Contagi-boom: quarantena addio e bus solo ai vaccinati

Sotto la pressione della variante Omicron, che rischia di mandare milioni di persone in isolamento e di complicare ancora la situazione negli ospedali, il governo ha sostanzialmente abolito la quarantena (oggi di 7 giorni) per le persone che “nei 120 giorni dal completamento del ciclo vaccinale primario o dalla guarigione o successivamente alla somministrazione della dose di richiamo (il booster o terza dose, ndr), hanno avuto contatti stretti con soggetti confermati positivi al Covid-19”, si legge all’articolo 3 del decreto legge approvato ieri sera. Dovranno però indossare mascherine Ffp2 per 10 giorni e fare un tampone rapido o molecolare dopo cinque: quasi un rompicapo. Una circolare del ministero della Salute stabilirà le modalità: secondo il parere reso ieri dal Comitato tecnico scientifico i “super vaccinati” per cinque giorni potranno svolgere le “attività essenziali”, ovvero “lavorare (qualsiasi lavoro), andare a scuola o all’università, accompagnare i figli a scuola, andare da parenti non autosufficienti, a fare la spesa o in farmacia, se non ci sono alternative” per dirla con un membro del Cts, “ma non andare al ristorante, al cinema, a teatro, in palestra e in piscina”. Chissà chi controllerà.

L’altra decisione è l’estensione del super green pass (guariti o vaccinati) ai treni, al trasporto pubblico locale, agli impianti sciistici, ai ristoranti e ai bar all’aperto, a piscine, sport di squadra e centri benessere, agli stadi dove peraltro la capienza massima scende dal 75 al 50%, ai palazzatti dello sporto (massimo 35% e non più 50%), nonché ai ristoranti degli alberghi e strutture ricettive nelle zone gialle e arancione. Fin qui c’era solo il pass base, ora sufficiente solo per andare a scuola e al lavoro, però a piedi o con mezzi privati.

Sul resto l’esecutivo si è diviso. Mario Draghi ha aperto la riunione parlando di super pass per tutti i lavoratori, sollecitato anche dal ministro della Salute Roberto Speranza e dalla Conferenza delle Regioni. Il leghista Giancarlo Giorgetti l’ha fermato: “Noi siamo contrari ma non per ideologia. Sarebbe un obbligo vaccinale mascherato. Per farlo, e se ne può parlare in un prossimo Consiglio dei ministri, lo Stato deve assumersi la responsabilità: dovrebbe elencare le categorie fragili esenti, risarcire i possibili danni da vaccino ed eliminare la manleva”, cioè il discusso consenso informato che secondo autorevoli giuristi non esenta affatto lo Stato dalla responsabilità civile. Poi è andato a raccontarlo all’Adnkronos, anche a nome del M5s. Che però, con il ministro Stefano Patuanelli, si è schierato per l’obbligo vaccinal, anche per chi non lavora. Vorrebbe l’obbligo anche Confindustria, come il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta di Forza Italia. A Giorgetti ha risposto Mariastella Gelmini, che rappresenta FI in cabina di regia: “Ma Fedriga è del tuo stesso partito e questa mattina voleva il green pass”. Se ne riparlerà subito dopo Capodanno. Pd e Italia Viva sono per l’obbligo vaccinale.

Ieri in Italia abbiamo avuto 98 mila contagi, 148 decessi, 489 ricoveri in più in area medica e 40 nelle terapie intensive con 126 nuovi ingressi. “Nel Regno Unito, dove è arrivata prima, Omicron raddoppia i contagi in tre giorni e i ricoveri in otto/nove giorni”, sintetizzano alla Salute. Sarà anche meno letale per i vaccinati e forse non solo, con quei numeri però anche i casi gravi aumenteranno. E la Delta non è sparita.

L’intervento sulle quarantene crea un ginepraio. I non vaccinati in caso di contatto faranno dieci giorni, come adesso. I vaccinati con due dosi da più di 120 giorni (quattro mesi, dopo i quali si può fare il booster) ne faranno cinque contro i sette attuali. I super vaccinati come sopra: “autosorveglianza” la chiama il decreto. La circolare dovrebbe prevedere tamponi ogni 24 ore per gli operatori sanitari e ogni 48 per i lavoratori a contatto con il pubblico, fino ai camerieri e forse agli insegnanti. E tamponi in uscita dall’isolamento, forse, solo per i sintomatici. Con le Asl che hanno ormai abdicato al tracciamento, i controlli saranno quasi impossibili: qualcuno sarà tenuto alla Ffp2, per altri basterà la mascherina chirurgica. Si apre, solo adesso, il tema del prezzo calmierato per le costose Ffp2.

Sarò Franco

Nel Paese di Sottosopra non deve discolparsi chi vuole al Quirinale un puttaniere pregiudicato che ha frodato il suo Paese e finanziato la mafia, ma chi inorridisce all’idea. La Camera celebra un consigliere regionale che si uccide dopo la condanna per essersi pagato le spese private coi soldi nostri, confondendo suicidio e assoluzione. E il Governo dei Migliori riesce a far peggio dei Peggiori di prima non solo sulle nuove regole anti-Covid: roba da manicomio. Ma anche sul suo atto più importante: la legge di Bilancio. L’anno scorso, dopo il lockdown, i Dpcm per la seconda ondata e la raffica di dl Ristori da 150 miliardi, il noto peggiore Conte la depositò il 18 novembre e dopo 26 giorni iniziò l’esame. Quest’anno, senz’alcuna scusa plausibile, con 10 mesi per prepararla e una maggioranza bulgara senza oppositori, Draghi la licenzia in Cdm il 28 ottobre, la annuncia in Senato per il 16 e poi continua a pasticciarla, presentando il testo solo il 6 dicembre (e lasciando in bianco la casella su come ripartire gli 8 miliardi di tagli fiscali). Così, tra il deposito della legge e l’inizio dell’esame, passano ben 39 giorni e solo il Senato riesce a darle un’occhiata, approvandola il 24 dicembre con la fiducia. Alla Camera restano tre giorni per timbrarla a scatola chiusa (anche lì con fiducia), sennò si va alla terza lettura e all’esercizio provvisorio nel 2022.

Così Draghi, con 35 fiducie in 10 mesi e mezzo (3,2 al mese), straccia il record di Monti (3 al mese), cioè l’altro governo con la maggioranza più larga mai vista. Il Conte-2, noto “vulnus democratico” per il Rignanese e il Cassese, ne chiese 2,25, seguìto dal Gentiloni (2,13), dal Renzi (2), dal Letta (1,11), dal Berlusconi-3 (1,07) e dal Conte-1 (1). Questa collezione di trionfi si deve, oltreché a SuperMario, al suo ministro Daniele Franco che, quanto a pasticci e marchette, fa rimpiangere Cirino Pomicino. Infatti è il principale candidato a diventare premier nel caso in cui l’attuale ascenda al Colle. Resta inevasa una domanda, che ci ronza in capo da quando s’insediò il Governo dei Migliori (o “di alto profilo”, per dirla con Mattarella) e scoprimmo che, su 23 ministri, nove erano gli stessi del Conte-2 e tre del Conte-1, quindi Peggiori. Pensammo, sbagliando, che i Migliori fossero i sette tecnici: Bianchi, Messa e Giovannini, tre ectoplasmi; Colao, estinto; la Cartabia, autrice della peggior riforma della giustizia della storia; Cingolani, candidato unico al Premio Attila 2021; e appunto Franco, quello del Bilancio-catastrofe. Tutta gente che fa rimpiangere chi c’era prima. Chi rimane a garantire la qualifica di Migliori a tutti gli altri? Brunetta, Carfagna, Gelmini e Orlando. O uno dei quattro. Noi, trattandosi di “alto profilo”, optiamo senza indugio per Brunetta.

Maledette famiglie: lasciano i figli orfani, ma a noi l’arte

Nei consueti rendiconti di fine anno in cui si è dilettata anche la redazione culturale de Il Fatto è saltato fuori che il film italiano più significativo del 2021 e il romanzo italiano più significativo del 2021 ruotano entrambi intorno al medesimo plot narrativo, sapientemente collocato a metà delle rispettive trame: la tragica scomparsa dei genitori del protagonista.

Aggiungeteci che stiamo parlando di autori pressoché coetanei, sui cinquant’anni, del calibro di Paolo Sorrentino, con È stata la mano di Dio; e Alessandro Piperno, con Di chi è la colpa. Sarà dunque lecito ricercare – con la dovuta delicatezza – un nesso tra queste orfanitudini, che vada oltre la mera coincidenza?

Esito ad addentrarmici perché so bene che nel caso del regista si tratta di una tragedia realmente avvenuta, benché trasfigurata nell’autofiction. Mentre lo scrittore ha la malizia di dedicare il libro ai genitori, quasi a proteggersi dalla scelta di far morire la madre e scomparire nelle patrie galere il padre. Del resto, anche nei suoi romanzi precedenti Piperno non ci era andato giù leggero nel raccontare in prima persona un’infinità di brutte storie famigliari.

Ad aggravare il mio imbarazzo, ho appena finito di leggere il più riuscito e maturo romanzo di Chiara Gamberale, Il grembo paterno, in cui l’autrice “gioca a rimpiattino con la propria autobiografia” (copyright Walter Siti) per rivendicare la nascita di una “figlia di tutta madre” generata con procreazione assistita da “una figlia di troppo padre”. Insomma, questi nostri talenti nati fra l’inizio e la fine degli anni Settanta devono averci proprio un conto aperto con la generazione che li ha messi al mondo, tanto da farne il fulcro della loro creatività.

Se vado avanti, per fortuna, le analogie cedono il posto alle differenze. Piperno si avventura da par suo nella fabbricazione adulterata di una nuova identità post-genitoriale, tutta interna al microcosmo dell’ebraismo romano. Scarnifica i vezzi di quell’ambiente, ne addita l’artificiosità, descrive l’arrampicata sociale come terapia di lenimento delle proprie frustrazioni esistenziali. Il suo orfano protagonista si narra in prima persona senza neanche bisogno di dargli un nome (Alessandro?) per risultare alla fine un insopportabile narciso che si compiace del proprio talento e della propria (solo letteraria?) infelicità. Ci divertiremo e soffriremo alle sue spalle, potremo anche compatirlo, ma non potremo fare il tifo per lui. L’orfano non riuscirà a diventare migliore di chi lo ha generato.

Pare strano, ma troveremo piuttosto nella napoletanità di Fabietto, l’alter ego giovanile di Sorrentino, quella componente fondamentale della cultura ebraica che è il messianismo, cioè la fede in una possibile redenzione, nell’avvento di un Mondo Nuovo. Non suoni blasfemo se dico che il Messia disceso alle falde del Vesuvio, colui che salverà la vita di Fabietto e di un’intera città, reca il nome di Diego Armando Maradona. Sua è la mano di Dio. Ce lo aveva detto zio Alfredo, quando Napoli era ancora in trepidante, incredula attesa del grande colpo di mercato: “Se Maradona non viene a Napoli, mi uccido, mi uccido”. Venne, e fu meraviglioso. Sono passati quasi quarant’anni, ma Diego resta ancora indimenticabile consolazione dei derelitti. Dopo aver protetto l’orfano, saprà anche indicargli la strada del passaggio all’età adulta che, pur allontanandolo da ciò che resta della meravigliosa famiglia d’origine, gliene trasmetterà la poesia. Perché Maradona, come e più di San Gennaro e del suo munaciello, è l’espressione di un Messia popolare collettivo nel quale il visionario Sorrentino mai ha smesso di credere.

“Per me si va nella città dolente…”. Perfino la più sgradevole ziaccia della famiglia dell’orfano, la signora Gentile, maestra di turpiloquio, nel porgergli le condoglianze al funerale dei genitori, sa elevarsi declamando i versi dell’Inferno dantesco.

Ora io non lo so se si tratti solo di una coincidenza fortuita, ma la maestria grazie a cui il regista, lo scrittore e la scrittrice hanno deciso di fare i conti con l’incombenza dei genitori sulla loro vita adulta, rivela comunque un’esigenza costante della loro generazione incompiuta. Non sempre, non a tutti fa comodo essere cresciuti nella bambagia.

“Piccolo pulcino, volo tra bellissimi fiumi di stelle: non fare di me un aereo senza ritorno”

Pulcino, torno ad augurarvi la buonasera. Pulcino, sto ancora uscendo da conversazioni vuote e vane. Pulcino caro sto ancora uscendo da casa di questa gente che ne odia altra. Pulcino non credo più negli uomini. Pulcino caro non ce la faccio più non ce la faccio più. Pulcino con le piume tutte arruffate siate per me un po’ fontana e un po’ giardino. Pulcino caro devo essere capace di amare qualcosa, altrimenti mi sento leggero leggero, talmente leggero che una bella notte potrei volare via senza accorgermene… Piccolo pulcino non fate di me un aereo senza scali. Bisogna che ci tenga a tornare.

Ho visto da terra ciò che mi aspetta di notte in aria: le scie luminose degli spari (gli aerei che arrivano, li abbattiamo tutti). Vedi salire centomila api, è davvero straordinario, più di qualunque fuoco d’artificio. Piccolo pulcino piccolo pulcino presto sarò dall’altra parte dello spettacolo. Anche verso di me saliranno centomila api: dammi la voglia di tornare… Alleva per me tre conigli in una casa quieta sotto degli alberi quieti. Piccolo pulcino, non so più dove sono gli uomini. Tutto ciò che c’è qui, non sono uomini. Politici, chiacchieroni, faziosi. Piccolo pulcino, dubito degli uomini. Quindi devi raccontarmi di come sono i conigli e della loro macchia nera sul muso e l’odore degli alberi. Piccolo pulcino, ho voglia di amare il profumo degli alberi di casa mia, altrimenti non avrei qualcosa a cui tornare. Piccolo pulcino costruitemi una trappola dove abbia voglia di tornare a farmi catturare…

Sono proprio fragile. Non è a causa degli spari. È perché non mi ci riconosco più molto in questo pianeta. Quindi se non accendi alla tua finestra una piccola lucina amorevole e tranquilla, ho paura, per colpa di una notte di guerra, di non ritrovare più la strada per tornare.

Sai che la Francia è di fronte, a due ore e mezzo di volo! E io mi sento talmente in colpa di non condividere la loro infelicità. Mi sento talmente talmente smarrito di essere così tagliato dalle mie radici. Devo semplicemente pagare. Devo almeno essere dalla loro parte di guerra. Devo impegnarmi anima e corpo. Tu mi conosci bene. Non avrò pace senza missioni di guerra. Ho davvero bisogno di lavarmi il cuore in questi bellissimi fiumi di stelle che ho guardato da terra in questi giorni. Fa molto rumore ma in aereo è meglio. Non si sente niente. Ci sono solo le stelle.

Piccolo pulcino prediletto, proteggete un poco chi vi protegge.

Algeri, maggio 1943

Il principe che sposò la rosa

Ci sono incontri che stravolgono vite. Quello tra Antoine de Saint-Exupéry, scrittore e aviatore, e Consuelo Suncin Sandoval, scrittrice e pittrice, avvenuto nel 1930, è come una supernova: se la si potesse colorare sarebbe rossa, nera e blu. Esplode nel blu del cielo, come ogni vera passione è rosso fuoco, ma si rivelerà anche territorio ombroso, buio, complice pure il periodo storico in cui nasce e si evolve. A dolcezza, vicinanza, complicità, si affiancheranno gelosia, orgoglio, rabbia, insofferenza, problemi di denaro, di salute, impossibilità di comunicare, ricatti affettivi, in un’altalena di addii e riconciliazioni, strappi e rammendi.

Lo dimostra Il principe e la rosa. Lettere d’amore (1930-1944), carteggio inedito di 170 lettere pubblicato ora da Donzelli, corredato da un apparato fotografico, originali di epistole, cartoline e disegni, a ripercorre quattordici anni di vita insieme nonostante i lunghi periodi di distanza per le continue spedizioni-missioni aeree di lui.

Antoine l’appella “piuma d’oro, pulcino, pimpinella, Consuelo quetzal (coloratissimo uccello dell’America Centrale, ndr)”. Lei gli è devota sebbene spesso si ritrovi ferita dalla sua indole sfuggente, infedele, possessiva e dall’angosciosa e perenne attesa a cui la condanna. Non mancherà di farglielo notare: “Non divertitevi coi brandelli della mia speranza-cadavere! Non allontanarti troppo perché l’amore può estinguersi”. Anche Antoine patisce talvolta questa sposa che anziché luce del focolare è tizzone ardente e che lo mette di continuo in discussione: “Il trucco del fiore (Consuelo, ndr) era mettere sempre il piccolo principe dalla parte del torto. Ecco perché il poveretto se n’è andato!”. D’altronde l’ama anche per il suo mood ribelle: “Adoro le tue inquietudini, le tue collere e tutto ciò che in te è addomesticato solo a metà. Se tu sapessi ciò che mi dai e quanto ero stanco di visi senza carattere”.

Lei, natia di El Salvador, chiamata la “Sherazade dei Tropici” per la sua abilità nel raccontare storie, s’imbatte in Antoine a un ricevimento dell’Alliance française a Buenos Aires. Ha 29 anni, è già due volte vedova. Antoine è un pilota postale, ha già pubblicato il romanzo Corriere del Sud, a raccogliere le drammatiche esperienze in ricognizione sul Sahara. È un uomo malinconico e insoddisfatto che nell’aviazione trova sfogo e pace nonostante i rischi. È proprio in volo, lui pilota e lei passeggera, che si dichiara: “Ti chiedo di sposarmi. Amo le tue mani e le voglio solo per me”. Il giorno delle nozze, nel 1931, in Francia, Consuelo veste di nero e stringe garofani rossi tra le mani. Il rosso e il nero, si diceva. Da subito, per nulla benvista dalla famiglia Saint-Exupéry, che la bolla vedova allegra e approfittatrice, deve confrontarsi con la realtà della vita di moglie di un aviatore, “quando Tonio partiva col corriere, ero pronta per l’ospedale”, ma anche di moglie di uno scrittore: “Gli piaceva che stessi nella sua stessa stanza mentre scriveva e, quando non aveva più idee, mi chiedeva di ascoltare e mi rileggeva, una, due, tre volte le sue pagine e aspettava le mie risposte”. Lei gli garantisce sostegno e attenzione, lui la proteggerà sempre, anche nelle preghiere. “Signore, proteggimi la mia Consuelo. Rendimela fresca e pura e semplice come un fiore di montagna e fammi tornare un giorno da lei”.

Fiore di montagna, pimpinella ma soprattutto Consuelo è la rosa sull’asteroide B612 ne Il piccolo principe, scritto e pubblicato nel ’43 mentre i due vivono a Long Island. Da lei vorrebbe fuggire (lo fa non di rado, tradendola) perché prendersene costantemente cura gli pesa, ma a lei eternamente torna. Nell’ultima lettera, datata 26 luglio ’44, è preoccupato: “Pregate per il vostro papou che fa la guerra nonostante la sua barba bianca e tutte le devastazioni del suo corpo. Pregate non tanto per salvarlo, ma perché trovi la pace e non si angusti giorno e notte riguardo alla sua Pimpinella!”. Cinque giorni dopo decolla da Bastia Poretta in Corsica per l’ennesima missione di ricognizione sopra la Francia. Non tornerà. Lei continuerà a scrivergli ogni domenica forse memore di quel suo “se sarò ferito, avrò chi mi curerà. Se sarò ucciso, avrò chi aspettare nell’eternità. Se tornerò, avrò da chi tornare”.

Mosca chiude Memorial: così non si parlerà più dei gulag

Lo scorso 8 novembre, la Procura generale aveva fatto appello alla Corte Suprema chiedendo la chiusura di Memorial, organizzazione per la difesa dei diritti umani fondata dal Nobel per la Pace, Andrei Sakharov, e da altri dissidenti, che studia e divulga la repressione ai tempi dell’Unione Sovietica. Il motivo: per i magistrati, Memorial è un “agente straniero”, lavora con fondi inviati dall’esterno, ma non lo ammette. Il gruppo è stato dichiarato “agente straniero” nel 2016, e da allora la magistratura ha avuto via libera per controlli sempre più serrati. Secondo quanto denunciato dai procuratori, il gruppo violerebbe le regole che lo obbligano a presentarsi come “agente straniero” e avrebbe provato a nascondere la designazione. Ieri, la Corte Suprema ha accolto la tesi della Procura generale, affermando che Memorial “crea una falsa immagine dell’Urss come stato terrorista” e “riabilita i criminali nazisti”. Dal canto loro i responsabili di Memorial hanno annunciato che la storia non finisce qui: cercheranno “vie legali” per continuare a lavorare: “Memorial non è un’organizzazione e nemmeno un movimento sociale – si legge in un comunicato – Memorial è un bisogno dei cittadini russi di conoscere la verità sul suo tragico passato, sul destino di milioni di persone e nessuno può liquidare questo bisogno”. Molteplici le reazioni negative alla notizia della chiusura: “Memorial è un’organizzazione per i diritti umani molto rispettata, che ha lavorato instancabilmente per documentare le atrocità e la repressione politica compiute sotto il governo di Stalin e di altri leader sovietici. Chiudendo l’organizzazione, le autorità russe calpestano la memoria di milioni di vittime perse nel gulag” ha detto Marie Struthers, direttrice di Amnesty International per l’Europa orientale e l’Asia centrale.

Al Sadr vince le elezioni e gli Usa puntano su di lui

Èiniziato un nuovo e imprevedibile capitolo della storia irachena. Con la conferma dei risultati delle elezioni parlamentari tenutesi lo scorso ottobre, la Corte suprema federale ha messo fine alle proteste dei candidati e delle milizie filo-iraniane che in questi mesi avevano bloccato la formazione di un nuovo governo agitando lo spettro dei brogli.

Fatah, il blocco sciita sostenuto dal confinante Iran, alla fine ha dovuto accettare la decisione della Corte di assegnare la vittoria definitiva al Movimento Sadrista, la formazione del noto e controverso religioso Moqtada al Sadr che, pur essendo un esponente di spicco dello sciismo, ritiene fondamentale per le sorti del paese sganciarsi da Teheran. Per quanto sia impossibile determinarlo con certezza, dato il comportamento da sempre ondivago e contraddittorio del leader. La fama del rampollo 47enne ha varcato i confini nazionali in seguito all’invasione americana del 2003, quando costituì l’esercito del Mahdi, una enorme milizia armata fino ai denti con l’obiettivo di uccidere quanti più soldati americani e far terminare l’occupazione. I feroci combattenti del Mahdi riuscirono invece a terrorizzare la popolazione usando anche l’arma dei rapimenti per finanziarsi. Oggi la sua vittoria è motivo di speranza proprio per Washington, arci-nemica di Teheran. Il partito di Sadr, che ha ottenuto 73 dei 329 seggi rispetto ai 54 del 2018, ha interrotto infatti l’equilibrio “instabile” imposto, di fatto, dagli ayatollah iraniani, venutosi a creare dopo la caduta di Saddam Hussein. Dopo aver ringraziato la corte, la commissione elettorale e il popolo iracheno in un post su Twitter, il vincitore ha chiesto “la formazione di un governo di maggioranza nazionale che non sia né filo orientale né filo occidentale”. Ma tutto fa pensare che Sadr abbia già stabilito un modus vivendi con l’Occidente, ovvero gli Usa e i suoi soldati ancora a Baghdad. Subito dopo la chiusura delle urne, il chierico-politico aveva stabilito le condizioni da seguire per dialogare con gli Stati Uniti in una dichiarazione in lingua inglese, con cui li invitava a rispettare la sovranità dell’Iraq e a non interferire negli affari interni. Poco dopo Sadr aveva rinforzato il vademecum twittando una dichiarazione in sette punti in cui affermava che una delle questioni più importanti quando si assume il ruolo di premier è la posizione con gli Stati Uniti. Ha quindi sottolineato che gli Usa devono che trattare l’Iraq come “uno stato con piena sovranità”, aggiungendo che dovrebbe essere instaurato un “dialogo serio ed efficace” riguardo la presenza militare Usa in Iraq. Sadr ha poi ricordato che le proteste degli iracheni sono un “affare interno” e una questione che non riguarda gli Stati Uniti. Appena prima delle elezioni, centinaia di iracheni avevano sfilato chiedendo giustizia per i manifestanti uccisi durante le proteste dell’ottobre 2019 (Tishreen). Ha anche affermato che “terra, aria, mare e popolo iracheni” devono essere tenuti lontani dai conflitti regionali degli americani. Infine il kingmaker sciita ha enfatizzato che tutte le ambasciate sono benvenute purché non gli mettano il bastone tra le ruote.

“D’ora in poi, tutte le armi devono essere nelle mani dello Stato, e il suo uso al di fuori di questo dovrebbe essere proibito, anche per coloro che si definiscono partigiani”, ha detto, riferendosi alle milizie agli ordini dei pasdaran iraniani. La disputa elettorale aveva sollevato la possibilità che Fatah e i suoi alleati avrebbero scatenato la violenza per ottenere il risultato che desideravano. Che facessero sul serio si è visto poco dopo le consultazioni quando l’abitazione del premier Mustafa al-Kadhimi è stata colpita con droni armati nonostante si trovi nella cosiddetta Zona Verde. Kadhimi è sopravvissuto, ma chi prenderà il suo posto potrebbe non essere altrettanto fortunato.

Africa, voglia di golpe. C’è un’altra epidemia col volto dei generali

Nel 2021 l’Africa è tornata nelle mani dei suoi generali, dei loro kalashnikov e del loro status quo. L’emergenza che impantana il continente non è solo quella del virus: è tornata “l’epidemia dei colpi di Stato”, come l’ha chiamata recentemente il Segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres. Brutali leader in mimetica, una strage dopo l’altra, con i loro violenti commandos si sono imposti al potere nell’era della decolonizzazione: tra il 1960 al 2000, riferisce uno studio congiunto della University of Central Florida e della University of Kentucky, di colpi di Stato in Africa ce ne sono stati almeno quattro all’anno, fino a dimezzarsi all’inizio del nuovo secolo. L’anno che se ne va contraddice la cifra che è tornata in aumento.

Solo quattro giorni fa i sudanesi sono tornati per strada contro il colpo di Stato avvenuto a Khartoum nell’ottobre scorso, quando il generale Abdel Fattah al-Burhan ha defenestrato il premier Abdallah Hamdok, arrestandolo insieme ad altri cinque ministri. Mentre trascinavano il capo di Stato verso una località sconosciuta, il militare si è rivolto alla nazione a reti unificate. Come al-Burhan, oggi a capo di un governo di transizione dove sono gli uomini dell’esercito a dettare legge, ha fatto Mamady Doumbouya il nuovo caudillo di Conakry, Capitale della Guinea. È stato spodestato dal capo delle forze speciali da lui stesso create, a settembre scorso, il presidente Alpha Condé, 83 anni, colpito dal suo esercito appena ha scelto di violare il termine dei due mandati, beffandosi della Costituzione del Paese. Anche lui è apparso sugli schermi della nazione guineana, con espressione truce e camicia sbottonata, quando in tv, in diretta, il colonnello Doumbouya ha promesso che il potere non sarebbe più stato di un solo uomo, ma sarebbe stato restituito al popolo. “Non dobbiamo più violentare la Guinea, ma solo farci l’amore”: l’ex legionario che ha sposato una pallidissima poliziotta francese, ha promesso di schierare le sue forze speciali contro la povertà dei 13 milioni di abitanti che sono però rimasti nella stessa situazione. Doumbouya è stato istruito, in gioventù, dalle forze americane in Burkina Faso in un campo di addestramento dove ha conosciuto Assimi Goita, che il 24 maggio del 2021 ha lanciato nel suo Paese, il Mali, un’offensiva contro il presidente Ibk, Ibrahim Boubacar Keita, accusato di corruzione, nepotismo e di portare il Paese alla rovina. Goita, come ha fatto al-Burhan in Sudan, si è mostrato favorevole a un governo di transizione composto da civili e militari, ma, con la stesse strategie del sudanese, lo ha depauperato dei poteri per decapitarne la leadership eletta.

Non si scioglie nemmeno la Guerra fredda nel continente più caldo al mondo. Non è solo il malcontento della popolazione a fomentare caos di cui approfittano i colonnelli, ma anche il supporto di attori internazionali. A Bamako ha teso una mano Mosca, non solo con le campagne di propaganda digitale, ma anche con i Wagner, i mercenari fantasma dello chef di Putin, Evgeny Prigozin, alleato del Cremlino, che pattugliano il territorio e addestrano i soldati locali. Rammaricati gli Usa: le autorità maliane “stanziano fondi pubblici per militari stranieri” ha detto il Segretario Usa Antony Blinken qualche giorno fa. Il gruppo Wagner, già colpito da sanzioni europee, sarebbe sbarcato in Mali all’inizio di questo mese, dicono i 15 Stati europei impegnati sul territorio a combattere il radicalismo islamico. Il documento è stato firmato anche da Italia e Francia. È stata la variante Omicron, che corre da una latitudine all’altra a fornire un alibi a Parigi, permettendo a Macron di rimandare una visita di Natale che avrebbe suscitato imbarazzo all’Eliseo: il presidente dell’ex potenza coloniale, atteso dal contingente francese schierato in Mali dal 2013, avrebbe dovuto incontrare il golpista Goita.

Ma i colonnelli africani sono nemici finché conviene, quando non si trasformano in comodi alleati: Idris Deby, dittatore del Ciad da quando nel dicembre del 1990 attuò un colpo di Stato contro l’autocrate Hissene Habre e gli scippò il potere, è stato definito da Macron “un amico leale e coraggioso”. Nonostante gli innumerevoli tentativi di defenestrazione e attentati, la pioggia di accuse di corruzione e omicidi mirati dei suoi avversari, Idris ha guidato il Paese fino all’aprile scorso, quando è stato ucciso dai ribelli pochi giorni dopo essere stato rieletto per il suo sesto mandato con un plebiscito di voti alle urne dove mancava una cosa fondamentale: almeno un avversario. Ma c’è ancora Deby dopo la morte di Deby: deceduto Idris, con la stessa divisa e lo stesso cognome, si è tenuto la poltrona suo figlio Mahamat, detto Kaka.

Alcuni di questi Stati sono stati esclusi dalla stessa Unione africana, ricorda Al Jazeera in un servizio dedicato ai putsch del Sud del mondo, ma a poco è servita questa scelta, forse ancora meno di quanto siano realmente pesate, nell’equilibrio del comando, le proteste di piazza dei civili che si sono susseguite negli Stati predati dai loro stessi eserciti. Il Ciad, infine, ha reso noto una settimana fa che invierà in Mali i suoi militari per rimpinguare le truppe Minusma, (Missione di stabilizzazione integrata multidimensionale delle Nazioni Unite). Tutti insieme combatteranno contro un nemico che finora non ha conosciuto confini, né quelli tribali, né quelli dei colonnelli: il jihadismo.

L’arrivo di 558 “clandestini” e l’ira di Salvini

“Nave norvegese con 558 clandestini a bordo in arrivo dove? In Italia, ovviamente… Che il 2022 riporti dignità e sovranità al nostro Paese! P.s. Il 21 gennaio a processo per aver bloccato gli sbarchi ci vado io…”. È la reazione di Matteo Salvini alla notizia dell’assegnazione di Augusta (Siracusa) da parte delle autorità italiane come “porto sicuro” alla nave Geo Barents di Medici senza frontiere con 558 profughi a bordo (145 minori, di cui l’80% non accompagnati, e tre donne incinte. Sei bimbi hanno meno di 4 anni). Lo ha comunicato la stessa organizzazione umanitaria che da giorni sollecitava una soluzione alla vicenda dopo il salvataggio dei migranti in otto diversi interventi, l’ultimo dei quali avvenuto alla vigilia di Natale, in 12 giorni di operazioni. La nave è arrivata ieri sera nel porto siciliano: lo sbarco dovrebbe avvenire questa mattina. “Siamo felici, perché è un passo molto importante e perché la Libia non è un porto sicuro”, ha commentato Fulvia Conte del team di soccorso Msf. Molti dei naufraghi hanno ustioni da carburante, infezioni respiratorie e ferite legate alle violenze subite nei campi di accoglienza (di fatto di detenzione, ndr) libici.

A bordo della Sea Watch – l’altra nave in attesa nell’area – il naufrago più giovane ha appena due settimane di vita. In totale sono 446 i migranti soccorsi in tre giorni in cinque operazioni. Due di loro, una donna al nono mese di gravidanza e la figlia di 3 anni sono state evacuate martedì per motivi medici e condotte a Lampedusa. Altri 444 restano sul ponte esposti “al freddo, al vento, al mare mosso”, dice l’ong, spiegando che “hanno bisogno e diritto di sbarcare subito in un porto sicuro”.

Medici senza frontiere ha fatto sapere che 27 cadaveri sono stati trovati a terra in Libia dopo i diversi naufragi dei giorni scorsi.

Il dio dei bambini è dove è l’uomo

La sera di Natale “non sapevo come rispondere alla domanda di un bambino, la stessa domanda che noi poveri cristiani dalla fede, diciamo così, discontinua, cerchiamo di schivare da una vita. Immagini la sera della Vigilia, in una casa baciata dal benessere, la tavola imbandita, il presepe illuminato e, sotto l’albero, i pacchi colorati che i più piccini tra poco scarteranno felici. Intanto, nel sottofondo, un televisore acceso rimanda la notizia di un barcone carico di persone affondato al largo delle coste greche, mentre era diretto in Italia”. (…) “Ed ecco che il bimbo fortunato, pensando ai bimbi annegati – alle onde, al gelo, al terrore di quegli attimi – chiede: Gesù non poteva salvarli? (…) “Se Dio è davvero infinita bontà, perché permette tanta sofferenza nel mondo che ha creato?”. È la domanda che si pone e pone Padellaro a padre Antonio Spadaro nella sua rubrica di martedì. Qui pubblichiamo la risposta di Spadaro.

 

Caro Antonio, ho letto la lettera che mi hai indirizzato ieri dalle pagine del Fatto Quotidiano. Le immagini delle tragedie che accadono nel Mediterraneo e che hanno come vittime i migranti sono sotto i nostri occhi.

Ma ormai è come se il velo dell’abitudine le avesse sbiadite. Ci appaiono già viste. Non sentiamo che dietro la storia di ogni singola persona che affoga nel Mare Nostrum, dietro ogni singola tragedia personale c’è una vita umana che affoga. E, con la sua, noi e la nostra umanità.

Per questo, ad esempio, io forse non avrei pubblicato le immagini del corpo di quel bambino, Alan Kurdi, che il mare aveva portato a riva. La morte di un bambino non può essere usata, neanche per il più nobile scopo, come quello di sensibilizzare le coscienze. Perché si rischia l’assuefazione. Ormai ci siamo abituati a quelle immagini tremende.

Tu mi poni una domanda chiara, netta, precisa: Dio dov’era? E ponendo la domanda innanzitutto solleva il velo di indifferenza che copre i nostri occhi. Chiamare in causa Dio forse significa una cosa: dire che sotto i nostri occhi sta accadendo qualcosa di tremendo, che non ha plausibilità né spiegazione possibile. Chiamare in causa Dio come in un tribunale sul banco degli imputati è un atto tragico che fa esplodere il grido della coscienza. Ti dirò che a me, appena ascolto la sua domanda, ne scatta in realtà un’altra che la precede: dov’era l’uomo? Cioè: dato che l’uomo è libero, e non è un pupazzo manovrato dalle mani di Dio, quel che è accaduto ha delle precise responsabilità assolutamente umane e nient’affatto divine. Spero solamente che nessuno abbia portato Dio in tribunale mentre immergeva la voglia di festa tra le bollicine di uno spumante in una casa baciata dal benessere, per citare una sua espressione. Mi sentirei un verme, dunque, se saltassi questa domanda che deve imporsi alla nostra coscienza: dov’era l’uomo? Quanti occhi abbiamo chiuso perché si potesse verificare quella tragedia?

Detto questo, resta la tua domanda. Vorremmo che Dio fosse apparso sulle acque del nostro mare e avesse portato in salvo con la sua mano umana ogni singolo bambino, bambina, donna e uomo che le acque e il nostro cinismo hanno fatto affogare. Perché Dio “permette” tanta sofferenza? Sono consapevole che se Dio non permettesse la nostra libertà noi saremmo tutte brave marionette e tutto funzionerebbe nel mondo come un orologio a cucù. No, non è così. E certo, a volte, vorremmo che la nostra libertà venisse annullata quando questa ci permette di compiere il male.

Ma la domanda resta: “Dio dov’era?”. Sulla croce. Dio era sulla croce, vivendo sulla sua pelle quell’ingiustizia e quel dolore atroce. Dio non è un motore immobile, ma un “agnello condotto al macello”, come ci dice la Bibbia. Lui sa. E da lì guarda al dolore del mondo.

Ma la domanda resta: “Perché i bambini soffrono?”. Io ti sto rispondendo come posso, ma in realtà ora mi accorgo che, in realtà, tu la domanda non l’hai posta a me: mi chiedi di rivolgerla a Papa Francesco. Anzi, proponi una seconda edizione dell’esperienza che ho vissuta con lui per realizzare il volume La saggezza del tempo, che ora Netflix ha portato sugli schermi con una docu-serie dal titolo Stories of a Generation con Papa Francesco. In realtà il Papa, prima di realizzare questa conversazione a distanza con i nonni, ne ha già realizzata un’altra proprio con i bambini dal titolo L’amore prima del mondo. In quel contesto un bambino americano di 7 anni, William, gli chiese: “Caro Papa Francesco, se tu potessi fare un miracolo, che cosa sarebbe?”. Alla domanda allegò un disegno che rappresentava una croce che si staglia su un arcobaleno.

Ecco, dunque, la risposta del Papa: “Caro William, io guarirei i bambini. Non sono riuscito ancora a capire perché i bambini soffrano. Per me è un mistero. Non so dare una spiegazione. Mi interrogo su questo. Prego su questa domanda: perché i bambini soffrono? È il mio cuore che si pone la domanda. Gesù ha pianto e piangendo ha capito i nostri drammi. Io cerco di capire. Se potessi fare un miracolo, guarirei tutti i bambini. Il tuo disegno mi fa riflettere: c’è una grande croce scura e dietro c’è un arcobaleno e il sole che splende. Mi piace questo. La mia risposta al dolore dei bambini è il silenzio oppure una parola che nasce dalle mie lacrime. Non ho paura di piangere. Non devi averla neanche tu”.