La strana nomina di Federico e la rete di padre e figlio

Il tempo per correggere il passato è adesso. Matteo Salvini ha declassato già Paolo Arata a modesto “oratore di un convegno della Lega”, dopo l’arresto assieme al figlio Francesco per un’inchiesta su energia, mazzette e malavita. È il fascicolo che ha “espulso” dal governo l’ex sottosegretario Armando Siri, accusato di concorso in corruzione. Il legame politico con la famiglia Arata, però, non si recide con una scaltra battuta ai cronisti. Oggi Federico Arata, estraneo all’indagine siciliana, assiduo frequentatore dell’ambiente del Carroccio e considerato un seguace dell’internazionale sovranista che fa riferimento a Steve Bannon, ex guru di Donald Trump, è un ex consulente a Palazzo Chigi del Dipartimento per la programmazione economica, in sigla Dipe, che fa capo al sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti.

Il decreto di nomina di Federico, che la Corte dei conti ha definito legittimo e poi ha registrato il 17 aprile 2019 – il giorno prima del pandemonio scatenato dall’indagine di Trapani e dopo un paio di settimane di approfondimenti – non è rintracciabile sul sito di Chigi perché il Dipe l’ha revocato e non l’ha diffuso. Questo non impedisce di ricostruire la natura di un contratto che non esiste più, ma non perde il suo valore politico: Federico ha firmato agli inizi di aprile per un mandato di un solo anno con un incarico di “esperto” al nucleo tecnico del Dipe. Che fa il “nucleo tecnico”? “Svolge funzioni di supporto all’attività di impulso e coordinamento del presidente del Consiglio in materia economico-finanziaria ai fini della realizzazione del programma di politica economica”.

Ampia carriera condensata in un dettagliato curriculum, rodaggio tra Nomura, Bnp Paribas, Credit Suisse, residenza sospesa tra Londra e Zurigo, contatti di spessore in Pakistan, poliglotta con una base di lingua urdu, Federico compie 34 anni tra una settimana. Non è un classico raccomandato o un rampollo arruolato per lo svezzamento istituzionale né per gli impieghi che dichiara poteva ricavare particolare gratificazione da un compenso di 30.000 euro lordi al Dipe. Quella nomina era un biglietto da visita in più, un timbro, nient’altro. Almeno da un paio di anni, per la disinvoltura esibita, Federico è uno stratega dei rapporti esteri del Carroccio. Non è soltanto il ragazzo in abito scuro e dal sicuro gesticolare che ha accompagnato Bannon al Viminale da Salvini o che fantasticava di viaggi risolutivi negli Usa di Matteo, Federico ha irrobustito l’empatia tra la destra più conservatrice americana e la Lega nazionale. E la famiglia Arata, per intenderci Federico e il papà Paolo, erano accolti in Vaticano da quel segmento di Chiesa ostile al Papa e ben radicato negli Usa.

Federico è reputato “un amico” da Benjamin Harwell, il direttore dell’istituto Dignitatis Humanae che vive da eremita – con un avviso di sfratto del ministero per la Cultura – in un’abbazia del 1200, la Certosa di Trisulti (Frosinone), il luogo scelto da Bannon per la scuola di formazione del sovranismo. E il papà Paolo sentiva al telefono il cardinale Raymond Leo Burke, presidente onorario del Dignitatis Humanae, per una cena a casa del porporato americano, fiero oppositore del pontificato di Bergoglio. Salvini corregge il passato, ci prova, così definisce il professore Arata un tizio che ha incontrato a un dibattito del Carroccio e che lì, chissà per caso, ha ricevuto un microfono e s’è messo a blaterare e poi potrà dire che Federico era un cervello espatriato strappato alle multinazionali del capitalismo. Il guaio del passato è che quello che è successo resta lì. E prima o poi, va spiegato davvero.

“Contatti leghisti in dote all’uomo legato al boss”

Paolo Arata, l’ex parlamentare forzista nelle grazie del Carroccio, che lo ha interpellato per ideare il progetto sulle Energie, aveva una carta da giocarsi più degli altri. Quegli “attuali influenti contatti con esponenti della Lega” che “ha portato in dote alle iniziative imprenditoriali con Nicastri” Vito, siciliano e “re dell’eolico” ritenuto dai pm vicino al boss latitante Matteo Messina Denaro. Erano contatti “effettivamente riscontrati e spesso sbandierati dall’Arata di cui informava puntualmente Nicastri”. Ne è la prova, per i pm, una conversazione del 23 dicembre 2017 quando “Nicastri sollecitava Arata a far intervenire il senatore Armando Siri in relazione a un sostegno nei confronti di una persona dagli stessi sponsorizzata”. E forse il riferimento è alla necessità di piazzare un candidato nella lista della Lega in Sicilia.

Insomma quella di Arata era un’agenda che sembra annoverare nei contatti non solo Armando Siri, l’ex sottosegretario rimosso dal governo l’8 maggio dopo che venne fuori l’indagine a suo carico per concorso in corruzione proprio con Arata: i pm accusano l’ormai ex sottosegretario di aver tentato di promuovere provvedimenti per favorire Arata in cambio di 30 mila euro dati o promessi.

Con le dimissioni di Siri, quindi, si pensava che la grana fosse risolta. Ma ieri è arrivata un’altra batosta in casa leghista con Matteo Salvini che ora dovrà andare in Commissione Antimafia a spiegare il ruolo di Arata nel Carroccio: l’ex parlamentare è da ieri in carcere assieme al figlio Francesco per trasferimento fraudolento di valori e corruzione. Stessa misura per Vito Nicastri e il figlio Manlio, mentre è finito ai domiciliari un dirigente della Regione Siciliana accusato di corruzione. “Quanto gli abbiamo dato?”, dice Paolo Arata. Nell’inchiesta sono indagati, ma per abuso d’ufficio, anche altri due funzionari regionali.

“Hanno arrestato Vito,
è un bel problema ”

Secondo le accuse, quindi, Nicastri aveva attribuito ad Arata e altri la “titolarità e la disponibilità” di alcune società al fine di “eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale”. In quel momento infatti si trovava ai domiciliari per l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e trasferimento fraudolento. Guai giudiziari non hanno intimorito i soci. Per i pm infatti “gli Arata hanno continuato a investire con Vito Nicastri anche dopo il suo arresto”. Erano insomma la sua longa manus e continuavano a parlare con lui anche quando si trovava ai domiciliari. Qualche preoccupazione arriva quando Nicastri torna in carcere: “È un bel problema questo, soprattutto per lui, ma anche insomma tutte le cose che abbiamo insieme…”, dice Paolo Arata intercettato.

Rete politica in Regione, con il pass di Gianfranco

La rete di affari toccava anche i livelli politici della Regione. Paolo Arata, scrive la procura di Palermo, “ha fatto tesoro della sua precedente militanza politica per attivare canali privilegiati di interlocuzione con esponenti politici regionali ed essere introdotto negli uffici tecnici incaricati di valutare (in particolare) i progetti relativi al bio-metano”.

A Palazzo d’Orleans si arrivava tramite Gianfranco Miccichè, oggi presidente dell’Ars ed estraneo all’inchiesta. O almeno questo emerge da una conversazione del 12 settembre 2018: “Paolo e Francesco Arata spiegavano al loro interlocutore di essere stati introdotti presso l’assessore Turano (estraneo alle indagini, ndr) da Miccichè. A Turano gli stessi avevano riferito delle loro co-interessenze con Vito Nicastri, dicendogli di averlo conosciuto come valente ed esperto imprenditore del settore energetico e di ritenere che proprio tale ‘legame’ fosse la ragione della diffidenza mostrata da alcuni Uffici regionali nei confronti dei progetti della Solgesta srl”, società che, secondo i pm, “operava con l’occulta partecipazione di Vito Nicastri”. Durante la conversazione si parla anche all’assessore al Territorio Salvatore Cordaro (completamente estraneo all’indagine), “lamentandosi dell’atteggiamento di sufficienza tenuto da quest’ultimo, che sembrava snobbarli”.

“Andiamo dal direttore con i coltelli in mano”

Nicastri non si arrendeva neanche quando dalla Regione arrivavano fumate nere: “Andiamo dal direttore con i coltelli in mano quasi va, vediamo se si rifiuta”, diceva il 23 dicembre 2017.

Poi è successo anche di dover cambiare strategia. Gli affari infatti subiscono un rallentamento quando il governatore Nello Musumeci cambia il direttore di un ufficio per loro interessante. “Con la nomina del nuovo capo dipartimento (a gennaio 2018) – è scritto nelle carte – si determinava lo slittamento dei tempi per l’esame delle pratiche (ai fini Aia) della Solgesta Srl lasciate in sospeso dal suo predecessore”. Così Nicastri intercettato dice di “essere in contatto, attraverso Paolo Arata, col nuovo direttore del dipartimento, il quale aveva preso l’impegno di esaminare le pratiche della Solgesta srl al più presto”.

“Arata veniva alla Regione per trovare complici e si trovava di fronte a fermi e inesorabili no”, ha commentato ieri Musumeci.

La bad company

Lamentarsi per la lentezza della giustizia italiana porta male. Appena lo fece Renzi, gli arrestarono i genitori. Appena l’ha fatto Salvini, gli hanno arrestato Paolo Arata, ex deputato di FI e poi consulente della Lega per l’energia, insieme al figlio Francesco per corruzione, autoriciclaggio e intestazione fittizia di beni. Beni non di uno qualunque, ma dell’“imprenditore dell’eolico” Vito Nicastri, trapanese, detenuto con una richiesta di condanna a 12 anni perché considerato il finanziatore della latitanza di un altro Matteo: Messina Denaro. Da mesi Arata padre e figlio sono indagati dalla Dda di Palermo per un giro di mazzette alla Regione siciliana per favorire Nicastri e se stessi a ottenere autorizzazioni per i loro comuni affari nell’eolico e nel bio-metano; ma anche a Roma per una presunta tangente di 30 mila euro all’ex sottosegretario leghista Armando Siri, in cambio di un emendamento che avrebbe dovuto “sanare” ex post certe licenze chieste in ritardo per far accedere le loro società agli incentivi pubblici sulle energie rinnovabili, e che fu bloccato da vari niet dei 5Stelle. Così come la sua nomina, caldeggiata da Salvini, a presidente dell’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (Arera), cioè controllore di se stesso. Intanto, a marzo, il sottosegretario Giorgetti assumeva l’altro figlio di Arata (Federico, architetto e trait d’union tra Salvini e il para-guru Steve Bannon) come consulente economico a Palazzo Chigi.

Arata risponderà ai giudici del suo riciclaggio. E Salvini deve rispondere all’opinione pubblica di un altro tipo di riciclaggio, non penale ma politico e moralmente ancor più grave: quello di un pezzo maleodorante di Forza Italia saltato sul carro della Lega senza incontrarvi alcun ostacolo. Arata è un ex deputato di FI (dal ’94 al ’96) che si butta nel business delle energie alternative, gran mangiatoia di fondi statali, regionali ed europei, controllata in Sicilia da Cosa Nostra. E diventa il prestanome dell’affarista colluso Nicastri, che non può più operare in prima persona dopo un arresto e un sequestro da 1,3 miliardi. Con la vecchia politica siciliana e berlusconiana Arata ha ottimi rapporti: l’inchiesta cita interventi in suo favore dell’ex Dc Calogero Mannino, del forzista Gianfranco Miccichè e di Alberto Dell’Utri (gemello di Marcello, pregiudicato per mafia). Ma gli servono nuovi referenti politici al governo e li individua nella Lega. Che riesce a penetrare come la lama calda nel burro. Perciò è ancor più urgente che il vicepremier e soprattutto ministro dell’Interno chiarisca i suoi rapporti con gli Arata. Anche prima di andare in Antimafia.

Rispondendo alle domande che da aprile, dal caso Siri, gli rivolgiamo senza ottenere risposta. Da allora Salvini ha rilasciato decine di interviste a giornali, tv e talk show, ma nessuno gli ha mai posto quegli interrogativi. Ora, se vuole evitare un voto di sfiducia per le ombre che l’arresto di Arata allunga sul suo ruolo di responsabile dell’ordine pubblico, dovrà decidersi a parlare.
1. Chi e quando gli presentò Arata? E come arrivò Arata alla Lega, trasformandola nella bad company di Forza Italia?
2. Arata padre possiede varie società nel settore energia e questo, diversamente dai rapporti con Nicastri, lo sapevano tutti: bastava una ricerca su Google o una visura. Perché, malgrado il mega-conflitto d’interessi, Salvini lo fece parlare al convegno programmatico di Piacenza (dove peraltro lo stesso Arata si presentò come “piccolo imprenditore dell’energia rinnovabile e dell’eolico”) e nel 2018 gli fece scrivere il programma leghista sull’energia e lo propose all’Arera?
3. Salvini sostiene di aver “incontrato Arata soltanto una volta”. E in un’intervista a la Verità spiega dove: “È venuto una volta a un nostro convegno a parlare di energia. Ha fatto una bella lezione. Non ci siamo più parlati”. Ma, in quel convegno programmatico a Piacenza il 16 luglio 2017, Arata parlava già da capo leghista, col “noi” maiestatico: “Dobbiamo mettere i nostri uomini nei posti giusti”. E Salvini non se ne stupì più di tanto, anzi rilanciò il suo discorso con tre tweet con l’hashtag “Facciamosquadra”. Se davvero l’aveva appena conosciuto quello stesso giorno, chi l’aveva invitato e inserito nel programma del convegno? E chi l’aveva autorizzato a parlare a nome del partito?
4. Se, da allora, Salvini non gli ha mai più parlato, chi incaricò Arata di scrivere il programma energetico della Lega? E come saltò in mente a Salvini di proporre uno che aveva intravisto una volta come capo dell’Authority sull’energia? E come mai fu proprio Arata a sponsorizzare Siri a sottosegretario ai Trasporti e fu prontamente accontentato?
5. In un anno di governo, Arata&famiglia hanno beneficiato di una serie impressionante di favori dalla Lega: il convegno, il programma, la nomina di Siri malgrado il patteggiamento per bancarotta fraudolenta e sottrazione fraudolenta di beni al fisco, la candidatura all’Arera (stoppata da Di Maio), l’emendamento di Siri pro Arata&Nicastri (proposto più volte a vari ministeri e in vari provvedimenti, e stoppato da Di Maio e dai suoi uffici, poi dai 5Stelle Fraccaro, Costa, Castelli e Crippa), l’ingaggio del figlio alla corte di Giorgetti, la difesa a oltranza di Siri indagato prima della cacciata dal governo per mano di Conte e Di Maio. Il che ha fatto sospettare a molti che la Lega non possa scaricare Arata. Cosa deve la Lega a quella famiglia? Salvini può garantire che mai gli Arata hanno finanziato o aiutato la Lega?
6. Non pensa Salvini di dover chiedere scusa agli italiani (elettori leghisti inclusi) per quelle scelte sciagurate e ringraziare Conte, Di Maio e i 5Stelle per aver impedito che il sistema Arata inquinasse il governo e le istituzioni?

Addio a Valeri, la signora del teatro che si è meritata “Un posto al sole”

Elegante ma con la battuta sempre pronta, se n’è andata la signora del teatro italiano. Valeria Valeri, pseudonimo di Valeria Tulli, si è spenta a 97 anni a Roma, sua città natale. Proprio nella Capitale mosse i primi passi sul palcoscenico, nella metà degli anni 40, diventando la regina della commedia brillante. Fra i suoi sodalizi più celebri quelli con Alberto Lupo, Alberto Lionello, Gino Bramieri e Paolo Ferrari. Diventa un volto noto della tv grazie alla partecipazione a sceneggiati come Gian Burrasca e La famiglia Benvenuti, ma in seguito prenderà le distanze dalle telecamere, non apprezzando la “volgarità crescente dei programmi televisivi”. Tornerà al piccolo schermo per Un posto al sole: ”Ho voluto esserci perché era la prima soap italiana – spiegò l’attrice – ed è prodotta a Napoli. In futuro la fiction dovrà essere realizzata in questo modo”; successo che replicherà recitando anche in Un medico in famiglia. Ma il suo grande amore restò il teatro, di cui calcherà le scene fino agli ultimi anni: “Siamo rimasti in pochi a saper far sorridere in modo non volgare, non costruito”. I funerali si svolgeranno oggi, alle 11.30, nella Chiesa degli Artisti di Roma in piazza del Popolo.

Gramsci dietro una pila di libri. E nacque la cultura socialista

“Questo foglio esce per rispondere a un bisogno profondamente sentito dai gruppi socialisti di una palestra di discussioni, studi e ricerche intorno ai problemi della vita nazionale e internazionale”. Così comincia “Battute di preludio”, l’editoriale non firmato, ma redatto o ispirato da Antonio Gramsci, del primo numero del giornale L’Ordine Nuovo. La Rassegna settimanale di cultura socialista, come era specificato sotto la testata, uscì cento anni fa a Torino, il primo maggio del 1919. Poco prima, il 23 marzo, a Milano Benito Mussolini aveva dato vita ai Fasci di combattimento.

L’Ordine Nuovo era nato per iniziativa di un gruppo di giovani della sezione socialista composto, oltre che da Gramsci, da Angelo Tasca, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti.

Quei giovani e quel giornale ebbero presto un ruolo rilevante nella sinistra, visto che furono tra i protagonisti del movimento dei consigli operai e dell’occupazione delle fabbriche, e quindi della fondazione a Livorno, nel gennaio del 1921, del Partito Comunista d’Italia. Piero Gobetti, che sarebbe diventato un collaboratore del settimanale, lo avrebbe definito su La Rivoluzione Liberale del 2 aprile 1922 “il solo documento di giornalismo rivoluzionario e marxista che sia apparso (con qualche serietà ideale) in Italia”. Il primo numero del giornale, di cui Gramsci era l’anima, viene ora riproposto in un’edizione anastatica di 250 esemplari, assieme al numero unico di La Città Futura, altro foglio gramsciano, dalla Viglongo. È una ristampa che vuole essere anche un omaggio ad Andrea Viglongo (1900-1986), il fondatore dell’omonima casa editrice torinese e uno dei redattori di L’Ordine Nuovo.

La novità del settimanale, che in seguito divenne quotidiano, fu quella di porsi come un vero giornale completo, dalla politica allo sport, dalla cultura alla cronaca. Rammentava Viglongo che si voleva fare un giornale “che bastasse alla lettura del lettore più esigente”. E si prefiggeva, in particolare, di dare alla classe operaia una preparazione culturale moderna. “Si respirò una cultura internazionale”, ha detto lo storico Angelo d’Orsi, “inserendosi quella piccola impresa in un quadro europeo, e non solo, di discussione e rivitalizzazione critica del marxismo, nel quale si collocò, di lì a poco, per citare una istituzione destinata a grande fama, la cosiddetta Scuola di Francoforte”.

Da quel maggio del 1919, nel giro di tre anni, si sarebbero consumati l’occupazione delle fabbriche, il “biennio rosso”, lo squadrismo fascista, fino alla marcia su Roma e alla presa del potere da parte di Mussolini. In modo simile all’idea di rivoluzione di Gobetti, il giornale diretto da Gramsci, che vi compariva come segretario di redazione, scrive sempre D’Orsi, rientrava nel “progetto complesso capace di costruire grandi unità di masse ed élite, di operai e intellettuali, di proletari dell’industria e proletari della terra”, con al centro l’idea dei consigli di fabbrica come base di una democrazia operaia.

La sede torinese, al numero 3 di via dell’Arcivescovado, era nei pressi di un convento; nei primi anni Trenta avrebbe ospitato l’allora appena nata casa editrice Einaudi. Nelle memorie consegnate a Maurizio e a Marcella Ferrara, Togliatti avrebbe ricordato che la redazione era “composta da due grandi cameroni, in cui lavoravano tutti i redattori e i cronisti, uno stanzino per la stenografia e una dove stava Gramsci. Una stanza assurda era questa, piccolissima, con una scrivania messa di traverso e dappertutto libri e giornali”. La sua testa “si vedeva appena, entrando, dietro ai cumuli di giornali e di carte”.

Il sogno di Gramsci, come quello di Gobetti aggredito più volte dagli squadristi, e morto giovanissimo in esilio a Parigi, si frantumò con il fascismo. E Gramsci sarebbe stato emarginato in carcere dagli stessi compagni comunisti, legati a Stalin. Qualche settimana fa in un albergo torinese, in via dell’Arcivescovado, si è tenuto un comizio di CasaPound. A nessuno è venuto in mente che in quella strada, a pochi metri di distanza, nel 1922 i fascisti assaltarono e distrussero la sede dell’Ordine Nuovo.

De Gregori, il mago sornione stanco di cantare “Viva l’Italia”

C’è di che riempirsi cuore e orecchie, con De Gregori a Caracalla. Eppure, a ben guardare, in una scaletta ricca ma strutturalmente rigida qualcosa manca.

Se gli chiedi della rinuncia a Viva l’Italia, presenza costante nei concerti al teatrino di Caracalla appena due mesi fa, la sua replica è risoluta: “È una canzone pugnace, molto assertiva, non me la sento di farla”. E se insisti a cercare chiarimenti, ti becchi una frase tombale: “La risposta finisce qui”. Ma te lo dice, Francesco, con il sorriso smagato di chi, da una vita, trova chi lo tira per la giacchetta. “Non voglio esporre banalmente delle cose”. Niente politica, al bando le polemiche che fanno titolo: chi vuole decifrare il pensiero del Principe indaghi sulle magie inventate all’ombra delle Terme imperiali, complici gli Gnu Quartet, la Gaga Symphony Orchestra e la band di sempre.

Arrangiamenti sontuosi, poesia da pescare a piene mani, la fastosa eppur disincantata rievocazione di un repertorio in cui lo stesso autore continua a fare scoperte, restando sorpreso dai segreti che le sue cose gli avevano nascosto fino a oggi. Chi pretende “messaggi” può tentare di decodificarli già nell’ouverture della serata: l’intro strumentale di Oh Venezia (originariamente nell’album Il fischio del vapore, che Francesco aveva realizzato con Giovanna Marini nel segno della canzone popolare); e da lì una sequenza di brani che fanno affresco e ritratto del passato nazionale: Generale, Il cuoco di Salò, La storia. Segue Pablo, ma anche qui non c’è partigianeria di sorta, secondo De Gregori: “Ma quale chiave ideologica, l’avevo scritta ispirato dai Malavoglia, la saga degli ultimi!”.

Dimenticate il portavoce trans-generazionale, insomma. Francesco è il bardo elusivo, il mago sornione che non si fa fregare, aristocratico e plebeo al tempo stesso, capace di incantesimi come il Prospero shakespeariano. Caracalla è, letteralmente, il suo colpo di teatro, oltre che apertura di un tour che replica stasera a Roma e poi se ne va in giro per il Paese, con un’agenda in progress: si doveva chiudere il 20 settembre all’Arena di Verona, ma ecco già tre concerti fissati agli Arcimboldi di Milano a partire dal 23 di quel mese.

Il Principe si dice contrario alla “monumentalizzazione” delle sue canzoni: “Non ci sto al restauro del tabernacolo di quarant’anni fa, la musica è liquida, in costante riscrittura, c’è l’interpretazione che rende diversa la Nona di Beethoven diretta da Von Karajan da quella di Paganini, è il privilegio di chi può suonare ogni sera. Il pittore, una volta esposto il quadro al museo, non può aggiungere pennellate, noi sì. Fellini non poteva rielaborare con nuove idee Otto e mezzo dopo l’uscita in sala, noi cantanti e strumentisti possiamo permettercelo, ovviamente rispettando la filologia originale”.

Ostenta umiltà, De Gregori, onorando la location capitolina: “Qui ha cantato Dylan, e avrà sentito la potenza dello scenario. Io sarei un imbecille a restare indifferente. Ma il rapporto tra me e il pubblico è lo stesso di quando mi esibisco davanti alle piscine vuote o ai campi sportivi deserti. Lo faccio con la stessa fierezza”, giura. Dispensando come primo bis (per chiudere con gli immancabili Buonanotte fiorellino e Rimmel) una serenata suadente come la I can’t help falling in love immortalata da Presley. “La suonava mio fratello, è un regalino che faccio a me stesso. Quanto ai miei pezzi, sono come dei figli vestiti con abiti sempre diversi. E mi piacerebbe realizzare un album live da questo tour, ma non lo pubblicherò mai. Sono stufo di fare dischi che non vendono, e che le radio non passano”.

Lo Strega delle risse: vinci il premio perdi il figlio

Ipanni sporchi oggi si lavano in libreria non in famiglia. Del resto prima della rivoluzione industriale la carta si faceva riciclando tessuti usati e quando c’erano pestilenze nelle cartiere tutti si infettavano. Il concetto di sporco e pulito ovviamente non riguarda la letteratura: almeno dal Novecento in poi gli eroi sono interessanti solo se hanno molte macchie e molte paure. Ma un pensiero del genere (“I panni sporchi…”) a qualcuno deve essere venuto in mente quando nel 1969 Lalla Romano ha vinto lo Strega con Le parole tra noi leggere, un romanzo sul più sacro e intoccabile dei legami, quello tra madre e figlio (non esiste un Vangelo secondo Maria).

La copertina originale, con tormentato e spigoloso autoritratto di Schiele, diceva già tutto. La Romano aveva una bella mano per i titoli, ma quelle parole erano tutt’altro che leggere, come ammetterà lei stessa. La forza del libro – in genere dei suoi libri – è proprio il coraggio di guardare in modo disincantato il rapporto più incantato. Il figlio Piero se l’è presa. Il successo del libro, anche in termini di vendite, non ha migliorato le cose. La morte del padre, Innocenzo Monti, che aveva sempre fatto da intermediario, tantomeno. La vulgata vuole che non si siano mai più riconciliati. Antonio Ria, ultimo compagno e custode della memoria di Lalla Romano, nega che sia vero.

Siamo abituati al figlio che racconta senza sconti i genitori. L’opposto è inammissibile. Un sacrilegio. Negli anni 60-70 erano i figli a sfidare il potere paterno o l’oppressione materna. In quest’ottica “sovversiva” ci poteva stare la madre evoluta e cerebrale che racconta il figlio senza indorare la pillola e ben oltre la soglia dell’infanzia. La Romano si godeva lo Strega, per quanto poteva, dopo essere stata “trombata” nel ’64 al Viareggio dove concorreva con La penombra che abbiamo attraversato. L’aveva vinto quel “rompicoglioni” di Giuseppe Berto con Il male oscuro, tra lo scandalo dell’establishment culturale (Montale si era dimesso dalla giuria). Tutt’e due sono narratori autobiografici.

La narrativa autobiografica per certi aspetti è molto comoda – racconti quanto di più vicino – ma naturalmente scomodissima per altri. Specie se i personaggi reali sono ancora in vita e ti leggeranno. Alla scuola Belville Walter Siti ha raccontato una telefonata di Mauro Covacich: il romanziere triestino lo invidiava in quanto “frocio”, dunque privo di moglie e più libero nello scrivere di sé. Lui aveva dovuto concordare con l’ex consorte Anna quello che poteva e non poteva dire sulla fine della loro storia. Quando era uscito Prima di sparire la donna si era comunque risentita. Neanche i nomi sono stati cambiati: sarebbe la prima regola del narratore e dell’editore prudente. Ma la prudenza riguarda i premi assicurativi non letterari.

“I nomi, i fatti e le date sono tutti autentici. Ho inventato solo i dettagli di poca importanza. Pertanto ogni somiglianza dei personaggi a persone reali è da considerarsi premeditata”, scriveva Sergej Dovlatov in esergo a Regime speciale, il libro dove racconta l’esperienza come guardia in un campo di prigionia sovietico, col sarcasmo distruttivo che lo caratterizza, poco edificante per i carcerieri ma anche per i carcerati. È il suo primo libro e per pubblicarlo deve emigrare a New York. Altrimenti sarebbe stato anche l’ultimo.

Considerato fino agli anni 60 il “Nadir della scatologia”, Henry Miller diceva di non riuscire a concepire uno scrittore che si chiede quale sia il limite in cui fermarsi: “Questo lo posso scrivere, questo no…”. Ma è esattamente quello che gli scrittori fanno e hanno sempre fatto, magari con l’aiuto dell’editore e del suo ufficio legale. Pasolini, che pure era Pasolini, accetta la censura di Livio Garzanti per Ragazzi di vita e toglie o modifica i passaggi più pesanti. Ma tutto questo non gli evita il processo per oscenità a Milano e a Roma: salta persino fuori chi sostiene di essere “il Begalone”, uno dei personaggi del romanzo, nella speranza di portare a casa qualche soldo per diffamazione a mezzo stampa. Parafrasando Flaubert, “Il Begalone c’est moi”.

Rispetto agli anni 50, così repressivi e perbenisti, la sensibilità è cambiata: ciò che era offensivo o impudico allora può sembrare innocuo ora. Ma vale anche il contrario e lo spazio per offese e querele resta ampio. Soprattutto nella narrativa autobiografica, sempre più diffusa. Altro che arte-terapia e funzione catartica della scrittura: invece di “liberarti” di un vissuto rischi di trascinartelo dietro all’infinito, tipo supplizio mitologico. E magari di farti trascinare in tribunale. Almeno finché la Cassazione non sancirà un diritto di auto-fiction o qualcosa del genere.

Golunov libero: l’intimidazione dell’apparato stavolta è fallita

Il caso Golunov è chiuso: Ivan è tornato libero. È entrato in tribunale da giornalista coraggioso, ne esce da nuova icona della Mosca che protesta. A essere sotto esame del Comitato investigativo della Duma adesso sono invece i poliziotti che lo hanno arrestato. Non c’era alcuna traccia di droga nei test genetici e forensi del reporter, le stesse foto per incriminarlo per possesso di droga erano state scattate altrove e non a casa sua, riferisce il ministro dell’Interno russo, Vladimir Kolokoltsev: “Non ci sono prove del coinvolgimento di Golunov nel crimine in questione, il caso è chiuso”. Quello che non è mai accaduto prima in Russia è successo ieri: ha vinto la società civile contro l’apparato. “Il ministero dell’Interno ha riconosciuto la presenza di un problema sistemico, questa è una vostra vittoria” ha scritto l’avvocato del giornale Meduza, la cui direttrice Galina Timchenko ha ribattuto incredula e commossa: “È stato liberato grazie agli sforzi di migliaia di persone, abbiamo raggiunto l’incredibile insieme: abbiamo fermato la persecuzione di un innocente”.

Perfino i propagandisti del Cremlino si sono indignati: la redattrice capo dell’agenzia RT ha detto che ci sono “molte domande a cui rispondere adesso”. Tatyana Maskalkova, commissario governativo per i diritti umani, ha riferito a Putin che la vicenda “getta discredito su tutte le indagini riguardanti il narcotraffico”. Al Cremlino ora, riferisce una fonte di Meduza, è pronto un disegno di legge per mitigare la pena per possesso di droga.

I Janjaweed e l’arma dello stupro

Sempre più confusa la situazione in Sudan dove continuano le manifestazioni della popolazione, nonostante il pesante e violento attacco del 3 giugno al sit-in davanti al quartier generale dell’esercito che ha provocato oltre cento morti. Il presidio permanente è finito ma a Khartoum posti di blocco sorgono spontanei per sbarrare il traffico.

Il Transitional Military Council – che sta gestendo il potere dall’11 aprile, quando, dopo mesi di dimostrazioni di piazza, è stato defenestrato il dittatore da trent’anni al potere, Omar Al Bashir – ha annunciato di aver arrestato un imprecisato numero di militari accusati di aver aperto il fuoco sui dimostranti provocando il massacro. Ma ci sono ancora notizie di civili accoltellati per strada e donne aggredite e violentate in casa propria da sconosciuti. Gang di paramilitari terrorizzano la popolazione. Scendono da auto di passaggio bloccano civili indifesi, li picchiano a sangue e li lasciano sull’asfalto gravemente feriti o moribondi. Le denunce arrivano dalla Sudanese Professionals Association, l’associazione delle professioni che conduce la protesta e ha la leadership della Alliance for Freedom and Change, l’alleanza di tutti i gruppi democratici, che indica come responsabili i paramilitari del Rapid Support Forces, i janjaweed che hanno cambiato nome e ne hanno acquistato uno più nobile, ma non hanno rinunciato ai loro metodi truculenti.

Amira Osman, ha raccontato di almeno cinque casi di stupro, tre ragazze e due ragazzi. Un video, impubblicabile per la crudezza delle immagini visionato dal Fatto Quotidiano a Nairobi, mostra uno dei miliziani che, in una tenda da campo durante l’attacco al sit-in dei dimostranti, strappa i vestiti a una ragazzina e la violenta. La Spa sostiene che durante il violento attacco gli stupri sono stati almeno settanta, tutti messi a segno degli uomini della Rsf. Torna così la paura dei janjaweed, i crudeli e sanguinari miliziani al servizio del governo che atterrivano le popolazioni civili in Darfur. Janjaweed è un neologismo il cui significato è più o meno “diavoli del terrore a cavallo”. Entravano nei villaggi (specie di notte) aprivano il fuoco indiscriminatamente, ammazzavano gli uomini, rapivano bambini e bambine e, prima di incendiare le capanne, violentavano le donne. Si allontanavano poi drogati e ubriachi, sghignazzando istericamente. Ora l’opposizione, per rilanciare l’iniziativa politica ha optato per lo sciopero generale. Lunedì i negozi erano chiusi e sui social sono stati postati video che mostravano le strade di Khartoum e della città gemella, separata solo da un ponte sul Nilo, Omdurman, deserte. Durante gli sporadici scontri con la polizia, almeno 3 civili sono stati uccisi.

“La situazione instabile e confusa – commenta un diplomatico nella capitale sudanese – dimostra che c’è una spaccatura nell’esercito. Da un lato chi vorrebbe intervenire con decisione e chiudere i conti con un bagno di sangue, dall’altro che intende recepire le richieste di democrazia e apertura sociale”. Insomma, l’ala militare legata al vecchio di dittatore, da cui ha ottenuto prebende, favori e privilegi, resiste e non vuole assolutamente lasciare il potere. Ma i giovani (e soprattutto le donne che stano giocando un ruolo importante), la borghesia e le classi popolari questa volta non intendono abbandonare la lotta.

Alabama, castrazione chimica per i pedofili

“È un passo importante per la protezione dei bambini in Alabama”. Così Kay Ivey, governatrice di uno degli Stati americani più controversi in quanto alla tutela dei diritti umani, ha salutato l’approvazione della legge sulla castrazione chimica per i pedofili. La misura prevede la somministrazione di inibitori del desiderio sessuale a chi è condannato per abusi su minori di 13 anni, a partire da un mese prima del rilascio. L’acquisto dei farmaci è a spese dell’interessato ed è un tribunale a stabilire quando interrompere il trattamento. L’Alabama si aggiunge così al non breve elenco di Stati Usa che già hanno adottato tale misura: in tutto sette, tra cui la Louisiana e la Florida.

La legge, proposta dal repubblicano Steve Hurst – “colpito dalla testimonianza di un’organizzazione che aveva in cura un bambino vittima di violenza” – ha suscitato le critiche dell’American Civil Liberties dell’Alabama. “Non è affatto chiaro né clinicamente provato che la castrazione chimica abbia qualche effetto”, ha accusato il direttore esecutivo Randall Marshall, secondo cui l’aspetto più discutibile della legge starebbe proprio nel fatto che lo Stato metterebbe in atto una sorta di sperimentazione di farmaci sugli esseri umani, “in contrasto con la Costituzione Usa”. Ma gli Stati Uniti non sono l’unico Paese in cui i criminali sessuali vengono sottoposti alla castrazione chimica. Nel 2016 fu l’Indonesia ad approvare la legge che la autorizza, già vigente in Corea del Sud dal 2011. Misura ben vista anche in Italia dal ministro degli Interni Matteo Salvini, il quale appresa la notizia dell’approvazione in Alabama ha rispolverato un suo vecchio cavallo di battaglia definendola “una buona pratica anche per il nostro Paese”.

C’è da dire che la strada per l’Alabama è lastricata di leggi controverse prima di questa. È di appena un mese fa – il 15 maggio – quella che vieta l’aborto anche in caso di stupro o incesto. E anche se su questo tema è l’ultimo degli Stati Usa ad aver rimesso in discussione la norma degli anni 70, quella firmata da Kay è una delle più dure. Passata con 25 voti a favore e 6 contrari (hanno votato ‘no’ le donne), i medici che tentino di praticare un aborto rischiano fino a 10 anni di carcere e 99 se portano a termine la procedura. L’unico caso in cui l’interruzione di gravidanza è consentita è in caso di serio e imminente pericolo di vita per la donna incinta. Dopo due settimane da questa ennesima legge controversa, ad attirare l’attenzione, sempre in Alabama, era stato il sindaco della città di Carbon Hill, che con un post su Facebook aveva proposto lo sterminio dei gay insieme a “trans, baby killer e socialisti”. “Viviamo in una società in cui gli omosessuali ci impartiscono lezioni di morale, i travestiti ci parlano della biologia umana, i baby-killer ci parlano dei diritti umani e i socialisti tengono corsi di economia!”, ha scritto sul social il primo cittadino della città a 200 km dalla capitale Montgomery. Da qui la soluzione: “Eliminare il problema: so che non sta bene dirlo – aveva confessato – ma senza ucciderli non c’è modo di risolverlo”.

Tornando alla castrazione chimica, la legge appare sicuramente in linea con le idee della governatrice Kay, al centro di diverse critiche. Professoressa di liceo, è autrice del pagamento sostenibile delle tasse scolastiche che nel 2016 mise a rischio il sistema di raccolta delle tasse, nel 2017 propose un disegno di legge per velocizzare l’applicazione della pena di morte in Alabama, e subito dopo ne fece approvare un altro che permette alle agenzie di adozione religiose di non assegnare bambini alle coppie omosessuali. Per concludere nel 2018 con la firma della legge che consente agli amministratori scolastici di entrare in classe armati “per difendere gli studenti, la facoltà, lo staff e i visitatori dalla minaccia imminente provocata da un intruso armato”.