Africa Unite, il reggae è un quintetto d’archi

Qui e ora, appiattiti sulla linea del presente ingolfato d’informazioni, di slogan, di nuovi suoni da gettare in pasto alla (spesso) pessima dieta digitale. In Tempo Reale (Self distribuzione) è il nuovo disco degli Africa Unite che non faticano a definire “un segnale”. La dimostrazione di una volontà di rottura rispetto alla frenesia bulimica che caratterizza le uscite discografiche: “Tutto corre velocissimo, sembra che se non fai un singolo al mese verrai fagocitato. La musica passa sempre di più in secondo piano rispetto al personaggio che cresce online e ci sembra che sia sempre un po’ vuota. A noi questo non appartiene molto”, dice Bunna, anima del gruppo con Madaski dal 1981. E infatti, non ci pensano nemmeno. Il nuovo disco non solo si è preso il suo tempo, ma ha già viaggiato molto. Ha fatto la spola tra loro e gli Architorti, quintetto d’archi già incontrato sulla strada – l’ultima occasione nel 2018 nello spettacolo multimediale “Offline”, con la compagnia di danza MMCDC – che ha trascinato gli storici fautori del reggae italiano in territori sonori diversi. A tratti più cupi, se vogliamo, coraggiosi. Senza eufemismi, come i testi. “[…] il capitano di felpe, stilista nemico giurato di ogni scafista slogan precotti a tutta intervista finita la pacchia è l’Impero del Nord ogni straniero sarà un terrorista” recita un brano. E nell’incetta di slogan veloci, quante assonanze si trovano con il mondo della musica di cui Bunna parlava all’inizio, lo stesso fatto di “personaggi che internet fabbrica con disinvoltura” citato dal giornalista Marco Molendini nel suo testo di addio al Messaggero.

“È un tipo di superficialità pericolosa su tutti i fronti. Sembra che se non ‘spacchi’, non sei nessuno e che tu debba sempre vivere sulla cima della piramide”. Servirebbero meno picchi d’istanti e più tempo per l’approfondimento, la divulgazione, la cultura, prosegue Bunna. Se dovesse iniziare fornendo consigli per l’ascolto a un ragazzo, direbbe: “Marley, Fossati e Caparezza. Tutti, ognuno con le sue peculiarità, per la grande bravura a far passare dei messaggi importanti”.

Fulminacci, così “sfigato” da essere sorprendente

Era il ragazzino del primo banco. “Ma non un secchione”, precisa lui. “Andavo così così in quasi tutte le materie, ero geneticamente negato per la matematica. L’unico voto alto che volevo prendere era quello in condotta. Me ne stavo buono e i professori si impietosivano: è uno sfigato, aiutiamolo. Mi regalavano sufficienze”. Filippo si è autodenunciato in una canzone come il più “noioso” della classe, e se davvero è andata così, gli ex compagni resteranno a bocca aperta ascoltando il suo album d’esordio, La vita veramente. Se c’è un ventenne su cui scommettere per il futuro della canzone d’autore è proprio Filippo, cognome Uttinacci, in arte semplicemente Fulminacci, che a pronunciarlo sembra un fumetto d’antan. Brillante, sorprendente, acuto: i suoi pezzi ricordano il Silvestri dei tempi migliori, o un ispirato Jovanotti. “Maestri. Da adolescente De Gregori mi ha aiutato a superare i momenti più neri, e da poco ho scoperto la genialità di Battisti. Poi so tutto dei Beatles: fatico a credere che Paul McCartney sia un essere umano e non un concetto metafisico”. Fulminacci è alle prese con il primo tour importante: sabato ha regalato uno speciale set acustico al Comacchio Beach Festival. È uno degli emergenti di punta della scena indie-pop capitolina: “Né Roma nord né sud: vivo a Casal Lumbroso, uscita 33 del Raccordo, tra l’Aurelia e il mare. Lì non c’è degrado ma neppure la Grande Bellezza. Però andavo al liceo in centro a Prati, in motorino. E per me la città era una scoperta quotidiana: Roma rinasceva ogni mattina sotto i miei occhi e mi chiedevo se chi abitava lì se ne rendesse conto”. Nell’album c’è un pezzo irresistibile, “Borghese in borghese”, dove Fulminacci spara un’impietosa autoanalisi mentre aspetta “un patto con l’Atac” e si dichiara “schiavo dell’Ama”. “Quando compongo, ogni parola deve avere una collocazione esatta, un peso. Mi interrogo, e scopro fino a dove capisco me stesso. Soffro che in questo pianeta parliamo troppe lingue diverse: una Babele in cui mi perdo la ricchezza dei linguaggi altrui, e non riesco a trasmettere le sfumature del mio umorismo. Questo mi rende maledettamente insicuro. Quanto alle canzoni, ne cestino in continuazione. La prima l’ho scritta a 16 anni, faceva schifo per quanto era brutta. Forse era pure un plagio. Parlava di un bambino e del rapporto con i genitori”. Autobiografia in-progress? “I miei non sono stronzi. Anzi, sono i miei primi ascoltatori. Mi approvarono la prima cosa buona, ‘Una sera’, da lì capii che potevo andare avanti. Mio padre mi parla dei tempi in cui aveva la mia età e con la comitiva si chiudevano in una stanza ad ascoltare il nuovo album del gruppo preferito. E io provo un dolore terribile, la malinconia per qualcosa che non ho vissuto: la condivisione. Oggi siamo tutti autoalimentati nei labirinti della tecnologia. Dovremmo fare un passo indietro: vale più una Polaroid iperrealista appesa in camera e mostrata ai tuoi veri amici che non mille selfie su Instagram. ”.

Donne sì o no? Un dibattito che riguarda solo il pallone

Voi da che parte state? Siete iscritti al club di chi delira per i Mondiali di calcio femminile oppure al partito di chi i Mondiali-donne, e il calcio femminile tout court, li schifa? Calciatrici sì-calciatrici no è diventato il gioco dell’estate, una piccola ma contagiosa guerra di religione. Da Aosta a Brindisi, da Trieste a Trapani, da una parte c’è chi Barbara Bonansea se la sposerebbe, dall’altra chi la invita a tornare ai fornelli. A noi però una domanda sorge spontanea: perché queste donne no e altre, sempre sportive, sempre italiane, sì? C’è forse qualcuno che quando Sara Simeoni, il 4 agosto 1978, stabilì a Brescia il record del mondo di salto in alto femminile con 2,01, o quando vinse l’oro a Mosca nell’80, storse il naso perchè i maschi saltavano più di 2,01? C’è qualcuno che quando Federica Pellegrini vinse un oro ai Giochi e 5 ori ai Mondiali fece spallucce perché sempre di donna si trattava? E c’è qualcuno che quando Valentina Vezzali nel fioretto faceva collezione di ori olimpici (6), ori mondiali (16) e ori europei (13) scuoteva la testa, trattandosi di una donna? E sia chiaro, siamo noi i primi a dirlo: se oggi la Simeoni sfidasse Tamberi perderebbe; se la Pellegrini sfidasse Brembilla sui 200 o Detti sui 400 soccomberebbe; e se la Vezzali sfidasse Garozzo o Cassarà non prevarrebbe; ma questo autorizza a dire che i trionfi di queste donne furono poca cosa?

Noi non crediamo. E anche se non sarà facile, per Bonansea & c., ripetere le gesta di Tardelli, Bruno Conti e Paolo Rossi al Mundial 82, e pur sapendo che contro i boys di Mancini anche le azzurre perderebbero 3-0, ci piace ricordare che non c’è, oggi, un saltatore più famoso e amato di Sara Simeoni, un fiorettista più famoso e amato di Valentina Vezzali, un nuotatore più famoso e amato di Federica Pellegrini. Quindi, cara Bonansea e care azzurre del pallone, tenete duro. Magari non toccherà a voi, ma un giorno, chissà, potrebbe nascere a Voghera, o a Ercolano, o ad Agrigento una Maradona in gonnella. E non succede: ma se succede…

La chiamano BB, è come CR7: un “caratterino” da bomber

Ha battuto Samantha Kerr, capitana dell’Australia, star del football femminile a cui in patria hanno dedicato persino un documentario. In un certo senso ha battuto anche Cristiano Ronaldo, il suo idolo che fino a qualche anno fa sognava in tv e con cui ora condivide la maglia della Juve: la vittoria dell’Italdonne (2-1 contro l’Australia) ha fatto più ascolti del Portogallo di CR7, vincitore in finale di Nations League contro l’Olanda. Qualcosa di impensabile fino a solo pochi mesi fa. Barbara Bonansea, ala azzurra, doppietta all’esordio mondiale, è la faccia da copertina della nazionale di calcio femminile che vince e convince.

Da Pinerolo, una cinquantina di chilometri da Torino, al vertice del calcio mondiale la strada non è così breve. Soprattutto se sei donna, nello sport maschio per eccellenza: la prima volta tra i pulcini del Bricherasio, insieme al fratello più grande, scoppiò in lacrime; era l’unica bimba. L’allenatore la tranquillizzò e la accompagnò in campo: lei non ne è più uscita, fino ad arrivare alla partita di domenica. L’Italia mancava dai Mondiali da vent’anni: in mezzo ci sono stati due decenni piuttosto pesanti per il nostro calcio rosa, fatti di anonimato all’estero e totale disinteresse in patria. Ora le cose stanno cambiando. E forse non è un caso che due gol così importanti li abbia segnati proprio lei, che pur essendo una stella ha dovuto fare tanta gavetta e un po’ continua a farla. Classe ’91, ambidestra, ala veloce con dribbling e tecnica sopraffina, da almeno 6-7 anni è considerata uno dei migliori talenti del nostro movimento. In nazionale ha esordito nel 2012, a soli 21 anni. A 22, al suo primo anno in una big, il Brescia, segnava 22 gol in Serie A. Ha vinto 4 scudetti, due con le Rondinelle e altri due alla Juventus, la squadra per cui gioca oggi. Fuori dal campo però resta una ragazza comune, anche perché nel calcio femminile pure i top player guadagnano 30 mila euro (al massimo: c’è il tetto stabilito dalla Figc). Chi la conosce, come ad esempio la ct Milena Bertolini, che l’ha soprannominata “freccia azzurra”, la descrive come una ragazza solare, lunatica, scontrosa e disponibile al contempo. “A tratti un’ira di Dio, a tratti tenerissima”. Un bel caratterino, insomma: basti dire che, nata da papà granata e cresciuta nelle giovanili del Toro, ha sempre tifato Juve e ha finito pure per indossarne la maglia. Per farlo, ha rifiutato l’offerta del Lione, uno dei migliori club europei. A scuola andava bene, tranne qualche nota di troppo: dopo il diploma di liceo scientifico si è iscritta all’università ma non è ancora riuscita a laurearsi in Economia. È una “casinista”, sempre impegnata però, in prima fila per i diritti delle donne e del suo movimento. Su Instagram ha 120 mila follower, cresciuti in maniera esponenziale dopo la doppietta mondiale. Sui suoi social c’è tanto pallone, qualche sponsor (del resto far quadrare i conti è una delle priorità del calcio femminile), poca vita privata. Quella la tiene lontana da occhi indiscreti: le amiche, il fidanzato, la famiglia, una nipotina a cui è legatissima e a cui ha fatto da madrina, i genitori che l’hanno sempre incoraggiata e oggi la seguono fino in Francia. “Se non avessi giocato a pallone avrei fatto la ballerina”, racconta.

Grazie alla sua doppietta contro l’Australia, l’Italia ha ottime chance di superare il girone: la nazionale giocherà venerdì (ore 18) contro la Giamaica, in caso di vittoria si qualifica agli ottavi. Il giorno prima, il 13 giugno, Barbara festeggerà il suo 28esimo compleanno, tanti passati sul campo. “Giocare a calcio è il mio hobby e vorrei che al più presto possa diventare il mio lavoro”, diceva qualche anno fa. Adesso con le altre azzurre sta provando a coronare il suo sogno.

Revenge porn, quel tema che ha salvato Tamara

Da ieri in libreria “Musica sull’abisso”, il nuovo romanzo di Marilù Oliva. Abbiamo chiesto all’autrice – che è anche insegnante di lettere – di raccontarci cosa accade nelle scuole a proposito della “Maladolescenza” e del revenge porn.

 

“Prof, stavolta mi uccido. Non so perché le scrivo queste cose. Lei non mi ha mai ispirato fiducia. Tra una settimana correggerà i compiti, come fa di solito: ma sarà troppo tardi. Le scrivo quello che ho intenzione di fare così la gente saprà perché Tamara G. si è tagliata la gola. Racconta il tuo sabato sera, ci ha chiesto poco fa nella verifica di italiano, come se fossimo dei bambocci delle medie. Davvero vuole sapere il sabato sera di una quindicenne? Il mio ultimo è stato quello che ha segnato la mia condanna a morte, quattro giorni fa. Era il compleanno di Igor, il mio amico del cuore, e ha fatto una megafesta nella sua villa. Ho bevuto fino allo sballo, poi non ricordo più niente. Quello che è successo dopo me lo ha mostrato un video diffuso sui social: c’ero io che giravo nuda per la casa. Igor e tre suoi amici ne hanno approfittato. Mi hanno usata come una bambola gonfiabile. Hanno fatto sesso turnandosi, uno mi scopava, gli altri ridevano o filmavano. Poi hanno caricato il video sui social e i commenti dicevano che me lo sono meritato, che sono una puttana, perché se bevo come una spugna poi cos’altro posso aspettarmi? È da quattro giorni che non ho pace e ho provato solo un po’ di sollievo da stamattina, quando mi ha sfiorato prepotente il pensiero della morte. Sarà velocissimo. Ho cercato in casa il coltello più affilato. Non ce la faccio più a stare in questa vita, prof. Forse hanno ragione loro e quello che non sopporto non è lo squallore degli altri, ma il marciume che sento dentro di me”.

La professoressa Masi avrebbe letto quel testo dopo una settimana, come suo solito, se il caso non avesse voluto che in aula insegnanti le cadesse il plico delle verifiche. Mentre cercava di riordinarle, le cascò l’occhio sul tema di Tamara e bastò la prima frase per farglielo leggere d’un fiato, col cuore in gola. Cosa fare, avvisare subito il dirigente, contattare la famiglia? È difficile far capire all’esterno che in questo lavoro, a volte, non c’è tempo per le formalità. Si precipitò in classe in pochi secondi. Era l’ora successiva alla sua, quella di chimica. Aprì la porta come una pazza e chiese dell’allieva. Il collega, stupito, la informò che Tamara aveva chiesto il permesso di uscire. La prof corse lungo l’interminabile corridoio che la separava dal bagno delle ragazze, mai come in quel momento la scuola le sembrò immensa. Arrivò mentre uscivano due compagne di prima e la Masi chiamò la sua studentessa, ma invano. Avanzò a passi lenti, controllando dentro i vani aperti.

Tutto deserto.

Fino all’ultima apertura.

Tamara era lì, contro il muro.

Aveva già il coltello in mano e guardava la docente, gli occhi sciolti tra disperazione e paura.

“Che cazzo ci fa qui, prof. Vada via” e minacciò puntandoselo alla gola.

“Dammi quel coltello, Tamara. Stai facendo una sciocchezza”.

“Non è mia madre, lei”.

“Siamo tutti un po’ madri, quando ci mettiamo nei panni degli altri. Metti giù il coltello”.

“Non c’è lei al mio posto. A sentire gli insulti”.

“Tu non hai fatto niente di male. Non sei sporca. Sono loro che…”.

“Queste sono le sue frasi retoriche, prof. Ma non funzionano con me. Che ne sa di come ci si sente?”.

“Lo so bene, invece. Hai mai sentito parlare di Lucy Zocca?”.

“Tamara allentò la presa impercettibilmente”.

“Quella ragazza di Imola che si è buttata dal quarto piano, sette anni fa?”.

Gli occhi della prof si fecero lucidi: “Esatto, per una situazione simile alla tua. Filmata a tradimento e il video diffuso. Era la figlia di una mia amica. Ora sua madre è un simulacro senza più lacrime. Sai cosa le direbbe sua madre, se potesse? Che se ne deve fregare del giudizio degli altri. Che quel video non vale niente, le ferite si rimarginano. Tutte. La abbraccerebbe stretta stretta e le direbbe che c’è un rimedio a tutto. Ma non può farlo…”.

Le lacrime scendevano silenziose sul volto di entrambe, mentre Tamara, senza volerlo, faceva scivolare la mano che impugnava l’arma. Se ne accorse la prof. Masi e fu un attimo. Si buttò su di lei e, con una potenza che non credeva di possedere, le strappò il coltello di mano e lo gettò lontano. Poi abbracciò fortissimo la ragazza, mentre le loro lacrime si mischiarono.

Era solo l’inizio, la donna lo sapeva.

Sarebbe cominciato un percorso lungo e difficile, che avrebbe coinvolto tutti. La famiglia, la scuola, i bulli. Ma Tamara non avrebbe più desiderato il baratro. Perché non sarebbe stata mai più sola.

Tory, i 10 candidati-eredi della grana Brexit

In palio c’è una delle peggiori rogne della politica mondiale: ereditare il lavoro di Theresa May, ricostruire il partito conservatore ridotto ai minimi termini e uscire vivi dallo stallo della Brexit. Gli aspiranti sono 10 dopo il ritiro all’ultimo di Sam Gyimah, unico favorevole a un referendum bis: i 313 parlamentari conservatori ne selezioneranno due, fra cui i 124 mila iscritti al partito sceglieranno il nuovo leader dei Tories e nuovo primo ministro del Regno Unito. Ecco chi sono e cosa vogliono.

Boris Johnson. Il superfavorito. Metà del partito lo considera un buffone, ma potrebbe turarsi il naso perché gli iscritti lo amano, e Dio sa se i Conservatori hanno bisogno di un po’ di popolarità elettorale.

Linea dura su Brexit: vuole riaprire i negoziati con Bruxelles, e se l’Ue non cede, si dice pronto a uscire senza accordo e senza pagare i 39 miliardi concordati come prezzo del divorzio. Ha anche proposto di tagliare le tasse per i redditi fino a 80 mila sterline – non proprio Robin Hood. Quotazione: 4/6.

Michael Gove: politicamente il più abile, apprezzato ministro dell’Ambiente e Brexiter dialogante, ha aperto a una ulteriore estensione della scadenza per l’uscita dall’Ue. In buona posizione fino al weekend, quando si è scoperto che ha fatto abbondante uso di cocaina 20 anni fa, salvo poi fare il Solone contro l’uso di droghe pesanti. Azzoppato dall’ipocrisia, è precipitato al 16/1.

Jeremy Hunt: odiato ex ministro della Salute e oggi rispettato ministro degli Esteri, figlio di ammiraglio e gaffeur seriale, moderato, ha beneficiato della caduta di Gove ed è la vera alternativa a Johnson. Pro Brexit ma ha dichiarato che il “no deal” sarebbe il suicidio dei conservatori. 7/2

Dominic Raab. Ex ministro per Brexit, si è dimesso in dissenso con l’accordo che aveva negoziato e firmato. Bava alla bocca. Brexiter senza se e senza ma, è per rinegoziare o uscire senza accordo, e disposto a sospendere il parlamento se prova a fermarlo. Un po’ troppo estremista. 25/1

Sajid Javid: ministro degli interni durissimo sull’immigrazione malgrado sia figlio di un autista d’autobus pachistano. Falco brexiter disposto all’uscita senza accordo, ma ha condannato l’idea di sospendere il parlamento. Ha l’appoggio della potente leader dei conservatori scozzesi e potrebbe sorprendere. Per ora è quotato 20/1

Andrea Leasdom: delle 2 donne in gara – l’altra è la ultra-Brexiter Esther McVey – è l’unica con qualche reale chance. Leaver, è stata l’avversaria di Theresa May nel 2016, da lei nominata Leader della House of Commons. Influente, esperta, moderata. Ha messo di aver fumato delle canne all’università, ma è molto pentita. 8/1

Rory Stewart. L’outsider. Cosmopolita, autore di un best-seller sulla sua esperienza di viaggio in solitaria in Afghanistan, oggi Sottosegretario per lo Sviluppo internazionale. Unica speranza dei Remainer, vuole una soft Brexit ed esclude il no deal. 33/1, ma si sta facendo notare.

Matt Hancock: giovane e dinamico Ministro della salute, moderato e realista su Brexit. Nessuna chance ma ha costruito un profilo di competenza che può valergli una promozione.

Mark Harper è il milite ignoto. Mistero sui motivi della sua candidatura. Chance di vittoria: invisibili.

Esther McVey: 51 anni, ministro del Lavoro. Sostiene la necessità di uscire dall’Ue senza accordo.

“Ho dubbi su Lula e i suoi vantaggi grazie a Petrobras”

“Diranno che lo stiamo accusando seguendo le notizie pubblicate sui giornali e con fragili indizi… quindi deve essere tutto ben collegato. Ho anche dei dubbi sulla connessione tra Petrobras e il suo arricchimento e, dopo che me ne hanno parlato, ho paura anche della storia dell’appartamento… Sono punti su cui dobbiamo avere risposte certe”.

L’inquietante messaggio è stato scritto il 9 settembre 2016 da Deltan Dallagnol, attuale coordinatore dell’inchiesta brasiliana Lava Jato a un gruppo social battezzato gli “Incediari Roj”. Nel messaggio, Dallagnol, ex braccio destro di Sergio Moro – attuale ministro della giustizia del governo del presidente Jair Bolsonaro – mostrava i suoi dubbi dell’esistenza di prove certe contro l’ex presidente Inacio Lula da Silva, accusato di avere ricevuto un appartamento come tangente dall’impresa Oas. Il messaggio è uno dei tanti pubblicati domenica dal noto sito d’inchieste The Intercept, che testimoniano gli scambi fra Dallagnol e il giudice Moro che, nel 2016, coordinava la Lava Jato, l’inchiesta per cui l’ex presidente Lula sconta dal 2018 una condanna di 9 anni per corruzione e riciclaggio. The Intercept – il cui direttore in Brasile è Glenn Greenwald, che aiutò Edward Snowden a pubblicare i segreti della Nsa, nel 2013 – ha reso noti gli scambi fra il 2015 e il 2018 ricevuti da fonte anonima, che dimostrerebbero che Lava Jato è stata diretta per danneggiare il Partito dei Lavoratori (Pt) e compromettere la vittoria dell’ex presidente Lula. L’inchiesta sarebbe stata usata come leva per sostenere anche l’impeachment della presidente Dilma Rousseff. Lava Jato inizia nel 2014, quando il fondatore di Wikileaks rivela al mondo che l’ex presidente Rousseff e i suoi uomini, compresi quelli di Petrobras, erano spiati dall’agenzia di intelligence Usa Nsa, con gli americani interessati al giacimento offshore brasiliano del Presal. “Il reportage di The Intercept conferma ciò che abbiamo sempre sostenuto: non c’è nulla di apolitico nell’azione di Moro e Dallagnol. È una cospirazione contro Lula. La domanda da farsi ora se l’hanno fatto per ideologia o al servizio di qualcuno” ha affermato il leader dem Movimento Sem Terra, João Pedro Stedile. Moro, da parte sua, ha negato “l’anormalità dei messaggi pubblicati” e “qualsiasi orientamento delle attività dei magistrati”.

Il reportage esce alcuni giorni dopo che la difesa di Lula ha denunciato l’esistenza di referti della Lava Jato realizzati dalla Polizia Federale a partire da intercettazioni del rappresentante legale dell’ex presidente. È proprio sulla base delle 14 ore di conversazione spiate della Lava Jato che la difesa di Lula vuole chiedere al tribunale Supremo l’annullamento della condanna. Secondo la stampa brasiliana a settembre Lula potrebbe essere trasferito ai domiciliari. I figli del presidente brasiliano Bolsonaro – uno senatore, l’altro deputato – hanno denunciato l’esistenza di “un’altra tappa della guerra” contro le inchieste che hanno smantellato reti di corruzione politica. Difficilmente il reportage avrà conseguenze sul governo o sul presidente che da diverso tempo attacca il ministro della Giustizia visto come un rivale alle elezioni del 2022.

Elezioni, vince Tokayev, “uomo ombra” di Nazarbayev

Un risultato nel segno della continuità: col 70,76% dei voti, Kassym-Jomart Tokayev è stato eletto presidente, successore di Nursultan Nazarbayev. Esito prevedibile ma molto contestato, per un cambio al vertice dopo quasi 30 anni, in un Paese “democratico” che però non ammette il pubblico dissenso: sono 500 i manifestanti arrestati. Tokayev, 66 anni, è il pupillo dell’ex presidente, di cui intende continuare politiche e alleanze. Fra i primi a congratularsi, Vladimir Putin, a cui Tokayev avrebbe già promesso maggiore impegno nella cooperazione con Mosca. L’elezione arriva dopo le dimissioni di Nazarbayev, 78 anni, che a marzo ha lasciato la carica, pur rimanendo leader del partito di maggioranza Nur Otan: scelta che, a detta degli analisti, non gli impedirà di muovere i fili della politica kazaka; forse foriera dell’ascesa di sua figlia, Dariga Nazarbayeva. A bocciare la regolarità delle elezioni è l’Osce, presente con 300 osservatori. “Le questioni procedurali non hanno sollevato alcun problema nel giorno delle elezioni”, ma ci sarebbero “irregolarità significative” nel conteggio dei voti, e diverse “violazioni delle libertà fondamentali e pressione sull’opinione pubblica”. Come nel 2005, quando Nazarbaev vinse col 91,15%, e nel 2015 in cui collezionò il 97,75%.

L’aspetto più grave è però il trattamento e l’incarcerazione di circa 500 oppositori che manifestavano pacificamente; bloccati e trascinati via dagli agenti in tenuta anti-sommossa. “Alcuni nostri concittadini sono scesi nelle strade di Almaty e della capitale per esprimere il loro punto di vista. La manifestazione del libero pensiero è presente in Kazakistan – ha commentato Tokayev – purtroppo però sono stati istigati a intraprendere azioni illegali, hanno messo in pericolo la sicurezza di altri cittadini”. Il neo eletto ha quindi sminuito le critiche dell’Osce, dicendo di non temere giudizi esterni.

In nome di “Ivan il giusto” i russi sfidano il Cremlino

“Noi siamo Ivan Golunov”. C’è scritto a caratteri cubitali sulle prime pagine identiche dei tre quotidiani indipendenti di Mosca: RBK, Kommersant, Vedomosti. Anche Novaya Gazeta si schiera con Ivan il giusto, il giornalista arrestato che ha risvegliato la coscienza sopita di Mosca. Già al mattino viene esposto un cartello in molte edicole russe: le copie dei tre quotidiani uze net, sono già finite. Ora su Internet costano già 3.000 rubli.

Il coraggio contro la paura: sabato scorso una folla di cittadini spontaneamente ha cominciato a radunarsi intorno al tribunale Nikulinsky per urlare Svabodu Ivanu, libertà per Ivan. In aula veniva formalmente accusato di traffico di droga – pena prevista 20 anni di carcere, in base all’articolo 228 – il reporter investigativo russo Ivan Galunov. Al giornalista, volto rigato di lacrime dietro le sbarre della gabbia del tribunale, i colleghi urlavano derzhis, sii forte, resisti, tutti sono con te.

Alle spalle Ivan ha centinaia di inchieste pubblicate sulla testata Meduza, riguardanti corruzione e proprietà acquisite illegalmente nella Capitale russa, un giro a cui non si sottraggono esponenti delle forze dell’ordine. Ad arrestare Golunov sono stati gli agenti del colonnello Andrey Shchirov, riferisce l’ong Transparency International. Shchirov possiede terreni del valore di 70 milioni di rubli, eppure ne guadagna solo 800 mila l’anno. Il giornalista, pestato dalle forze dell’ordine che hanno rifiutato di sottoporlo ai test anti-droga quando lo hanno preso in custodia, è stato anche ricoverato in ospedale per le percosse, dice il suo avvocato Andrey Dzulay. Fino al 7 agosto rimarrà agli arresti domiciliari perché “vittima di una fabrikazia”. Mentre il canale statale Rossia24 trasmetteva con la sua vulgata pigra la versione della polizia, facendo sventolare davanti alle telecamere i presunti sacchetti di cocaina trovati nell’appartamento del giornalista, ieri pochi ascoltavano la melassa della propaganda. I messaggi sui profili Telegram raccontavano cosa stava succedendo davvero nei parchi, per strada, negli uffici di Mosca, con una raffica di tweet e video di giornalisti e redattori, perché “oggi tocca a Ivan, ma domani a te”. Il quotidiano Rbk va oltre: si prepara a contestare in tribunale il gigante mediatico del Cremlino, l’agenzia di stampa Ria, che sul delo Golunov, il caso di Ivan, non fa che intorbidire le notizie. Dopo la muraglia solidale dei mass media, perentoria la reazione della società civile. A Mosca è il momento in cui è impossibile rimanere zitti, senza che la coscienza si spezzi per sempre.

La prima a schierarsi è l’ex politica Ksenia Sobchak: “Ivan non ha niente a che fare con la droga”. Una petizione online per la liberazione di Galunov viene firmata da 150 mila persone in poche ore. I russi continuano a fotografarsi davanti alla sede del ministero dell’Interno esibendo cartelli con su scritto: “vergogna” o “narkomani, drogati siete voi”. Sfregio alla verità e spregio della paura: i moscoviti si scattano selfie accanto alle sedi della polizia con la scritta: “Il mio nome è Ivan Golunov, sono un giornalista, arrestate anche me”, nelle metropolitane oppure con lo sfondo rosso delle mura del Cremlino.

Se l’FSB confidava nell’immobilità rassegnata della società, ha dovuto ricredersi quando è rimasta impallinata dalle conseguenze digitali inattese provocate dall’arresto ingiusto. Perfino Putin è stato costretto a esprimersi con il suo portavoce Dimitry Peskov per tamponare la voragine della protesta: “È una vicenda che solleva domande, errori possibili nel caso Golunov”.

“Ormai si tratta della libertà di ognuno di noi” dicono attori e cantanti russi, compresi quelli leggendari dei gruppi Machina Vremenie Ddt. Si combatte dentro e fuori dal web, dal digitale e reale: dopo i commenti che continuano a moltiplicarsi, l’organizzazione di un corteo previsto per domani. Rimane incertezza sul futuro di Golunov, non è detto che ci sarà giustizia, ma nella Mosca dove fino a ieri c’era silenzio, urlare oggi è già vittoria.

Folena: “La Rai evitò la diffusione di quel filmato sconvolgente”

Pietro Folena è stato dirigente e parlamentare del Pci e dei partiti che ne hanno raccolto l’eredità. Su Facebook ha ricordato l’ultimo comizio di Enrico Berlinguer a Padova (l’aneddoto è contenuto anche nel suo libro I ragazzi di Berlinguer). “Per anni mi ero rifiutato di raccontarlo, quel giorno. Mi sembrava una cosa di cattivo gusto. E soprattutto (…) avevo sognato troppe volte il rantolo del coma, l’uomo moribondo sulla lettiga (…). Quelle immagini del malore durante il comizio erano il frutto totalmente involontario e inaspettato di un primo tentativo (…) di modernizzare il comizio, di farne un evento spettacolare. E così avevamo noleggiato un sistema di riprese e di videoproiezione da un privato, che aveva fornito anche l’operatore. Dopo il malore (…) ci tornò un po’ tardivamente in mente – a noi che stando sul palco dietro a Berlinguer non avevamo visto la diretta della sofferenza sul maxi-schermo – che esisteva una cassetta. Cercammo l’operatore. Era scomparso. La cassetta stava per finire sul mercato. Qualche ora dopo quelle immagini potevano già essere sui teleschermi di mezzo mondo. Tramite la Direzione del Pci facemmo intervenire la Rai, che si assicurò i diritti di quelle sconvolgenti riprese”.