Le immagini grottesche dal monte Everest sovraffollato dagli alpinisti mostrano che non c’è luogo del mondo al riparo dal turismo di massa. Per quanto impervia, la vetta più alta del mondo è oramai ridotta come la laguna di Venezia, come il mont Saint-Michel, come un’autostrada la sera di Ferragosto. Solo che in questo caso le file sulla Cresta Nord-Est e la Cresta Sud-Est significano lunghe attese e un numero crescente di morti per congelamento, oltre che tonnellate di rifiuti in quello che dovrebbe essere un paradiso incontaminato.
E dire che le prime ascensioni datano degli anni Cinquanta, per un totale di circa cinquemila persone che da allora hanno realizzato l’impresa, tornando indietro per raccontarlo. Che cos’è successo nel frattempo? Senza dubbio c’è una variabile concreta: il materiale tecnico si è perfezionato, ma si è anche “democratizzato”, è diventato alla portata di molti. Reinhold Messner denunciava già nel 1969 “l’assassinio dell’impossibile” attraverso il ricorso massiccio al filo di piombo e ai chiodi a espansione. Poi c’è l’offerta: agenzie di viaggio, sherpa professionisti, basta googlare “Everest tour” per accorgersi dell’esistenza di un intero settore commerciale che propone il trekking estremo ad ottomila metri come esperienza unica, certo una cosa più emozionante di un tuffo al Lido di Ostia. Nel 2014, il governo nepalese dimezzava la tariffa richiesta per scalare il monte da 25.000 euro a 11.000 euro, cifra non precisamente a buon mercato ma che aveva subito destato preoccupazione tra gli esperti. Perché la domanda di estremo è sempre più ampia, impossibile da contenere, fonte inesauribile di lucro per l’economia locale.
Ed ecco quindi il paradosso: cosa succede quando un numero sempre più alto di persone decide contemporaneamente di fare una scelta “originale”, che in questo modo cessa di essere originale? Cosa succede quando l’intera società di massa cerca di sfuggire dalla massa? Succede che si parte a seimila chilometri da casa, a quaranta gradi sotto zero, dotandosi di provviste e bombole ad ossigeno, per ritrovarsi schiacciati come Fantozzi e Filini al campeggio sul lago.
La scalata dell’Everest rappresentava, fino a poco tempo fa, la più radicale sfida dell’uomo nei confronti della natura, reciprocamente la più alta forma di resistenza della natura nei confronti dell’uomo. Era un percorso iniziatico, una lotta a morte per il riconoscimento, la ricerca di qualcosa che la civiltà sembrava non poterci più dare. Un modo di sfuggire alla routine dell’ufficio e all’inferno della quotidianità. Oggi si parte per “ritrovare sé stessi” e si scopre di essere identici a centinaia di altri. Via dalla pazza folla c’è soltanto un’altra folla.
Magari si trattasse soltanto di un problema del turismo: basterebbe semplicemente starsene a casa per evitare di subire l’effetto composto (i sociologi dicono anche: perverso) di tante azioni individuali. Ma non c’è più una sola scelta di vita apparentemente originale che si possa fare, oggi, senza finire imbottigliati nel traffico.
Prendiamo le carriere artistiche, creative, intellettuali: un tempo erano vocazioni per spiriti eccentrici pronti a vivere ai margini della società, oggi esistono corsi di laurea che sfornano ogni anno migliaia di aspiranti, inevitabilmente condannati a non trovare occupazione. Milioni di individui speciali, uguali a tutti gli altri, senza più un posto nel mondo. Prendiamo i vecchi quartieri popolari delle città, in cui fino a qualche anno fa si poteva ancora vivere con poco; oggi irrimediabilmente gentrificati, snaturati, falsificati. Via via che lo sviluppo economico soddisfa sempre più bisogni materiali — dal cibo all’abbigliamento tecnico — rende sempre più inaccessibili quei beni che nemmeno la potenza dell’apparato industriale è in grado di moltiplicare: lo spazio, il silenzio, la bellezza… Sono i limiti sociali dello sviluppo, come li chiamava l’economista Fred Hirsch, che negli anni Settanta aveva mostrato in che modo il capitalismo ci aveva resi più poveri. Peggio ancora: costretti a una competizione permanente per la soddisfazione di un bisogno che ci rende tutti simili, ovvero il bisogno di essere diversi. Una guerra di tutti contro tutti che può portarci, nel caso più estremo, alla morte. Nel luogo più impervio del pianeta. Nel modo più ridicolo della storia.
Abbiamo giacche caldissime, scarpe resistenti, GPS, integratori alimentari e aerei sempre meno costosi per volare dall’altra parte del mondo; ma non abbiamo più l’Everest. Possiamo volare a Parigi per poche decine di euro, entrare al Louvre dopo una lunghissima coda e invece di vedere la Gioconda immergerci in una folla di turisti che osservano il dipinto di Leonardo da dieci metri di distanza.
Dobbiamo dunque rimpiangere il vecchio mondo in cui soltanto a pochi fortunati era concesso di studiare filosofia o vedere il sorriso della Gioconda? No, ma possiamo rimpiangere il mondo in cui al secondogenito di una famiglia di nove fratelli, figlio di un allevatore di polli e conigli, era concesso di vivere la sua passione per la montagna senza dover sgomitare in mezzo alla calca degli alpinisti della domenica. Era lui stesso, il buon vecchio Messner, a lamentare: “L’impossibile è sgominato, il drago è morto avvelenato e l’eroe Sigfrido è disoccupato.”