Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera alla proposta di concedere la cittadinanza per meriti speciali a Ramy Shehata e Adam El Hamami, i due ragazzi della scuola media Vailati di Crema che il 20 marzo scorso sventarono il tentativo di dirottare uno scuolabus da parte di Osseynou Sy, l’autista che tenne in ostaggio 50 bambini, due insegnanti e una bidella dando poi fuoco al bus su cui viaggiavano a San Donato Milanese. I due ragazzi, di origine maghrebina ma non ancora cittadini italiani, riuscirono a dare l’allarme non consegnando all’attentatore i propri telefonini. Il riconoscimento arriva nella giornata in cui è stato reso noto il video di 37 minuti (di cui già si parlò nelle ore immediatamente successive all’attentato) in cui Sy spiega perché, secondo lui, era necessario “scuotere il mondo con un gesto eclatante”. “Viva il panafricanesimo, combattiamo i governi corrotti e critichiamo la politica europea che sfrutta l’Africa”, diceva il 47enne senegalese con passaporto italiano, da 15 anni nel nostro Paese e padre di due figli. Un video che gli inquirenti hanno deciso di non divulgare per timore di gesti di emulazione.
Vincere è stressante, perdere è peggio
Superenalotto sostiene che il suo è oggi il jackpot più alto del mondo: 167 milioni. Roba da Panama Papers. Tre volte e mezzo il debito della Lega. Mentre Salvini rimborserà in ottant’anni (coi minibot?) la somma distratta allo Stato, per conquistare il jackpot (“da sogno”, direbbe Briatore) ci vuole un attimo. Il tempo dell’estrazione. Nel tabacchino sotto casa, uno dei 38mila posti dove si gioca in Italia il Superenalotto, ci sono quattro extracomunitari e cinque pensionati. Hanno appena puntato. Sognare costa poco. Sognare tutti i giorni, diventa un vizio. Un problema sociale. Ma se vinci… Mica detto.
Pedro Quazada, un dominicano che vive a New York, nel 2013 vinse alla lotteria del Powerball 336 milioni di dollari, al netto delle tasse 221 (190 milioni di euro). Da quel giorno “la mia vita è diventata un incubo”. Vittima di truffe, accuse di violenza sessuale da parte della figlia ventenne della sua ex compagna, amici voraci, vicini di casa invidiosi. È in galera.
Lo scorso 6 gennaio, una donna del New Hampshire ha centrato un colossale premio di 559 milioni di dollari. Da allora, è nel tunnel della paura: “Troppi vincitori sono morti dopo aver dichiarato di aver vinto, è una maledizione”. Così ha chiesto a un tribunale di mantenere la privacy ma nel New Hampshire è vietato. Se vuole ritirare la somma, deve rivelare il nome.
Pure da noi le cose non vanno come speri. A Castiglione dello Stiviere, un uomo convinto che la vincita avesse attirato il malocchio su di sé, massacrò a martellate moglie e figli. Un altro, tale S.G., diventato milionario grazie al Totogol, ha dissipato tutto. Fermato sulla sua Bmw imbottita di droga, finisce in gattabuia. Lì, viene a sapere che la moglie aspetta un figlio. È la svolta. Passa quattro anni nella comunità di recupero Papa Giovanni XXIII. Ora fa il netturbino. E ha ritrovato la felicità. Mah.
Tempo fa ci fu chi scrisse un manuale del perfetto vincitore di lotteria. La prima fondamentale (e, in fondo, banale) regola: mantenere il sangue freddo. Sembra facile. Non lo è affatto, avendo miliardi in saccoccia, continuare a vivere come ogni altro giorno, dissimulare gioia, eccitazione, impedirsi ciò che non ti sei mai permesso. Ci vogliono nervi saldi da 007. Perché chi ha svelato d’aver vinto una forte somma, è franato spesso nella miseria. Qualcuno è stato addirittura ucciso. Lo affermano tristi statistiche. Chi invece ha tenuto il becco chiuso, anche in casa, è riuscito a salvaguardare il capitale. Il libercolo citava una celebre quartina del Giusti: “Un gran proverbio/caro al Potere/dice che l’essere/sta nell’avere”. Saggezza popolare. Il silenzio è d’oro.
In oro, stando alla quotazione di ieri, i 167 milioni del Superenalotto equivalgono a 4 tonnellate 439 chili e 749 grammi. Ci vuole un furgone. Blindato, ovviamente: “All’idea di quel metallo/portentoso, onnipossente/un vulcano la mia mente/già comincia a diventar”, confessa il Barbiere di Siviglia al Conte. Ecco, non trasformate il vostro cervello in un vulcano finanziario, non sprofondate nel turbolento cratere degli investimenti. Finireste probabilmente nella lava devastante di qualche consulente disonesto. Conclusione: vincere tanto è uno stress. Ma perdere è (sicuramente) peggio.
L’ennesima riforma del Mibac: cambio di rotta a piccole dosi
Nella riorganizzazione del Mibac disegnata dal ministro Alberto Bonisoli – e ora nota almeno in bozza – si colgono luci e ombre. La prima ombra è, per così dire, sistemica: ci si chiede se ogni benedetto ministro dei Beni culturali debba necessariamente riorganizzare un dicastero allo stremo, continuando a cambiare l’abito al cadavere invece che provare a resuscitarlo. Una resurrezione che si tradurrebbe in una sola parola: assunzioni.
Per funzionare, il Mibac dovrebbe avere 25.000 dipendenti, anche se Dario Franceschini mise nero su bianco che ne bastavano 19.000. Oggi siamo a 12.000, mentre incombe “quota 100”: la morte della struttura è dunque ormai vicinissima. E forse è questo il vero desiderio di chi continua ad approvare decreti sblocca-cemento-e-semplifica-la-qualunque che presuppongono il definitivo silenzio assenso di un corpo morto. Bonisoli ha promesso almeno una parte di queste assunzioni (ha parlato di 4000) e c’è da sperare che tutto il governo sia d’accordo.
Ma torniamo alla riorganizzazione: se proprio la si voleva fare, la questione sul tavolo era macroscopica. E si chiama Riforma Franceschini. Il M5S la contestò in piazza: e dunque ci si sarebbe aspettato un suo radicale ribaltamento. Invece è prevalso un timidissimo elenco di parziali correttivi, spesso assai difficili da comprendere. Perché, per esempio, togliere l’autonomia alla Galleria dell’Accademia di Firenze (cosa in sé sensata: era un’autonomia decisa solo in base al maxi-sbigliettamento del David michelangiolesco), o all’Appia (e perché non anche al Colosseo, se l’intento fosse stato quello, lodevole, di ricucire Roma?) invece di porsi il problema dei limiti e del senso dell’autonomia in sé? È fin troppo evidente, infatti, che quella riforma dei musei non funziona, vista l’amputazione di ogni legame col territorio e la totale autoreferenzialità dei direttori-autocrati. Invece di affrontare questo nodo centrale, ci si è dedicati a rafforzare il peso del centro, moltiplicando le direzioni generali e soprattutto corazzando in modo francamente incomprensibile il ruolo del segretario generale, che ora diventa il padrone dei Beni culturali. Il che non è una buona cosa, perché se il segretario generale non sa nulla di beni culturali (come accade, per dire, oggi), i risultati possono essere drammatici: si deve, infatti, ricordare che il Mibac è un ministero a trazione tecnico-scientifica. O, almeno, lo era. Non mancano, lo si diceva, le luci. Le più incoraggianti riguardano la volontà di riportare al centro le decisioni più importanti del ministero, quelle sui vincoli: che spetteranno (se lo schema sarà rispettato) alla Direzione delle Belle Arti, Archeologia e Paesaggio.
Questo significa allontanare la sede decisionale dalla pressione degli interessi locali e andare in direzione diametralmente opposta alla devoluzione regionalistica prevista dalla riforma delle autonomie tratteggiata a suo tempo dal Centrosinistra, mezza attuata dal Pd e ora brandita come una bandiera da Salvini. Una tutela più forte significa garantire che l’interesse generale dei cittadini a un patrimonio culturale integro e a un ambiente sano non sia sacrificato sull’altare degli interessi privati. Merita un cenno la questione degli Uffici Esportazione, ridotti a quattro, dei quali due saranno i principali. Anche questa è una importante inversione di tendenza rispetto al lassismo dei tempi di Franceschini. Meno uffici con più tecnici, più controllati e più autorevoli significa, infatti, offrire meno anfratti e zone franche a chi tenta di esportare capolavori gabbando gli organi della tutela. Dunque, qualche passo falso e qualche cosa giusta: ma nel complesso manca quella visione, un progetto, un passo nuovo che giustificherebbero l’ennesima riforma della riforma della riforma. Ma sarebbe ingeneroso e miope darne la colpa al garbato Bonisoli: perché mentre era purtroppo chiarissima la visione del Pd di Renzi e Franceschini (bastava rovesciare l’art. 9 della Costituzione nel suo contrario), nessuno saprebbe dire quale sia, se c’è, l’idea della funzione del patrimonio culturale nutrita da questa maggioranza politica. Non per caso la cultura era clamorosamente assente dal famigerato contratto di governo. E non perché fosse cosa troppo alta e importante per regolarla attraverso quel verbale da condominio: più banalmente perché nessuno ne aveva la più pallida idea.
LeG: “La Giustizia si riforma applicando la Costituzione”
Inutile invocare riforme della Giustizia, l’unica vera garanzia è seguire la Costituzione. Innegabile che ci sia bisogno di cambiamenti, visto che le indagini della Procura di Perugia hanno rivelato gli inciuci fra giudici e politici per favorire le nomine di magistrati “amici”, ma non per questo occorre “snaturare” il Csm. Infatti è lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura, organo preposto a vigilare sull’indipendenza del settore, ad accusare i colpevoli di aver gettato “grave discredito su un’istituzione che costituisce uno snodo fondamentale nell’architettura costituzionale”. Secondo il Coordinamento per la Democrazia costituzionale di Libertà e Giustizia, “condizionare le nomine dei magistrati è sempre stato un obiettivo del potere politico” e la riforma andrebbe proprio in quella direzione: si vorrebbe che la metà dei membri dei due Consigli Superiori sia di nomina politica. “I mali della giustizia non possono essere presi a pretesto per introdurre delle riforme che li aggravano – spiega il Coordinamento – Soltanto l’attuazione rigorosa del modello costituzionale può mantenere vive le garanzie della giurisdizione autonoma”.
Caos Csm, slitta la nomina del capo di Roma
Ordine cronologico nelle nomine dei vertici e quindi nuovo Procuratore di Roma congelato, esattamente come voleva il Quirinale. E ancora, apertura di una pratica sui pm della Capitale indagati a Perugia, Luca Palamara e Stefano Fava, che dovrebbe portare al trasferimento per incompatibilità ambientale, se non pure al cambio di funzione. Idem per il pm calabrese Luigi Spina, dimessosi dal Csm perché indagato.
Sono i primi atti della V e della I commissione del Csm dopo il “rimpasto” dovuto alle dimissioni di Spina e all’autosospensione di quattro togati per l’incontro, in vista della nomina del procuratore di Roma, con il parlamentare renziano imputato a Roma, Luca Lotti, con Cosimo Ferri, anche lui deputato renziano, leader ombra di Magistratura Indipendente e con Palamara.
Proprio sull’onda di questo scandalo, il ministero della Giustizia fa sapere che il Guardasigilli Alfonso Bonafede sta preparando un progetto di legge per rendere i più oggettivi possibili i parametri che il Csm deve adottare nel decidere le nomine, dai punteggi da assegnare a ogni esperienza lavorativa all’anzianità. Insomma, come dice Bonafede, la guida per le nomine deve essere “la meritocrazia” .
Non è la prima volta che il Quirinale “congela” una nomina. In un contesto diverso era accaduto con Giorgio Napolitano, che ottenne di rinviare la pratica di Palermo. Se ne avvantaggiò chi aveva meno titoli di altri candidati, Franco Lovoi, oggi candidato a guidare anche la Procura di Roma.
Quindi, dopo la decisione di ieri, il voto in Quinta commissione del 23 maggio sul procuratore di Roma, nei fatti, è annullato. Anche se, spiega un consigliere, “il testo unico chiede di seguire l’ordine cronologico, ‘salvo motivate ragioni”. E la Procura di Roma, la più importante d’Italia. non può stare magari un anno senza capo.
All’incontro per cui tutti i magistrati chiedono le dimissioni dei consiglieri, non indagati, c’erano Corrado Cartoni, Antonio Lepre, Paolo Criscuoli (MI, destra), Pierluigi Morlini e Luigi Spina, in quel momento di Unicost, centristi, oggi, invece, il primo dimissionario dalla sua corrente e autosospeso, come i togati di MI, e il secondo, costretto alle dimissioni perché indagato per favoreggiamento di Palamara. Quando la Quinta ha votato, la commissione era presieduta da Morlini, tra i partecipanti dell’incontro segreto. Si espresse, però, non per il pg di Firenze Marcello Viola, “l’anti Pignatone” che piaceva anche a Palamara-Ferri-Lotti, ma per Giuseppe Creazzo, Procuratore di Firenze, pure lui di Unicost. Lepre, invece, ha votato per Viola, di MI. Così come, senza che avessero a che fare con la combutta clandestina, sia Piercamillo Davigo sia il laico di M5S Fulvio Gigliotti. Mario Suriano, togato di Area, neo presidente della V commissione, aveva votato per Lo Voi di MI, considerato il filo Pignatone e, si dice, gradito agli ambienti del Quirinale..
Intanto, il Comitato di presidenza, ieri, ha preso una decisione assolutamente inusuale: ha chiesto alla Procura di Perugia, che aveva mandato già le carte “ostensibili”, il parere sulla richiesta dei togati autosospesi di poterle vedere, in modo da assumere, per parte loro, una decisione definitiva.
Depistaggio su via D’Amelio: due pm indagati per calunnia
Sono 19 supporti magnetici risalenti ai primi anni 90 di Radio Trevisan, azienda triestina leader nelle fornitura di apparecchi e sistemi di sorveglianza e intercettazione telefonica, trasmessi dalla Procura di Caltanissetta a quella di Messina con le registrazioni di intercettazioni e, forse (ma il dettaglio non è confermato), anche di qualche interrogatorio di Vincenzo Scarantino a portare a galla una possibile svolta nelle indagini sul depistaggio di via D’Amelio.
La Procura di Messina ha iscritto nel registro degli indagati i nomi di Carmelo Petralia e Anna Palma, pm protagonisti della prima inchiesta giudiziaria sull’esplosione che il 19 luglio 1992 tolse la vita a Paolo Borsellino e a cinque agenti della scorta. L’ipotesi di reato è quella di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra, la stessa che recentemente ha portato alla sbarra tre ex poliziotti del gruppo Falcone-Borsellino, per aver contribuito allo sviamento delle indagini sulla strage.
A distanza di non più di due settimane, dunque, da quando a sorpresa, il teste farlocco Vincenzo Scarantino ha scagionato pubblicamente tutti i magistrati da ogni responsabilità sul suo falso pentimento (“Il dottor Di Matteo non mi ha mai suggerito niente, il dottor Petralia neppure. Mi hanno convinto i poliziotti a parlare della strage”), il buco nero del depistaggio istituzionale coinvolge per la prima volta anche i pm titolari dell’indagine taroccata che trasformò un copione di menzogne in sentenze col bollo della Cassazione. A gestire fin dall’inizio la prima indagine furono a Caltanissetta il procuratore Gianni Tinebra (deceduto nel 2017), l’aggiunto Francesco Paolo Giordano, i pm Carmelo Petralia, e Roberto Sajeva, poi gli applicati Ilda Boccassini e Fausto Cardella, e infine i sostituti subentrati nella seconda fase dell’indagine Anna Palma e Nino Di Matteo. “Sia io che Tinebra che Petralia, nessuno di noi aveva esperienza per quanto riguarda le organizzazioni criminali di Palermo e anche di Caltanissetta”, ha detto recentemente Giordano alla Commissione Antimafia del parlamento siciliano. E nel Borsellino quater, il 21 gennaio 2014, Ilda Boccassini ha dichiarato: “È un dato di fatto. Tutti coloro che vennero a Caltanissetta non avevano alcuna esperienza di mafia palermitana”.
Partito da Caltanissetta, il dossier sui magistrati non è approdato alla procura del vicino distretto di Catania (competente a indagare sui colleghi nisseni) perché da un anno nell’ufficio etneo è procuratore aggiunto proprio Petralia, che fu tra i titolari della prima inchiesta su via D’Amelio. Nel novembre scorso, la Procura messinese guidata da Maurizio De Lucia aveva aperto un fascicolo di atti relativi, che ora è sfociato nell’inchiesta per calunnia aggravata: dopo la trasmissione delle bobine, De Lucia ha fissato un “accertamento tecnico non ripetibile”, che si terrà il prossimo 19 giugno presso il Racis (il Raggruppamento dei carabinieri per le investigazioni scientifiche) di Roma, notificando l’atto ai colleghi indagati affinchè possano nominare i loro consulenti. Proprio alla Palma, che è avvocato generale di Palermo, e a Petralia, sono stati notificati ieri pomeriggio gli avvisi di accertamento tecnico non ripetibile della Procura di Messina. L’avviso è stato notificato anche alle parti offese.
Dopo aver sollecitato per mesi un intervento del Csm sull’operato dei magistrati titolari della prima indagine fasulla, Fiammetta Borsellino, la figlia minore del giudice ucciso in via D’Amelio, ieri ha preferito non rilasciare dichiarazioni: “Preferisco non parlare di indagini ancora in corso…”, ha detto all’AdnKronos. A Caltanissetta, infine, sono attualmente sotto processo l’ex funzionario Mario Bo, e gli ex ispettori Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, tutti fedelissimi dell’ex capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002), per aver “indottrinato” Scarantino e per averlo aiutato nel ’95 a confermare le sue bugie alla vigilia delle deposizioni in aula.
Offese a Borsellino e Falcone in tv: inchiesta in Sicilia
La puntata di Realiti, andata in onda mercoledì scorso su Rai2 e condotta da Enrico Lucci (in foto), è finita in un fascicolo d’indagine della Procura di Catania, aperto dal procuratore aggiunto Carmelo Petralia. La Polizia Postale ha acquisito il video del talk, per verificare le dichiarazioni rese dai due cantanti neomelodici catanesi: Leonardo Zappalà e Niko Pandetta. Il primo, incensurato, aveva detto che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino “hanno fatto queste scelte di vita” e “sanno le conseguenze”. Pandetta (detto King o Leone di Cibali) durante l’intervista, aveva mostrato i suoi tatuaggi e raccontato i suoi anni di detenzione, per rapine e spaccio di droga. Si era anche soffermato sul suo legame d’affetto con lo zio Salvatore Turi Cappello, boss dell’omonima famiglia mafiosa, detenuto al 41 bis. A novembre, Pandetta sarà a processo per minacce e diffamazione ai danni dei cronista di MeridioNews, che lo scorso anno avevano raccontato il mondo neomelodico catanese, facendo infuriare sui social il cantante.
Diffamarono Crocetta. Ex direttore e cronista condannati in appello
La Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza di primo grado, emessa dal giudice monocratico, che ha condannato alla pena pecuniaria di 800 euro ciascuno, nel luglio del 2016, il cronista di Panorama Antonio Rossitto e l’ex direttore Giorgio Mulè per diffamazione (e omesso controllo) nei confronti dell’ex presidente della Regione siciliana, Rosario Crocetta (in foto). L’articolo incriminato risale al 2012, Panorama scriveva di presunte relazioni pericolose di Crocetta, appena eletto governatore, con un esponente del clan mafioso gelese degli Emmanuello. Si riportavano inoltre le dichiarazioni di un pentito che avrebbe sostenuto che Crocetta, alle elezioni comunali di Gela, era stato appoggiato dalla mafia e che le indagini non erano state portate avanti dall’allora pm nisseno Nicolò Marino, poi diventato assessore della giunta Crocetta. La Corte ha confermato anche la provvisionale, immediatamente esecutiva, a titolo di risarcimento del danno di 45 mila euro, somma che Crocetta aveva detto di volere destinare in beneficenza.
Il trash canta la mala Da “’o capoclan” a Niko Pandetta
Lui adesso fa l’agnellino. Smette i panni dell’arrogante guappo di cartone con croci e frasi dedicate a mammà tatuate su tutto il corpo e via Facebook manda a dire che non ha “mai offeso quei due grandi eroi”. La storia è nota, ed è quella della partecipazione del cantante neomelodico Niko Pandetta, insieme al suo collega Leonardo Zappalà, noto come Scarface, a Realiti, la trasmissione di Enrico Lucci su Rai2. Zappalà, napoletano per finta pure lui, parlando dei due magistrati uccisi a Capaci e in via D’Amelio, ha detto che la loro era una scelta di vita, aggiungendo, ma solo dopo una studiata pausa, che “come ci piace il dolce ci deve piacere anche l’amaro”. Polemiche a non finire. Da quelle frasi Niko Pandetta, siciliano nipote di un boss, che sarebbe anche il “paroliere” della sue canzoni, si è dissociato. Ora potrà riprendere i suo concerti, che iniziano sempre con un saluto “agli ospiti dello Stato” e agli “amici al 41 bis”, e soprattutto i suoi video su Facebook. L’ultimo lo ha dedicato al consigliere regionale della Campania Francesco Emilio Borrelli, agitando un revolver d’oro in stile narcos.
Neomelodici, fenomeno sempre in bilico tra pessimo folklore e industria criminale. Un business che per la camorra vale almeno 200 milioni di euro l’anno. Gestione dei cantanti, sale d’incisione, bancarelle per la vendita dei cd, uso di YouTube e degli altri canali dove veicolare video e canzoni. Niko Pandetta, che ha stampato il suo primo cd grazie ai soldi arraffati durante una rapina, canta Simme nuje, “nuje ’ngopp ’e problem ce simme cresciuti, vulimme cagnà, ma simme fatt accussì”. Tradotto, noi siamo cresciuti sui problemi, vorremmo cambiare, ma siamo fatti così. È l’esaltazione della strada, della mala-vita, dei soldi e della droga. Cambiare è impossibile. Testi e ritmi sempre più spinti. Perché l’industria dei neomelodici è come quella del porno: il pubblico ama i sapori forti, estremi, vuole sempre di più. Nino D’Angelo è considerato il padre della canzone neomelodica. Ma Nino, all’inizio degli anni Settanta cantava l’amore e la vita amara della gente come lui. Ciucculatina da ferrovia è la storia di una bambina, “figlia e nu sbaglio e liett” (figlia illegittima di un poveraccio), costretta a vendere Marlboro di contrabbando su un marciapiede della Ferrovia. Le volgari imitazioni venute dopo sono solo il racconto senza filtri, spesso con toni di vera e propria esaltazione, della camorra e dei suoi “stili” di vita.
In questa operazione un posto di primo piano spetta ai “finti napoletani”, i neomelodici arrivati dalla Sicilia. Gianni Celeste è un catanese che ha imparato alla perfezione lo slang napoletano, negli anni Novanta porta al successo un brano di Tommy Riccio, Nu latitante. La storia di un camorrista in fuga dalla legge descritto come una vittima, “na foglia int’o vient… telefona a casa pe dì sulamente, riman è Natale vulesse turnà”. Una foglia nel vento che telefona a casa per dire domani è Natale, vorrei tornare. Applausi commossi di boss e cumparielli. Applausi di sdegno per Lisa Castaldi, interprete de Il mio amico camorrista (“Che è n’omm chine ’e qualità”) e di Femmena d’onore, canzone che narra di un killer che ha ammazzato suo marito e ora si pente, “primma accire e po’ chiede perdono”. Standing ovation per Nello Liberti che canta ’O capoclan. Un crescendo, si diceva, perché al pubblico, come nel porno, bisogna dare sempre di più. Daniele Sanzone, frontman degli ’A67 (in questi giorni debutta con Fuori mano, insieme a Peppe Lanzetta e Jennà Romano), ha una sua lettura del fenomeno. “I neomelodici si trovano a vivere ciò che cantano e a cantare ciò che vivono. In realtà, la canzone di camorra all’interno del genere è ben poca cosa, anche se fa più rumore”. Sanzone richiama fenomeni mondiali simili a quello dei neomelodici, “il rai algerino, la cumbia villera a Buenos Aires, il corrido messicano. Stili che hanno avuto una loro evoluzione-degenerazione e che oggi cantano le gesta dei narcos, dei gangster urbani, dei camorristi”.
La nuova frontiera è il rap, “i ragazzini che vent’anni fa sognavano di fare i neomelodici – ci dice Sanzone – oggi si vestono e si atteggiano a rapper vesuviani”. Nasce così nel ventre di Napoli la trap made in Vesuvio di Geolier e Enzo Dong che canta “Mammà, perdon ’sta vita sbagliat. E strad ccà c’hann crisciut. Ma n’ce simm maij ’nnammurat”. Testi che inneggiano ai boss, facce alla Gomorra, macchine sfavillanti e matrimoni hollywoodiani, come quello di Tony Colombo, neomelodico e siciliano pure lui, e Tina Rispoli, vedova del boss di camorra Gaetano Marino. Carrozze, cavalli bianchi e banda musicale. Un trash spesso esaltato dalla regina del genere Barbara D’Urso su Canale5. Perché anche questa è Italia, Paese dove tutto è televisione. Pessima televisione.
“Le sirene un messaggio in codice mafioso Alfieri non può gestire 1,8 miliardi di fondi”
“Attenzione ai messaggi in codice mafioso che arrivano dai territori”. Secondo il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra, il corteo di ambulanze della onlus di un condannato per reati di camorra, Roberto Squecco, che di notte festeggia a sirene spiegate l’elezione di Franco Alfieri (Pd) a sindaco di Capaccio Paestum (Salerno), appartiene a quel genere di messaggi.
Presidente Morra, l’imprenditore delle ambulanze vicino ad Alfieri è andato su una emittente locale, “Stile Tv”, a scusarsi per un “gesto goliardico”. Che ne pensa?
La cosiddetta goliardia, insieme al cosiddetto trash del genere neomelodico, vengono sempre addotte come scuse per nascondere l’esistenza di codici facilmente interpretabili da chi conosce quei linguaggi, quei segni, chi li pronuncia e chi vive su quei territori. Il signor Squecco, la cui moglie è stata casualmente eletta in una lista di Alfieri, dovrebbe usare toni più appropriati. Senza giocare a scurdammoce ’o passato e chi s’è visto s’è visto.
Peraltro Squecco, oltre alla condanna passata in giudicato, risulta al “Fatto” coindagato con Alfieri per voto di scambio politico-mafioso nell’indagine sul “sistema Cilento”.
Inchiesta che, stando alle cronache che leggo, riguarda triangolazioni dei mondi dell’economia illegale. La magistratura opererà, ma invito tutti a essere molto più cauti. E soprattutto più rispettosi delle norme.
Si riferisce a qualche caso in particolare?
Partirei da chi concede una prospettiva cronologicamente enorme – ventennale, persino trentennale – agli appalti di una impresa di illuminazione, la Dervit (gli appalti Dervit sono oggetto di parte dell’indagine su Alfieri, ndr). Concessioni che lasciano basiti. Voglio sperare che formalmente tutto sia a norma. Però mi chiedo, e se lo sono chiesti anche il consigliere regionale M5S Michele Cammarano e il gruppo campano, se Alfieri possa continuare a essere consulente del governatore De Luca, sia pure senza potere di firma, e possa gestire gli affari del Piano di Sviluppo Rurale che prevede finanziamenti per un miliardo e 800 milioni di euro. Da un territorio che, e di questo sono stanco, continua a mandare messaggi di un certo tipo.
Alfieri si è dissociato dal corteo di ambulanze “di cattivo gusto”. È sufficiente?
Potrebbe anche fare quel passo in avanti, chiesto più volte dai cittadini: non dover attendere la magistratura per recidere legami sconvenienti. Anche in una terra dove un sindaco, Angelo Vassallo, è stato ucciso mentre difendeva il suo territorio in maniera encomiabile, può trionfare un’altra idea di moralità pubblica. E poi le ambulanze non devono apparire come “gentilmente offerte” dal sindaco appena eletto.
A proposito di “messaggi in codice” e “trash neomelodico”, ne sarebbero arrivati anche dalla trasmissione “Realiti”.
La tv pubblica deve essere capace di rappresentare con forza una certa idea di Stato. Mi riconosco nella Rai2 che domani sera manda in onda La Trattativa (il film di Sabina Guzzanti, ndr). Lucci ha fatto bene a stigmatizzare immediatamente certe parole in studio. Però vorrei che si concludesse in tempi brevi l’indagine interna preannunciata dall’Ad Salini per capire chi sia stato il responsabile di queste scelte, diciamo, opinabili. Come quella di ospitare il neomelodico che sostiene di aver avuto il testo di una canzone dallo zio al 41-bis, che non potrebbe comunicare con l’esterno. Mi pongo degli interrogativi sul fatto che un programma di Rai2 sdogani questo tipo di cultura.
Come andrà a finire?
Sono convinto che la Rai sarà in grado di sanzionare certi comportamenti, affinché certi errori non si ripetano. Perché di errore si deve parlare.