Fondi Ue “per l’agricoltura” pagati addirittura per l’Ilva

Chiedevano fondi agricoli anche per l’aeroporto di Catania, alcuni campi di calcio, autostrade e numerosi impianti industriali, dall’Ilva di Taranto all’Acquedotto pugliese. È tutto documentato nelle indagini del procuratore capo di Enna, Massimo Palmeri, e dai sostituti Francesco Lo Gerfo, Domenico Cattano e Daniela Rapisarda sulle truffe ai danni dell’Unione europea sui contributi per la politica agricola comune (Pac).

I soldi arrivano in base ai possedimenti che si dichiarano, ma non tutti i privati hanno grossi appezzamenti e quindi inseriscono particelle catastali di terzi e aree demaniali. Comincia così la caccia agli ettari, scoperta quando un privato cittadino residente nell’Ennese, desideroso di poter accedere ai fondi, scopre e denuncia che i suoi appezzamenti sono già stati dichiarati da altri. Da allora l’inchiesta si è allargata a tutto il Paese

“Abbiamo sentito 35 mila persone in tutta Italia, sequestrando solo nel 2018 circa 40 milioni di euro di fondi percepiti indebitamente. Nell’ultimo triennio si arriva a 80 milioni di euro – spiega al Fatto il procuratore Palmeri –. Due milioni di euro sono già stati depositati al Fondo Unico Giustizia”.

La sola Procura di Enna dal 2015 ha trattato più di mille fascicoli, 500 tra il 2017 e il 18. Oltre 200 persone sono state indagate per associazione per delinquere, riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e falso.

Un sistema ben consolidato che si avvale della compiacenza di tecnici del settore. “La domanda si presenta via web all’Agea, l’Agenzia per le erogazioni del ministero dell’Agricoltura, con il sistema informativo agricolo nazionale (Sian), che funge anche da registro dei titoli, tramite delle password assegnate ai Caa, Centri per l’assistenza agricola, società costituite dai maggiori sindacati agricoli nazionali o locali. In Sicilia non c’è nessun particolare requisito per aprire un Caa, basta aver fatto un tirocinio di sei mesi presso un sindacato – spiega il pm Lo Gerfo –. L’anomalia vera del sistema italiano, a differenza degli altri Paesi membri, sta nel fatto che il controllore è il sindacato del controllato. I Caa sono controllore e nello stesso tempo sindacato degli agricoltori”.

Chi avrebbe dovuto vigilare non l’ha fatto, molte domande erano irregolari, addirittura relative a terreni come quelli dell’Ilva di Taranto o dell’aeroporto di Catania che non hanno nulla a che fare con l’agricoltura. E non è nemmeno così difficile scoprirlo. Sotto inchiesta sono finiti più di 50 dipendenti dei Caa e molti centri sono stati chiusi.

La strategia investigativa ennese è stata riconosciuta dall’ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf) e dall’Agea, alla quale sono state segnalate le falle del sistema. Fino al 2016, infatti, all’agricoltore bastava dichiarare di aver fatto un solo sfalcio di terra l’anno e mantenere il terreno in buone condizioni. Dopo la segnalazione dei magistrati, oggi bisogna inserire nella dichiarazione un codice apposito, che cambia per il pascolo o per la specifica attività agricola. Ma fatta la legge, si trova subito l’inganno. “Avere il codice pascolo è oneroso per il truffatore, perché non disponendo degli animali, basterebbe un semplice controllo per essere scoperti – spiega il pm Lo Gerfo –. Il truffatore siciliano ha quindi individuato la coltura meno controllabile possibile, quella dei tartufi. Per l’investigatore non è semplice dimostrare che l’agricoltore non li coltivi realmente. Così quasi tutti i Monti Nebrodi sono dichiarati a tartufo, ma le domande ai Caa si sono spostate, non le fanno più a Enna. Nel 2018 c’è stato un boom in altre province dell’isola”. Chissà che gli inquirenti seguendo il profumo dei tartufi non trovino i nuovi truffatori.

I fondi agricoli pesano sul bilancio comunitario per il 34%. Circa 11 milioni di aziende sparse tra i Paesi membri, ricevono ogni anno fondi diretti e “disaccoppiati”, ovvero svincolati dalla produzione. In Italia, che ha una superficie agricola di 30 milioni di ettari, finiscono più di 3 miliardi e 700 mila euro. Un miliardo è destinato alla Sicilia.

Superenalotto, oggi in palio 167 milioni: è il più alto al mondo

Attesa per l’estrazione del Superenalotto di oggi: il concorso in Italia ha il jackpot più alto del mondo, in palio ci sono 167 milioni di euro. Il premio ha superato la vincita di Vibo Valentia del 27 ottobre 2016, con i 163,5 milioni di euro, vinti con una schedina di 3 euro, raggiungendo la seconda posizione tra le vincite più alte nella storia del Superenalotto. In aumento dallo scorso 23 giugno, il jackpot di Superenalotto sta anche concorrendo per conquistare il primato assoluto e superare il montepremi più famoso d’Italia di oltre 177,7 milioni di euro. Il totale del valore delle vincite complessive distribuite ai giocatori dalla nascita del Superenalotto ad oggi è pari a oltre 16,5 miliardi euro. Nella storia del Superenalotto, tra i montepremi più alti di sempre c’è quello del 30 ottobre 2010 a Sperlonga, appunto, di 177.729.043,16 euro, il più recente, del 27 ottobre 2010 a Vibo Valentia, di 163.538.707,00 euro, la vincita del 22 agosto 2009 a Bagnone, di 147.807.299,08 euro, e quella del 9 febbraio 2010 a Parma e Pistoia, di 139.022.314,64 euro.

’Ndrangheta, la figlia del boss: “Fate venire mio padre alle nozze”

Convolerà a nozze il 4 luglio nella sua città, Reggio Calabria. Ma suo padre non ci sarà. Il suo sogno più grande sarebbe averlo accanto. O meglio sotto braccio mentre attraversa la navata della chiesa verso l’altare. Lei è Francesca, 28 anni, figlia di Tommaso Romeo, ex nome di spicco della ’ndrangheta della Locride, condannato all’ergastolo con “fine pena mai”, rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Padova. Quando fu arrestato e si aprirono le porte della prigione era il 1993 e lei e sua sorella gemella Rossella avevano solo 15 mesi. “Nella vita quotidiana non ho potuto condividere con mio padre né gioie, né dolori. Vorrei che almeno il giorno del mio matrimonio, un giorno così importante per me, lui ci fosse”, spiega Francesca Romeo, la cui storia è stata raccontata ieri dal Quotidiano del Sud. Per lei solo qualche fotografia a ricordare momenti vissuti in famiglia. Francesca sogna semplicemente un giorno “normale, come qualsiasi altra ragazza che in quel giorno viene accompagnata all’altare dal padre. Vorrei – spiega – che gli venisse concesso un permesso. Anche sorvegliato a vista da agenti va bene, purché ci sia”. Francesca sa bene che la legge non permette benefici in caso di ergastolo ostativo, il caso di suo padre.

“Condivido le parole di papa Francesco quando definisce l’ergastolo una pena di morte nascosta. Mio padre è un sepolto vivo. Ha sbagliato, ha pagato e continua a pagare. Ma nella vita si cambia e dopo 30 anni di carcere lui non è più quello di una volta: ha rinnegato quello che era. Le persone cambiano, il fine della pena è quello di rieducare. E se un condannato durante il suo percorso cambia, allora lo Stato gli dia la possibilità di riscattarsi invece di togliere ogni speranza con un fine pena mai”.

Una fuga di gas nel Municipio: in gravi condizioni il sindaco, feriti anche i bimbi della materna

Prima l’odore del gas, poi il boato: vetri che esplodono, un muro che crolla, le fiamme. È l’inferno che si è scatenato nella sede del Comune di Rocca di Papa a causa dell’esplosione che ha investito il palazzo. “Sono viva per miracolo”, racconta una dipendente comunale che con i suoi 54 colleghi era al lavoro all’interno dell’edificio. Tutti per mettersi in salvo hanno affrontato “una fuga tra le fiamme”. Davanti a lei il sindaco Emanuele Crestini, che è stato l’ultimo a uscire riportando gravi ustioni sul 35% del corpo, in particolare al volto e alle braccia. “E’ stato proprio lui a dirci dobbiamo uscire tutti di qui”, racconta la donna. Le condizioni del sindaco ieri sera erano considerate gravi, ricoverato al Centro grandi ustioni del Sant’Eugenio di Roma.

Un fuggi-fuggi generale in quegli attimi: una persona si è buttata giù dal balcone del primo piano ferendosi. Un dipendente comunale è rimasto ustionato sul 44% del corpo. Negli stessi momenti l’esplosione investiva anche la vicina scuola dell’infanzia, ferendo con vetri e calcinacci alcuni bambini. Una bimba di 5 anni ha riportato un trauma cranico. “Quando abbiamo sentito l’odore di gas ai piani superiori non abbiamo avuto il tempo di reazione perché c’è stata l’esplosione. Ero al terzo piano. Ho avuto tanta paura, ma poi mi sono sentito tanto fortunato”, è la testimonianza del consigliere comunale Paolo Gatta che era nella sede del Comune.

“Dentro la struttura – racconta ancora la dipendente comunale – c’eravamo pressoché tutti, di certo almeno una quarantina di persone. Io, insieme ad altri, eravamo al terzo piano. Abbiamo sentito un forte odore di gas, ma in un primo momento abbiamo pensato che il problema fosse circoscritto al primo piano, dove il panico ha spinto un uomo a saltare giù dal balcone che dà sul corso del paese All’improvviso ho visto esplodere la porta a vetri e venire giù il muro, poi immediatamente è diventato tutto buio e un fumo nero e denso ci ha avvolto”.

Ammazza la moglie a martellate. La figlia di 10 anni al telefono: “È successo qualcosa a mamma”

”È successa una cosa alla mamma”. Così a soli 10 anni ha dovuto testimoniare l’orrore di una madre ammazzata dal padre a martellate dopo un litigio violento, uno dei tanti litigi che stava scandendo una burrascosa separazione. La figlia della coppia ha chiamato lo zio per dare l’allarme dopo avere visto la madre in un lago di sangue. L’uomo ha cercato di tranquillizzarla e poi ha chiamato il 118. Il padre della bimba non c’era nel piccolo appartamento di Cisterna di Latina: dopo avere ammazzato la donna era andato via, portando con se il martello insanguinato per gettarlo in campagna, lasciando la figlia sola con la madre morta. Quando Fabio Trabacchin, 35 anni, autotrasportatore è ritornato a casa, dopo avere vagato per le campagne, ha trovato i carabinieri che lo hanno portato in caserma. Dopo un lungo interrogatorio alla presenza del pm Andrea D’Angeli l’uomo ha confessato l’omicidio di Elisa Ciotti, 35 anni, dalla quale si stava separando. I due avevano alle spalle un matrimonio sereno ma da quando avevano deciso di lasciarsi erano liti continue anche su chi dovesse avere la custodia della figlia. Ma mai una denuncia da parte della donna. Poi ieri il tragico epilogo. Le liti dunque tra i due negli ultimi tempi erano continue e gli stessi vicini hanno pensato all’ennesima discussione. Da una di quelle villette a schiera, nella zona residenziale del quartiere San Valentino, si sentivano urla fin dall’alba. Poi il silenzio. E l’uomo che intorno alle 7 lascia l’abitazione, come riprendono le telecamere della zona. In casa, sul letto, c’era il corpo senza vita della moglie, uccisa con un colpo alla testa inferto col martello. La piccola si è svegliata e quando ha visto il cadavere della madre ha dato l’allarme. L’autotrasportatore è stato arrestato mentre la piccola, sotto choc, è stata per il momento affidata ai parenti ed è assistita da un’equipe di psicologi. Il quartiere popolare di San Valentino, a Cisterna di Latina, torna nell’incubo dopo l’omicidio di due ragazzine di 8 e 14 anni per mano del padre, il carabiniere Luigi Capasso, che dopo ore di trattative con i colleghi, si tolse la vita. Era il febbraio 2018.

Muore investito dalla volante della polizia. L’Unione rider: dal governo solo promesse

In via del Lavoro, tragica ironia della sorte, è morto Mario Marino Ferrara, 51 anni, rider impegnato nelle consegne a domicilio in scooter per una pizzeria: è stato investito da una volante della polizia intorno alle 22 di domenica sera. La “pantera” viaggiava con lampeggiante acceso su via del Lavoro, appunto, per raggiungere un negozio dove era scattatto l’allarme anti-furto, quando lo scooter di Ferrara è spuntato da una strada laterale. Due agenti sono rimasti feriti, per il rider, soccorso dal 118, dopo un lungo tentativo di rianimazione, non c’è stato nulla da fare: è morto poco dopo esser arrivato all’Ospedale Maggiore. Ferrara aveva un impiego alle poste, il lavoro da rider serviva per arrotondare e arrivare a fine mese. “È successo mentre consegnava l’ennesimo pasto che è costato una vita – scrivono su Facebook i Riders Union Bologna, un gruppo di fattorini del cibo e di attivisti sociali –. Allo sgomento si aggiunge la rabbia per l’ennesima morte bianca in questo settore del mondo del lavoro brutalmente derogolamentato, dove i lavoratori sono costretti a sottostare a condizioni disumane che li relegano in una situazione di crescente insicurezza e mancanza di tutele sulla propria incolumità fisica”.

“Ci diranno che si tratta di una fatalità – continunano i colleghi di Ferrara –, di un caso che non costituisce una prova. Non può essere un caso che Mario sia l’ultimo di una lunga serie (Barcellona, Parigi, Pisa, Bari) di lavoratori che perdono la vita per consegnare una pizza o un panino in un contesto di peggioramento delle condizioni lavorative. Riders Union Bologna, così come le altre realtà presenti in Italia, denuncia questa situazione di degrado e di privazione di diritti e dignità dei lavoratori e delle lavoratrici da ormai anni. È arrivato il momento che le aziende e le istituzioni si facciano carico delle responsabilità che hanno portato all’ennesimo tragico epilogo. Lo ripetiamo da mesi: la parte datoriale deve ascoltarci e sedersi con le rappresentanze dei riders autorganizzati che chiedono i giusti riconoscimenti. Non si può morire per una consegna”.

È intervenuto l’assessore al Lavoro della Regione Emilia-Romagna, Patrizio Bianchi: “Il diritto alla salute e alla sicurezza non può riguardare solo il lavoro subordinato, ma deve essere un diritto irrinunciabile per tutte le persone, qualsiasi tipo di lavoro svolgano. Abbiamo iniziato a lavorare attorno a questo tema già un anno fa, per poi fermarci quando pareva che il Governo volesse intraprendere una propria iniziativa per regolamentare l’attività dei riders. Visto che finora questo non è accaduto, lavoreremo noi per garantire anche a questa categoria di lavoratori gli stessi diritti alla sicurezza, alla salute e alla certezza del salario”. Dello stesso avviso il segretario della Uil Bologna Giuliano Zignani: ”Quanto accaduto impone una riflessione. A tutti. A cominciare da chi, al governo, non ha mosso un dito per la tutela di questi lavoratori. I riders sono le prime vittime di un mercato del lavoro selvaggio governato dall’assoluta mancanza di regole e di tutele. Dove i lavoratori operano in condizioni che vanno ben oltre la legalità: sfruttati fino all’osso, sottopagati, senza contratto e meno che mai con i contributi versati. Lavoratori la cui dignità è calpestata senza ritegno. Non si può e non si deve morire per consegnare una pizza”.

Quando l’olgettina voleva “ripulirsi e patteggiare”

Le verità nascoste di Marysthell Polanco. Sembra questo il titolo del nuovo film giudiziario di una delle maggiori protagoniste del Rubygate. Le serate di Arcore lei le ha sempre definite scene di burlesque. Cene eleganti, insomma. Niente bunga bunga e notti hard. Oggi, però, la ex olgettina ha cambiato versione. Più volte, in tv e davanti ai cronisti, ha spiegato di voler dire la verità su quelle notti in casa dell’ex premier Silvio Berlusconi con il quale condivide (assieme ad altri) l’accusa di falsa testimonianza e corruzione in atti giudiziari nel cosiddetto processo Ruby ter.

La verità, dunque, se vorrà, la dirà da imputata e non da testimone o da parte civile come fu per un certo periodo il caso di Imane Fadil, deceduta per cause da accertare il primo marzo. Eppure questa rediviva volontà di trasparenza, la Polanco pare averla riscoperta già nel 2014, ovvero in un periodo molto caldo dell’inchiesta Ruby e Ruby bis. E così ecco le novità di ieri. Negli atti depositati al processo Ruby ter emergono due elementi importanti: l’audio di un colloquio tra lei e il suo legale e una lettera che la Polanco ha inviato all’allora pm Ilda Boccassini, titolare delle indagini sul Rubygate. Entrambi i documenti sono del 2014. Il suo avvocato di allora era Andrea Buondonno che l’ha seguita fin dall’inizio dell’inchiesta. In quell’audio, Polanco dice queste parole: “Non voglio soldi, non voglio case, voglio patteggiare e pulirmi”. Siamo nell’ottobre del 2014. In quel momento, l’avvocato rinuncia al mandato. In sostanza, spiegherà il legale, la scelta di abbandonare era legata alla nuova posizione della Polanco, una posizione che, per l’avvocato, era incomprensibile visto che, a suo dire, l’ex olgettina avrebbe potuto tranquillamente difendersi in aula. Di più: nello stesso mese la Polanco invia una lettera manoscritta di una pagina a Ilda Boccassini. Si legge: “Gentile Ilda Boccassini, scrivo queste due righe perché vorrei un incontro con lei o con qualcuno di competenza, il motivo per il quale scrivo è perché il mio avvocato si è rifiutato di accompagnarmi a rilasciare una dichiarazione spontanea sul caso odierno. Distinti saluti”. Nell’audio, inoltre, l’allora avvocato della giovane, stando a quanto appreso ieri in Procura, parlando con la ragazza di una sua parcella, avrebbe detto a lei che “loro hanno preso l’impegno che pagano” e poi le avrebbe detto che se avesse bussato alla porta dei pm per un patteggiamento non l’avrebbero ricevuta.

A distanza di cinque anni, nonostante il suo cambio di rotta, la Polanco non ha mai reso dichiarazioni in Procura. Solo poche settimane fa, a margine di un’udienza del processo, ha spiegato: “Può darsi che la mia versione davanti ai giudici sarà diversa rispetto a quella del Ruby bis, ho deciso di dire le cose come stanno, adesso mi sento una donna con dei figli e voglio dire la verità”. Recentemente la soubrette è stata sentita in questura come testimone per la morte di Fadil. Fascicolo detenuto dai pm che coordinano il Ruby ter (prossima udienza il 1° luglio) e che è incardinato con l’accusa di omicidio volontario a carico di ignoti.

 

Il processo

Si chiama Ruby ter il processo per corruzione in atti giudiziari: tra gli imputati Silvio Berlusconi e le ragazze che avrebbero mentito sulle notti di Arcore in cambio di denaro

Proiettile al pm che incriminò Salvini: “Basta immigrati”

“Questo è un avvertimento, la prossima volta, se continuerai a fare sbarcare gli immigrati, passiamo ai fatti. Contro di te e ai tuoi tre figli”. Ecco il contenuto della lettera di minacce contenente un proiettile arrivato sulla scrivania del procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio. Il magistrato ha ricevuto la busta al cui interno c’era il proiettile calibro 6,35 nascosto tra due bustine, forse di zucchero, per passare i controlli al metal detector. Già nei giorni scorsi Patronaggio, che coordina le indagini sugli sbarchi, aveva ricevuto due lettere di minacce, sempre sullo stesso argomento. E anche nel settembre del 2018 Luigi Patronaggio era stato destinatario di un’altra lettera contenente in proiettile. “Zecca sei nel mirino”, si leggeva nella lettera contenente un proiettile da guerra. Il plico era arrivato anche quella volta via posta. Sulla lettera, il simbolo di Gladio, l’organizzazione paramilitare clandestina nata nel dopoguerra per contrastare un’eventuale invasione sovietica, un simbolo poi associato alla stagione dei misteri sulle stragi italiane. In quel periodo, Patronaggio era al centro delle polemiche per l’indagine sul ministro dell’Interno Matteo Salvini, per il blocco della nave Diciotti al porto di Catania.

Zingaretti smentisce: “Mai chiesto a Ferri passo indietro da commissione Giustizia”

“In merito a notizie stampa riguardanti il Pd e l’onorevole Ferri, l’Ufficio stampa del Partito democratico precisa che il segretario Zingaretti, in relazione alle vicende del Csm, non ha mai incontrato o parlato con il deputato Ferri, né tantomeno avanzato richieste di dimissioni dalla commissione parlamentare di cui è membro”. Così dal Pd hanno smentito alcune notizie riportate sui giornali ieri mattina. “E Zingaretti chiede a Ferri (inascoltato) un passo indietro”, titolava per esempio Repubblica facendo riferimento a Ferri, storico ras della corrente di Magistratura indipendente e parlamentare Pd. Lo stesso che si sedeva a discutere con l’ex sottosegretario Luca Lotti delle nomine del futuro procuratore capo di Roma, come si è scoperto dalle carte della Procura di Perugia. Insomma per Zingaretti, Ferri per ora può rimanere dove sta: ossia in commissione Giustizia.

“Lascio la mia corrente, non l’Anm Vedremo se vorranno sfiduciarmi”

Tutti si aspettavano le dimissioni da presidente dell’Anm, invece Pasquale Grasso si è dimesso dalla sua corrente, Magistratura Indipendente.

Cosa è successo nella riunione di sabato scorso a porte chiuse della sua ex corrente?

Non le riferirò particolari, voglio mantenere il mio tratto signorile. Posso dirle che c’era un clima molto ostile nei miei confronti. Mi sono ritrovato isolato pur nel dichiarato rispetto delle mie posizioni, che sono stato libero di esprimere.

Facile immaginare che lei, a differenza dei vertici di MI, era per le dimissioni dei tre consiglieri del Csm di quella corrente che hanno partecipato a un incontro, tra gli altri, con il parlamentare e imputato Luca Lotti, con il parlamentare e mentore di MI, Cosimo Ferri (magistrato in aspettativa e deputato) e con il pm romano, indagato a Perugia, Luca Palamara.

Secondo la mia considerazione personale, il solo fatto di aver partecipato a quell’incontro, anche senza interloquire, è un vulnus all’istituzione, al Consiglio. Io mi sarei dimesso. Per le mie convinzioni, sarei andato via subito anche se gli interlocutori avessero parlato di sport, di macchine. Ma potrebbero esserci delle diverse responsabilità tra i consiglieri presenti. Finora abbiamo solo generici resoconti di stampa. Se, per esempio, qualcuno dei consiglieri è andato via quasi all’istante, la valutazione per quel caso sarebbe diversa.

Tornando alle sue dimissioni da MI, c’è chi dice che ha lasciato perché la nave è in cattive acque…

Sono malignità. Ci troviamo di fronte a una situazione critica senza precedenti, le condotte in concreto di MI non rispecchiano più gli ideali in cui credo. Parafrasando una canzone di Fabrizio De André, se le cose sono cambiate, non si deve chinare il mento per paura di sentirsi dire che stai abbandonando la barca.

Lei è ancora presidente dell’Anm, ma era stato votato tra i rappresentanti di MI a cui toccava la guida del sindacato delle toghe, per il principio di rotazione che vi siete dati. Non crede che avrebbe dovuto dimettersi anche da questa carica?

È vero che sono stato scelto come rappresentante di MI, ma una volta diventato presidente, e lo dissi in tempi non sospetti, sono diventato il presidente di tutti i magistrati.

Domenica ci sarà un “parlamentino” dell’Anm convocato d’urgenza dalle correnti Area, AeI e Unicost contro MI che si è schierata contro le dimissioni dei consiglieri del Csm autosospesi, anche se pochi giorni prima la stessa Anm le aveva chieste. Insisto. Come fa ad arrivare a quell’assemblea da presidente?

È il cambio di passo che ci chiede la società. Dobbiamo andare oltre le correnti o renderle come dovrebbero essere, luogo di scambi di idee, di ideali, non devono essere come dei partiti. Vedremo se i miei colleghi voteranno la sfiducia nei miei confronti. Da parte mia ricorderò che siamo tutti magistrati e che le situazioni di crisi si affrontano insieme. Dimettermi da presidente dell’Anm per me sarebbe stato un atto di codardia, lo testimoniano i tanti messaggi di solidarietà della base.