“Proteste contro i mini-Bot solo perché ora li vuole la Lega”

LA BUGIA DEL GIORNO
Uscita dall’euro?. Nessuno si scandalizzava per i mini-Bot quando a proporli erano forze politiche diverse dalla Lega
Massimiliano Fedriga

 

Perché tanta polemica sui mini-Bot? “Già erano state fatte proposte analoghe in passato da altre forze politiche e nessuno si è scandalizzato oggi che lo facciamo noi c’è una reazione scomposta”, dice il governatore del Friuli-Venezia Giulia, il leghista Massimiliano Fedriga. Ma non è vero. Sia Corrado Passera, ministro del governo Monti nel 2012, che Pier Luigi Bersani, candidato premier del centrosinistra nel 2013, hanno proposto di usare i titoli di Stato per pagare gli arretrati della Pubblica amministrazione, ma in modo completamente diverso dalla Lega. Passera e Bersani peroravano una emissione straordinaria di debito pubblico che permettesse allo Stato di raccogliere i circa 50 miliardi necessari per pagare poi (in euro, non in titoli di Stato) i creditori della Pubblica amministrazione. L’operazione avrebbe trasformato debiti commerciali in debito pubblico, aumentando la trasparenza e immettendo denaro in circolo: per questo sia Passera che Bersani auspicavano che una emissione ad hoc di titoli non venisse conteggiata nei parametri europei di bilancio e non fosse percepita dai mercati come un normale aumento di debito dovuto a conti fuori controllo.

La Lega – nel contratto di governo e nella mozione approvata il 28 maggio – spinge invece per dare ai creditori titoli di Stato di piccolo taglio invece che normali euro. Una soluzione anti-economica (molte piccole emissioni costano più che una unica di importo elevato) che si giustifica solo con il progetto di far circolare questi mini-Bot nell’economia come una valuta parallela. Anche se poi bisognerebbe rendere obbligatorio accettarla in pagamento, altrimenti tutti continuerebbero a chiedere euro. A che serve? Non c’è alcuna razionalità economica se non avere una moneta alternativa pronta che permetta di evitare crisi di liquidità se l’Italia dovesse uscire dall’euro all’improvviso, con i conseguenti blocchi al prelievo in banca.

“Caro compagno”, l’anima di Berlinguer in una lettera

Sostiene il compagno Sergio Fazi che Enrico Berlinguer “l’hanno fatto morì accorato”, col cuore gonfio di amarezza, “per colpa della questione morale”. Sostiene Sergio che il segretario del Pci era amato dalla gente, ma nel partito c’erano troppi dirigenti con un’idea della politica meschina, lontana dalla sua (Sergio fa i nomi, ma questa è un’altra storia).

Berlinguer è morto esattamente 35 anni fa, l’11 giugno 1984: si è spento a Padova quattro giorni dopo l’ultimo comizio, quando un malore lo colse sul palco e lo costrinse a uno sforzo disperato e struggente per arrivare alla fine del discorso. Bisogna rivedere quel filmato: la figura austera, il linguaggio rigoroso e complesso. Sembrano passati due secoli, più che 35 anni.

Eppure quella figura rimane. “Berlinguer ti voglio bene” è il titolo di un film di Giuseppe Bertolucci con Roberto Benigni ma pure, ancora, un sentimento collettivo. Per capire come sia possibile questa memoria ostinata e questo affetto quasi irrazionale per un uomo di partito, bisogna parlare con le persone che riannodano quotidianamente i fili di quei ricordi.

Come Sergio Fazi, appunto. Classe 1946, romano dell’Appio Latino, tessera del Pci dal 1962, segretario di circolo per tanti anni e figura di riferimento nel quartiere da sempre. Indossa una maglietta rossa, siede su una panchina e stringe in mano un foglio, la fotocopia di un documento dattiloscritto. “Ora vi spiego chi era Berliguer”, dice.

“Questa lettera è del 24 marzo 1981, ha la sua firma. Lui, il segretario del Partito comunista italiano, aveva trovato il tempo per ringraziare me, che ero un compagno qualsiasi”. La storia è questa: “Io gli mandai una missiva perché sapevo che sarebbe stato ospite di una tribuna politica e gli volevo dare un consiglio: sicuramente i giornalisti proveranno a metterti alle strette sui rapporti del Pci con l’Unione Sovietica, tu invece parlagli dei problemi concreti della gente. Non sapevo se l’avrebbe mai letta e non pensavo certo che avrebbe risposto”. Invece andò proprio così, Berlinguer iniziò quella trasmissione raccontando la storia di un pensionato in difficoltà e portò il dibattito sul terreno che gli stava a cuore. Dopo qualche giorno, nella piccola sezione del Pci dell’Appio Latino si presentò una collaboratrice del segretario che portava in mano una busta. Sergio Fazi non poteva crederci. C’era scritto questo: “Caro compagno, durante la conferenza stampa alla televisione ho tenuto sul tavolo la tua lettera, pronto a leggerne un passo nel caso che il primo giro di domande dei giornalisti avesse riguardato solo questioni internazionali e di politica generale. Come avrai visto, questa volta vi sono state diverse domande che mi hanno consentito di trattare alcuni problemi di largo interesse popolare. Ti ringrazio per la tua lettera e i tuoi consigli, in ogni caso utili. Fraterni saluti”. E la firma a penna: Enrico Berlinguer.

Sergio ha ancora gli occhi lucidi. “Questo era l’uomo. Di un’umiltà che oggi non si può nemmeno immaginare”. E questo era il Pci: “Un partito che parlava alle persone, stava in mezzo alla gente, in mezzo alle strade”. Si scioglie in un flusso di ricordi. Racconta di quando da ragazzo portava l’Unità ai baraccati del “borghetto Latino”, un gruppo di tre o quattrocento famiglie che viveva ai margini del parco della Caffarella, dentro abitazioni che erano scatole di lamiere. Il Pci trovò loro una casa vera, guidando l’occupazione di un grande palazzo disabitato dietro la basilica di Santa Maria Maggiore, in piazza dell’Esquilino. Sergio c’era.

“La domenica mattina – dice – in mezzo alle baracche ci stavamo noi con il giornale e la suora con il crocifisso e la campanella”. Due chiese. La sua vita è un piccolo saggio nel grande racconto collettivo del Pci: la prima tessera a 16 anni (“Mia madre, avvertita dal prete di quartiere, me la strappò: ero il primo comunista della famiglia”), poi il lavoro da tipografo nella stamperia dell’Unità e del Paese Sera.

Le figure per lui coincidono, Berlinguer era il partito, il partito era la politica, la politica era il rapporto con gli altri: “Ti svegliavi e sapevi che dovevi cambiare la società”. Ricorda quel segretario, quell’uomo buono, e piange ancora, sulla panchina di piazza Scipione Ammirato, vicina alla vecchia sezione. Cita le parole finali di uno dei comizi di San Giovanni che “ancora mi danno i brividi come allora”: “Compagni, tornate nei quartieri e nelle case, portate la voce del partito comunista”. E poi racconta i lucciconi che rigavano le guance a tutti, il giorno di quei funerali monumentali che hanno bloccato la città e fermato il tempo, il 13 giugno 1984.

Il racconto di Sergio Fazi è spezzato come l’eredità di quella storia. Ci sono anche le amarezze, la perdita del lavoro in tipografia e poi il congedo dal partito: “Non ero un nostalgico, né un gruppettaro, un radicale. Per me potevamo pure cambiare nome ma non dovevano tagliare le nostre radici”.

Quello che rimane della lezione di Berlinguer suona nelle parole che vuole consegnare ai nipotini: “Non vivete in pantofole, ribellatevi alle ingiustizie”. E nell’abbraccio alla moglie, il giorno che decise di non rinnovare più la tessera: “Non siamo riusciti a fare il socialismo in Italia, facciamolo a casa nostra, volemose bene”.

Su RaiUno solo Pippo presenta Baudo

Cosa c’entra Pippo Baudo con Italo Calvino? Poco o punto, direte voi. Eppure, uno dei primi e dei più bei libri di Calvino, Gli amori difficili, bussava alla memoria durante lo speciale Buon compleanno trasmesso venerdì su Rai1. Giusto festeggiare l’uomo che da solo ha scoperto più talenti di X Factor (Lorella Cuccarini, Michelle Hunziker, Gigi D’Alessio, Laura Pausini, Fiorello, tutti giunti in pellegrinaggio), e anche fisicamente pare uscito dal vecchio monoscopio in bianco e nero (Mike è il padre della Tv italiana, Pippo il figlio, la Democrazia Cristiana lo spirito santo). Eppure, i 60 anni di amore tra Pippo e la Tv sono stati un amore difficile. Perché festeggiare a 83 anni? Certo l’idea è nata con l’ottantesimo, ma poi ci saranno voluti tre anni per trovare la formula. E soprattutto il conduttore. Chi poteva essere all’altezza di presentare Sua Pippità? Gli altri due tenori storici non sono più tra noi, quelli attuali impallidiscono al confronto. L’unico poteva essere Bruno Vespa, il cerimoniere che un Porta a Porta non lo nega a nessuno; ma tra i due ci sono vecchie ruggini mai veramente sopite. Pareva un rebus insolubile, ma sembra che un giorno Pippo abbia esclamato: “Eureka! Ho il nome giusto!”. “Dicci, Pippo” “Il mio”. E così è stato. Non c’è amore più difficile del narcisismo, e così la calviniana avventura di un presentatore ha avuto il suo lieto fine. Il presentatore presenta i suoi ospiti affinché loro festeggino lui. Solo Pippo poteva presentare Baudo.

Mail Box

 

Fico e l’inclusione: bisogna conoscere la Costituzione

Gentile Direttore,

finalmente il presidente della Camera Fico mi ha fatto aprire gli occhi su chi votare alle prossime elezioni: il M5S sicuramente perderà il mio voto finché nel Movimento ci sarà lui. In tanti abbiamo votato per i pentastellati con la speranza del cambiamento che, oltre alle buone leggi fatte, dovrebbe comprendere pure la lotta ai finti “migranti”, che stanno invadendo il Paese. Caro Direttore, la gente è stufa di vedere questi signori passeggiare muniti di cuffie e tablet all’ultima moda, ornati di bracciali che anch’io dopo 50 anni di lavoro non mi posso permettere. Per non parlare della delinquenza che abbiamo accolto! La goccia che ha fatto traboccare il vaso però è stata la frase detta da Fico in occasione della Festa della Repubblica: “È anche la festa dei rom e dei migranti”. Secondo me è da ricoverare!

Che hanno fatto rom e falsi naufraghi per festeggiare la Repubblica?

Antonio Perrone

 

Caro Antonio,

è sicuro che Fico abbia detto proprio quella cosa? Si legga bene la sua frase: era, né più, né meno, l’articolo 3 della Costituzione.

M. Trav.

 

 

Attacchi all’informazione la derivasocial della società

È una sofferenza intellettuale subire, seppur in terza persona, il ciarpame rasente e trasudante odio, riservato a chi come il Fatto Quotidiano, voglia esercitare della corretta informazione. Un esercizio di civiltà, teoricamente scontato, che, se non altro, dovrebbe essere un patrimonio per tutti coloro che non hanno niente a che vedere con varie caste, gruppi di potere, lobby, politica finalizzata ad arricchimento personale, ecc.

Se fino a prima, la frustrante sensazione di ritrovarsi perennemente e ingiustamente avvolti da italiche storture non trovava risposta, ora, con l’avvento della piazza mediatica è tutto più chiaro: il buon sentire comune, così comune non è. C’è invece una deriva, che passando dai social, da un tipo di informazione autoreferenziale e dalle urne, si riversa infine sul Paese.

Un Paese che, ha superato la soglia del dolore della coscienza. E consente di far accomodare in parlamento decine di indagati, pregiudicati e mandarne altrettanti a rappresentare l’Italia in Europa. Di sacrificare milioni di voti sull’altare di paure cavalcate subdolamente. Di subire supinamente ogni genere di prevaricazioni, sia tangibili che intellettuali.

Ecco, ora che il cablaggio della massa, cioè di noi popolo italiano, è compiuto e si traduce sui social nelle individuali motivazioni di sentenze emesse nel chiuso delle urne… tutto torna.

Giovanni Marini

 

Contratto di governo, come sempre la virtù sta nel mezzo

Penso che esista una via di mezzo tra i due estremi “crisi di governo subito” e “completiamo la legislatura a tutti i costi”.

Se il governo vuole andare avanti in modo costruttivo, facendo cose utili per il Paese, come le politiche di sostegno sociale avviate con il decreto dignità e il reddito di cittadinanza, deve darsi un orizzonte temporale di medio termine.

Un riferimento, in questo senso, potrebbero essere le riforme istituzionali in fase di approvazione. Se si considera il referendum confermativo, questo percorso richiederà ancora almeno un annetto. Dopo il referendum, i contraenti del patto di governo potranno tirare le somme e prendere le loro decisioni a ragion veduta.

Antonio Maldera

 

Striscioni anti-Salvini, difendiamo la libertà di parola

Dopo la rimozione a Milano dell’innocuo striscione “Restiamo umani” durante il comizio di Salvini, la Digos fa togliere anche quello della Uil a Roma, altrettanto lecito e privo di insulti.

Salvini – tra l’altro Ministro dell’Interno – prende pilatescamente le distanze: “Mi occupo di lotta alla mafia non di cartelloni”. Tutto risolto? Tutt’altro! Questi attacchi scalfiscono la libertà di pensiero, il primo baluardo a cadere nella fase di dissoluzione delle democrazie.

I sindacati dovrebbero reagire a quest’oltraggio, chiamando in causa tutta la catena di comando: la Questura di Roma, il capo della Polizia e il ministero dell’Interno da cui dipende, con la specifica richiesta della diffida a non ripetere altri simili atti di censura. “Per primi scoprire le insidie” (Primi insidias icere) è il motto della Digos, facciamolo nostro.

La libertà muore quando non ci si accorge delle insidie che la minacciano.

Massimo Marnetto

 

Incontrada insultata online Non sarebbe ora di finirla?

“Altro che Vanessa Incontrada, ormai sei Vanessa Ingrassada! Mettiti a dieta!” Durante i Music Awards, la conduttrice catalana è stata presa di mira dai cosiddetti haters, gli odiatori seriali del web, che le contestano qualche chilo di troppo. Critiche simili le piovvero addosso anche quando Vanessa pubblicò sui social una sua foto senza trucco. Colpevole di esibire non ritocchini e silicone, ma semplicità e simpatia.

Non sarebbe ora di regolamentare i comportamenti negativi sul web, punendo chi insulta e umilia?

Cristian Carbognani

Toninelli. Onesto ma modesto, verrà sacrificato per il suo maggior pregio

 

In merito all’articolo di Daniela Ranieri su Toninelli espiatorio – uscito sabato scorso – vorrei che mi spiegaste, voi che siete sempre precisi nel riassumere i fatti nei vostri articoli e anche Travaglio è tra questi, del perché “del Toninelli politico non si patirà troppo rimpianto”, “uno come Toninelli, opaco e dimenticabile”, “imperdonabili lacune del ministro del M5S”, enumerandole senza specificare. Mi ricorda molto quel malcostume un po’ così umano e italico dell’accodarsi ai giudizi. Una volta parlando tra amici questi mi dissero: non ne possiamo più dei 5S sempre incravattati e poi quel Toninelli… mamma mia no, no. Ecco, siccome mi piace capire e per questo compro il Vostro giornale, per piacere mi enumerate le colpe e inefficienze del ministro Toninelli?

Marcello Grimaldi

 

Caro Marcello Grimaldi, grazie di leggerci sempre e apprezzarci. In effetti, avremmo potuto dire che Toninelli è (stato) un ministro della cui dipartita politica non ci consoleremo mai; che egli è luminoso e memorabile; che, di per sé infallibile, ha operato senza lacune al servizio del suo ministero. Ma temiamo che, appunto, lo avremmo fatto solo per non accodarci ai giudizi generali, e non avremmo parlato di Toninelli dicendo quel che di lui veramente pensiamo.
Il che, ahinoi, non ci riesce proprio. Nel pezzo, che non era su Toninelli ma sul suo sacrificio alla Lega, si dice che il ministro (e con lui il capo politico, ministro e vicepremier Di Maio) ha ceduto su snodi fondamentali della difesa dei cittadini e dell’ambiente (Tap, Terzo valico) mentre ha mostrato lucidità sul Tav. Infatti viene sacrificato per il suo maggior pregio, e non certo per le gaffe sul ponte Morandi e per non essere un politico che fa sognare (su questo ovviamente lei può contestarci che invece Toninelli è un grande leader capace di trascinare le folle, alla Kennedy).
Poi, e se lei è un nostro lettore lo sa, nel disegnare il “carattere” di un politico intervengono impressioni personali, simpatie umane, sintonie intellettuali, idiosincrasie ineliminabili che sfuggono a qualsiasi fact checking. Di Toninelli tutto ciò che possiamo dire è che è onesto ma modesto: considerando quel che pensiamo e diciamo degli altri, anche di quelli su cui convergono gli elogi della maggioranza, diremmo che gli è andata di lusso.
Daniela Ranieri

Caro Luigi Di Maio, per rialzarti ora devi pedalare

Dopo aver patito una sconfitta oltremodo straziante, il vicepresidente del Consiglio più odiato dai media nella storia della Repubblica (e sì che ce ne son stati di peggiori) pare ancora frastornato. Luigi Di Maio non è l’unico colpevole del disastro totale alle Europee, ma – in quanto leader – le responsabilità sono ricadute quasi tutte su di lui. Ci ha messo senz’altro del suo. Si è creduto Adenauer prendendosi 4 ruoli (vicepremier, due volte ministro e capopartito). Non ha avuto misura, parendo prima troppo sussiegoso con Salvini e poi platealmente ribelle. Si è coperto di ridicolo con le sceneggiate del balcone e della “santa teca” con la tessera numero 1 del reddito di cittadinanza. Ha attaccato (senza mai dirlo apertamente, che è pure peggio) la Raggi che aveva visitato la famiglia rom a Casal Bruciato. E ha avallato l’osceno salvataggio di Salvini sulla Diciotti, lasciando pilatescamente che a decidere fosse la “base”. Dopo il calvario inaudito del 26 maggio, Di Maio sembra sempre uno che insegue Salvini. Come e più di prima. Un po’ è la stampa che vuole raccontarlo così, ma un po’ sono anche i numeri che danno ora al leader della Lega una posizione di dominio. Di Maio è stato poi bravo nel telefonare per primo a Salvini, ma la cosa grave è che i due non si siano parlati per mesi come bambini dell’asilo. Ormai Conte lo ha superato in forza ed efficacia: se ancora il Salvimaio dà l’illusione di esistere (per me dal 26 maggio è solo “postumo in vita”), dipende dal discorso di Conte del 27 maggio, zimbellato dagli stessi fenomeni che fino a ieri incensavano i Gentiloni e oggi alimentano la finzione secondo cui l’ineffabile Zinga abbia vinto le Europee (come no: ha preso persino meno voti di Renzi nel 2018).

Di Maio ha sottovalutato i tanti segnali che dovevano fargli capire come i delusi dai 5 Stelle fossero tanti: chi li ha votati nel 2018 è anche (soprattutto?) gente che crede che la politica sia una cosa seria. E in quanto seria, non possa coabitare con i Pillon e i Fontana. Ogni volta che glielo facevi notare, lui minimizzava: “I sondaggi ci hanno sempre sottovalutato”. Certo: come nel 2014 (anzi peggio). Ora che l’altro lo sovrasta, Di Maio può sperare nella liquidità del voto odierno: ci vuol poco per essere innalzati e ancor meno per esser disarcionati, come dimostra la comica tumulazione subitanea del renzismo. Forse accadrà pure a Salvini, che però vale cento volte Renzi. Affidarsi alla cabala è però un po’ poco per ripartire. Così, dopo aver vinto nella maniera più complicata (senza cioè poter governare da solo) e dopo aver varato l’unico governo possibile (complice lo scellerato comportamento-popcorn del Pd), Di Maio allude adesso per la milionesima volta a “ristrutturazioni” per poi alzare ogni tanto giustamente la voce (Whirlpool) sperando che qualcuno lo senta. Ma dà sempre la sensazione di inseguire Salvini (anche sulla belinata dei mini-bot). Le strade sono due. La prima è far saltare il banco su un tema dirimente per il M5S: Tav, autonomia, giustizia. Significherebbe recuperare consensi, ma vorrebbe anche dire addio per sempre al governo (e al Parlamento, nel caso suo e di molti peones grillini). La seconda strada è stata perfettamente riassunta da Peter Gomez: “Il M5S ha un’unica possibilità. Stare lì, sperare che in cinque anni ci sia una ripresa economica e dire che è grazie a loro. Non hanno alternative: sono lì e devono pedalare”. Per dirla con gli scommettitori, Di Maio ha davanti una prospettiva lose lose: come si muove, perde. Rialzarsi, per lui e il M5S, non sarà per niente facile.

La sinistra resta prigioniera della crescita

Uno dei responsi delle ultime elezioni europee è stato il fallimento dell’ennesimo tentativo di ridare vita alla sinistra, inevitabile sanzione del rifiuto di prendere atto della sua sconfitta definitiva sotto le macerie del Muro di Berlino. Un rifiuto che nasce dall’incomprensione della differenza tra la pulsione all’eguaglianza e alla collaborazione, insita nell’animo umano, e la concretizzazione storica che ne ha dato la sinistra. È questa concretizzazione storica, durata appena due secoli, a essere stata sconfitta dalla destra, che a sua volta è stata la contemporanea concretizzazione storica della pulsione, anch’essa insita nell’animo umano, alla diseguaglianza e alla sopraffazione.

Le sinistre hanno condiviso con le destre la valutazione positiva della finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, l’identificazione del benessere con la crescita dei consumi e della ricchezza col denaro. Si sono scontrate con le destre sui criteri di distribuzione del profitto generato dalla crescita. Le destre sostengono che devono essere stabiliti dal mercato, le sinistre dallo Stato con tassazione progressiva dei redditi e servizi sociali. Da questa impostazione deriva che una più equa distribuzione della ricchezza monetaria a vantaggio delle classi sociali più povere accresce la quota dei profitti destinata ai consumi a scapito degli investimenti, mentre una più iniqua a favore delle classi sociali più ricche riduce la quota dei profitti destinata ai consumi e accresce quella destinata agli investimenti. Poiché la crescita dipende dagli investimenti, le economie più eque fanno crescere di meno l’economia e le economie più inique la fanno crescere di più. Se si ritiene, come hanno ritenuto le sinistre, che una maggiore equità si possa perseguire soltanto se cresce l’economia, le destre prevalgono. Contrariamente a quanto hanno creduto le sinistre, la finalizzazione dell’economia alla crescita non crea le condizioni per una maggiore equità. Tantomeno ora che la crescita della produzione e del consumo di merci ha superato i limiti della sostenibilità ambientale: le emissioni di CO2 eccedono le capacità di assorbimento della fotosintesi clorofilliana e aggravano l’effetto serra; negli oceani galleggiano ammassi di plastica grandi come gli Stati Uniti; la biodiversità si riduce a ritmi accelerati, la fertilità dei suoli agricoli si è dimezzata… Le conseguenze della crisi ecologica innescata dalla crescita economica vengono pagate in misura maggiore dai popoli poveri, accrescendo le diseguaglianze. Una maggiore equità si può realizzare solo indirizzando la politica economica e industriale a ridurre la crisi ecologica mediante tecnologie che riducono il consumo di risorse, l’inquinamento e i rifiuti per unità di prodotto. Invece di lavorare in questa direzione i sostenitori della sinistra e i sedicenti post-ideologici s’impegnano a competere con le destre nell’elaborazione di proposte per rilanciare la crescita. Proposte a carico del debito pubblico: secondo le destre per rilanciare gli investimenti in opere di cui non ha importanza l’utilità; secondo le sinistre e i sedicenti post-ideologici per accrescere i consumi degli strati sociali più svantaggiati. Il punto centrale delle proposte politiche di tutti i partiti sia la richiesta all’Unione europea di derogare dai limiti imposti all’indebitamento pubblico. Non li sfiora l’idea che i debiti con cui, nonostante le smentite dei fatti, si presume si possa rilanciare la crescita, verranno pagati dai bambini che non li hanno contratti. C’è maggiore ingiustizia di quella che colpisce coloro che non possono difendersi? Invece di proporsi l’obiettivo velleitario di ricostituire la sinistra, non sarebbe meglio proporsi di rilanciare gli ideali dell’equità e della collaborazione liberandoli dai limiti con cui sono stati interpretati storicamente dalla sinistra in tutte le sue sfumature?

M5S, Il nuovo bivio sulle alleanze

Il premier Giuseppe Conte sta tentando di ricucire la maggioranza gialloverde. Se ci riuscirà, il conto lo pagherà comunque il Movimento 5 Stelle. L’analisi del voto delle Europee non è andata abbastanza a fondo. Il M5S ha perso metà dei suoi voti in 12 mesi, ma quali sono le ragioni di fondo della sua crisi?

La crisi ha origine nella scelta di allearsi con la Lega. È vero che il M5S doveva cercare di non vanificare il risultato elettorale, ma l’alleanza con la Lega ha contraddetto il mantra del Movimento di non essere né di destra né di sinistra. Per allearsi con altri occorre definire un progetto e chiarire bene la scelta politica. L’autodefinizione del M5S come né di destra né di sinistra non ha un reale fondamento, ma lo ha portato a consegnarsi alla Lega, cioè alla destra estrema.

Da questo ha origine la subalternità del M5S alla Lega, fin troppo frequente su scelte di fondo. Fino al salvataggio di Salvini dal processo per il caso della nave Diciotti. Una contraddizione con la storica linea del M5S in base alla quale i politici si devono difendere nei processi, non dai processi.

Il prezzo politico e di immagine per il M5S è stato pesante, aggravato dal dietrofront di Salvini, che prima era favorevole a farsi processare, poi ha capovolto la posizione per evitare a ogni costo il processo. Di Maio e il M5S hanno subìto. Anche le scelte del governo su Ilva di Taranto e Tap hanno contribuito alla difficoltà dei Cinque Stelle.

Per giustificare l’alleanza con la Lega il M5S, ha inventato lo strumento del “contratto” per evitare di parlare di una vera alleanza. In caso di alleanza il Movimento 5 Stelle avrebbe dovuto motivare le ragioni per farla con un partito di estrema destra, collegato con la parte più conservatrice dei cattolici che attacca perfino papa Francesco.

C’era un’altra possibilità ? Si poteva e doveva parlare apertamente del programma e dell’alleanza necessaria per attuarlo. È vero che la “strategia del popcorn” imposta da Matteo Renzi al Pd ha reso poco percorribili altre strade, ma il M5S è rimasto prigioniero della sua ideologia e in particolare dell’idea (falsa) che non esisterebbero scelte di destra o di sinistra. Da quando è iniziata l’esperienza di questo governo è stato evidente che la Lega è dominante, quindi il M5S è stato invischiato in scelte ispirate dalla destra.

Eppure il contratto di governo aveva molte controindicazioni fin dall’inizio: dai 49 milioni pubblici della Lega spariti, al viceministro Edoardo Rixi in attesa di sentenza (è stato poi condannato e si è dimesso), ai condoni, alla flat tax, al contrasto alle norme anticorruzione. Dopo un anno di governo appare chiaro che non si governa cercando di sommare decisioni politiche diverse, se non opposte, come conferma l’incidente sulla risposta italiana alla Commissione Ue, con la fuga di notizie su una versione della lettera del ministero del Tesoro diversa da quella poi effettivamente invitata. Non è casuale che nel testo iniziale i risparmi sul reddito di cittadinanza venivano incamerati dalla Lega per finanziare la flat tax, voluta da Salvini, confermando un tentativo di furto con destrezza delle risorse, trasferite dalla colonna del M5S a quella della Lega. Negare l’esistenza di destra e sinistra, come fa il M5S, cancella le differenze e la qualità delle scelte da compiere. E la Lega spinge con forza a destra.

Il futuro politico dei Cinque Stelle dovrà tenere conto di queste esperienze, tornando a discutere di alleanze sulla base di un programma. Anche M5S e sinistra non sono alleati naturali, ma possono tentare di raggiungere un programma per fare uscire il Paese dallo stallo attuale, trovando le risorse necessarie senza smantellare ulteriormente lo Stato sociale, prendendo le risorse dai patrimoni, dai redditi alti e dall’evasione. Altrimenti saremo alla mercé dei mercati finanziari.

Non è indispensabile passare per nuove elezioni, tanto più che dopo nuove elezioni sia il M5S che la sinistra potrebbero essere entrambi all’opposizione. Le coraggiose misure necessarie hanno bisogno di un progetto politico ed economico, orientato socialmente. Al centro l’interesse del Paese e della grande maggioranza dei cittadini. Il M5S è a un bivio, se resterà paralizzato dalla paura rischia di autoaffondarsi.

Anche le sinistre debbono cambiare. Il risultato delle Europee dice che con nuove elezioni non è detto ci sarà un vantaggio elettorale. Per recuperare i voti perduti occorre dimostrare che la lezione è stata capita. Le correzioni politiche indispensabili e una nuova maggioranza M5S/sinistre aiuterebbero a far capire che la novità è possibile.

Il continuismo è dannoso per tutti, l’innovazione politica può dare al Paese un segnale forte e mobilitare le sue energie. Capisco che così destra e sinistra tornerebbero in evidenza, ma è inevitabile. Perché occorre fare una scelta.

“Illegittimo l’arresto di Marco Carta”. Ma andrà a processo

Quello di Marco Carta, il cantante vincitore di Amici e Sanremo 2009, bloccato il 31 maggio per un furto di magliette alla Rinascente di piazza Duomo a Milano, fu un arresto che “non può ritenersi legittimo”, basato su “elementi di sospetto” del tutto “eterei, inconsistenti”, come il racconto dell’addetto alla sicurezza del grande magazzino che in realtà non ha mai visto i vestiti che finivano nella borsa dell’amica del cantante, né sentito la “rottura delle placche antitaccheggio”. Lo scrive il giudice di Milano Stefano Caramellino nell’ordinanza, il cui testo è emerso ieri, con cui lo scorso 1° giugno non ha convalidato l’arresto della polizia locale disposto a carico di Carta, difeso dal legale Simone Ciro Giordano (il pm Nicola Rossato chiese la convalida), convalidando, invece, quello dell’amica che era con lui, un’infermiera sarda di 53 anni. Per entrambi il processo per furto inizierà il prossimo 20 settembre. Per il magistrato la “versione degli imputati non è allo stato scalfita da alcun elemento probatorio contrario” e che gli “operanti che hanno provveduto all’arresto non hanno visto alcunché dell’azione asseritamente furtiva”. Il furto, secondo il giudice, sarebbe stato commesso dall’amica.

Mucche di 82 anni nella truffa delle quote latte

L’Italia è il Paese dei record. Ci sono mucche di 82 anni in grado di produrre latte e senza aver mai partorito. L’hanno sostenuto per anni il ministero dell’Agricoltura e tredici Regioni. Naturalmente è una truffa: gonfiare i numeri delle “quote-latte” per appropriarsi di contributi europei non dovuti. Lo ha scritto il giudice di Roma Paola Di Nicola, mercoledì scorso, nell’archiviazione di un’indagine per abuso d’ufficio, truffa e associazione per delinquere. Responsabilità individuali non sono state riscontrate ma, scrive il gip, vanno ricercate “su un piano politico-amministrativo” più ampio.

Ecco come ha funzionato dal 2005 al 2015 la politica delle quote-latte. Se la produzione nazionale di latte eccedeva la quota assegnata, l’Ue imponeva all’Italia il pagamento di un corrispettivo economico per la sovrapproduzione; lo Stato italiano a sua volta imponeva un contributo a ogni singolo produttore che aveva prodotto al di sopra della quota. Il tornaconto era la restituzione europea di parte della multa: un regalo annuale da 200 euro per ogni capo bovino da latte.

Il 20 luglio 2010 i carabinieri intercettano Giuseppe Ambrosio, allora capo di gabinetto del ministro dell’Agricoltura del governo Berlusconi, Luca Zaia. Parla di “dati sbagliati”, dice che “cade tutto il castello dei cinque anni di anticipo delle quote che abbiamo avuto tutte in una botta… la Commissione europea ci si incula…”. Continua Ambrosio: “Zaia la cosa in sé gli faceva un certo fastidio, ma aveva l’ordine dal suo grande capo che questi qui non avrebbero mai dovuto pagare le multe”. Non sappiamo chi sia il “grande capo”, probabilmente Berlusconi, la cosa certa è come nell’“inquietante colloquio” (definizione del giudice Di Nicola), Ambrosio “parlasse a nome del ministro”. Dunque, Zaia sapeva.

Ma perché coprire i dati sbagliati? Qui arriviamo alle mucche da latte ultraottantenni e alla truffa. Entra in gioco l’Agea, l’Agenzia per le erogazioni in Agricoltura del ministero. Scrive il giudice: “Verrebbero inseriti nel conteggio dei capi in grado di produrre latte, animali di 82 anni, situazione assolutamente aberrante poiché inverosimile dal momento che è risaputo che un bovino può produrre latte al massimo fino agli 8-10 anni”.

L’originario limite dei 120 mesi balza da un anno all’altro a 999 mesi. Una “modifica voluta da Agea” che genera circa 300 mila capi in più. Una decisione presa il 4 ottobre 2012 al ministero dell’Agricoltura, da quello che viene definito il “gruppo ristretto” composto dai rappresentanti del ministero, dell’Agea, della società informatica Auselda e delle Regioni Lombardia, Piemonte, Veneto, Lazio, Campania, Sicilia, Toscana, Trentino-Alto Adige, Puglia, Marche, Val d’Aosta e Umbria.

Ma il dato sorprendente sono i 5 milioni 763 mila 822 capi “improduttivi e senza alcun evento di parto”, pari al 61% degli animali da latte italiano e inseriti nelle banche dati nazionali in uso ad Agea dal 2010. È “la prova della totale inattendibilità e falsità dei dati del sistema”. Sono stati erogati contributi europei per quasi 6 milioni di vacche inesistenti. Per ogni mucca arrivano 200 euro, una frode da oltre un miliardo e 150 milioni di euro all’anno. Un sistema criminoso, scrive il gip Di Nicola, che opera “sotto gli occhi di tutti e che non è stato in alcun modo ostacolato o quantomeno controllato”. Conclude Di Nicola che le autorità sono “rimaste consapevolmente inerti per 20 anni per evitare di scontentare corporazioni o centri di interesse, così determinando ingenti danni allo Stato italiano che ha pagato le multe e agli allevatori/produttori che hanno rispettato le regole”.