Non si dimette più: Chiamparino resta in consiglio regionale

Resterà in consiglio regionale per aiutare ad avviare la nuova legislatura. Non saranno dimissioni immediate quelle di Sergio Chiamparino: l’ex presidente del Piemonte ieri ha preso parte alla riunione inaugurale del gruppo regionale del Pd, in cui è stato deciso il suo apporto in questa fase di transizione. “Abbiamo convenuto sulla necessità di una mia iniziale partecipazione al lavori consiliari, all’avvio dell’attività del gruppo stesso – ha spiegato Chiamparino – i tempi di questo accompagnamento saranno definiti in itinere, in coerenza con quanto già detto quando ho annunciato che la mia uscita sarebbe stata concordata nei modi e nei tempi con la coalizione”. Insomma: Chiamparino prende tempo. Lunedì c’è stato il passaggio di consegne ufficiali con il nuovo governatore del Piemonte, Alberto Cirio, di Forza Italia, e in quell’occasione Chiamparino ha dichiarato che sarebbe rimasto “a disposizione per dare una mano”. Posizione più morbida rispetto a quella presa all’indomani della sconfitta, quando l’ex presidente aveva annunciato il suo ritiro dalla scena politica regionale.

Che, a quanto pare, dovrà attendere.

“Pd e M5S dovrebbero stipulare un contratto”

Un accordo programmatico tra Pd e Cinque Stelle da fare prima delle elezioni: è questa la strada che individua Vittorino Facciolla, segretario regionale dei Dem molisani, dopo la vittoria al ballottaggio a Campobasso del grillino Roberto Gravina, con quasi il 70% dei consensi.

Segretario, i Cinque Stelle a Campobasso hanno vinto anche con i voti del centrosinistra?

Gravina è stato votato da tutti, anche da un pezzo di centrodestra.

Voi avete invitato a votarlo?

Abbiamo fatto un discorso di una banalità incredibile, ricordando che ci sono dei valori irrinunciabili per il Pd, secondo i quali non potevamo dare indicazione di voto per la Lega perché siamo anti-fascisti e anti-razzisti. Però abbiamo invitato i nostri elettori ad andare a votare perché è un diritto costituzionale, al quale non si deve rinunciare. E dunque, in maniera quasi inevitabile tra Lega e M5s hanno scelto il Movimento.

Si è trattato di una decisione formale?

Abbiamo votato un documento con queste indicazioni in direzione regionale, che è stato approvato all’unanimità: ha detto di sì anche la minoranza.

A cosa porta adesso questa scelta?

A nulla, perché non si tratta né di un accordo di desistenza, né di un apparentamento. Non abbiamo negoziato alcuna poltrona. Si è trattato di una valutazione politica: non potevamo sopportare un sindaco leghista. Ora il Carroccio sta lavorando a un regionalismo differenziato, che vuol dire zero possibilità per una Regione piccola come la nostra.

Si tratta di una formula che si può replicare nelle elezioni nazionali?

Non lo escludo. Noi dobbiamo puntare all’elettorato 5 Stelle. Se si dovesse votare a legge elettorale invariata, credo che noi e loro dovremmo presentare lo stesso programma, una sorta di contratto pre-elettorale.

Per governare insieme dopo?

Dopo le elezioni sì. Mi spiego: se domani mattina ci dovesse essere una crisi, sarebbe per il Pd un errore madornale un governo con i Cinque Stelle. Ma presentare lo stesso programma, mantenendo ognuno la propria identità e il proprio simbolo, permetterebbe a un elettore di fare una valutazione. Il Pd deve continuare a parlare con l’elettorato Cinque Stelle.

Sono possibili accordi di desistenza?

Non sarei d’accordo. Le segreterie nazionali devono lavorare insieme a un programma comune. Ci vuole chiarezza.

Ci serve del tempo, puntiamo ancora a un’Italia diversa

Caro direttore, nonostante la storia di questi ultimi mesi sia stata raccontata come una brutta favola, non una cronaca, possiamo comunque affermare che sia sotto gli occhi di tutti. Si è trattato quasi unicamente di propaganda mainstream contro il movimento, una narrazione che ha determinato la sistematica distorsione della volontà popolare, talk show dopo talk show, falsità dopo falsità.

Siamo abituati a trovarci costantemente dalla parte “sbagliata” di questa nazione, resistendo a ogni genere di attacco con fierezza. Quella parte che vorrebbe il Paese fuori dalle sabbie mobili culturali ed economiche che lo imprigionano da troppo tempo.

Siamo cresciuti con una velocità incredibile, lanciati contro nidi di mitragliatrici mediatiche e continui capovolgimenti di scena, da parte di vecchi parrucconi e starlette.

Il mondo occidentale sta subendo un processo di degenerazione nel quale non è prevista alcuna forma di Europa diversa da una banca.

È il “pensiero unico”, che presenta alla gente sempre e soltanto un parametro vitale alla volta di questo Paese ammalato. È incredibile che le regole del gioco siano stabilite solo e sempre da chi dà le carte, ma è così. E chi dà le carte non cambia mai: sempre il più forte, se sono utilizzati i parametri giusti per rappresentarlo come tale.

Ed ecco quei dotti ragionamenti, pieni di buon senso con il ghigno, talmente sensati da rendere presentabile il paradosso che, se ci mettessimo a costruire delle piramidi, come il Tav, daremmo lavoro alle persone.

Per costruire un buco lunghissimo che non serve adesso (e non è previsto che servirà mai), si muovono in tanti. È un altro Mose, ma ancora più assurdo e costoso, rifletteteci: è questo il percorso che deve fare un Paese indebitato? Un Paese che ha la ricchezza privata più alta? La seconda industria manifatturiera d’Europa… Costruire piramidi?

Persino il ponte sullo Stretto di Messina sarebbe una cosa più utile.

Non siamo riusciti a determinare un’alternativa? Non è bastato il primo tentativo in Italia di analizzarne i costi e i benefici? Mettere in campo la prima legge anticorruzione davvero severa in questo Paese, pensare agli ultimi, appoggiare la Lega su quota 100?

Sugli “alleati di governo” non c’è nulla da dire, hanno semplicemente riempito lo spazio dei timori seminato da decenni di follie. Si comportano come un fiume che riempie un lago, un fenomeno naturale, sempre lo stesso, quando la gente si fa convincere di avere paura. Non importa se il lago tracimerà, nulla importa se tanta gente dà loro fiducia nonostante un rapporto matematico fatti/parole che vuole più zeri dietro alla virgola del peso di una particella subatomica.

Ma la domanda resta: e adesso? Qual è il futuro del movimento? Siamo a una svolta storica di qualche tipo, oppure sarebbe stato sufficiente reperire uno Zingaretti qualsiasi e piazzarlo lì all’ultimo momento prima delle Europee? Offerto come uno straccio per cancellare la memoria degli ultimi anni (basta così poco??) insieme alla ragione che aveva portato molti italiani a scegliere noi. Sceglierci per cominciare a cambiare insieme, invece di inseguire le demenziali conseguenze del triste periodo di alternanza Pd-FI.

Non siamo nati per mettere delle toppe arricchendo appaltatori e sospetti topi notturni. Il nostro futuro è il lavoro che servirà a riparare quello strappo con la nostra storia, l’essere saliti su di un ring dimenticando di mantenere, e rinforzare, il rapporto con chi ci ha proiettato su quel ring.

Soltanto un’Italia diversa, che ricostruisce i suoi fondamentali investendo in infrastrutture e pulizia dei suoi mari, che decide quanta industria e quanto del suo splendore la ricostruiranno, uscirà dal degrado forchettone nel quale si è cacciata. Per fare questo dobbiamo ricominciare dall’inizio, non siamo una di quelle aziende che vi ristruttura il cesso in quattro ore.

Chi si è abituato al retrogusto di armadio vecchio delle poltrone ci resti pure, ma in silenzio. Chi vive e parla deve riprendere da capo la nostra storia. Se non manterremo noi, per primi, la promessa di essere biodegradabili non avremo fatto nessuna differenz(iat)a.

I comizi di Matteo e la maratona dem

Se l’intento era provocatorio, la provocazione è riuscita: il gruppo del Pd al Senato ha realizzato e diffuso un video per denunciare la costante latitanza di Matteo Salvini dal Viminale. Il ministro dell’Interno – ormai è abbastanza noto – ha una certa predilezione per le campagne elettorali: da quando si è insediato è stato protagonista di un numero impressionante di comizi ed eventi politici sul territorio. Il Pd – come abbiamo fatto anche su questo giornale – ha provato a tenere il conto degli spostamenti del “capitano”. Negli ultimi due mesi, dal 7 aprile al 7 giugno, i comizi di Salvini sono stati 123. E dunque il gruppo dei senatori dem ha deciso di realizzare un filmato in cui si tiene traccia di tutti questi spostamenti, montati uno dietro l’altro con in sottofondo il delizioso carosello dell’Intervallo Rai degli anni 60: “7 aprile Verona… 7 aprile Lonigo (Vicenza)… 8 aprile Milano…” e così via. In sovra impressione l’immancabile, giovanile hashtag #maquandolavori? Tutto molto simpatico. Con una piccola obiezione: il video dura 72 minuti e 32 secondi. Altrettanto lungo e forse persino più straniante di un film di David Lynch. Immaginiamo che la lunghezza serva a rendere l’idea di quanto tempo ci voglia per elencare tutte le scampagnate del ministro. Però il dubbio rimane: #machiseloguarda?

Pace fiscale, adesioni per 38 miliardi. Giù il gettito per gli sconti

Circa 1,7 milioni di domande relative a 2,9 milioni di cartelle fiscali per 38,2 miliardi di euro di valore. Sono questi i grandi numeri della cosiddetta “pace fiscale”, che comprende la rottamazione ter (che permette di sanare alcune pendenze a regime agevolato) e il saldo e stralcio (la versione per chi è in difficoltà economica), presentati dal direttore dell’Agenzia delle Entrate, Antonino Maggiore. Non tutto il maxi-importo, però, sarà gettito per lo Stato: dei quasi 8,7 miliardi di euro per il saldo e stralcio e dei 29,5 miliardi per la rottamazione ter si arriva a un importo al netto delle sanzioni di 6,5 miliardi per il saldo e stralcio e di 21,1 miliardi per la rottamazione ter. Ma poi tutto dipenderà dalla regolarità del pagamento delle rate da parte dei contribuenti. Per il saldo e stralcio, considerando che il pagamento previsto è tra il 16 e il 35% si può stimare un incasso finale per lo Stato variabile tra 1,04 e 2,27 miliardi. Per la rottamazione ter il calcolo è più difficile: anche se l’incasso effettivo per il fisco sarà più alto, perché minori sono gli sconti, c’è da valutare il ruolo delle 18 maxi rate spalmate in 5 anni. Intanto un emendamento al dl Crescita prevede la riapertura dei termini con una nuova scadenza fissata al 31 luglio.

Ecco la sicurezza bis: reprimere il dissenso e multare le navi Ong

Il 34 e dispari per cento di Matteo Salvini ottiene il primo risultato: il decreto sicurezza bis, bloccato prima delle Europee, è stato approvato ieri in Consiglio dei ministri, il primo dopo il voto. Il ministro dell’Interno, ovviamente, è superfelice presentando la sua nuova creatura in sala stampa e ne ha ben donde visto che questo decreto riesce ad unire alcune delle sue ossessioni politiche: lotta all’immigrazione fino al limite (o anche più in là) della violazione delle convenzioni internazionali; criminalizzazione del dissenso di piazza fino a raddoppiare le sanzioni del legislatore fascista; totale intangibilità di polizia, carabinieri, eccetera se impegnati in servizio di ordine pubblico.

Il decreto, che passa nella versione già predisposta prima delle Europee, va ora alla firma del capo dello Stato: Sergio Mattarella aveva espresso informalmente più di una perplessità tanto sulla questione migranti che sulle modifiche al codice penale; non si sa se il combinato disposto tra la parziale riscrittura e il balsamo del consenso politico spingeranno il Quirinale a dare il via libera nonostante tutto. Sulla costituzionalità, ha detto il segretario della Lega in conferenza stampa, “siamo assolutamente tranquilli: il testo lo abbiamo visto e rivisto e in parte migliorato, siamo sicuri del fatto che sia rispettoso di qualunque norma vigente in Italia e all’estero”. Gli stessi giuristi del governo non condividono, per così dire, l’ottimismo del vicepremier, ma è difficile dire no al 34%.

Se si guarda la bozza entrata (e uscita senza correzioni) in Consiglio, però, i punti critici sono diversi. Intanto il Viminale sbarca in mare: all’articolo 1, infatti, Salvini si attribuisce – ancorché nell’ultima versione “di concerto” con Difesa e Infrastrutture – la possibilità di vietare a una nave “l’ingresso, il transito o la sosta in acque territoriali italiane”; se quella viola l’ordinanza arriva la multa (da 10mila a 50mila euro per comandante e, se possibile, armatore e proprietario); la seconda volta si passa al sequestro dell’imbarcazione. Non si parla più, come nella prima versione, di “migranti” e “soccorso”, né si pretende la penalità (fino a 5.500 euro) per persona salvata in mare, ma la ratio della norma (rubricata sotto “contrasto all’immigrazione illegale”) è la stessa e ricade nelle critiche dei giuristi di Palazzo Chigi e del ministero della Giustizia: se il fine è evitare che una nave che abbia, come le impone il diritto internazionale, salvato vite al largo poi possa portarle nel porto sicuro più vicino (ancora obbligo derivato dal diritto internazionale) allora è incostituzionale. Senza contare che i confini dei poteri dei vari ministeri coinvolti nel divieto di ingresso (Interno, Difesa e Infrastruttura) non paiono ben definiti. Tradotto: c’è il rischio di continui scontri tra i tre ministri e le rispettive burocrazie.

Quanto all’ordine pubblico, Salvini la mette così: “C’è un capitolo cui tengo particolarmente che inasprisce le sanzioni per chi agisce con caschi, bastoni o mazze contro le forze dell’ordine: non sono le normali manifestazioni pacifiche e non penso che la libertà di pensiero di qualunque italiano passi attraverso strumenti di questo tipo”. Intanto non si capisce quale epidemia di scontri di piazza abbia portato alla “necessità e urgenza” propria di un decreto, ma al di là di questo Salvini ha comunque compiuto il miracolo di scrivere un testo più repressivo della legge Reale e persino del codice Rocco.

In quest’ultima versione, va detto, non è più punito chi si protegge con uno scudo dalle manganellate, però se ci si nasconde il viso dietro un casco o una sciarpa durante un corteo diventa un delitto per cui si rischiano fino a tre anni di galera: se invece uno si travisa col casco fuori da una manifestazione niente delitto, resta la contravvenzione. Poi c’è il nuovo reato di “lancio di cose” durante una protesta – anche qui fino a quattro anni di galera per un reato che esiste solo se commesso in un corteo – e l’inasprimento irragionevole delle pene per violenza, minaccia e pure l’innocua resistenza a pubblico ufficiale, ma anche per chi ostacola o interrompe un pubblico servizio durante un corteo (una carica?) fino all’altro nuovo reato per chi “distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui”. Sapete da domani quanto vale incrinare una vetrina? Cinque anni.

Schermaglie con l’Ue sui conti, Juncker detta la linea: servono impegni sul 2020

La sintesi, brutale, è questa. La Commissione europea è pronta ad accettare che il governo Conte non vari una manovra correttiva per il 2019. Ma ritiene indispensabile che metta per iscritto impegni precisi sul 2020. Insomma conta la “direzione” in cui si porta il bilancio pubblico, coma ha spiegato ieri il presidente dell’esecutivo europeo, Jean Claude Juncker, in un’intervista a Politico.eu rilasciata col classico pugno di ferro in guanto di velluto.

Di questo si discuterà fin da stamattina in una prima riunione sulla prossima manovra a Palazzo Chigi: presenti il premier, i due vice Di Maio e Salvini, il ministro Giovanni Tria e i tecnici del ministero. In sostanza, il tema del contendere lo ha spiegato ieri in audizione in Parlamento proprio il ministro dell’Economia: Tria ritiene che “la riduzione della pressione fiscale è favorevole alla crescita se perseguita salvaguardando la stabilità finanziaria”, la Lega invece è convinta che possa funzionare solo se finanziata in deficit almeno all’inizio (e men che mai alzando l’Iva, come propone invece il ministro). Non sarà una trattativa facile, anche perché quella interna si sviluppa in parallelo con quella esterna che dovrebbe evitare all’Italia la famigerata procedura di infrazione per debito.

Per capire serve un riassunto. Ieri la procedura nei confronti dell’Italia ha fatto un nuovo passo avanti: dopo che la Commissione Ue l’ha definita “giustificata”, si è espresso anche il Comitato economico e finanziario del Consiglio europeo, un organismo tecnico che coadiuva i governi dell’Unione e si è detto d’accordo con la Commissione, ovviamente lasciando aperta la porta a novità in arrivo da Roma.

Il governo italiano, dal canto suo, insiste nella linea che i conti alla fine del 2019 saranno assai migliori di quel che prevede Bruxelles e lo stesso Documento di economia e finanza: tra migliore dinamica delle entrate e minori spese per reddito di cittadinanza e quota 100 il Tesoro il disavanzo quest’anno si attesterà a 2,2-2,1%, ha spiegato ieri Tria alle Camere, un livello che consente anche una riduzione minima anche del cosiddetto deficit strutturale (una perversione europea calcolata sulla base di una cosa detta output gap, la cui validità è contestata ormai praticamente da chiunque). Certo, dice il ministro, in ogni caso “dovremo renderci disponibili a un dialogo serrato e costruttivo che consenta di arrivare a un accordo per evitare la procedura”.

Su questo Tria è in perfetto accordo con Conte: nessuna manovra correttiva (“siamo qui per far crescere il Paese, non per avviarlo su una china recessiva”), ma impegni per il futuro prossimo. Secondo gli sherpa italiani della trattativa, questa non è un’impostazione che Bruxelles rigetterebbe, ma finché quegli impegni sul 2020 e gli anni successivi non saranno formalizzati (e in un modo che piaccia alla Commissione), l’Italia continuerà ad essere messa sotto pressione. Le parole di Juncker a Politico.eu ne sono l’esempio plastico: “L’Italia è un problema serio e rischia di restare in procedura di infrazione per anni; Roma si sta muovendo in una direzione instabile e abbiamo dovuto prendere una decisione in proposito”.

Juncker non è un falco, ma risponde alle preoccupazioni dei governi più rigoristi dell’Ue, che vogliono mettere sotto tutela Salvini e Di Maio sperando nell’aiuto di Conte e Tria, che tratteranno su due tavoli avendo come unico alleato “politico”, ancorché di peso, il Colle. C’è un problema: per funzionare il giochino potrebbe aver bisogno di una spintarella dal famoso spread.

“Non sono il nuovo Monti, ma la situazione è delicata”

Di giorno avverte, ma lunedì notte aveva già alzato la voce. Perché il premier ha guardato dritto Matteo Salvini, quello che dopo aver stravinto il 26 maggio ora vorrebbe dettare lo spartito di governo: “Non devi accostarmi a Mario Monti, non ci provare”. E ha ridato la sua, di rotta: “Non possiamo rischiare la procedura di infrazione, la situazione dei conti è già delicata”. Dentro Palazzo Chigi, circondato dai leghisti Salvini e Giorgetti a cui sorride per cortesia, in un martedì di afa e sospetti il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ripete che lui è pronto a salutare in un amen. Dipenderà solo da parole e opere dei giallo-verdi: “Se un giorno dovessi sentire di non avere piena delega e mandato pieno delle forze politiche ne trarrei immediatamente le conseguenze”.

Vuole sembrare un’ipotesi di scuola ma non può esserlo, da parte del premier che una decina di giorni fa aveva lanciato l’ultimatum ai vicepremier, “basta polemiche o me ne vado”. Lo stesso Conte che lunedì notte, nel vertice con Di Maio e Salvini, ha “preso in mano la situazione”, come raccontano da Palazzo Chigi. Cioè ha messo in chiaro che con Bruxelles non può essere guerra. Il cuore del problema dentro il governo, e per questo è da lì che si è partiti, lunedì sera. Con Conte che ha ribadito la necessità di schivare la procedura d’infrazione, in nome della tenuta sui mercati e dello spread.

E comunque, raccontano, il sospetto del premier e soprattutto del ministro dell’Economia Tria è che il Carroccio abbia quasi voglia di andare allo scontro frontale contro la Ue. Mentre Di Maio, assai fragile dopo il 17 per cento nelle Europee, “non sa bene cosa fare” come sussurra un big dentro Montecitorio. Perché è sospeso tra il desiderio di schivare il corpo a corpo con Bruxelles e l’esigenza di non lasciare a Salvini il ruolo di avversario della Commissione europea, per una questione di consenso. Conte sa dei due ruoli in commedia dei vicepremier. Nella notte dentro Chigi morde innanzitutto il leghista: “Tu e la Lega non potete paragonarmi a Monti, parole come austerità non sono le mie, io sono il premier che ha varato il reddito di cittadinanza e quota 100”. Non è un invito, è molto di più: “Se continuate vi sbugiarderò pubblicamente, parlerò un’altra volta”. Un riferimento all’ultimatum, dritto. Però c’è molto altro, c’è il rimpasto, evocato da Conte: “Se avete sostituzioni da propormi sono qui, parliamone pure”. Ma Di Maio e Salvini non calano le loro carte.

Casomai, il ministro dell’Interno avrebbe fretta di discutere su come rimpiazzare Paolo Savona alle Politiche europee. Però Conte di fretta non ne ha: “Ne riparleremo solo quando avremo evitato la procedura d’infrazione”. Piuttosto, si toccano altri temi. Come la flat tax, totem della Lega su cui il premier e Di Maio nutrono forti dubbi. Ma il 5Stelle non può fare muro adesso. Così in riunione rilancia la necessità di discuterne, e in cambio ottiene il via libera di Salvini sul salario minimo. Per questo ieri in Senato il Carroccio ha ritirato gli emendamenti al disegno di legge sul tema. Nella notte invece Di Maio e Salvini escono assieme da Chigi, e si danno il cinque a favore di cronisti. La foto di due leader che vorrebbero il primato della politica contro gli stop dell’Europa, del Colle e magari di Conte. E certi giudizi aspri soffiati anche dai 5Stelle contro l’avvocato sono stati notati, eccome, dal premier: irritato. Ma non è un asse pieno, no di certo.

Ergo, “Salvini alza troppo l’asticella sull’Europa” accusa un maggiorente del M5S. A Palazzo Chigi si svolge il Consiglio dei ministri, con il ministro dell’Interno che porta a casa il decreto Sicurezza bis. In sala stampa Conte scende assieme a lui e al sottosegretario Giorgetti. E sono tutti e tre a (lieve) disagio. Ma il presidente del Consiglio si preoccupa soprattutto di ribadire che guida lui: “Sono il premier, che delega devo avere per trattare in Europa? Non mi sembra che nessuno abbia messo in dubbio la presidenza del Consiglio”. E Salvini e Giorgetti guardano fisso davanti a loro. Invece il premier promette, anche sul contratto di governo: “Lunedì abbiamo iniziato ricognizione delle cose del contratto e aggiunto qualche altro obiettivo emerso”.

Tradotto: apre a una revisione del patto giallo-verde, come chiedevano i leghisti. In serata, Salvini a Porta a Porta: “Conte rivendica il suo ruolo da premier che nessuno ha mai messo in discussione. Ho il braccialetto di Salvini premier ma sarà per la prossima volta, io non ho fretta…”. E il concetto di fretta è molto relativo.

Fritture alla Berlinguer

Nicola Zingaretti, che ci ostiniamo malgrado tutto a considerare una brava persona, ricorda sul suo blog Enrico Berlinguer a 35 anni dalla morte. E ne ha facoltà: iniziò la sua carriera politica nella Fgci quando il segretario del Pci era Berlinguer, ai cui funerali partecipò “tra fiori e lacrime portando una delle tante corone”. E ora guida il partito che, tra varie peripezie, fusioni e scissioni, discende (anche) dal Pci e prende (anche) una parte dei suoi voti. La figlia Bianca dice di domandarsi spesso cosa direbbe suo padre se fosse vivo (avrebbe 97 anni). E abbiamo come il sospetto che, col Pd, sarebbe tutt’altro che tenero. Difficilmente chi chiamava Craxi “il gangster” e ruppe con i “miglioristi” Napolitano&C. perché volevano l’abbraccio con quel Psi, apprezzerebbe un partito che si ricorda di lui ogni 11 giugno e negli altri 364 giorni dell’anno continua a inseguire il craxismo, cioè il rampantismo, il clientelismo e talvolta il tangentismo. E non solo per colpa di Renzi: l’oscena riabilitazione del gangster risale a D’Alema, Fassino e Veltroni ben prima del figlio di babbo Tiziano.

Ora Zingaretti dice di voler rinnovare il Pd partendo da Berlinguer: “recuperare un patrimonio di serietà, di etica pubblica e privata” e “combattere con ogni forza la battaglia del rigore e dell’intransigenza nella prassi della politica”, partendo dalla celeberrima “intervista di Berlinguer a Scalfari sulla ‘questione morale’’’ del 1981, con una “lotta senza quartiere alle bande, ai clan, agli egoismi e agli interessi particolari”. Forse ricorda poco e male quell’intervista, tanto citata per il titolo quanto dimenticata per i contenuti. Altrimenti sorvolerebbe. Perché, a rileggerla, suona come un durissimo j’accuse ai partiti d’oggi, Pd incluso. Quando Berlinguer diceva che “i partiti non fanno più politica”, ma “sono macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune… Non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un ‘boss’ e dei ‘sotto-boss’”, si riferiva alla Dc e al Psi; ma oggi potrebbe tranquillamente descrivere il Pd. Idem quando aggiungeva che “i partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo”.

E ancora: “Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali. E il risultato è drammatico. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti”. Come se Berlinguer, nel 1981, avesse letto gli atti delle ultime inchieste sulla sanità in Umbria e sugli appalti in Calabria, che vedono indagati l’ormai ex governatrice Pd Catiuscia Marini e il governatore Pd Mario Oliverio, col fior fiore della classe dirigente dem. O le carte dell’indagine di Perugia sui conciliaboli notturni fra i deputati Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri con membri del Csm e capi-corrente togati sul nuovo procuratore di Roma.
Che ha fatto Zingaretti in quei tre casi? In Umbria si è rimesso al buon cuore della Marini, che prima s’è dimessa, poi ha respinto le proprie dimissioni, poi se n’è andata di nascosto quando la frittata era fatta. In Calabria non ha detto una parola, infatti il plurindagato Oliverio e la sua corte sono tutti ai posti di combattimento. Sul Csm, ha convocato Lotti (non Ferri) e ha subito chiuso il caso perché “Lotti mi ha assicurato di non aver fatto nulla di illegale”. E se lo dice lui… Come se quella fosse una faccenda penale (né Lotti né i magistrati suoi interlocutori sono indagati per essersi parlati, ma per quel solo motivo quattro membri del Csm si sono sospesi su richiesta del Quirinale), e non di opportunità politica e di conflitto d’interessi (l’imputato per Consip che discute del neoprocuratore che sosterrà l’accusa contro di lui). In una parola, una “questione morale”, che Berlinguer sapeva distinguere da quella giudiziaria: “La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, denunciarli e metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, con la guerra per bande”. Il Pd non ha un codice etico e un collegio di probiviri per farlo rispettare? Sì, li ha. Che aspetta a deferirvi Lotti e Ferri perché siano espulsi? E che c’entra col sedicente partito di Berlinguer il neosindaco Pd di Capaccio-Paestum, braccio destro del governatore Pd Vincenzo De Luca e re delle fritture di pesce clientelari, indagato per voto di scambio con la camorra e festeggiato domenica notte da un corteo di ambulanze a sirene spiegate di proprietà di un imprenditore appena condannato in Cassazione per estorsione mafiosa? E come spiegherebbe Zingaretti al compagno Enrico l’alleanza in Sicilia con Miccichè, braccio destro di Dell’Utri pregiudicato per mafia? In attesa di tempi (e Pd) migliori, Berlinguer è meglio lasciarlo nella tomba. E sperare che non ci si rivolti troppo.

Gotobeds e amici, l’ambizione nel punk

Nonostante il termine “ambizione”, nella scena punk, sia da sempre un termine ripudiato, assimilato piuttosto a una bestemmia, non c’è dubbio che anche le band che si dilettano nel genere, tentino a modo loro di realizzare il miglior album di sempre. È il caso dei The Gotobeds, gruppo di Pittsburgh, Pennsylvania, giunto alla sua terza prova con Debt Begins at 30, il primo prodotto dalla mitica Sub Pop. Composto da 11 brani che sono un incrocio tra post-punk e indie rock, la particolarità dell’album è che ogni brano vede la partecipazione di ospiti musicisti: in Dross ad esempio c’è la chitarra di Bob Nastanovich dei Pavement; Mike Seamans e la leggenda Bob Weston suonano nella title track del disco, membri dei Protomartyr appaiono su un paio di brani con Joe Casey (Slang Words e On Loan). Un disco valido e molto variegato, forse proibitivo da portare dal vivo, nonostante la band assicuri che non sarà un problema. Per ora il disco è stato presentato solo negli Usa, ma sarebbe un peccato se non uscisse dai patri confini.