall’ente pubblico); sospesi anche l’obbligo di nominare nelle commissioni aggiudicatrici un membro indipendente preso da un albo dell’Anac e quello per i piccoli Comuni di rivolgersi a una “stazione appaltante qualificata”. Sale poi al 40% la quota di lavori che si possono dare in subappalto (e nei subappalti si verificano le maggiori irregolarità) e torna anche il “massimo ribasso” per i lavori sotto i 5,5 milioni di euro (nel passato, l’offerta più bassa si è spesso rivelata la peggiore).
Il nuovo braccio armato di Matteo in Europa
Si chiamerà Identità e Democrazia, vi aderiranno 73 deputati e sarà guidato da Marco Zanni, eurodeputato della Lega appena rieletto a Strasburgo. Il nuovo gruppo parlamentare – stimato come il quinto in termini di grandezza nel nuovo Parlamento dopo popolari, socialisti, liberali e verdi – sorge sulle ceneri di Enl, acronimo per Europa delle nazioni e delle libertà. La presentazione ufficiale stamattina nella sede del Parlamento europeo a Bruxelles.
Non si tratta di un mero rebranding (anche l’Alde, i liberali, ha cambiato nome in un più aggiornato Renew Europe, per soddisfare i deputati macroniani, ndr) per il vecchio raggruppamento di euroscettici e sovranisti fondato dalla leader francese Marine Le Pen. Quando vide la luce, nel 2015, Enl aveva nel Front National il suo centro, attorno a cui ruotavano alcuni alleati minori, incluso Salvini.
Quattro anno dopo, i rapporti di forza sono cambiati. La delegazione leghista è composta di 28 parlamentari: seconda in termini assoluti dopo la Cdu di Merkel e il Brexit Party di Farage (entrambi a 29), ma soprattutto forte di 6 seggi in più rispetto al partito di Le Pen. Di Identità e democrazia faranno parte formazioni collocabili nell’ambito dell’estrema destra nazionalista: 11 europarlamentari della tedesca AfD, 3 dell’austriaco Fpo, ancora 3 del belga Vlams Belang e poi a seguire 2 cechi dell’Spd, 2 The Finns, 1 del Partito del popolo danese e infine un estone di Akre. Nove nazionalità per 73 aderenti, quando Enl ne contava 36.
Classe 1986, Zanni fu eletto all’Europarlamento 5 anni fa come M5S, approdando poi al Carroccio, lui euroscettico e critico verso la moneta unica, dopo il fallito tentativo di adesione dei pentastellati al gruppo Alde – sostenitore dell’euro e dell’Ue federale.
Sono proprio i suoi ex compagni di partito a essere in difficoltà oggi – e con l’elezione di Zanni ancor di più. Senza possibilità di formare un gruppo proprio e respinti sonoramente dai Verdi, i pentastellati restano alleati di Nigel Farage nel vecchio gruppo Efdd, che tuttavia al momento non ha i numeri per restare in piedi. Zanni si è mosso come plenipotenziario di Salvini e negoziatore di alleanze, annunciando pochi giorni dopo il voto del 26 maggio che il leader di Brexit Party si sarebbe unito alla nuova alleanza.
Farage ha smentito, ma potrebbe cambiare idea, per non ritrovarsi da solo. La deadline del 2 luglio – quando verrà convocato il nuovo Parlamento a Strasburgo e si dovranno presentare i gruppi politici per procedere all’assegnazione delle cariche – è sempre più vicina.
Salvini alza il tiro: adesso s’impiccia della Giustizia
La giustizia è un crepaccio tra i gialloverdi, una differenza più evidente della propaganda. E Alfonso Bonafede e la sua riforma della giustizia possono essere un bersaglio, per il Matteo Salvini che ora vuole tutto. Temi e scene che si incrociano, nel giorno dell’arresto di Francesco Paolo Arata, l’ex consulente per l’energia della Lega. L’uomo che avrebbe fatto pressioni sul fu sottosegretario leghista Armando Siri, per ottenere emendamenti a favore di imprese attive nell’eolico. Ma il M5S fece muro, e Luigi Di Maio lo rivendica: “La puzza di bruciato si sentiva da lontano, ogni volta in cui emergono legami con la corruzione e la mafia, la politica deve saper subito prendere le distanze”. E parla al coinquilino, a Salvini.
Quello con cui si era dato il cinque nel cortile di Palazzo Chigi lunedì notte, per mostrare a telecamere e cronisti che per carità, tra loro è tutto a posto. Ma se si parla di arresti e giudici le ipocrisie non reggono. Così Di Maio punge e Alessandro Di Battista picchia: “La Lega non sta rubando a Forza Italia solo voti, ma anche uomini e dinamiche. Il berlusconismo proverà a sopravvivere allo stesso Berlusconi, diventando il tratto distintivo di altre forze politiche”. Righe che fanno riferimento anche alle mire del Carroccio sulla giustizia, traducono dal M5S. Mentre batte un colpo anche il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra: “Ho richiesto con lettera il 7 maggio la convocazione del ministro dell’Interno in commissione, dopo averla sollecitata sin da dicembre. Alla luce dei nuovi arresti sono costretto a ribadirne l’urgenza”. Ma Salvini non fa una piega: “Certo che andrò in commissione”.
Invece con il fattoquotidiano.it usa sillabe vaghe su Arata: “Avete deciso voi giornalisti che è un mio consulente, partecipò solo a un evento della Lega. Chi me lo presentò? Non ricordo”. Però rammenta che la prossima settimana è previsto un vertice sulla riforma della giustizia, civile e penale, costruita dal Guardasigilli Bonafede. E al tavolo assieme al big del M5S ci saranno il premier Conte e la ministra della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno, la voce e gli occhi di Salvini sulla giustizia. Nell’attesa sul Resto del Carlino il vicepremier fa sapere: “Ho chiesto un incontro al ministro, è ora di avviare questa benedetta riforma della giustizia”. Centrata sulla magistratura, si evince. D’altronde “le cronache recenti hanno dimostrato che nessuno è immune da problemi”.
Quindi il vicepremier sta pensando di partecipare al previsto vertice sulla riforma, confermano dal Carroccio. Anche se aveva disertato quello fissato diverse settimane fa, prima del voto. Ora gli è tornata la voglia: ma con quali intenti? “Chiederà maggiori sanzioni per i magistrati e metterà bocca sulla riforma del Csm” sono convinti nel M5S. Dove avevano notato l’intervista di qualche giorno fa della Bongiorno a Libero: “Per i magistrati serve anche una verifica psico-attitudinale, occorrono buon senso ed equilibrio”. Una vecchia idea della P2. Del resto Salvini parla di giustizia anche in un question time alla Camera. “Non vogliamo schedare nessuno, però mi spiace che alcuni singoli possano mettere in dubbio l’imparzialità della magistratura”. E come esempi cita “quanto sta accadendo nel Csm” e “un magistrato di assoluto rilievo che, insoddisfatto per il risultato delle amministrative, ha parlato a proposito di alcuni Comuni dell’Emilia e della Romagna di fascio-leghisti”. Poco dopo, riunisce i ministri della Lega a casa sua a Roma “e sul tavolo c’erano tutti i dossier”. Compresa quello sulla giustizia, su cui i gialloverdi avevano discusso forte in sede di contratto di governo. Perché il Carroccio voleva inserire nel testo la separazione delle carriere per i magistrati, ma il Movimento disse no.
Però il contratto la Lega vorrebbe “rivederlo”, quindi la proposta potrebbe rispuntare. Anche se da Via Arenula ostentano tranquillità. Ricordano che “le due riforme sulla giustizia sono già pronte”, e che il loro primo obiettivo è ridurre i tempi dei procedimenti: “Il lavoro è stato svolto in modo approfondito assieme a magistrati e avvocati, le categorie che andavano sentite”. Dopodiché “se ci saranno buoni suggerimenti siamo pronti ad ascoltare”. Nel frattempo le agenzie raccontano che il 17 luglio arriverà la sentenza sul viceministro all’Economia della Lega Massimo Garavaglia, accusato di turbativa d’asta. Perchè la giustizia per i gialloverdi è tutta una spina.
Conte scriverà all’Ue “Regole da cambiare”. Nodo flat tax e Iva
Non si può fare la flat tax in deficit: dove pensa la Lega di trovare le risorse? È la domanda che agita il governo. Giovanni Tria, secondo alcune fonti, ne avrebbe chiesto conto ieri a Matteo Salvini al tavolo di Palazzo Chigi convocato dal premier Giuseppe Conte per impostare la trattativa con Bruxelles ed evitare la procedura d’infrazione. Ricostruzioni però smentite sia dal ministro dell’Economia che dalla Lega. Di sicuro, però, il primo vertice si chiude con il rinvio a sette tavoli di lavoro, incluso uno sulla tassa piatta. Il leader leghista se ne va al Viminale per una diretta Facebook. Poi nel pomeriggio convoca i soli ministri leghisti. Tria smentisce che la flat tax sia un tema attuale, ma da affrontare in manovra (e non in deficit). E infatti il nodo restano gli impegni chiesti da Bruxelles sul 2020: servirà indicare come disinnescare i 23 miliardi di aumenti automatici dell’Iva. Ieri il premier ha ribadito che “l’Italia rispetterà il patto di stabilità ma il nuovo quinquennio europeo dovrà essere quello della revisione delle regole”. A otto giorni dal Consiglio europeo, Conte che dettaglierà la strategia in una lettera che sarà inviata alle istituzioni europee nella quale elencherà ad uno ad uno i nodi delle regole europee vigenti.