Intrighi nordcoreani. Il fratellastro, la Cia e la vendetta di Kim

Adesso, non c’è più alcun dubbio: Kim Jong-un, il dittatore nordcoreano, il terzo rampollo dell’unica dinastia comunista di questo mondo, è di nuovo sulla lista dei cattivi. Per quasi un anno, le intelligence occidentali e asiatiche gli avevano abbonato tutte le sue possibili malefatte. Una Ong sudcoreana sostiene che 318 siti sarebbero stati utilizzati per esecuzioni capitali, sulla scorta d’interviste a 610 transfughi nordcoreani.

Contemporaneamente, il Wall Street Journal scrive che Kim Jong-nam, il fratellastro del leader, ucciso nel febbraio 2017 all’aeroporto di Kuala Lumpur in Malesia, era un informatore della Cia e aveva incontrato in diverse occasioni agenti segreti nord-americani. La fonte dell’articolo non viene, però, identificata.

Certo, le rivelazioni dell’intelligence contro Kim possono rivelarsi inesatte o palesemente false. Kim Yong-chol, l’ex braccio destro che sarebbe stato epurato, è ricomparso in pubblico. Invece, di Kim Hyok-chol, che negoziava sul nucleare con gli americani e che sarebbe stato fucilato a marzo, non s’è più avuta notizia: farlo ricomparire vivo e vegeto, forse, non è possibile.

La riedizione di Kim come “cattivo” e “nemico” deriva dal fallimento del Vertice di Hanoi, l’incontro con Donald Trump a fine febbraio, dopo che, nel giugno del 2018, il Vertice di Singapore aveva suscitato ingiustificati entusiasmi. Kim, che era stato, nei primi 15 mesi della presidenza Trump, “palla di lardo” e “l’uomo razzo”, e aveva dato vita a duelli a distanza, era diventato l’unico improbabile testimonial dei successi in politica estera dell’Amministrazione Trump. Il magnate ancora non ammette gli errori di valutazione e resta sensibile alle lusinghe del dittatore. Eppure, ad Hanoi, complice la fretta e l’improvvisazione d’un Vertice inadeguatamente preparato, la maionese tra Trump e Kim non montò, anzi impazzì. Trump dovette tenersi nel cassetto i sogni d’un Nobel per la Pace. E, ora, nella campagna elettorale per Usa 2020, si sentirà rimproverare l’eccesso di fiducia nel dittatore. Ieri, a un comizio nello Iowa, l’ex presidente Usa Joe Biden, battistrada nella corsa alla nomination fra i democratici, ha detto che Trump non dà alcun segno di volersi smarcare da “mascalzoni” come Kim e Vladimir Putin.

Il rapporto della Ong sudcoreana, intitolato Mapping the fate of the dead, documenta, secondo Afp e Bbc, decenni di esecuzioni, per delitti come rubare una mucca o guardare i programmi della tv sudcoreana. Le sentenze capitali sono state eseguite in prigioni o nei campi di lavoro, ma anche lungo i fiumi, nei campi, sui mercati, nelle scuole; e vi hanno assistito anche più di mille persone. In genere le esecuzioni avvengono per fucilazione, ma vi sono anche testimonianze di impiccagioni, che però sarebbero andate riducendosi e forse non sarebbero più avvenute dopo il 2005. Sovente i familiari dei condannati, anche i bambini, uno di soli sette anni, hanno dovuto assistere. I corpi dei giustiziati vengono raramente restituiti ai familiari e il luogo della sepoltura non viene rivelato. Per l’Ong, “le esecuzioni sono uno strumento essenziale per incutere paura e dissuadere i cittadini dall’impegnarsi in attività considerate indesiderabili dal regime”. Il numero delle condanne a morte si sarebbe ridotto negli ultimi tempi.

In passato, si ha notizia di gerarchi del regime condannati e giustiziati. Kim, nel 2013, avrebbe fatto uccidere suo zio, Jang Song Thaek accusato di tradimento e – si racconta – gettato nudo con cinque suoi funzionari in una gabbia dove 120 cani affamati li avrebbero sbranati. E il ministro della Difesa Hyon Yong-chol sarebbe stato giustiziato in pubblico a cannonate per essersi addormentato durante un evento militare. Capita che le storie narrate siano fake news, come forse quelle di Kim Yong-chol e Kim Yo Jong; o quella dell’ex fidanzata di Kim, Hyon Song-woi, una cantante e artista, che sarebbe stata fucilata nel 2013 con altre undici persone – tutte accusate di pornografia –. Nel 2018, Hyong ‘resuscitò’.

Non può invece il fratellastro di Kim, Kim Jong Nam: due donne gli spruzzarono in faccia gas nervino e lo uccisero. Usa e Corea del Sud hanno accusato dell’attacco Pyongyang, che ha sempre negato ogni addebito. Le voci che ora legano alla Cia Kim Jong Nam, che in passato era stato invece collegato all’intelligence cinese, non appaiono solidissime: il fratellastro di Kim, che aveva vissuto fuori della Corea del Nord per molti anni e che risiedeva nei pressi di Macao, e che non aveva alcun potere in patria, non disponeva di informazioni particolari sull’inner circle di Kim. Sotto tiro delle intelligence asiatiche e occidentali, la Corea del Nord replica sul piano diplomatico: Pyongyang avverte che la sua pazienza sta finendo e che l’intesa di Singapore potrebbe non costituire più una base di negoziato valida. Una minaccia che stona con la lettera di Kim “molto bella e dai toni calorosi” che, secondo la Abc, Trump avrebbe appena ricevuto. Vi si parla di un terzo vertice entro tre settimane, che il magnate “vorrebbe fare”

Fca, Ilva, Whirlpool: lo sciopero dei metalmeccanici parte da qui

Da un lato si assiste a un riacutizzarsi di crisi industriali che sembravano scongiurate. Dall’altro si registrano i dati preoccupanti di aprile della produzione di automobili. E ancora un numero di morti sul lavoro che si mantiene inaccettabile, anche in fabbrica. Oltre alla questione dei salari, con il contratto della categoria che scade a dicembre 2019 e dovrà essere rinnovato nei prossimi mesi, auspicabilmente con un importante incremento in busta paga.

Venerdì, i sindacati dei metalmeccanici di Cgil, Cisl e Uil sciopereranno per otto ore e scenderanno in piazza. La manifestazione è stata lanciata dalla Fiom già dall’inizio dell’anno, prima che il congresso del sindacato rosso incoronasse Maurizio Landini. In questi mesi si è trovata la quadra per organizzarla insieme con la Fim e la Uilm. Non è stato difficile, anche perché i tre sindacati sono in queste settimane impegnati in una raffica di mobilitazioni unitarie in vari settori. I cortei delle tute blu saranno tre: uno a Firenze con il leader Uilm Rocco Palombella, uno a Milano con il capo della Fim Marco Bentivogli e uno a Napoli con la segretaria della Fiom Francesca Re David. L’obiettivo è protestare contro il governo affinché pure le imprese sentano la voce degli operai. Soprattutto in una fase delicata come questa, con l’incertezza del futuro di Fiat Chrysler e il ritorno della cassa integrazione all’ex Ilva di Taranto, ora in mano all’Arcelor Mittal.

Nel capoluogo campano, il corteo sarà aperto dai lavoratori della Whirlpool, che in questi giorni stanno cercando di difendere lo stabilimento partenopeo messo in vendita dall’azienda americana. “Lo sciopero – ha spiegato Francesca Re David – guarda alla mancanza di una qualsivoglia idea di politica industriale nel Paese che sta diventando un territorio di scorribande delle multinazionali con la conseguente perdita di ricchezza industriale”. Tra le rivendicazioni c’è pure la richiesta un intervento sugli stipendi dei lavoratori. Il governo è intenzionato a istituire il salario minimo per legge, ma i metalmeccanici hanno fatto notare che le retribuzioni previste dal contratto nazionale, sommando tutte le voci, arrivano al doppio dei 9 euro lordi ipotizzati. E mentre l’obiettivo della Lega è introdurre la flat tax che farebbe esultare i più ricchi, Fiom, Fim e Uilm chiedono una riduzione di tasse da destinare in maniera specifica ai lavoratori dipendenti. Il tema dei salari sarà poi al centro delle trattative per il rinnovo del contratto della Federmeccanica. Nel 2016 le sigle delle tute blu sono tornate a firmarlo insieme. Tra luglio e settembre partiranno gli incontri per la nuova piattaforma e l’obiettivo è presentarne una in comune.

Il digitale che stravolge la società (reazioni ad Alessandro Baricco)

Per quanto a qualcuno possa sembrare strano, in Italia è uno scrittore ad animare il dibattito più serio su come il digitale stia trasformando (o cancellando) la nostra società: Alessandro Baricco. Prima con il libro The Game, poi con quello appena uscito, The Game Unplugged che è una raccolta di saggi di reazione a The Game. Se si supera la prima fastidiosa impressione di autoreferenzialità, si scopre un mondo di autori figli degli anni Ottanta che portano – finalmente – freschezza e cultura: da Raffaele Alberto Ventura a Valerio Mattioli a Francesco Guglieri. Ognuno ha la sua prospettiva, ne emerge uno sforzo collettivo, generazionale, di trovare un nuovo senso a un mondo che pare pieno di trappole ma che costringe anche a tornare alle questioni fondamentali, dietro la superficiale patina del consumismo tecnologico e dell’edonismo da social. Comprare una replica della prima Play Station del 1994, a volte, è la strada più rapida per decidere che mondo lasciare a una figlia in arrivo.

 

The game unplugged

aa. vv.

Pagine: 194

Prezzo: 14

Editore: Einaudi

Le regole bancarie Ue penalizzano i più piccoli

Il 31 maggio scorso, nelle sue considerazioni finali, il governatore Ignazio Visco ha indicato la direzione da seguire per le Banche di credito cooperativo (Bcc): conciliare i benefici della vicinanza e della conoscenza che le banche locali hanno verso le imprese dei territori sfruttando le sinergie di costo e nel contempo rafforzare la solidità mantenendo la natura mutualistica. In teoria sarebbe il cuore della riforma delle Bcc del 2016. In teoria, perché le indicazioni di Visco si scontrano con i paradossi delle regole bancarie europee, che avvantaggiano le grandi banche e penalizzano le più piccole, quelle capaci di garantire finanziamenti alle tante piccole e medie imprese che sono l’ossatura della rete produttiva italiana.

La follia di questo paradosso è evidente nella regolamentazione europea che considera Significant le Bcc per il solo fatto di essere confluite nei gruppi bancari cooperativi, la cui adesione è peraltro obbligatoria. In questo modo rientrano nel novero delle grandi banche sottoposte al Meccanismo di vigilanza unico (Mvu) che fa capo alla Banca centrale europea (Bce). Un meccanismo che comporta enormi oneri per le piccole banche. Le Bcc vengono considerate, dal punto di vista dei controlli, degli oneri normativi e dei vincoli cui sono sottoposte, alla stessa stregua di colossi europei come Société Generale, BBVA o Deutsche Bank.

Mentre Paesi come Stati Uniti e Germania, che vantano grandi industrie, hanno ben compreso l’importanza di avere piccole banche territoriali efficienti e si sono attivati per non penalizzarle, in Italia, Paese col maggiore numero in Europa di piccole e medio imprese (che generano circa l’80% dell’occupazione totale), non c’è stata sino a oggi, a eccezione di qualche miglioria apportata dall’attuale maggioranza alla riforma delle Bcc, alcun tentativo di valorizzare meccanismi virtuosi di concessione di credito alle Pmi meritevoli. E a spingere in Europa affinché questi meccanismi vengano adottati.

Basta analizzare la regolamentazione bancaria americana o il pensiero del presidente della Federal Reserve per comprendere il valore attribuito oltreoceano alla semplificazione normativa correlata alla dimensione bancaria. In Italia si è invece proceduto al contrario. Nel 2005, per dire, è stato l’unico tra i maggiori Paesi europei ad aver imposto l’obbligo di redazione del bilancio in base ai principi contabili internazionali anche per le banche non quotate, cioè le più piccole. Obbligo che oggi, a causa dell’aumento dello spread, può generare problemi per la valutazione dei titoli di Stato detenuti e che comporta una riduzione di credito per le previsioni contenute nel nuovo principio Ifrs9. Nell’ultima legge di Bilancio il governo ha permesso una deroga, ma saranno poche le piccole banche che riusciranno a usufruirne considerato che le disposizioni attuative sono state appena emanate.

L’applicazione del principio di proporzionalità nell’Ue nella regolamentazione bancaria e nella supervisione creerebbe un sistema bancario più equo e tutelante. Andrebbe, ad esempio, sostenuta la proposta tedesca formulata lo scorso anno di una regolamentazione ad hoc per le piccole banche che prevede norme prudenziali più semplici, coerenti con il loro modello di business. La proposta viene peraltro dal Paese che è riuscito a tenere fuori gran parte del suo sistema bancario dalla vigilanza diretta della Bce.

Anche quando non erano considerate Significant, ed erano vigilate dalla Banca d’Italia, le Bcc figuravano tra le banche più svantaggiate in quanto enti a mutualità prevalente che scontano vincoli e limitazioni di carattere operativo.

Diversi banchieri e accademici hanno evidenziato la necessità di una concreta applicazione del principio di proporzionalità nella regolamentazione bancaria europea. Nel suo ultimo libro Community Banks e banche del territorio: si può colmare lo iato sui due lati dell’Atlantico (Ecra), Rainer Masera ha mostrato come nell’Ue negli ultimi 30 anni le banche minori siano state penalizzate sotto il profilo competitivo per effetto delle diseconomie di compliance (aumento di costi generato dall’incremento di regole) prodotte dalla crescente e sempre più asfissiante e uniforme regolamentazione bancaria. Considerare Significant le 227 Bcc italiane confluite ora nei due gruppi bancari cooperativi porta al paradosso che il numero delle banche italiane direttamente vigilate dalla Bce è quasi il 60%, contro l’1% della Germania. Fortunatamente sembra al momento posticipata l’applicazione dell’Asset Quality Review, il processo di revisione degli attivi patrimoniali imposto dalla Bce alle grandi banche per la valutazione del merito creditizio delle grandi aziende multinazionali che penalizza le Bcc e compromette la possibilità di erogare credito alle micro imprese meritevoli.

In questo spiraglio che si è aperto è pertanto auspicabile che il governo si mobiliti per l’effettiva applicazione del principio di proporzionalità, anche facendo richiamo all’art. 70 del Meccanismo unico di vigilanza (Mvu) che prevede la possibilità di considerare inappropriata la classificazione Significant di una banca in presenza di circostanze particolari, come, appunto la partecipazione obbligatoria di una Bcc a un gruppo bancario cooperativo. Il momento pare propizio.

Sul tema della proporzionalità delle regole è recentemente intervenuto anche il nuovo direttore generale della Banca d’Italia Panetta e le associazioni delle banche cooperative dell’Europa continentale e mutual building societies britanniche stanno predisponendo un documento che sarà presentato nelle varie Capitali europee e alla Commissione.

I soldi del Morandi usati per le grane dei concessionari del porto di Genova

Usare i soldi del Morandi per risolvere un problema che poco o nulla ha a che fare col crollo del ponte. È questa l’idea dell’Autorità Portuale di Genova, che in un documento riservato (svelato da Ship2Shore e visionato dal Fatto) ha chiesto al ministro dei Trasporti Danilo Toninelli di emendare il decreto con cui in gennaio ha definito le spese rimborsabili per le imprese di autotrasporto danneggiate dall’incidente (180 milioni di euro stanziati dal governo). Non solo le missioni in entrata-uscita dal porto e dal Comune, ma anche il tempo superiore all’ora e mezza perso dal camionista per le lungaggini dei terminal (banchine e aree portuali affidate in concessione a privati scelti dall’Autorità Portuale) ad assolvere burocrazia e imbarco-sbarco del carico.

Un fenomeno che, secondo l’ente, è esploso dopo l’incidente. Ma che in realtà da anni appesantisce l’attività dello scalo. Solo nei mesi del 2018 precedenti il Morandi furono 8 i giorni di fermo proclamati da associazioni di categoria dell’autotrasporto in inedito fronte comune coi sindacati di settore. L’apparentemente logica soluzione di obbligare i terminalisti a indennizzare di tasca loro i camionisti è sempre stata rintuzzata con due argomenti. Il porto rischierebbe di perdere competitività e dovrebbe stare all’Autorità adoperarsi per evitare che i camionisti si ammassino tutti nelle stesse ore ai terminal per ovvie ragioni di convenienza sull’organizzazione dei loro viaggi. Utile per scaglionare questi accessi sarebbe stato l’autoparco: per realizzarlo nel 2005 l’ente ha ricevuto 70 milioni di euro dallo Stato. Non l’ha mai fatto e le aree in questione sono state affittate a un terminalista (Spinelli) che per 15 anni ci ha tenuto container vuoti. Così le code dei camion sono continuate, prima e dopo il Morandi. Ma con il crollo ecco i soldi (pubblici) che toglieranno le castagne dal fuoco ad Autorità Portuale e concessionari privati. Sempre che Toninelli accetti.

Regioni, ricorsi, precari Anpal: corsa a ostacoli per i navigator

Sta per entrare nel vivo una settimana cruciale per l’arrivo dei tre mila navigator che il governo ritiene fondamentali per accompagnare al lavoro chi prende il Reddito di cittadinanza. Al via martedì 18 le prove alla Fiera di Roma. Poi, secondo crono-programma, bisogna superare almeno tre ostacoli. Serve un accordo con le Regioni per individuare, nella pratica, le attività da far svolgere a questi nuovi operatori una volta assunti. Non semplice, viste le contrapposizioni tra il ministro del Lavoro Luigi Di Maio e i 20 governatori. Sperando che il Tar del Lazio non accolga i ricorsi presentati da centinaia di esclusi al quiz, altrimenti serviranno nuove date per permettere ai ripescati di sostenere la prova. C’è da risolvere pure la mobilitazione dei 650 precari dell’Anpal Servizi. Oggi i vertici della società pubblica vedranno sindacati e comitati, ma non si scorgono aperture sulle stabilizzazioni. I lavoratori sono pronti a nuove azioni e anche questo rischia di inceppare la macchina. La situazione, insomma, è delicata.

Ancora lontana la quadra con le Regioni. Oggi ci sarà una riunione; si parlerà dei compiti effettivi da assegnare ai navigator, che avranno un contratto di collaborazione con l’Anpal Servizi fino al 2021. Il governo vuole che i 3 mila seguano con contatto diretto i disoccupati nella ricerca del lavoro. Gli assessori regionali hanno da sempre contrastato questa impostazione, poiché quel ruolo spetterebbe in esclusiva ai dipendenti dei centri per l’impiego. Secondo l’accordo di aprile i navigator saranno “assistenti tecnici”. Il governo però non ha perso la speranza di far passare l’idea originaria e ora sta proponendo un nuovo piano che divide i navigator in 6 diverse figure professionali. Uno schema che permetterebbe ai tre mila di operare nei centri per l’impiego. I governatori invece insistono affinché gli ex uffici di collocamento siano rinforzati solo con nuovo personale regionale stabile e vogliono che i futuri collaboratori dell’Anpal si limitino a supportare i progetti da dietro le quinte.

Lo scontro ha preso una piega drastica in Campania: il presidente Vincenzo De Luca non vuole sentir nemmeno parlare dei 471 navigator previsti nella sua Regione. Per quelli che supereranno la prova nelle 5 province campane potrebbe aprirsi un posto di lavoro a Roma o comunque sul territorio ma non al servizio dei centri per l’impiego. Un altro incontro ancora è in programma domani e si discuterà della ripartizione dei 4 mila dipendenti che saranno assunti a tempo indeterminato direttamente dalle Regioni – questi sì – nei propri centri per l’impiego.

Sul concorso per i navigator da lunedì sono partite le cause presentate al Tar da centinaia degli oltre 20 mila esclusi. L’ammissione si è basata solo sul voto di laurea e le graduatorie sono su base provinciale. Questo ha comportato, secondo gli avvocati, un paradosso: nelle province più gettonate non sono entrate persone laureate con 110, in altre meno richieste sono stati ammessi candidati con voti più bassi. L’avvocato Santi Delia, che segue circa 100 ricorsi, sostiene che “il voto è illegittimo nei concorsi, tra l’altro in questo caso sono richieste facoltà molto eterogenee tra loro, da giurisprudenza a psicologia”. Dello stesso avviso il legale Francesco Leone: “Al massimo avrebbero potuto chiedere altri titoli, come le certificazioni di lingua o di informatica, ma non il voto”. La palla è nelle mani del Tar: se accogliesse i rilievi prima di martedì, potrebbe ammettere i ricorrenti al concorso. Se si pronuncerà dopo, saranno ordinate prove suppletive e anche questo rallenterà il percorso. Se anche tutto andasse liscio, resterebbe il problema dei 650 precari Anpal Servizi. Alcuni sono già stati mandati a casa per la scadenza del contratto. Anche loro saranno chiamati a formare i navigator nei primi 6 mesi di attività. Gli scioperi che continueranno a organizzare per protesta saranno un ulteriore intoppo.

Lobby e potere, le armi di Google e Facebook contro l’Antitrust Usa

L’offensiva antitrust è cominciata anche in America. Dopo la Commissione Ue e l’autorità della concorrenza tedesca, adesso anche il dipartimento di Giustizia e la Federal Trade Commission si sono mosse su Facebook e Amazon il primo, Google e Apple la seconda. È bastata la notizia a far crollare i titoli in Borsa di 133 miliardi di dollari complessivi. E al Congresso, il Repubblicano David Cicilline ha annunciato una indagine nella sotto-commissione Antitrust su tutto il settore tech perché “Internet si è rotta” e la politica ora vuole rimediare a quello che viene presentato sempre di più come un monopolio che minaccia la democrazia, o almeno l’autonomia della politica.

Ormai è chiaro che se la rivolta contro le élite è stata il tema dominante della campagna presidenziale 2016, quello delle multinazionali del web sarà una delle questioni dominanti della sfida 2020. Donald Trump fiuta l’aria, una degli sfidanti democratici, Elizabeth Warren, ha già detto che vuole smantellare le più recenti fusioni di Facebook e Google. Un articolo del co-fondatore di Facebook, Chris Huges, sul New York Times a marzo, ha portato il tema al grande pubblico: “È ora di smantellare Facebook?”. Ma i signori degli algoritmi non si arrenderanno senza combattere.

Soltantonel 2016 le grandi aziende tech hanno speso 64 milioni di dollari negli Stati Uniti, la quota maggiore è di Google e Facebook. Ma questo numero non dice tutto. Dal 1907 negli Stati Uniti le aziende non possono finanziare direttamente i candidati, quindi versano contributi ai Pac, i Political Action Committee, comitati che – in teoria senza coordinamento formale con il singolo candidato – comprano spot tv e campagne pubblicitarie. Come ha ricostruito sul sito Pro Market l’economista della Vancouver School of Economics Francesco Trebbi, Microsoft ha iniziato a spendere in modo massiccio a sostegno di politici subito dopo i suoi primi problemi con le autorità antitrust negli Usa e – soprattutto – in Europa a metà anni Novanta. Le big tech della generazione successiva hanno seguito l’esempio e c’è da scommettere che nel 2020 aumenteranno ancora i contributi, visto che la questione della regolazione ora si fa seria. Per la prima volta. Apple è l’unica che non contribuisce a un Pac come azienda, lo fanno i suoi dipendenti (chissà quanto spontaneamente) che nel solo 2016 hanno versato 2,4 milioni di dollari.

La trasparenza nel settore, comunque, è scarsa. Come osserva Francesco Trebbi, i dati sulle attività di lobbying a livello federale “sono diventati molto poco accurati dopo la stretta durante l’Amministrazione di George W. Bush”. Barack Obama, da presidente, ha emanato vari ordini esecutivi nel 2009 per garantire l’accuratezza delle informazioni ma non sono stati davvero applicati. Tutta l’Amministrazione Obama ha sempre avuto ottimi rapporti con la Silicon Valley. Un po’ troppo buoni, dicono i critici ora.

I dati sulle spese per campagne elettorali e lobbying sicuramente sottostimano la reale influenza di aziende che, come Google e Facebook, possono addirittura condizionare le preferenze dei loro utenti. O che, nel caso di Amazon, hanno una presenza rilevante anche nel settore dei media tradizionali: il capo azienda, Jeff Bezos, è proprietario del Washington Post. Lo ha acquistato a titolo personale, non con Amazon, ma di sicuro male non fa. Il sito LobbyView offre la mappa migliore della pervasività delle big tech nella politica americana. Nel 2009 Facebook faceva lobbying su tre settori al Congresso: industria dei computer, media (per non essere classificato come editore), commercio e diritti civili. Nel 2018 è tutto diverso: i diritti civili sono spariti e gli sforzi sono distribuiti equamente tra computer, intelligence, sicurezza, tasse, proprietà intellettuale, perfino immigrazione e giustizia. Tradotto: Facebook prova a condizionare l’intera attività del Parlamento americano. Con risultati evidenti. Google nel 2003 si occupava solo di computer, commercio e finanza. Ora fa lobbying su tutto, incluso la sanità (settore con potenzialità per l’intelligenza artificiale), i trasporti (le auto senza pilota) e, ovviamente, la pubblicità.

Tutto questo attivismo ha dato i suoi frutti: negli ultimi anni la posizione prevalente nella politica americana è stata che non ci fosse alcun problema di antitrust anche se le big tech acquisivano posizioni dominanti e potere. Finché offrono servizi gratis agli utenti finali, dov’è il problema? Il metodo tradizionale per dimostrare che un eccesso di concentrazione causa danni è vedere se il monopolista prima cattura i clienti poi, quando questi non hanno alternative, li soffoca con prezzi esagerati. Nel mondo degli algoritmi tutto è gratis, o almeno così pare, e i prezzi non salgono mai. Schiere di economisti compiacenti, che fanno carriera grazie alla possibilità che (in modo discrezionale) Google concede di usare i suoi dati per la ricerca, sono pronti a sostenere alla bisogna che i problemi del monopolio non esistono nel mondo digitale.

Dina Srinivastan, già manager della pubblicità web, ha scritto invece un paper che i regolatori americani avranno certamente già letto: The Antitrust case against Facebook. La sintesi è che Facebook si è comportato esattamente come i monopolisti dei libri di testo: il prezzo del servizio che offre all’utente finale (la connessione con gli amici, la chat, la bacheca) è rimasto invariato ma è la qualità che si è deteriorata. Durante la sua ascesa, il social network di Mark Zuckerberg presentava come vantaggio competitivo rispetto ai rivali la garanzia di un rispetto assoluto della privacy. Nelle primissime versioni non si poteva chiedere o accettare amicizia da sconosciuti. Per anni ha garantito che le informazioni pubblicate sul social non sarebbero mai state condivise con parti terze. Un argomento che è stato cruciale per battere My Space, oggi abbandonato e dimenticato, ma primo network di successo comprato 580 milioni di dollari dalla Newscorp di Rupert Murdoch nel 2006, una cifra che allora pareva esagerata. Oggi la capitalizzazione di Borsa di Facebook è 508 miliardi di dollari.

La questione della privacy oggi può sembrare minore, ma tutte le innovazioni nel mondo social l’hanno messa al centro, basti pensare alle “storie” che si autodistruggono senza lasciare traccia, su SnapChat prima e poi su Instagram.

Una volta spazzati via gli avversari, Facebook inizia a tradire le promesse: si moltiplicano i casi in cui deve scusarsi per aver permesso ad altri di accedere ai cookies (cioè alle informazioni su quali siti diversi da Facebook visitano i suoi utenti). Nel 2007, l’anno in cui supera il miliardo di utenti, Facebook lancia un prodotto pubblicitario chiamato Beacon che permette a parti terze di interagire con il social network: quando un utente clicca qualcosa sul sito del New York Times o di Blockbuster (l’ormai defunta catena di videonoleggi), un pop up chiede all’utente se vuole condividere l’attività su Facebook. I partner del social network capiscono presto il trucco: Facebook ottiene comunque l’informazione perché registra anche i “no, grazie”, quindi riesce a sapere cosa fanno i suoi utenti sui siti altrui anche senza che questi arrivino direttamente sul social.

Nel 2010 non c’è più nemmeno bisogno di questi sotterfugi: Facebook introduce nel 2010 il bottone del “Like”. Molti siti, inclusi quelli dei giornali, aggiungono il pollice alzato a corredo dei loro contenuti perché stimola la condivisione e quindi genera traffico. Ma così, forse senza accorgersene, permettono a Facebook di fare loro concorrenza diretta sul modello di business principale on line: la profilazione degli utenti. Il Wall Street Journal – è l’esempio che usa Dina Srinivastan nel suo paper – non permetterebbe mai ai suoi concorrenti di conoscere tutte le preferenze dei propri lettori, quali articoli cliccano, quali siti visitano dopo aver letto di un certo argomento, che tipo di abbonamento prediligono. Però Wall Street Journal e New York Times hanno consentito a Facebook di conoscere tutto. E di vendere, in concorrenza diretta a loro, inserzioni pubblicitarie molto più mirate e dunque efficaci di quanto i due gruppi editoriali potranno mai proporre.

Finora le big tech hanno sommato il potere di lobbying della General Motors (sono campioni nazionali americani), dei grandi media (si battono per la libertà di espressione), dell’associazione in difesa delle armi NRA (hanno miliardi di iscritti), della finanza di Wall Street (è un settore complesso che i politici non sanno come regolare). Ora la politica vuole riprendersi il suo spazio. Ma la battaglia è soltanto all’inizio.

Alitalia va tra riunioni, perdite e rinvii

Alitalia potrebbe essere il titolo di una serie tv di durata tendenzialmente infinita, tipo Beautiful ma di genere horror. La gestione commissariale è iniziata 25 mesi fa per decisione del governo Gentiloni, doveva durare sei mesi e concludersi con la vendita della cosiddetta compagnia di bandiera. Sono passati più di due anni e i commissari hanno prodotto nuove perdite e una serie infinita di riunioni. Con il governo giallo-verde la presa in giro ha assunto ritmi comici. A ottobre sono scese in campo le Ferrovie con in testa un’idea meravigliosa: il rilancio di Alitalia passa per la strategia di portare i passeggeri da tutta Italia all’aeroporto di Roma Fiumicino in treno, come accade da decenni in tutti i principali scali del mondo. Da otto mesi la nazione tutta attende fiduciosa qualche soggetto arguto deciso a giocare qualche centinaio di milioni sull’ardita scommessa. Fs sono pronte a mettere il 30 per cento del capitale della nuova società, il governo è pronto con il 15 per cento, poi c’è il colosso americano Delta Airlines che metterebbe un altro 15 per cento per annettere la compagnia italiana al proprio network. Manca il 40 per cento del capitale. Il 30 per cento lo potrebbe mettere Atlantia, che controlla Aeroporti di Roma (cioè Fiumicino) e avrebbe quindi una buona ragione industriale per contribuire al salvataggio di Alitalia. Vorrebbe però che il governo abbandonasse i propositi bellicosi sulla concessione autostradale manifestati dopo il crollo del ponte Morandi. Il governo ha risposto prorogando il termine per la trattativa dal 30 aprile al 15 giugno per scavallare le elezioni europee. Ma il termine era già scaduto il 31 gennaio e prorogato al 31 marzo prima di un ulteriore rinvio al 30 aprile. Dopo le Europee, come sapete, il governo ha avuto altro a cui pensare per cui è in arrivo la quarta proroga, pare di un mese. Ieri Salvini è uscito allo scoperto e ha aperto pubblicamente ad Atlantia (“è un partner naturale, e si chiude nelle prossime ore”) L’unica cosa certa, per ora, è che gli italiani continueranno a pagare le perdite di Alitalia.

Tempa Rossa, lo stop del Cipe che frena un’opera già in affanno

Nelle stanze, certo non in tutte, dei ministeri e dei parlamentari a Cinque Stelle si festeggia: con due riunioni, del 15 e 20 maggio, il Cipe (il Comitato interministeriale per la programmazione economica di Palazzo Chigi) ha deciso e deliberato di rigettare la richiesta di proroga della dichiarazione di pubblica utilità presentata dalla Total E&P per Tempa Rossa, il centro olio della Basilicata (comitato che, presieduto dal premier Conte, è a maggioranza pentastellata). Tradotto: stop definitivo alle opere che dovevano essere già concluse e non sono state realizzate e un rallentamento nelle procedure soprattutto – è l’aspetto su cui viene posta maggiore enfasi in questi giorni – quelle legate agli espropri dei terreni che sarebbero potuti servire per altri pozzi. Insomma, la francese del petrolio, da ora in poi, per costruire e realizzare le opere dovrà trattare da privato e con i privati. È la fine dell’autostrada che le permetteva, già dal 2001 quando fu inserita nel Piano per gli Insediamenti Produttivi (Pip) del Comune di Corleto Perticara e poi confermata nel 2012 dal governo Monti, di muoversi in maniera privilegiata e di allargare più facilmente quello che è già considerato il cantiere più grande d’Europa. L’avvio della produzione, invece, non dovrebbe essere influenzato dalla decisione, secondo quanto trapelato nei giorni scorsi da Total. Le pratiche per le estrazioni sarebbero già tutte concluse, incluso l’allaccio con l’oleodotto Eni che dovrebbe portare il greggio alla raffineria di Taranto.

La notizia è comunque simbolo del cambio di passo che, seppur con i compromessi necessari a tenere insieme Lega e Cinque Stelle, è iniziato con l’emendamento anti-trivelle al decreto semplificazioni di gennaio. Ancora di più perché il centro olio – il secondo in Basilicata, dopo quello di Viggiano – negli anni era diventato il simbolo di una terra spolpata dall’interno e ammalata all’esterno. Il centro, che è di fatto la struttura in cui si inizia a lavorare il greggio appena estratto e prima che arrivi nelle raffinerie, è stato toccato da diverse vicende giudiziarie e non (anche se Total non è mai stata indagata), come quando il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, si dimise per la diffusione di alcune intercettazioni in cui il suo compagno Gianluca Gemelli, titolare di società impegnate nei lavori di realizzazione della struttura, faceva pressione per inserire un emendamento che avrebbe favorito proprio il Centro Olio (la Guidi non è stata indagata mentre la posizione di Gemelli è poi stata archiviata). O ancora come il processo in corso a Potenza contro alcuni amministratori locali per corruzione per induzione a fini elettorali e concussione per aver imposto assunzioni in cambio delle autorizzazioni. “Alla luce delle ultime vicende giudiziarie per l’inquinamento di 26 mila metri quadrati di reticolo idrografico intorno al Cova di Viggiano, dei nuovi arresti di dirigenti Eni, degli arresti di altri componenti del Comitato tecnico regionale, cercheremo ora di insistere per istituire una nuova Commissione di inchiesta su ciò che accade intorno alla Concessione Val d’Agri Eni/Shell, come già richiesto di recente dai miei colleghi lucani di Camera e Senato”, ha detto la deputata del M5s e segretario di presidenza della Camera dei deputati, Mirella Liuzzi che per prima si era schierata contro gli emendamenti pro Tempa Rossa e gli interventi del governo Renzi che avevano reso strategici gli impianti di estrazione di idrocarburi.

Intanto, se si parla con gli abitanti e i comitati locali, sembra che Tempa Rossa non abbia invece mai preso davvero il via. Chiedere a Total di raccontare cosa succede e cosa abbia sviluppato finora nel sito di Corleto Perticara, d’altra parte, equivale a sentirsi rispondere con un gentile, ma secco: “No comment”. Quello che si sa è che da mesi nel centro non riesce a lavorare a pieno regime: sono mancate diverse autorizzazioni, molte legate alle decine di prescrizioni richieste dagli enti. L’ultimo stop è del 4 settembre 2018 quando la Regione Basilicata ha diffidato la Total dal mettere in esercizio l’impianto per il mancato adempimento di alcune prescrizioni ambientali chieste dalla Regione. Ora, all’appello è assente il parere sugli ecosistemi dell’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale.

Tra gli attivisti, circolano le foto di tubature danneggiate dal gelo, i contadini e gli imprenditori della zona lamentano la contaminazione dei pozzi e ancora manca la bonifica di alcune aree contaminate da esplorazioni di circa 15 anni fa anni fa. Nei mesi scorsi, interpellato da Luca Manes dell’associazione Re: Common, il sindaco di Corleto aveva assicurato che avrebbe fatto pressioni su Total per le bonifiche dell’area e annunciato un piano per il recupero di fondi per sostenerle qualora Total non avesse voluto farsene carico (risalgono, infatti, al periodo in cui sull’area insistevano i pozzi della Total Fina). A molti lavoratori delle ditte che partecipano al cantiere è stato detto di rimanere a casa fino a data da definirsi. “Oggi Tempa Rossa si dimostra essere quello che già si annunciava – spiega Valeria Giorgio, vicepresidente del comitato la Voce di Corleto – solo una chimera. Non è stato il volano di sviluppo presentato inizialmente, la maggior parte delle persone impiegate nel cantiere lo sono state con contratti a tempo determinato. Nei casi più eclatanti, anche a quindici giorni. Nessuno sviluppo per la popolazione locale, ma tanti introiti per Total”.

Quella volta che Scalfari spinse Berlinguer a fondare il Pd

Com’è noto la storia italiana degli ultimi decenni gira attorno a una sola figura, Eugenio Scalfari. Altri tizi che potete aver sentito nominare sono rilevanti solo in quanto in rapporto col fondatore di Espresso e Repubblica, amici o nemici poco importa perché su tutti scende la luce della storia, che poi è Scalfari stesso. Prendiamo Enrico Berlinguer, di cui ricorreva ieri il 35ennale della morte. Era il segretario del Partito comunista, ma l’incontro con Scalfari – che toglie i peccati dal mondo – lo stava cambiando: dopo un po’, infatti, “eravamo diventati amici – ha raccontato ieri – tanto che lui mi invitò a casa sua e io ricambiai. Ormai ci davamo del tu. Berlinguer mi diceva: ‘Ci stai aiutando molto’. Poi lui morì”. Alla notizia del decesso, l’autore di Colloquio con Io (e con chi d’altronde?) va a Botteghe Oscure e trova Pietro Ingrao e quello “mi abbracciò”, “cercando di consolarmi”. Evidentemente pure lui aveva capito chi è che contava davvero. La prematura morte di quel sardo così magro e malinconico fu un gran peccato: pur rovinato da Togliatti da piccolo, sotto le mani di Scalfari stava pian piano diventando una via di mezzo tra Prodi e Calenda. Non ci credete? “Il Pd non è altro che il Partito comunista di Berlinguer” (tranne Renzi, che “è il contrario di Berlinguer”). E vabbè, se lo dice lui ci crediamo e, anzi, non vediamo l’ora che a luglio ci racconti di quella volta che, giusto 50 anni fa, convinse Neil Armstrong a scendere per primo al posto suo sulla Luna, satellite che – com’è noto – gli scienziati chiamano familiarmente Scalfarina.