“Trattativa” in prima serata Il film “proibito” su Rai2

La Trattativa Stato-mafia c’è stata anche se per anni tanti hanno negato. E ci sono voluti cinque anni (e una sentenza di primo grado) per portare in tv il film La Trattativa di Sabina Guzzanti. L’appuntamento è fissato per domani su Rai2 in prima serata (ore 21:20).

Un approdo lungo e non privo di difficoltà. La Trattativa infatti è stato girato nel 2014 secondo lo stile della Guzzanti: reportage, inchiesta e fiction. Dove il documentario e la parte recitata si intrecciano, prendendo come filo conduttore le carte processuali.

Un approccio simile a quello che la registra-attrice aveva già utilizzato per il suo Draquila, la pellicola sul terremoto in Abruzzo del 2009.

E, proprio secondo questo stile, nel film compaiono fianco a fianco attori professionisti e non. C’è ovviamente Sabina Guzzanti – che è anche regista – e recita anche la parte di Silvio Berlusconi. Mentre la fotografia è affidata al regista palermitano Daniele Ciprì, autore tra l’altro del film Lo zio di Brooklyn (in coppia con Franco Maresco).

La Trattativa era stato presentato fuori concorso al Festival di Venezia cinque anni fa e subito aveva raccolto consensi della critica, suscitando però anche un’accesa polemica con l’ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, riguardo all’episodio della mancata perquisizione del covo di Totò Riina arrestato nel gennaio 1993.

Ma il tema è delicato in un Paese dove la mafia e i suoi intrecci con la politica sono argomento da tacere e da rimuovere. Così il film, dopo essere sbarcato in 158 sale ed essersi piazzato al decimo posto al botteghino, non era stato trasmesso in televisione.

A lungo era rimasto visibile sulla app di Loft e sul sito www.iloft.it dell’Editoriale Il Fatto.

L’idea di proiettarlo sugli schermi Rai non aveva abbandonato Carlo Freccero che già lo aveva proposto nella passata gestione quando era membro del consiglio di amministrazione. Niente da fare.

Ma, dopo essere diventato direttore di Rai2, Freccero ha deciso di riproporre il film. Non è stata un’opera facile, ma un gioco di pesi e contrappesi durato mesi. I vertici dell’azienda sono stati informati di ogni passaggio. Un ruolo importante, spiegano in Rai, hanno giocato anche alcuni avvocati delle difese (Francesco Centonze, Basilio Milio e Tullio Padovani tra gli altri) che domani sera dovrebbero essere presenti in studio. L’intenzione di Freccero (sarà però da vedere se lo scomodo direttore verrà riconfermato, visto che il suo contratto scade a fine novembre) e di Rai2 è di dedicare diverse serate agli episodi più bui della storia della Repubblica, dalla Trattativa a Piazza Fontana passando per una ricostruzione della nuova mafia a Roma. Un ciclo che viene chiamato, appunto, Deep State (lo Stato profondo).

Non si tratterà infatti di una semplice programmazione del film. La Rai ha deciso di accompagnare l’evento con un talk presentato da Andrea Montanari, ex direttore del Tg1, un tassello importante per arrivare alla realizzazione della serata. In studio oltre ai giornalisti Giovanni Bianconi (Corriere della Sera) e Marco Travaglio (direttore del Fatto) che hanno seguito la vicenda, ci saranno gli avvocati di Marcello Dell’Utri e Mario Mori, nonché Sabina Guzzanti. Ci saranno anche molti contributi filmati dalla Sicilia (un’intervista al giornalista Francesco La Licata e un incontro con la Comunità di don Pino Puglisi) curati dallo stesso Montanari.

Dunque, finalmente, da giovedì sera La Trattativa esisterà anche in televisione. Dopo che è stata confermata nelle aule processuali. Già nel 2012 i magistrati fiorentini che condannarono i boss ritenuti responsabili della strage di via dei Georgoili, dedicarono cento delle 547 pagine della motivazione al movente degli “attentati in Continente” e alla trattativa tra Stato e mafiosi. Si leggeva tra l’altro: “Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”.

Il 20 aprile 2018 sono infine arrivate le condanne di primo grado: 12 anni ai generali dei carabinieri Mori e Antonio Subranni, nonché a Dell’Utri e Antonino Cinà, medico di fiducia di Totò Riina. L’allora ufficiale dei Ros Giuseppe De Donno ha avuto 8 anni. Il boss Leoluca Bagarella è stato condannato a 28 anni. Prescritte invece le accuse nei confronti di Giovanni Brusca, mentre è stato assolto l’ex presidente del Senato, Nicola Mancino.

Whirlpool, Di Maio revoca 13 milioni di incentivi erogati

“Nessuna chiusura per il sito di Napoli, cerchiamo una soluzione condivisa”. La multinazionale americana Whirlpool stempera così la crisi esplosa ieri mattina quando il ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, in una diretta Facebook, ha minacciato la revoca di tutti gli incentivi accordati all’azienda, “perché non ha tenuto fede ai patti”. Dieci giorni fa era trapelata la volontà di vendere lo stabilimento di Napoli, mettendo a rischio 420 dipendenti, nonostante lo scorso ottobre Whirlpool abbia firmato un accordo quadro con i sindacati per rilanciare la produzione italiana con un investimento da 250 milioni (17 in Campania, tra Napoli e Carinaro). Ma la nota diffusa dalla multinazionale non è bastata a bloccare la minaccia di Luigi Di Maio. “Hanno preso 50 milioni dal 2013 a oggi e io inizio a revocargli 13 milioni perché non sono stati collaborativi”. Si tratta degli incentivi stanziati dal contratto di sviluppo. Ed è un atto unico nel suo genere, mai eseguito prima dal Mise. Altri 10 milioni, nella volontà del ministro, verranno revocati attraverso un’altra procedura. La risposta della multinazionale arriverà oggi pomeriggio, quando alle 17 ci sarà il nuovo tavolo al Mise.

Non solo Roma Il Salva-Comuni aiuta sei città in dissesto

I soldi avanzati dalla chiusura della gestione commissariale del debito di Roma, con l’accollo statale del maxi-bond da 1,4 miliardi (3,6 miliardi con gli interessi), serviranno in parte anche per ammortizzare l’imponente passivo che grava su altre città: Torino (a guida M5s come la Capitale), le tre di centrodestra Alessandria, Messina, Catania, Reggio Calabria (centrosinistra) e Napoli. Insomma, non “tutti i Comuni” come aveva promesso Matteo Salvini, ma neanche solo Roma come richiesto inizialmente da Luigi Di Maio. Un compromesso arrivato con un emendamento al decreto Crescita che – spiega la vice ministro dell’Economia Laura Castelli che ha curato il dossier – “prevede l’istituzione di un fondo finalizzato al concorso al pagamento del debito dei Comuni capoluogo di città metropolitano che hanno avviato un percorso di riequilibrio finanziario e non solo a quelle in dissesto o pre-dissesto finanziario”. Differenza non da poco.

Al Fondo in questo modo potranno, infatti, attingere gli enti in dissesto certificato come Catania e Napoli, ma anche Torino che sta invece seguendo un’altra strada: varare un piano di risanamento, assumendosi la responsabilità politica di attuarlo, che gli consente di avere margini di manovra maggiori. Torino, Napoli, Messina, Catania si spartiranno una cifra vicina ai 60 milioni, grazie al fondo da 510 milioni (20 quest’anno e 35 annui nel 2020-33) che attinge anche dalle risorse che arriveranno dai tagli ai progetti di Industria 4.0. Non molto, considerato che Torino da sola ha un debito di 2,7 miliardi ma comunque un po’ di liquidità. Per Reggio Calabria si allunga a 20 anni il piano di rientro del debito, mentre ad Alessandria (assai cara al capogruppo leghista alla Camera Riccardo Molinari) andranno 20 milioni nel biennio 2020/2021. “Ma il lavoro proseguirà in modo certosino – assicura la viceministro Castelli – perché a ogni malato serve la giusta cura”.

“Quei 100 mila euro di pubblicità alla società del deputato leghista”

Poco meno di un milione di euro di rimborsi elettorali, un’associazione politica riconducibile alla Lega, i cui bilanci restano un mistero, e poi due bonifici per circa 450mila euro che dalle casse del Carroccio finiscono all’associazione “Maroni presidente” e alla lista civica collegata nata prima delle regionali lombarde del 2013. Di questo si è parlato ieri in procura a Genova. Tre ore di verbale. A essere sentito come teste Marco Tizzoni, ex consigliere regionale della lista Maroni, nonché autore di un esposto alla procura di Milano che ha fatto aprire un’indagine per appropriazione indebita a carico dell’assessore regionale Stefano Bruno Galli. L’inchiesta milanese è stata archiviata la scorsa settimana dal gip Anna Magelli. Eppure i suoi contenuti sembrano interessare i magistrati liguri che da tempo indagano sui 49 milioni di rimborsi elettorali andati alla Lega e poi spariti nel nulla. Già ad aprile, la Finanza di Genova aveva individuato un versamento da un conto corrente della banca Unicredit all’associazione “Maroni presidente”.

Il primo elemento messo sul tavolo dai pm Paolo Calleri e Francesco Pinto è stata l’associazione “Prima il nord”. Si tratta di un’associazione gemella alla “Maroni presidente” nata il 14 dicembre 2012. A differenza della “Maroni presidente”, i bilanci di “Prima il nord” non sono consultabili. Il flusso di denaro resta, dunque, un punto di domanda. La Procura ha chiesto a Tizzoni come è arrivato a scoprire “Prima il nord”. La risposta è stata molto semplice: la difesa di Galli, a suo dire, l’ha depositata per sbaglio nella memoria difensiva. L’associazione, appena fondata, aveva sede in via Boschetti a Milano, indirizzo storico degli affari leghisti. Di più: nel proprio consiglio direttivo ha persone riconducibili alla cerchia del vicepremier Matteo Salvini. Allo stato non ci sono indagati su questo fronte. Il secondo tema trattato sono stati i due bonifici di 450mila euro che la Lega ha dato alla “Maroni presidente” per finanziare la campagna elettorale del 2013.

Nel primo, quello di circa 400mila euro, alla voce causale è scritto “devoluzione” che non è esattamente un prestito. La parola prestito sarà invece scritta nel secondo bonifico molto più piccolo. È un dato in più. Fino ad ora, a guardare i bilanci della “Maroni presidente”, si apprendeva solo del passaggio del denaro. Un dare e avere privo di opacità stando alla procura di Milano che ha chiesto e ottenuto l’archiviazione. Una risposta invece è stata data ai circa 100 mila euro spesi per “pubblicità e manifesti”. Soldi contabilizzati nel bilancio 2017 e che ieri, è emerso durante il verbale, sono stati pagati alla Boniardi grafiche. Si tratta della storica tipografia del Carroccio fin dai tempi di Umberto Bossi, riferibile a Fabio Boniardi, ex consigliere comunale di Bollate e oggi deputato della Lega.

Lo stesso Tizzoni nel suo esposto aveva denunciato “fatture irregolari” per circa 3 mila euro riferite proprio alla Boniardi. Un particolare che la Procura di Milano non ha ritenuto di rilevanza penale.

Salvini vuole Atlantia e pressa M5S su Alitalia

Dopo mesi di stallo, Matteo Salvini ha deciso di superare l’impasse sul salvataggio di Alitalia dettando la linea all’alleato di governo: “La questione si chiude nelle prossime ore. Si sta cercando un terzo partner, sento parlare di Atlantia, penso che sia un partner naturale”. L’uscita arriva a Porta a Porta (Rai1) poche ore dopo l’ennesimo incontro a vuoto al ministero dello Sviluppo, tra i vertici del dicastero, i commissari governativi e il numero uno delle Ferrovia Gianfranco Battisti. Due ore di riunione chiuse con la sola certezza che arriverà la quarta proroga utile a superare la scadenza del 15 giugno per presentare le offerte per la compagnia aerea in amministrazione straordinaria da due anni (“siamo in dirittura d’arrivo”, ha spiegato Di Maio).

Lo Stallo è presto spiegato. A ottobre scorso il governo ha imposto alle Fs di salvare la compagnia. Battisti ha accettato a patto di trovare partner industriali di peso. Dopo la fuga delle partecipate statali – non convinte anche dal piano industriale (peraltro, pare, costato 9 milioni) – oggi l’unica certezza è che le Fs sono pronte a metterci il 30% del capitale della nuova Alitalia, con l’americana Delta Airlines che metterebbe un altro 15% e altrettanto farebbe il governo, per il tramite del Tesoro. Manca un altro 40% di un investimento intorno ai 900 milioni. Dopo mesi di tentativi a vuoto, l’unico vero partner individuato è la Atlantia dei Benetton, che controlla gli aeroporti di Roma e potrebbe avere interesse a investire 300 milioni per salvare un vettore che vale quasi la metà dei ricavi della controllata. Sulle trattative ha pesato però un macigno: dopo il disastro del Ponte Morandi di Genova, il governo, specie la componente 5Stelle, ha promesso di revocare la concessione ad Autostrade, la gallina dalle uova d’oro dei Benetton, che ha subito escluso dalla demolizione e ricostruzione del ponte. La reazione di Autostrade è stato l’avvio di un contenzioso amministrativo. Della revoca, però, al momento si sono perse le tracce, la valutazione è stata affidata a un comitato tecnico insediato al ministero delle Infrastrutture.

Per la Lega Altantia va benissimo, e della revoca si può anche smettere di parlare. Per i 5Stelle, invece, rappresenterebbe una retromarcia politicamente complessa da affrontare. La speranza degli uomini di Luigi Di Maio che Atlantia ci mettesse i soldi evitando pure di accampare richieste si è schiantata contro la resistenza della società guidata da Giovanni Castellucci. A quel punto, come sempre accade nel governo gialloverde quando nessuno vuole assumersi la responsabilità delle scelte, la palla è passata a Palazzo Chigi. E Giuseppe Conte una mossa l’ha fatta. Fonti governative raccontano che agli uomini di Atlantia il mese scorso sarebbe arrivata una proposta per chiudere la guerra aperta dal Morandi. Tre le richieste avanzate da Palazzo Chigi: nessuna revoca dell’intera concessione ma solo del tracciato autostradale che attraversava il ponte genovese (l’A10); un aumento degli indennizzi per le vittime del disastro e per gli sfollati; e la disponibilità a rivedere col governo il sistema delle tariffe che oggi premia in modo clamoroso Autostrade. Atlantia ha fatto sapere di essere disponibile alle concessioni ma dietro impegno del governo a sancire il tutto con un accordo formale. A quel punto, però, da Palazzo Chigi è sceso il silenzio, alimentando la sensazione che non ci fosse il via libera dei 5Stelle.

È continuata così la guerra di logoramento, con il ministero delle Infrastrutture che ha ottenuto il via libera a una norma che scuda i funzionari che firmano la revoca delle concessioni autostradali. Passi avanti, però, nessuno. Ieri al Mise il vertice si è concluso con la sola ipotesi di una nuova proroga di un mese della scadenza. E Salvini ha deciso di rompere lo stallo e dare un ultimatum ai 5Stelle. La palla, ora, è nelle mani di Di Maio e con essa le paure di 11 mila dipendenti. La base per chiudere c’è, ed è quella di Palazzo Chigi, ma la scelta è politica.

Ecco la “graticola” per i sottosegretari: a rischiare è Crippa

Ieri è stato il giorno della “graticola” per i sottosegretari e i viceministri del Movimento Cinque Stelle. Un esame di 40 minuti: venti per raccontare quanto fatto e altri venti per ribattere alle segnalazioni dei parlamentari (distribuiti a seconda della commissione competente). Chi non passa lo stress test rischia di perdere la carica di governo: alla fine della graticola, ogni parlamentare è chiamato a compilare una scheda anonima in cui esprime un giudizio sulle capacità dell’ “esaminato” e una valutazione finale (“bassa”, “media” o “alta”). La scheda contiene sei voci: presenza, disponibilità all’ascolto, capacità di fornire informazioni, capacità di fornire risposte, capacità di raggiungere obiettivi, capacità organizzativa. A rischiare la bocciatura – da quanto trapela – è soprattutto Davide Crippa, sottosegretario allo Sviluppo economico: i senatori della commissione Industria gli rimproverano “totale assenza di dialogo”.

L’elettore grillino non “tradisce” O sceglie loro oppure si astiene

C’è una costante nelle elezioni comunali degli ultimi anni: al ballottaggio gli elettori del Movimento, se non possono scegliere un loro candidato, molto spesso preferiscono l’astensione. Non dimentichiamo neanche quanto accaduto per le europee, quando dei 6 milioni di voti persi dai Cinque Stelle ben 4 sono di persone che non sono andate alle urne. Un dato impressionante, che indica come se non si può votare a favore, per un qualunque motivo, non si “tradisce”. In queste Amministrative il punto centrale credo che rimanga: gli elettori M5S si sono per lo più astenuti. In alcune città però possiamo sicuramente notare una tendenza a preferire il centrosinistra, per quanto sia una forzatura darne una lettura nazionale. Livorno è l’emblema di questi casi, ma ci indica anche come fosse improprio parlare di “elettori del Movimento”: erano elettori di centrosinistra delusi che ora in maggioranza potrebbero aver scelto di tornare in quell’area di riferimento.

Alle prossime Politiche l’unica novità possibile sarà l’asse Pd-5S

Dai dati dei flussi sembra che ci sia stata una grande perplessità negli elettori del Movimento 5 Stelle nell’appoggiare il candidato del centrodestra. In genere hanno preferito l’astensione, ma chi è andato a votare ha favorito per lo più il centrosinistra, anche se poi sono dati che dipendono molto dalle variabili locali. Di certo non aiuta il fatto che nei territori la Lega sia ancora alleata di Berlusconi, indigeribile per i Cinque Stelle. Il fenomeno più significativo però è quello di Campobasso, dove pur nella limitatezza del caso si è visto che gli elettori di centrosinistra hanno votato quasi tutti il candidato dei Cinque Stelle. Questo ci dice che se il Pd vuole essere un’alternativa a Salvini allora l’unico campo dove può recuperare voti è quello dei Cinque Stelle, ma ci mostra anche che è lì che può formare un’eventuale alleanza futura, perché difficilmente con il suo 22-23% può pensare di governare da solo. Su questo dovrebbero riflettere anche i vertici nazionali.

I sostenitori dei 5Stelle sentono i dem troppo lontani per votarli

Mi aspettavo un’alta astensione degli elettori dei Cinque Stelle al ballottaggio, che è una costante di quando il loro candidato è escluso. C’è anche da dire che a questa tornata in molte città il Movimento aveva preso un 5, un 8 o un 10 per cento al primo turno, dunque non parliamo di un orientamento che al ballottaggio sarebbe stato di sicuro decisivo, tutt’altro. Anche per questo fatico a dare un’interpretazione a queste elezioni che non sia locale, più che nazionale. Quel che si può dire, anche tenendo conto del caso di Campobasso, è che probabilmente gli elettori del Movimento 5 Stelle percepiscono il Pd più lontano di quanto gli elettori di centrosinistra non percepiscano i 5 Stelle. Anche in questo caso però hanno pesato variabili locali: la candidata di centrodestra a Campobasso era molto debole e già al primo turno aveva subìto un forte voto disgiunto, segno che anche chi aveva votato le sue liste aveva scelto un altro sindaco.

Conte, Toti e Calenda in cerca d’autore (e di un partito nuovo)

Poiché la crisi di governo è stata rinviata a data da destinarsi causa calura, e poiché tra una campagna elettorale e l’altra se non sei Salvini ci si annoia parecchio, insieme al cruciverba e ai racchettoni, come gioco da spiaggia va alla grande: ora mi faccio un partito. Promosso nei tre modelli base: Conte, Toti, Calenda.

Nel primo caso sarebbe più esatto dire: ora gli faccio un partito visto che si tratta di prendere un premier, con i suoi guai, e di proporlo al pubblico in formato cartonato e con allegato favorevole sondaggio. Ai tempi ci cascò il professor Mario Monti, riluttante all’ipotesi ma poi convinto a presentarsi da una pletora di laudatores (con candidatura incorporata), convinti che Scelta Civica avrebbe fatto boom (il rumore ci fu ma non esattamente quello sperato).

Adesso ci stanno provando con Giuseppe Conte, il cui partito personale viene accreditato (dalla cosiddetta grande stampa, a sua totale insaputa) nientemeno che al 12% (calcolato, si presume, sul numero delle pochette indossate). Lui si è mostrato in versione Le déjeuner sur l’herbe mentre coccola due cagnetti, immagine che gli esperti interpretano come una veloce fuga nei campi dai vicepremier, o come un’apertura al voto animalista (un po’ come B. col biberon e l’agnellino). Più concentrato verso le magnifiche sorti e progressive dell’ambientalismo, il sindaco di Milano Beppe Sala, travestito da Greta Thunberg non ha ancora scoperto le carte ma si vedrà.

Vi faccio un partito così è invece l’inconfondibile marchio di Giovanni Toti, ritratto nel minaccioso gesto a due mani del Cachet Fiat mentre soppesa un tanto al chilo i resti di Forza Italia. Sembra che il governatore della Liguria, eletto con i voti di Berlusconi, intenda gettarsi tra le braccia di Salvini come vendetta per la dieta disumana (e la relativa berlina) cui lo sottopose l’ex datore di lavoro.

Vasta curiosità desta infine il Piccolo liberal-democratico di Carlo Calenda, con annessi mattoncini simil Lego e un pugno di variopinti ometti di plastica (i potenziali elettori, si suppone). In allegato, le istruzioni per convincere i polli di turno (pardon, gli imprenditori) a finanziare l’impresa. E anche un augurale minispot con il Calenda versione pic-nic che adocchia il florido cigno. Un vispo partitino di cui nessuno sentiva la mancanza fin quando Calenda ne parlò come alternativa al Pd, esattamente il giorno dopo i 252 mila voti presi alle Europee grazie alla lista Pd. Forse imbarazzato dalla sgradevole coincidenza, l’autore non ne fece più cenno anche se l’idea prese lo stesso a circolare nelle vene pulsanti della storia.

Ne hanno scritto Eugenio Scalfari su Repubblica e Antonio Polito sul Corriere della Sera, alle prese con un problemino al cui confronto la Congettura di Poincaré fa ridere: come può il centrosinistra tornare a essere maggioranza se il Pd conta solamente il 22% dei voti? Due le ipotesi. 1) Dare vita al nuovo partito attraverso il trasferimento di voti dal Pd (con il rischio purtroppo che il totale della somma resti invariato). 2) Creare il nuovo contenitore e pregare il cielo che i voti si materializzino per partenogenesi dagli articoli di Scalfari o per altri inspiegabili fenomeni naturali. Si tratterebbe infine di spiegare che cos’è un partito liberal-democratico e perché mai uno dovrebbe votarlo. Ma ci sembra già di cogliere l’obiezione di Calenda: ragazzi, non posso fare tutto io.