Tra mezzi passi indietro e le richieste di Nissan

Dopo le accuse, la ritirata strategica per proteggere almeno le posizioni acquisite. “Lo Stato francese è pronto a ridurre la propria partecipazione all’azionariato di Renault se questo sarà utile a consolidare la sua alleanza con Nissan. Altrimenti tutto rischia di crollare come un castello di carte”. Concretezza e un filo di paura nelle parole del ministro delle Finanze Bruno Le Maire, pronunciate non a caso a margine del G20 in Giappone. ll rifiuto di Nissan a confluire nella grande fusione con Fca è alle spalle, ma non la fermezza dimostrata del ceo Hiroto Saikawa. Le vecchie ruggini sono la vera emergenza industriale per una Régie che lo stesso governo francese ha riconosciuto incapace di essere autonoma sul piano tecnologico dal partner nipponico. Le voci raccolte dal quotidiano economico Nikkei Shinbun raccontano di manager “onestamente sollevati dalla rottura delle trattative, di cui Renault aveva tenuto Nissan all’oscuro, complicando una futura integrazione a tutto tondo”. Cioè l’idea di Carlos Ghosn di procedere ad una fusione tra Nissan e Renault: una direzione che il Giappone non ha mai nascosto di ritenere inammissibile. Un’epoca ora tramontata ma fatta di precedenze e opportunità ad investimenti che garantissero equilibri geopolitici a favore della Francia, perfino un calendario di lancio di nuovi modelli pesantemente condizionato dalla prelazione Renault su certi mercati. Servono altri equilibri in una struttura societaria particolare, nata nel 1999, in cui l’azienda di Yokohama è sempre stata in posizione di sudditanza. Ormai evidentemente e pericolosamente non più sopportabile.

La Francia e il suo europeismo di facciata

I vertici di Fca avrebbero potuto gestire in maniera più scaltra la trattativa con Renault. È azzardato mandare proposte ufficiali senza avere la certezza che siano già state accettate: certe operazioni prima si chiudono in silenzio, poi si rendono di dominio pubblico. Specie una, ed è attenuante non generica per gli uomini di John Elkann, in cui esiste una palese asimmetria tra le parti in causa: da un lato una multinazionale in cui possono mettere bocca solo gli azionisti privati, dall’altro un gruppo in cui il parere dello Stato, anch’esso azionista ma con altri interessi, è determinante. E il parziale passo indietro del ministro dell’economia francese Le Maire, che si è detto pronto a tagliare la partecipazione statale in Renault, ne è paradossalmente conferma.

L’affare con la Francia di Macron doveva indurre a una maggiore prudenza per almeno altri due motivi. Il primo sono le relazioni industriali tra Italia e Francia, tradizionalmente complicate e costellate da casi non troppo incoraggianti, tra cui i vari Telecom-Vivendi, Essilor-Luxottica, Lactalis e, soprattutto, Fincantieri-STX. Il secondo è la pancia patriottica di un paese pronto a vestire con convinzione i panni dell’europeista quando va a fare compere, salvo poi ricordarsi di essere esperto in barricate quando qualcuno bussa alla porta per l’argenteria di famiglia. Uno dei motivi per cui la vera unità d’intenti dell’Europa è diventata quasi una chimera è questo: c’è chi la millanta a parole ma la tradisce con i fatti. Se gli conviene.

Ora Fca guarda a Est. Il futuro dopo la mancata fusione

Per suggellare le nozze Fca-Renault sarebbero bastati “cinque giorni in più per convincere l’alleato giapponese”. Ne è convinto il ministro dell’economia transalpino, Le Maire. Fca aveva già dato il suo assenso alla Francia (che detiene il 15% di Renault) su tutela di lavoratori e siti industriali d’oltralpe, governance e partecipazione al progetto franco-tedesco per sviluppo e costruzione di batterie. Mancava solo la quarta condizione posta da Renault: “Il sostegno esplicito di Nissan” alla fusione, che Le Maire avrebbe provato a cogliere in occasione del G20 a Fukuoka, in Giappone.

Ma Fca di attendere quei cinque giorni non ne ha voluto sapere. “Non vi sono attualmente in Francia le condizioni politiche perché una simile fusione avvenga”, ha detto Fca che ha inderogabili urgenze: distogliere l’attenzione mediatica dal prossimo bilancio semestrale che si preannuncia negativo e, in vista dei limiti sulle emissioni imposti dall’Ue dal 2021 (95 g/km di CO2, Fca è a quota 128 g/km), trovare un partner industriale da cui rilevare piattaforme elettrificate, cioè dotate di tecnologia ibrida, plug-in e 100% elettrica.

Nel prossimo biennio Fca cederà a Tesla – che produce auto a emissioni zero – circa 1,8 miliardi di euro affinché le emissioni medie dei veicoli di entrambe le società vengano conteggiate insieme: un metodo virtuale per abbattere la CO2 dei modelli Fca e non incorrere in sanzioni ancor più onerose. Un tampone strategico in attesa di individuare una nuova alleanza industriale se non una vera fusione.

Già, ma con chi? Molteplici le opzioni sul tavolo. Da Psa – che è detenuta per il 14% dalla Francia e sembra abbia pure fatto pressione su Parigi per scongiurare il sodalizio tra Fca e Renault –, che non ha alleati nipponici da imbonire, alla stessa Renault. Un ritorno di fiamma improbabile, nonostante il ministro dei Conti Pubblici francese, Gérald Darmanin, ritenga che non si debba “chiudere la porta” sulla trattativa, specie se Renault riuscisse a trovare una quadra con Nissan.

Dunque, appaiono ancora più intensi i venti che spingono Fca verso Oriente, al cospetto dei colossi asiatici desiderosi di cementare la loro presenza in Europa e Usa. Fra loro figurano i coreani di Hyundai, gruppo da 7,5 milioni di auto e campione dell’elettrificazione (annovera dall’ibrido plug-in all’elettrico alimentato a batteria o idrogeno), e i cinesi di Geely, che detiene Volvo, è principale azionista di Daimler (che possiede Mercedes-Benz) e offrirebbe a Fca le chiavi per il fecondo mercato della Repubblica Popolare. Ma, in questi casi, più che di fusione si parlerebbe di un’acquisizione.

Africa: il ritorno del virus Ebola nella Repubblica Democratica del Congo spaventa le Nazioni Unite

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha diffuso i nuovi dati: nel Congo orientale le persone contagiate sono salite ad oltre 2.000; più di 1.300 le vittime. È la 2ª epidemia più grave di sempre, dopo quella che causò 11 mila morti in Africa Occidentale tra il 2014 e il 2016. Nemmeno un anno fa, a luglio 2018, l’OMS aveva dichiarato il Congo libero dall’Ebola. Ora, secondo l’agenzia Oxfam, la catena del contagio potrebbe sfuggire di mano: molti congolesi infatti non conoscono i sintomi del virus e non credono che la malattia esista. “I rimedi non stanno funzionando – dice Stefania Morra, dell’ufficio umanitario di Oxfam Italia -. Se le persone non sanno cosa devono fare, non si curano. Molti non credono nemmeno che l’Ebola sia reale”. Più della metà delle persone contagiate sono donne, le prime a prendersi cura dei malati. “Mia sorella è morta per l’Ebola, ma non volevamo crederci perché prima è riuscita a partorire e il bambino è nato sano. Ne eravamo così convinti che alcuni di noi ostacolavano il lavoro delle squadre di soccorso”, racconta Martine, una ragazza congolese che ha partecipato ai corsi di Oxfam sul virus Ebola. Oggi Martine prova a convincere la sua comunità ad adottare le misure di prevenzione. Un lavoro difficile, nel Congo sconvolto dalla guerra, con più di 5 milioni di sfollati interni. Come non bastasse, nel Paese si stanno diffondendo colera e morbillo. “È sempre più difficile vaccinare le persone, decontaminare le case e svolgere sepolture sicure. Si è registrata un’esplosione di casi destinati ad aumentare esponenzialmente nelle prossime settimane. La speranza adesso è che l’impegno dell’ONU contro l’Ebola e il lavoro di prevenzione tra la popolazione, possano sconfiggere in tempo il nuovo incubo”.

Caos in Algeria: popolo in piazza e presidenziali cancellate

Il governo algerino alla fine ha deciso di annullare l’impossibile elezione presidenziale del 4 luglio ma, rifiutando di piegarsi alle richieste di Democrazia del popolo, ha bloccato il paese. E le contestazioni popolari, dopo la morte dell’attivista mozabita Kamel Eddine Fekhar, sono riprese con forza.

Per la seconda volta in un anno, e dopo poche settimane, le elezioni presidenziali in Algeria sono state annullate. È la prima volta che accade nella storia del paese. Prima lo scrutinio del 18 aprile, che avrebbe permesso al presidente “fantasma” di farsi rieleggere per il quinto mandato consecutivo. Poi quello del 4 luglio, indetto per eleggere il successore del vecchio e malato presidente destituito dal popolo. La tornata elettorale è “impossibile” da organizzare, ha dovuto riconoscere il Consiglio costituzionale il 2 giugno, per assenza di candidati. A un mese dal voto solo due sconosciuti si erano proposti: Abdelhakim Hamadi, ingegnere meccanico, e il veterinario Hamid Touahri. Il Consiglio costituzionale ha dunque ammesso: “Bisogna creare le condizioni per rendere possibili elezioni trasparenti e neutrali e garantire la costituzionalità delle istituzioni e rispondere alle aspirazioni del popolo sovrano”. La decisione non è stata una sorpresa: lo scrutinio era sempre più improbabile. I manifestanti, considerandolo illegittimo, lo hanno respinto in massa, così come i magistrati e i sindaci, figure indispensabili nnell’organizzazione del voto. Nessuna personalità di spessore aveva osato candidarsi e persino i partiti al potere e quelli all’opposizione avevano rinunciato a presentare loro uomini. L’annullamento del voto è stato un fallimento totale, in particolare per l’uomo forte dell’Algeria, il quasi 80enne generale Ahmed Gaïd Salah, capo di Stato maggiore dell’Esercito, che ha preso in mano la transizione e di fatto il potere. Gli algerini lo detestano e ne chiedono l’allontanamento perché incarna il “regime Bouteflika”. Il generale, fedele al regime, ha scaricato Abdelaziz Bouteflika costringendolo alle dimissioni lo scorso aprile. Il suo piano: mantenere in vita il sistema sulla base dell’articolo 2 della Costituzione algerina, eleggendo cioè un nuovo capo dello Stato nei 90 giorni dall’inizio dell’interim dell’ex presidente del Senato, Abdelkader Bensalah. Il suo piano però è stato compromesso e Gaïd Salah ha dovuto rinunciare alle elezioni, mostrando quanto sia difficile per il “sistema” presentare un candidato convincente.

Numerosi tentativi erano stati fatti. Fino all’ultimo il vice ministro della Difesa ha ignorato le rivendicazioni dei manifestanti e la necessità di creare un’istanza di transizione ad hoc capace di garantire un’elezione libera, equa e trasparente. Fino all’ultimo si è aggrappato alla “soluzione costituzionale” e alle presidenziali del 4 luglio per evitare il “vuoto costituzionale” e mettere in difficoltà “quanti vogliono che la crisi continui”. Nel suo ultimo discorso, il 28 maggio, tre giorni prima della data limite per la presentazione delle candidature per il voto del 4 luglio, Salah, al suo ennesimo discorso al popolo ha ribadito l’urgenza di tornare alle urne al più presto. Ma senza indicare una data. Ha anche lanciato un appello “per un dialogo che metta l’Algeria al di sopra di tutto”, presentandolo come “la sola via per uscire dalla crisi”. Aveva anche ripetuto di non avere “alcuna ambizione politica”. Il paese teme che si possa produrre uno scenario egiziano, dove, dal 2013, c’è un dittatore, il maresciallo al-Sisi, ex capo dell’Esercito che ha preso il potere dopo il colpo di Stato contro il presidente Mohamed Morsi, vicino ai Fratelli musulmani, e che aveva assicurato che l’“esercito si sarebbe tenuto fuori dalla politica”. L’annullamento delle elezioni è una nuova vittoria per il popolo, mobilitato e determinato dopo 15 settimane e un faticoso mese di Ramadan, al grido di: “No al dialogo con la gang”, “No alle elezioni con la gang al potere”. Il potere, così, è obbligato ad ascoltare il popolo. Ma le incertezze restano perché, nei fatti, il potere non vuole cedere sull’essenziale e anzi continua a seguire la stessa linea e a giocare d’astuzia. Salah alimenta lo stallo del Paese, impedendo che il processo rivoluzionario sfoci “nella democrazia e nella libertà”. Il magazine Jeune Afrique ha analizzato le sue espressioni più frequenti: non pronuncia mai la parola “democrazia”, ciò che reclama il popolo. Salah non intende prendere le distanze dai “due B” detestati dai manifestanti – il presidente ad interim Bensalah e il primo ministro Bedoui – né dal loro governo. Il quotidiano di Stato El Moudjahid, portavoce dell’esercito, avverte: “L’opposizione, che ha infiltrato il movimento popolare per offuscarne il messaggio, mira a colpire l’Esercito e il suo Stato maggiore, e veicola un discorso secondo il quale un’elezione in presenza dei “due B” sfocerebbe in una riconduzione del vecchio regime. Invece è consapevole che queste due personalità non hanno nessun ruolo da svolgere nell’organizzazione e nella supervisione del voto, funzioni che vanno affidate a un’istanza indipendente”.

L’Algeria è dunque sospesa in un vuoto giuridico, alle prese con un assurdo rompicapo costituzionale di difficile soluzione. Per il Consiglio costituzionale “lo Stato deve convocare il nuovo corpo elettorale e portare a compimento il processo elettorale, fino all’elezione del presidente”. Ma il capo di Stato ad interim, indebolito dalla malattia, la cui missione è organizzare il voto, può indire nuove elezioni e prorogare il suo mandato? Secondo i costituzionalisti il mandato di Bensalah non può essere prolungato. Eppure è quello che sembra destinato a succedere. In un editoriale dal titolo “Bensalah, interim a vita”, Liberté Algérie, accusa il potere di “voler sottomettere il movimento popolare a una guerra di trincea dopo avergli imposto uno scontro logorante dal 2 aprile”. “Il faccia a faccia tra il Consiglio – che può offrire un interim a vita a Bensalah – e il popolo – determinato a ottenere una transizione sovrana – può avere una durata indeterminata e, soprattutto, un finale imprevedibile: una trappola sul cammino della mobilitazione popolare per il cambiamento”. Per evitare di fallire di nuovo tra qualche settimana e di bloccare il paese, il potere ha interesse a non intestardirsi e ad aprire un dialogo con il popolo, indispensabile per fissare una nuova scadenza elettorale. Per il quotidiano El Watan, la società civile non aspetta altro e si sta preparando: tre collettivi, costituiti da più di 50 organizzazioni e sindacati autonomi che rappresentano vari settori e correnti, hanno deciso di organizzare una conferenza il 15 giugno per elaborare una proposta di uscita dalla crisi. Obiettivo: ottenere una “transizione democratica dolce che sigilli la rottura col sistema dittatoriale e corrotto, mettendo fine alle frodi elettorali e dare il via alla costruzione di istituzioni legittime”.

Questi tre collettivi sono: la Confederazione dei sindacati algerini (Csa); il Forum civile per il cambiamento; e il Collettivo della società civile per una transizione democratica, che comprende 30 associazioni e Ong nazionali, tra cui il Raj (Movimento azioni giovani) e la Laddh, Lega algerina per la difesa dei diritti umani. Venerdì gli algerini hanno manifestato (è il 16 esimo venerdì consecutivo). Il movimento non perde vigore: il fervore democratico e pacifico continua ad animare le piccole e grandi città, nonostante la stanchezza del Ramadan e la repressione.

Il potere pensava di cavarsela con una spettacolare campagna anti-corruzione. Sperava che la crisi si sarebbe risolta incarcerando i simboli del regime e dell’impunità, a cominciare dalla figura più vicina al presidente destituito, il fratello Saïd. Niente da fare, il popolo non è stupido: è contento di vedere in prigione i magnati che si sono arricchiti alle spalle del popolo grazie ai sostegni di Bouteflika, come l’ex patron della Confederezione generale delle industrie algerina (Cgea), Ali Haddad, per il quale la procura ha chiesto 18 mesi di reclusione. Ma non rinuncia alla sua richiesta di un vero cambiamento.

Da giorni, il volto dell’attivista Fekhar è in tutti i cortei. “Siamo tutti Fekhar!”, hanno scandito le folle. Nell’Algeria dove da tre mesi soffia un vento rivoluzionario, la morte in cella (28 maggio) del prigioniero politico, figura della causa mozabita, una minoranza berbera dell’Algeria, dopo 50 giorni di sciopero della fame, è stato uno choc immenso: l’Algeria ha aperto gli occhi sulla fine riservata ai prigionieri politici e sull’abuso della detenzione cautelare da parte delle autorità che mettono in prigione senza giudizio, come fanno i regimi autoritari. Poco dopo la morte di Fekhar, il suo compagno di cella, il sindacalista Hadj-Brahim Aouf è stato liberato. Una lista di 15 prigionieri politici circola sui social, sono in carcere per le loro opinioni e rischiano la vita. Delle petizioni reclamano la loro liberazione, altre denunciano la repressione e l’accanimento contro i difensori dei diritti umani. Louisa Hanoune è stata arrestata il 9 maggio per aver partecipato, in quanto capo di un partito politico, a una riunione sulla crisi algerina, accanto a Saïd Bouteflika, fratello e consigliere del presidente destituto, e ai generali Bachir Tartag, ex capo dei servizi segreti, e Mohamed Mediène ex capo della ex Drs (Dipartimento di intelligence e sicurezza). È accusata di aver complottato contro l’esercito e lo Stato. La sua reclusione solleva reazioni in Algeria e all’estero dove più di mille personalità hanno firmato un appello per la sua liberazione. “Potere assassino”, hanno scandito i manifestanti.

(traduzione Luana De Micco)

Musica per il funerale: la tradizione resiste a Sud, altro che Halloween

La banda musicale ai funerali è una scena di quarant’anni fa. La memoria cinematografica custodisce i fotogrammi di Pietro Germi: Marcello Mastroianni, tra i dolenti, e Stefania Sandrelli – il viso avvolto nel foulard nero – che piange, singhiozza e inghiotte dolore. Le trombe, i tromboni e i clarinetti, intorno a loro – nell’abbraccio della folla – squarciano il cielo del pomeriggio e ognuno, ogni presenza, si impetra di luce. E di lutto. La luce e il lutto, appunto: le pagine di Gesualdo Bufalino. Ma ci sono anche le fotografie di Ferdinando Scianna, le note di Leonardo Sciascia, e poi ancora tutta la scienza di antropologia e pietas di Ernesto De Martino.

Non c’era angolo nel Sud del Sud dei Santi dove nelle cerimonie di commiato – oltre all’organo in chiesa – non si richiedesse la presenza dei musicanti. Questa stessa scena l’ho rivista pochi giorni fa, a Leonforte, nella terra delle spighe di Cerere, con i professori di musica inquadrati davanti ai cancelli del liceo classico dove aveva studiato il ragazzo chiuso adesso nella sua bara, strappato a sua madre, ai suoi figli, e a sua moglie, alla sua comitiva, portato via dalla morte che non guarda mai dove va a mietere con la sua falce. Ed era il vero e proprio trionfo della morte – il riconoscimento corale dell’intera comunità – quel vedere i fiati schierarsi in corteo e suonare Jone, una partitura struggente di perdono e misericordia: un omaggio voluto dagli amici, ormai tutti giovani padri di famiglia, una pensata messa in atto come una festa a sorpresa. Come al tempo antico.

Come quando – con la morte in casa – subito si spalancava la finestra per far volare via senza impedimenti chi era appena spirato. “A buon luogo!”, così si diceva a chi era appena morto. E come al tempo antico, giusto lì – su quel marciapiede del liceo, pochi giorni fa – con la festa a sorpresa dei musicanti in uniforme l’intero paese si ritrovava alunno davanti alla scuola per dare destinazione e “buon luogo”. La morte non porge altro presente che il passato: come durante la ricreazione, o per attendere il pullman delle gite, per baciarsi di nascosto, per sovrabbondare di vita. E così il viatico al defunto che se ne va al cimitero – il camposanto che nel suo preciso etimo significa “dormitorio”, ovvero lo spazio del sonno – è un affrettarsi nella consolazione del risveglio. Il linguaggio non sbaglia mai, questo modo di andarsene marciando – si chiama, appunto, “marcia funebre” – intanto sveglia un mondo che non c’è più, un rito collettivo che restituisce a ognuno la propria parte di mistero e terra, la prosecuzione nella carne e nel legno, fosse pure quello della cassa in cui il mai più si trasmuta nel restare. Il linguaggio svela il senso. Il Sud del Sud dei Santi non ha avuto necessità di alcun Halloween. Nel frasario dei bambini il cimitero diventa “Cimiciao!” ed Eschilo, in questa terra, ha suggellato – sta nelle carte del Perroni a Taormina – la luce e il lutto: “Ovunque sia ora il destino, per tutti è in cammino”. Il paese che fu culla, è tomba. E così è anche nel suo viceversa: “Ricevete la bella notizia del Giardino che vi è stato promesso”. Per questo il popolo segue la bara e la banda. È il modo proprio dell’ingenua gioia di ognuno, quando questa gioia chiede e desidera l’ospitalità alla giornata ricevuta in dono. In questa vita e nell’altra. A passo di marcia.

Alla ricerca dei moderati perduti, senza alcun De Gasperi all’orizzonte

È stato Ilvo Diamanti sabato su Repubblica a certificare l’esistenza delle due Chiese italiane. Da un lato il nazionalismo xenofobo di Matteo Salvini. Dall’altro la misericordia di papa Francesco, vescovo di Roma. I dati sono inquietanti.

Secondo la ricerca, alla vigilia delle Europeo, il 27 per cento dei cattolici praticanti italiani ha dichiarato di votare Lega. Era il 12 appena un anno fa. Seguono il Pd, 24 per cento; il M5S, 17 (era il 28 nel 2018); infine Forza Italia con il 12. Dunque, l’ostentazione del rosario e le invocazioni mariane del leader leghista hanno avuto la loro ricaduta nelle urne. A questo punto i vertici della Cei, la Conferenza episcopale italiana, farebbero bene a sollecitare il Sinodo speciale sulla società italiana, come annunciato recentemente dallo stesso pontefice. Se non altro per comprendere le ragioni di questo distacco reale tra il magistero del papa e il sentire comune di parecchi fedeli.

Lo aveva scritto mesi fa padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, il prestigioso quindicinale dei gesuiti tornato al centro del dibattito con Bergoglio. In sintesi: bisogna comprendere perché la rabbia e persino l’odio hanno attecchito tra i credenti. Questo il punto. Così come il tema dei valori da cui ripartire. Sinora l’azione dei vescovi italiani è stata inefficace rispetto al salvinismo, sul piano strettamente pratico. Ovviamente, sarebbe deviante e sterile tornare a parlare di partito unico dei cattolici. Nell’era del voto liquido è impensabile. Siamo alla Terza non alla Prima repubblica. Non solo. Per discutere di una nuova “moderazione” è necessario sgomberare il campo “da leader senza carisma e senza visione e da pretesi satrapi senza forze”, per citare il direttore di Avvenire Marco Tarquinio. Anche perché non basta dirsi cattolici per diventare come De Gasperi: l’avvertimento del cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, ieri su Repubblica, non vale solo per Salvini.

L’uomo perfetto nell’era narcisista. Calmo e altruista, chissà che pensa…

Non si sa esattamente cosa pensi delle cose, così come delle persone. Però non importa, anzi meglio, perché nel suo caso il contenuto è la forma e cioè gentilezza, cordialità, tranquillità in ogni frangente, sorriso. Affidabile, moderato, crede nella continuità delle imprese come dei sentimenti – ma senza vivacchiare, come ha detto di recente –, convinto com’è che il mare può essere increspato fuori ma nel profondo è sempre calmo. Insomma, diciamolo, Giuseppe Conte – che con quelle sue pacate giacche blu certo non spicca, ma perché spiccare non vuole – è l’uomo perfetto, anche nella vita. In tempi di maschi isterici e volubili, discontinui e fragili, lui invece va avanti inarrestabile, spegnendo sempre il conflitto, quello su cui le coppie di oggi gettano piuttosto benzina. Te lo immagini a cena talmente concentrato su di te e non su di sé da dimenticarsi di mangiare. Te lo figuri campione di preliminari, così impegnato nel darti piacere che quasi si scorda del suo. Insomma l’esatto contrario dell’uomo-ministro che gli sta accanto tutti i giorni al lavoro, borioso e altero, narciso fino all’impossibile, utilizzatore seriale di social network, accumulatore seriale di storie: uno che come marito o fidanzato meglio perderlo che trovarlo. Ma è diverso anche dell’altro suo vice, moderato anche lui, gentile anche lui, eppure incapace di suscitare grandi passioni, uno che ti farebbe sbadigliare poco dopo l’antipasto. Invece Conte no. Col suo silenzio, il suo intervenire sobriamente, giusto quando serve, mantiene su di sé l’alone di mistero perfetto per la fantasia. Insomma in quest’epoca dove trionfa solo il sé, sposarlo – ma anche averlo come amante – sarebbe una manna. Che se anche uno dovesse divorziare, lui di sicuro gestirebbe le cose col suo imperturbabile aplomb. E il suo sorriso dotato di irresistibile fossetta.

Il fidanzato bravo ragazzo che pensavamo fosse un pirla

Abbiamo tutte avuto un Giuseppe Conte nella vita. Il bravo ragazzo azzimato, pettinato, cortese, paziente, con carriera avviata, che piaceva tanto a nostra madre e non veniva mai a pranzo la domenica senza un mazzo di fiori dopo la messa, naturalmente. E noi brusche, scostanti, insofferenti, l’avremmo voluto più trasgressivo e macho, ma quando ci provava si rendeva così ridicolo che lo scongiuravamo di non farlo mai più. Mentre lui davanti a un tè ci parlava di concorsi universitari, noi sbirciavamo i bad boy, o gli intellettuali sciupafemmine modello Sarratore dell’Amica geniale, per uno dei quali abbiamo inevitabilmente finito per mollare il nostro Conte. Scoprendo il suo primo lato positivo: quando chiude chiude, e non ti cerca più. Era solo l’inizio di una rivalutazione a posteriori lenta e costante, che un giorno, dopo aver aggiunto l’ennesima tranvata alla collezione, ci avrebbe portato a chiederci come abbiamo potuto essere così sceme da lasciarci scappare quella perla che allora sembrava un pirla. L’antidoto a queste fastidiose quanto inutili resipiscenze è nella libreria di casa nostra (o almeno dovrebbe esserci), e si chiama Madame Bovary. Racconta appunto come può ridursi la donna moderna, cioè imbevuta di fantasie romantiche (nell’800 i romanzetti, oggi anche le canzoni e i film) quando sposa un uomo alla Conte; lo cornifica ripetutamente con dei cialtroni, trascura i figli e sfoga l’insoddisfazione con spese folli, fino a coprirsi di debiti e a votarsi all’autodistruzione (tradotto in politica, è un po’ quello che fa anche l’Emma Bovary chiamata Italia). Dalle tramvate dei Sarratore ci si riprende, dalla moderazione alla Conte no, quella ti manda ai matti. Frequentiamolo solo in veste di terapeuta di coppia: super partes, mediatore discreto e tenace. Possiamo anche azzannare il partner sotto i suoi occhi, ma lui, serafico, ci dirà immancabilmente: “Sarà una relazione bellissima”.

La serie A in crisi, B e C pure peggio

Anche se il bollettino medico della serie A, al fixing della stagione 2018-2019, potrebbe a prima vista sembrare allarmante, non solo per gli anni luce che ci separano dal calcio vero praticato da inglesi, spagnoli, tedeschi e olandesi, ma per il crollo di interesse avvenuto nel Belpaese (la perdita di audience certificata è stata del 31%, gli abbonati di Sky e Dazn sono paurosamente diminuiti rispetto a quelli della stagione precedente, quella targata Sky-Premium), è giusto dire, citando Flaiano, che la situazione è grave ma non è seria. Se qualcuno, vedendo lo stato in cui versa la serie A dove da almeno 5-6 anni si gioca un “non campionato” in cui la vincitrice (la Juventus) è nota ad agosto e il livello degli allenatori è quello di Prandelli e Montella, che all’ultima di campionato, dovendo salvare Genoa e Fiorentina, decidono di non giocare la loro partita e di ascoltare la radiolina sperando che l’Inter di riffe o di raffe batta l’Empoli, se qualcuno – dicevamo – pensasse male del nostro calcio commetterebbe un errore.

Perché se è vero che il pesce puzza dalla testa, non è il caso del calcio italiano: che puzza tutto, dalla testa alla coda. Come sono andate le cose nei campionati meno in vista, la serie C e la serie B, che costituiscono pur sempre le fondamenta del Palazzo del pallone italico? Una meraviglia. Nel girone C della serie C, per irregolarità di vario tipo, principalmente amministrative, il Matera ha scontato 34 punti di penalizzazione ed è stato escluso dal campionato alla 26ª giornata dopo quattro rinunce a presentarsi in campo; il Siracusa ha scontato 6 punti, la Reggina e il Rieti 4, il Bisceglie 3, il Monopoli 2, il Rende, il Trapani e la Juve Stabia hanno scontato 1 punto. Si è giocato per finta, insomma.

In B è andata la Juve Stabia; e il Trapani, secondo, disputerà sabato 15 la finale playoff contro il Piacenza con i giocatori che hanno messo in mora la società, che non paga gli stipendi da mesi, spingendola verso il fallimento. Bel campionato no? Sicuramente più frizzante del girone B, dove la sola Triestina – anch’essa impegnata nel playoff contro il Pisa – ha avuto 1 punto di penalizzazione. Nel girone A, invece, c’è stato da divertirsi se è vero che la Lucchese ha scontato 23 (diconsi ventitre) punti di penalizzazione disputando i playout-salvezza, l’ultimo contro il Bisceglie, grazie alla colletta dei tifosi che hanno raccolto soldi per organizzare trasferte, pernottamenti in hotel e pasti al ristorante; il Cuneo ha scontato 21 punti di penalizzazione, l’Arzachena 1 e il Pro Piacenza – o meglio: quel che fu del Pro Piacenza – ha scontato 16 punti prima di essere escluso dal campionato dopo la 27ª giornata, quando si presentò in casa del Cuneo con soli 8 giocatori, tra cui il massaggiatore cinquantenne, scese in campo e perse 20-0.

Tutte le sue partite sono state cancellate. Detto che della bolgia dantesca della serie B, col Palermo 3° classificato che prima viene retrocesso in C, poi ripescato e sanzionato con un -20 al solo scopo di non mettere a repentaglio la regolarità di playoff e playout, coi giocatori di Venezia e Salernitana richiamati in campo direttamente dalle spiagge di Jesolo e di Amalfi, le cronache sono ancora piene, la morale è una: buonanima di Artemio Franchi, se da lassù ci sei e ci guardi, batti un colpo. E prova a fare il miracolo. Amen.