“Realiti”, il racconto del mondo non può essere un sermone

Antefatto: una trasmissione di Rai2, Realiti (andata in onda il 5 giugno e condotta da Enrico Lucci) decide di occuparsi del fenomeno dei neomelodici, cantanti che spesso inneggiano alla criminalità e hanno un notevole seguito tra i giovanissimi. In studio, insieme a un consigliere regionale della Campania, Francesco Borrelli, c’è anche uno di questi “artisti”, il 19enne Leonardo Zappalà – siciliano, canta in napoletano, in arte Scarface – che esprime commenti indegni, formulati peraltro piuttosto confusamente, sui giudici Falcone e Borsellino: “Queste persone che hanno fatto queste scelte di vita sanno quali sono le conseguenze. Come piace il dolce, deve piacere anche l’amaro”. Lucci lo riprende e gli dice: “Cosa? Studia, guarda è meglio che studi così diventerai una persona migliore”. In un reportage, poi, un altro artista detto “Tritolo”, racconta la sua storia: dieci anni di carcere per vari reatucoli tipo rapina, spaccio, furti e compagnia cantante (è il caso di dirlo) è diventato famoso durante i domiciliari. Il primo cd l’ha fatto con i soldi una rapina. La sintesi della sua vita precedente la fa lui così: “Cantante e rubavo”. Il nuovo cammino inizia con una canzone dedicata allo zio poeta (scrive versi che lui poi sviluppa), lontano ma vicino perché “nonostante ha avuto problemi con la legge” per lui è stato come un padre. Lontano perché è in carcere, da 28 anni, al 41-bis, essendo un boss della mafia catanese (circostanza spiegata nel servizio). Il consigliere Borrelli ovviamente condanna in studio l’esaltazione della criminalità e per tutta risposta si becca un video di minacce (con tanto di pistola d’oro) del suddetto “artista” postato su Facebook a trasmissione conclusa. Cinque giorni dopo scoppia una polemica che ha portato anche all’apertura di un’inchiesta da parte della Procura di Catania, al momento senza indagati, e a una lettera di scuse da parte dell’amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini (immaginiamo dettata dalle critiche di alcuni parenti delle vittime di mafia, comprensibilmente irritati).

Vale la penariportare alcune dichiarazioni del conduttore Lucci che, spiegando di avere difeso subito la memoria dei due giudici assassinati dalla mafia, dice: è compito del servizio pubblico raccontare fenomeni preoccupanti e gravi come quelli di cantanti che inneggiano alla criminalità organizzata con un seguito spaventoso tra i più giovani (nonché incomprensibile vista la qualità diciamo “artistica”) e di cui nessuno si occupa in una generale indifferenza civica. Non essendo disponibile on line l’intera puntata, questo è quanto ci è possibile ricostruire. Però il vero tema di questa ennesima bufera è cosa si può raccontare e cosa no (e non solo sulle reti della bistrattata Rai), al di là delle frasi di circostanza. Non è giusto mettere in guardia su un fenomeno come quello raccontato sopra? E cosa c’è di male nel mostrarne i protagonisti, nella loro miseria culturale, estetica e umana? Salini ha ragione quando dice che la Rai deve essere garante del principio di legalità. Ma il racconto del mondo non può ridursi a sermoni educativi. Senza dire che esiste, ed è tutelata dalla Costituzione, anche la libertà di manifestazione del pensiero, che è chiamata in causa per le opinioni che non ci piacciono assai più che per quelle che incontrano il sentimento comune. Il grande rischio delle rimozioni è che non si possa più dire nulla al di fuori delle formulette del politicamente corretto che sta rincretinendo l’opinione pubblica, purtroppo per colpa di un sistema dei media ormai privo di senso critico e strumenti intellettuali adeguati. A breve, tv e giornali si ridurranno davvero a spiegare che bisogna mangiare tanta verdura.

Poveri imprenditori, come fanno a rinunciare pure ai bagnini schiavi?

Uno scenario raccapricciante, situazione spaventevole e foriera di tregenda. Gabicce Mare, Italia. Scena: interno giorno, pizzeria. I clienti spazientiti si alzano dai tavoli e infornano da soli le loro pizze. Turisti belgi lavano i piatti. Le mogli sono salite a rassettare le stanze dell’albergo.

Esterno giorno, si compila la lista degli annegati, perché i bagnini erano “giovani del Sud” che adesso che sono ricchissimi col reddito di cittadinanza, e col cazzo che vengono a Gabicce a fare i bagnini. Vale anche per camerieri, cuochi, aiuto cuochi, fattorini, commessi, baristi. Insomma ha fatto rumore il grido d’allarme lanciato dal sindaco di Gabicce Domenico Pascuzzi: manca personale per la stagione estiva perché “mancano i destinatari del reddito di cittadinanza”. Mannaggia! Non c’è giornale italiano, sito, rivista, blog, che non riprenda la notizia. Come faremo? Moriremo tutti.

Un senatore del Pd eletto in Toscana, non dei più svegli, salta subito sul carretto: “Ecco, pagano la gente per stare a casa!”.

Fine del siparietto. Tutta roba archiviabile come rumore di fondo. Anche perché, naturalmente, non è così. Il presidente degli albergatori del posto dice (intervistato da questo giornale) che il reddito di cittadinanza non c’entra niente, insomma fake news in piena regola (aggiungo che se uno l’anno scorso ha lavorato a Gabicce, regolarmente, coi contributi, e dichiarato tutto per bene, il suo Isee non gli concederebbe quest’anno il reddito di cittadinanza). Allarmismo e furbizia, conditi come spesso avviene con quella sottile patina di scandalo borghese antico come il mondo: “Signora mia, dove andremo a finire”. Un borbottio padronale travestito da moralismo: il reddito di cittadinanza “diseducativo” (sempre il senatore di prima). Cioè che ti disabitua a prendere un treno da Salerno o Avellino, e andare a fare la stagione in Romagna alla pensione Vattelapesca, dieci-dodici-quindici ore al giorno, metà in nero, per guadagnare alla fine un salario da fame senza diritti, come subito hanno precisato in rete migliaia di “fannulloni” dal loro divano, raccontando le loro vite reali di stagionali.

Ma i più attenti riconosceranno in questa schermaglia pre-estiva, un nucleo centrale della narrazione padronale di questi anni. Una cosa che rimbalza periodicamente su titoli e titoloni, servizi dei Tg, costernate filippiche: la favola dell’imprenditore che non trova i lavoratori, che pure assumerebbe felice e generoso, ma quelli niente, maledetti, non hanno voglia di lavorare. È una favola bella, ma solo all’inizio, perché poi immancabilmente, qualcuno va a vedere meglio. E così si scopre che l’annuncio era un cartello di carta sulla vetrina, o su Facebook, oppure che le condizioni sono insopportabili, o gli orari assurdi, e la paga troppo bassa. Dopo la notizia (tipo: “Panettiere disperato si butta nel forno perché non trova garzoni”) arrivano migliaia di domande e curriculum, ovvio. Ma intanto la voce gira, la favola si consolida, il sentire comune diventa: “Guarda, il lavoro c’è, ma la gente non ha voglia”.

È che il dumping sui salari, la compressione del lavoro, il disprezzo dei contratti nazionali, la mortificazione del lavoratore hanno bisogno di un sostegno narrativo, di una voce diffusa che li sostenga in qualche modo, di quel “Signora mia, dove andremo a finire”. Una piccola marea, un’increspatura di indignazione popolare, costante, immutabile, ogni volta risvegliata dalla notizia del giorno, da un sindaco di Gabicce o di altrove, per quei lavoratori che non vogliono lavorare. Che nello storytelling padronale di fine anni 10 sono quasi sempre giovani, quasi sempre “del Sud” e sempre immancabilmente fancazzisti. “Diseducati” ad accettare regole del mercato che scivolano spesso (e volentieri!) verso la schiavitù. Che stronzi, eh?

Ferrara, la Lega vola nel Deserto rosso

Diranno ora che la caduta di Ferrara la Rossa è un fatto locale, un incidente di percorso in una Emilia in cui il centrosinistra resiste. E in effetti la presa leghista della città estense è anche il frutto di dinamiche irriducibilmente ferraresi. Bastava parlare con le migliaia di ferraresi che hanno perso i risparmi nel fallimento della locale Cassa di risparmio per accorgersi che la rabbia stava montando. Oppure camminare tra gli spacciatori nigeriani nel quartiere Gad per capire che, dopo quasi 75 anni di governo, l’ora del tramonto rosso era arrivata.

Fragilità economica e soprattutto insicurezza e immigrazione hanno costituito l’ideale terreno di coltura della Lega. A questo si aggiunga l’incompiuto rinnovamento dei gruppi dirigenti locali del Pd dopo la clamorosa sconfitta alle Politiche dell’anno scorso e tutti gli ingredienti per la disfatta sono riuniti. Ma la caduta di Ferrara è troppo poderosa per essere ridotta alle sole responsabilità cittadine.

La classe dirigente locale può vantare una tradizione di buon governo non inferiore a quella di altre città emiliane che domenica scorsa hanno premiato il Pd: Ferrara ha una vivace vita culturale e ha saputo avviare ambiziose operazioni di rigenerazione urbana. C’è quindi qualcosa di più profondo e antico dietro al voto ferrarese che parla a tutto il Paese. È la storia di una città e di una terra che hanno cambiato anima e di una politica che non ha voluto, e forse saputo, rendersene conto.

Bisogna scrutare la geografia del voto cittadino per individuare la sorprendente radice del voto leghista. Contro tutte le attese, non è nel multiculturale quartiere Gad che la Lega sfonda. Per la prima volta nella storia la Lega avanza nelle roccaforti operaie di Ferrara Nord. Ma l’epicentro del terremoto leghista è nelle frazioni rurali a margine del Comune, borghi un tempo rossi in cui oggi il centrodestra raggiunge quasi l’80%, superando i record del Pci. Più ci si allontana dal Castello estense maggiore è la forza dell’onda leghista. E allora, più che della paura, il voto leghista sembra la spia di un sentimento di abbandono e spaesamento rispetto al quale la politica tradizionale appare impotente e afona. Un sentimento di abbandono economico visto che Ferrara è area di crisi industriale, nell’ultimo decennio il divario col resto della regione è aumentato e, cosa più preoccupante, la sua provincia presenta uno dei tassi di vecchiaia più elevati d’Italia. Ma il sentimento di abbandono di Ferrara non ha solo a che vedere con l’economia.

La liquefazione del Pd in aree con una forte tradizione di partito ha contribuito a rafforzare il senso di spaesamento di intere comunità. In questo c’è una specificità che distingue Ferrara e la sua provincia dal resto dell’Emilia ancora rossa. Ferrara è storicamente la Capitale dell’Italia bracciantile, quella che gli studiosi, ben prima di Bossi, definirono Padania, Qui, nella regione della Bassa del Po, mobilitando i lavoratori della terra, è nata la sinistra italiana. A differenze del resto d’Emilia, in queste terre il tessuto di piccole e medie imprese non ha mai attecchito e la cultura cattolico democratica ha avuto un ruolo marginale. Il Partito aveva un sostanziale monopolio sulla vita sociale ed economica. La fine dei partiti di massa e del Pci ha avuto quindi in questi luoghi un impatto devastante, privandole di elementi secolari di identificazione e creando un vuoto. La penetrazione della Lega nel Ferrarese viene da lontano e precede la svolta anti-immigrati di Salvini.

Prima di essere sindaco di Ferrara, Alan Fabbri ha amministrato Bondeno, ex roccaforte rossa della provincia estense. La sua macchina di consenso fu proprio l’organizzazione di feste di paese che riproducevano e sostituivano le agonizzanti Feste dell’Unità. Nel momento in cui il Pd disertava i luoghi della politica, la Lega, con la sua presenza e coi suoi riti, rispondeva a una domanda di identificazione storicamente forte in queste comunità. E non è un caso se domenica scorsa la Lega abbia trionfato non solo a Ferrara ma anche in quasi tutti i Comuni padani che dalla Bassa modenese arrivano al Delta del Po, l’antica Padania appunto.

Ridurre l’avanzata leghista al malessere contro i migranti non è quindi sufficiente. La rivolta contro gli immigrati del 2016 a Goro, nel Ferrarese, le barricate contro i richiedenti asilo installate dalla Lega nel 2017 nelle frazioni a Sud di Ferrara, sono fattori decisivi per la vittoria della Lega, ma più che la causa sono state il grimaldello che ha permesso di fare emergere un sentimento di abbandono politico, simbolico, prima che economico. Il regista ferrarese Michelangelo Antonioni nel suo Deserto Rosso individuò nella Bassa padana il luogo dello spaesamento e della perdita di riferimenti. Il voto di Ferrara e della sua provincia sembra ricalcare la profezia di Antonioni. La sinistra italiana, scacciata dai luoghi in cui è nata, farebbe bene a non ignorarla.

Mail box

 

Intimidazioni a Raggi: Roma come la Sicilia degli anni 80

Mi pare di assistere al remake di un film già visto. Il ritrovamento di esplosivo in un covo dei Casamonica, destinato alla sindaca Raggi (a cui va tutta la mia solidarietà), mi fa rivivere i tempi del “Corvo” al Tribunale di Palermo, che scoperchiò un verminaio. Il segnale che passò allora fu che si poteva colpire un avversario politico che proponeva una legge sul sequestro dei beni dei mafiosi e un prefetto e i giudici che combattevano con lui. La politica anche allora parlava d’altro, mentre parte della magistratura era troppo impegnata nei cavilli per l’elezione dei giudici nei posti chiave.

A Roma oggi succede lo stesso, e in molti rimpiangono il “porto delle nebbie” di recente memoria. I corrotti di politica e finanza, non potendo più contare sulla banda della Magliana, hanno investito su Buzzi e Carminati, mentre per i lavori sporchi hanno tollerato che Casamonica e altri gestissero Roma e il litorale: tutto ricorda maledettamente la Sicilia degli anni 80. Ora come allora, diverse firme si schierarono contro il consociativismo e l’omertà diffusa di stampa e tv. Succede anche oggi con Raggi: non potendola più attaccare con denunce discutibili, lo si fa col silenzio assordante sul pericolo che corre. Tanto che pochi hanno dato risalto al coraggio dimostrato durante i fatti di Casal Bruciato e alcuni hanno addirittura parteggiato coi fomentatori dei disordini. E non aiuta l’atteggiamento di Di Maio, che ogni giorno dichiara fedeltà al contratto con Salvini che, da questa situazione, ha tutto da guadagnare.

Franco Novembrini

 

Salvini e i leghisti, cattolici solo se serve (alle elezioni)

Strano ministro degli Interni abbiamo: lui, che sventola Vangeli e bacia coroncine del Rosario, dà del “comunista” a chi, durante un suo comizio, espone una sciarpa con una scritta tratta dal Vangelo, “Ama il prossimo tuo”. Volendo sorvolare sul fatto che i supporters del Capitano hanno malmenato il “pericoloso sovversivo”, tutti dovremmo chiederci a chi abbiamo affidato la nostra sicurezza.

Non dimentichiamo che è l’ex comunista padano Matteo Salvini: il responsabile dell’ordine pubblico e della sicurezza personale di tutti i cittadini, anche dei pericolosi contestatori che osano esporre parole dette da quell’altro tremendo anarchico di 2000 anni fa, che la Digos, forse, ha già schedato con il nome di “Gesù di Nazareth”.

Mauro Chiostri

 

M5S: se cade il governo, la rogna spetta al Carroccio

In riferimento all’articolo di Scanzi “Caro Di Maio, per rialzarti ora devi pedalare”, pubblicato ieri: secondo me c’è una terza alternativa per i M5S. Andare in Consiglio dei ministri con una proposta in favore dei cittadini, ma contraria ai desiderata del Capitano e sfidarlo a dire sì.

I temi sono tanti: lavoro, Ponte Morandi, Tav, pensioni, ecc.

Se andrà bene si festeggerà la continuazione del governo e se invece andrà male… al Capitano la rogna delle rogne: governare con Meloni e Berlusconi!

Alessandro Marcigotto

 

Le privatizzazioni bloccano la crescita del Paese

Il vero problema del lavoro in Italia è la privatizzazione. È la mia diretta esperienza, data dal contatto quotidiano con società pubbliche e private. Dove prima in una centrale elettrica lavoravano 10 padri di famiglia, ora a malapena ce ne sono due e col contratto spesso a termine… Ho assistito, soprattutto in provincia, alla decimazione dei dipendenti di Enel, Sip, Autostrade, Poste, ecc, che prima erano la linfa di commercianti, artigiani e dell’economia tutta. Queste società, creavano impiego e un gettito cospicuo nelle casse dello Stato, esono state svendute a pseudo imprenditori e speculatori.

Conseguenze la precarizzazione, la perdita di posti di lavoro, l’impoverimento dello Stato e del senso di fiducia. Un’operazione di sciacallaggio mascherata con la scusa che lo Stato non deve fare monopolio, ma ora il monopolio è dei privati. Uno Stato senza risorse è come un padre fannullone con dei figli da mantenere.

Gian Luca Paolucci

 

Storia di ordinaria (mancata) assistenza sanitaria

Nel febbraio 2016, a 74 anni, mi sottoposi a una visita urologica all’ospedale di Porretta Terme, in cui lavorano anche i medici dell’Ospedale Maggiore di Bologna.

L’urologo mi prescrisse un farmaco che non avevo mai usato.

Mi prenotò poi per due analisi di laboratorio, che feci a settembre e ottobre 2016; in base agli esiti, un nuovo medico mi mise in lista di attesa per un intervento chirurgico. Ma da allora, ogni sette o otto mesi ricevo una telefonata dall’Ospedale di Bologna e la conversazione è sempre la stessa:

“Vuole rimanere in lista?”

“Sì, ma quando mi chiamate?” “Telefoni a questo numero”.

Peccato che a quel numero non risponda mai nessuno.

L’ultima telefonata-fotocopia l’ho ricevuta il 27 maggio 2019. Ho chiesto finalmente di cancellarmi dalla lista. Pochi giorni dopo, ho ricevuto un telegramma (un telegramma!!!) con cui l’Ospedale mi comunicava che, “su mia richiesta”, ero stato depennato dalla lista d’attesa. Che dite: possiamo morire tranquilli?

Fabrizio D’Alfonso

Premio Nobel Greta nuova Messia: vincerà la “Pace ecologica” con l’effetto-Obama

 

Gentile redazione, ho letto che i bookmaker danno Greta Thunberg come strafavorita per il Nobel per la Pace. Mi sembra l’ennesimo Nobel “civetta”, privo ormai di senso (vedi quello a Obama). Greta merita stima e credito, ma perché premiarla con il blasone più importante al mondo, su un tema che con la pace c’entra poco? Non ci sono altri candidati meritevoli, oltre a lei, e più di lei?

Eliana Minoretti

 

Gentile Eliana, lei ha ragione e torto nello stesso tempo. Ha ragione quando ricorda che il Nobel per la Pace è stato talvolta un premio “civetta”, un riconoscimento alle strategie e ai compromessi politici, ma nelle motivazioni si fa sempre riferimento allo scopo supremo, ossia l’attività svolta in nome della pace. Fu così per la triplice e utopica assegnazione ad Arafat, Rabin e Shimon Peres, nel 1994. Un’assegnazione recidiva, perché già nel 1978 ebbero il Nobel della Pace l’israeliano Begin e l’egiziano Sadat…

Su 131 Nobel della Pace sinora assegnati, 26 sono finiti nelle mani di eminenti politici, ogni volta suscitando polemiche e accuse nei confronti della Commissione parlamentare norvegese incaricata delle scelte. Auguste Chamberlain, per esempio, venne premiato nel 1925 per i Trattati di Locarno. Tredici anni dopo, a Monaco di Baviera, fu inane dinanzi a Hitler e Mussolini, accettando l’invasione della Boemia, preludio alla Seconda guerra mondiale. E che dire del Nobel dato al “falco” Henry Kissinger nel 1973 (rifiutato dall’omologo vietnamita Le Duc Tho)?

Ma ha torto su Greta. Se l’avrà, non sarà un premio “civetta”. Spesso la Commissione sceglie oculatamente, e sente l’aria che tira. C’è un lungo elenco di Nobel assai giusti e giustificati: alla Croce Rossa Internazionale. All’Opac che lotta contro le armi chimiche. Ai filantropi, come il milanese Ernesto Teodoro Moneta (1906), presidente dell’Unione Lombarda per la Pace. Ad Albert Schweitzer, icona pacifista della mia generazione. Fu scontato premiare George Marshall, ma il suo “piano” risollevò l’Europa dal disastro postbellico. In questa virtuosa ottica, rientra la figura ormai simbolica di Greta, capace di aggregare milioni di giovani che chiedono politiche ambientali serie e sostenibili, che contrastano la corruzione e il mercato delle armi e che dicono basta alle fonti fossili. L’effetto Greta è inviso ai sovranisti e alle multinazionali perché significa discontinuità nei confronti delle politiche sul clima e sull’economia, e prevede misure di accompagnamento sociale alla transizione ecologica. È la pace ecologica.

Leonardo Coen

Ferita nell’agguato a Napoli, Noemi è tornata a casa

Noemi, la bambina di quattro anni ferita nel corso di una sparatoria a Napoli lo scorso 3 maggio, ha lasciato l’ospedale Santobono ed è tornata a casa. La piccola è stata sottoposta agli ultimi esami che hanno dato il via libera alle dimissioni. Noemi è stata ferita lo scorso 3 maggio in Piazza Nazionale a Napoli da un proiettile nel corso di una sparatoria in pieno pomeriggio. Il proiettile le aveva trapassato i polmoni, causandole una ferita che i medici del Santobono hanno definito, dopo l’intervento chirurgico, “da guerra”. La bimba è rimasta per tre settimane attaccata a una macchina che le permetteva di respirare fino a quando dai test clinici è emerso che i polmoni erano pronti a riprendere da soli la loro funzionalità. Le condizioni di Noemi sono progressivamente migliorate e alla fine della scorsa settimana i genitori hanno chiesto ai medici del Santobono se fosse possibile dimettere la piccola perché continuasse le terapie a casa, visto che ormai cammina, respira e si nutre normalmente. Dopo l’ultima Tac e gli esami clinici approfonditi, il Santobono ha deciso di dimetterla. Noemi sarà seguita ora in assistenza domiciliare dall’Asl Napoli 1.

“Colpo sparato alle spalle e dall’alto”. Vacilla la legittima difesa del tabaccaio

Il quadro potrebbe cambiare. Da legittima difesa a omicidio. L’autopsia sul cadavere di Ion Stavile, moldavo 24enne, ha fornito elementi che non collimano con le prime parziali ricostruzioni degli inquirenti su quanto avvenuto alle 4 del mattino di venerdì a Pavone Canavese (Torino), dove Marcellino “Franco” Iachi Bonvin, tabaccaio 67enne, ha ucciso uno dei tre ladri incappucciati entrati nel suo negozio. Il proiettile che ha provocato la morte di Stavila è entrato dalla schiena, all’altezza della scapola destra, ha attraversato il cuore ed è uscito dal petto, leggermente più in basso. Lo ha stabilito il medico legale Roberto Testi che ieri mattina ha eseguito, su incarico della Procura di Ivrea, l’autopsia in presenza del medico Lorenzo Varetto nominato dalla difesa di Iachi Bonvin, l’avvocato Sara Rore Lazzaro.

Quella traiettoria del proiettile potrebbe essere compatibile con un colpo esploso dall’alto, ad esempio dal balcone, dove alcuni testimoni avrebbero visto Iachi Bonvin dopo aver udito gli spari. In questo modo la posizione del tabaccaio, indagato di eccesso colposo di legittima difesa, rischia di aggravarsi. Resta cauta la Procura di Ivrea, guidata da Giuseppe Ferrando, in attesa delle analisi balistiche e dell’interrogatorio del tabaccaio che finora si è avvalso della facoltà di non rispondere.

Era la notte di venerdì quando è scattato l’allarme della tabaccheria in via Torino 4. L’uomo, che tra il 2004 e il 2014 aveva subito ben sette furti, si è svegliato, ha preso la sua pistola (regolarmente detenuta) ed è andato a verificare. Secondo una prima ricostruzione, Iachi Bonvin è sceso dal suo appartamento, al primo piano di uno stabile, per andare nel negozio al piano inferiore. Qui si sarebbe trovato davanti a tre ladri incappucciati che “armati” di un palanchino, usato per forzare l’ingresso, stavano portando via una macchinetta cambiasoldi. Il 67enne ha sparato, non si sa ancora quanti colpi (l’arma può contenere sette proiettili, ma la polizia scientifica ne ha trovati soltanto tre), e ha colpito uno dei tre, mentre gli altri scappavano. La vittima è poi caduta a una decina di metri dalla tabaccheria senza lasciare una scia di sangue: questo elemento potrebbe dimostrare che i ladri erano già distanti dal negozio oppure che il colpo ha permesso a Stavila di compiere qualche passo prima di spirare, aspetto che tornerebbe a vantaggio dell’indagato. Se il colpo fosse stato sparato da distanza ravvicinata mentre il ladro era nel negozio, allora potrebbe essere applicata la nuova norma che ritiene legittima la difesa fatta in “ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale”. Ma se il tabaccaio fosse stato sul balcone e il ladro distante, la situazione cambierebbe. “Allo stato, da parte nostra non c’è nessuna lettura dei fatti – spiega l’avvocato Rore Lazzaro –. Le indagini sono in corso e non ci sbilanciamo. Il mio assistito soffre umanamente”. Ieri sera il tabaccaio ha ricevuto la solidarietà dei concittadini e delle forze politiche che hanno partecipato a una fiaccolata organizzata dai commercianti. “Sono e sarò sempre a fianco dell’aggredito e mai dell’aggressore”, ha dichiarato il ministro dell’Interno Matteo Salvini.

“Solo pesce e vino di Lombardia” Il sovranismo imposto a tavola

Se non è lombardo non lo vogliamo. Da ieri il Consiglio regionale della Lombardia ha approvato una norma che intende imporre, negli agriturismi della Regione, di servire vino e pesce “autoctoni”. La proposta presentata dal centrodestra è passata con 43 voti a favore, uno contrario e 26 astenuti. Tecnicamente si tratta di un modifica della testo unico regionale 31 ( in materia di Agricoltura, Foreste, Pesca e Sviluppo rurale) ma non si tratta solo di definizioni. Nel dettaglio: la somma dei prodotti propri e quelli del territorio serviti ai clienti non deve essere inferiore all’80% del totale degli alimenti utilizzati durante l’anno. Nel restante 20% non possono essere compresi prodotti ittici di provenienza marina e vini provenienti da altre regioni. È prevista una deroga per i vini prodotti da aziende agricole non lombarde ma “confinanti” alla provincia dove ha sede l’azienda agrituristica. Su eventuali dubbi di legittimazione della nuova “imposizione” enogastronomica in salsa padana ci si avvale dei compiti inseriti nello statuto della Consulta regionale per la promozione del diritto al cibo, presieduta dall’Assessore all’Agricoltura, Alimentazione e Sistemi Verdi. Un modo insomma per poter dimostrare che in Lombardia l’autonomia esiste. Di fatto – sulla nuova tavola nordista – le posizioni di maggioranza e opposizione sono allineate. Per Giovanni Malanchini della Lega e consigliere segretario: “Si valorizza la filiera dei prodotti regionali e si alza anche il livello dei servizi, scremando fra le imprese che valorizzano davvero il mondo agricolo e quelle che non lo fanno”. Andrea Fiasconaro, consigliere del M5S si dice “parzialmente soddisfatto per le modifiche al Testo unico sull’ agricoltura. Interventi utili e importanti di una legislazione che si rivolge a un settore che sta crescendo molto e in continua evoluzione”. Unico punto di disaccordo è la possibilità di passare da 60 a 100 posti letto. Per Fiasconaro il rischio è snaturare gli agriturismi, che non sono alberghi.

Una civile e una militare: il dilemma della doppia commessa identica per i sauditi

I generatori destinati alla nave saudita Bahri Yanbu e rimasti 20 giorni fa nel porto di Genova per l’opposizione dei camalli ad imbarcare materiale a potenziale uso bellico tornano a far discutere, mentre è in arrivo un altro cargo arabo pronto a caricarli. I portuali, sostenuti da associazioni pacifiste e dalla Cgil, avevano ottenuto che la Prefettura garantisse approfondimenti sulla merce volti a certificarne l’effettiva destinazione civile. Giorni fa un vertice in Autorità Portuale, partecipato dall’azienda produttrice (la romana Teknel), dalla segreteria sindacale e dalla Camera del Lavoro ha messo unanimemente a verbale lo “scopo civile” dei materiali (destinati alla Guardia Nazionale saudita) e ha comunicato l’esito alla Prefettura. Un successivo esame condotto dal Calp (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali) sulla documentazione prodotta dalla Teknel ha però evidenziato come i numeri di serie dei prodotti in questione e il loro quantitativo corrispondano esattamente a quelli reperibili, in capo a Teknel, nella relazione annuale al Parlamento (risalente ad aprile) sulla legge 185/1990. È la norma che, recependo accordi internazionali sottoscritti dall’Italia, disciplina la vendita di armi nazionali a paesi esteri. La relazione riporta le autorizzazioni rilasciate nel 2018 dall’Uama (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento), organismo interministeriale appositamente creato. Fra esse ci sono anche generatori di Teknel uguali a quelli rimasti a Genova. Che, se non avessero una destinazione militare, non avrebbero bisogno dell’autorizzazione stessa. Quindi o Teknel ha due commesse identiche, una civile e una militare, o quelli nel porto di Genova sono “materiali d’armamento”, gli unici soggetti ad autorizzazione. La Prefettura non ha chiarito e la tensione in banchina comincia a salire.

La nomina (poi revocata) del fratello: i pm chiedono due anni per Raffaele Marra

L’ex capo del personale del Campidoglio Raffaele Marra “avrebbe dovuto astenersi” nelle procedure che portarono il fratello Renato alla nomina (poi revocata) a capo della direzione Turismo del Comune di Roma. Ma tutto questo per i pm di Roma non avvenne, tanto che ieri hanno chiesto la condanna di Raffaele Marra a 2 anni di carcere per l’accusa di abuso d’ufficio. Il processo riguarda la stessa vicenda per la quale Virginia Raggi è stata già assolta in primo grado.

Nel caso del suo ex braccio destro, invece, il processo è ancora in corso: ieri si è tenuta in aula la requisitoria del pm Francesco Dall’Olio che ha ricostruito i vari passaggi che portarono a quella nomina. “Il reato con dolo intenzionale si è consumato nella riunione del 26 ottobre del 2016 nell’ufficio di Raffaele Marra – ha detto ieri il pm – che all’avvocato Antonio De Santis e all’assessore al Commercio Adriano Meloni fece il nome del fratello per il quale adottò un comportamento preferenziale che determinò un’ipotesi di vantaggio economico ingiusto in relazione alla mancata chance degli altri concorrenti per quella nomina”. Insomma Marra, per la Procura di Roma, “avrebbe dovuto astenersi e non lo fece”. ”Sono stato estraneo nella procedura di interpello che nasce su iniziativa della sindaca Raggi – si è difeso in passato Marra – che ha potere esclusivo e autonomo nelle scelte e nell’assegnazione degli incarichi”.

Proprio di quella riunione in cui si fece il nome di Renato Marra, la Raggi, nel processo a suo carico che si svolgeva parallelamente, ha spiegato di non sapere nulla. E le ha creduto il giudice Roberto Ranazzi che alla fine l’ha assolta: in 324 pagine di motivazioni della sentenza il giudice ha spiegato che la sindaca “è stata vittima di un raggiro ordito dai fratelli Marra in suo danno”. Contro la sentenza di assoluzione della Raggi, la Procura ha già proposto appello. Mentre la decisione per Raffaele Marra è attesa per dopo l’estate.