Tutti in coda pure sull’Everest: l’assassinio dell’impossibile

Le immagini grottesche dal monte Everest sovraffollato dagli alpinisti mostrano che non c’è luogo del mondo al riparo dal turismo di massa. Per quanto impervia, la vetta più alta del mondo è oramai ridotta come la laguna di Venezia, come il mont Saint-Michel, come un’autostrada la sera di Ferragosto. Solo che in questo caso le file sulla Cresta Nord-Est e la Cresta Sud-Est significano lunghe attese e un numero crescente di morti per congelamento, oltre che tonnellate di rifiuti in quello che dovrebbe essere un paradiso incontaminato.

E dire che le prime ascensioni datano degli anni Cinquanta, per un totale di circa cinquemila persone che da allora hanno realizzato l’impresa, tornando indietro per raccontarlo. Che cos’è successo nel frattempo? Senza dubbio c’è una variabile concreta: il materiale tecnico si è perfezionato, ma si è anche “democratizzato”, è diventato alla portata di molti. Reinhold Messner denunciava già nel 1969 “l’assassinio dell’impossibile” attraverso il ricorso massiccio al filo di piombo e ai chiodi a espansione. Poi c’è l’offerta: agenzie di viaggio, sherpa professionisti, basta googlare “Everest tour” per accorgersi dell’esistenza di un intero settore commerciale che propone il trekking estremo ad ottomila metri come esperienza unica, certo una cosa più emozionante di un tuffo al Lido di Ostia. Nel 2014, il governo nepalese dimezzava la tariffa richiesta per scalare il monte da 25.000 euro a 11.000 euro, cifra non precisamente a buon mercato ma che aveva subito destato preoccupazione tra gli esperti. Perché la domanda di estremo è sempre più ampia, impossibile da contenere, fonte inesauribile di lucro per l’economia locale.

Ed ecco quindi il paradosso: cosa succede quando un numero sempre più alto di persone decide contemporaneamente di fare una scelta “originale”, che in questo modo cessa di essere originale? Cosa succede quando l’intera società di massa cerca di sfuggire dalla massa? Succede che si parte a seimila chilometri da casa, a quaranta gradi sotto zero, dotandosi di provviste e bombole ad ossigeno, per ritrovarsi schiacciati come Fantozzi e Filini al campeggio sul lago.

La scalata dell’Everest rappresentava, fino a poco tempo fa, la più radicale sfida dell’uomo nei confronti della natura, reciprocamente la più alta forma di resistenza della natura nei confronti dell’uomo. Era un percorso iniziatico, una lotta a morte per il riconoscimento, la ricerca di qualcosa che la civiltà sembrava non poterci più dare. Un modo di sfuggire alla routine dell’ufficio e all’inferno della quotidianità. Oggi si parte per “ritrovare sé stessi” e si scopre di essere identici a centinaia di altri. Via dalla pazza folla c’è soltanto un’altra folla.

Magari si trattasse soltanto di un problema del turismo: basterebbe semplicemente starsene a casa per evitare di subire l’effetto composto (i sociologi dicono anche: perverso) di tante azioni individuali. Ma non c’è più una sola scelta di vita apparentemente originale che si possa fare, oggi, senza finire imbottigliati nel traffico.

Prendiamo le carriere artistiche, creative, intellettuali: un tempo erano vocazioni per spiriti eccentrici pronti a vivere ai margini della società, oggi esistono corsi di laurea che sfornano ogni anno migliaia di aspiranti, inevitabilmente condannati a non trovare occupazione. Milioni di individui speciali, uguali a tutti gli altri, senza più un posto nel mondo. Prendiamo i vecchi quartieri popolari delle città, in cui fino a qualche anno fa si poteva ancora vivere con poco; oggi irrimediabilmente gentrificati, snaturati, falsificati. Via via che lo sviluppo economico soddisfa sempre più bisogni materiali — dal cibo all’abbigliamento tecnico — rende sempre più inaccessibili quei beni che nemmeno la potenza dell’apparato industriale è in grado di moltiplicare: lo spazio, il silenzio, la bellezza… Sono i limiti sociali dello sviluppo, come li chiamava l’economista Fred Hirsch, che negli anni Settanta aveva mostrato in che modo il capitalismo ci aveva resi più poveri. Peggio ancora: costretti a una competizione permanente per la soddisfazione di un bisogno che ci rende tutti simili, ovvero il bisogno di essere diversi. Una guerra di tutti contro tutti che può portarci, nel caso più estremo, alla morte. Nel luogo più impervio del pianeta. Nel modo più ridicolo della storia.

Abbiamo giacche caldissime, scarpe resistenti, GPS, integratori alimentari e aerei sempre meno costosi per volare dall’altra parte del mondo; ma non abbiamo più l’Everest. Possiamo volare a Parigi per poche decine di euro, entrare al Louvre dopo una lunghissima coda e invece di vedere la Gioconda immergerci in una folla di turisti che osservano il dipinto di Leonardo da dieci metri di distanza.

Dobbiamo dunque rimpiangere il vecchio mondo in cui soltanto a pochi fortunati era concesso di studiare filosofia o vedere il sorriso della Gioconda? No, ma possiamo rimpiangere il mondo in cui al secondogenito di una famiglia di nove fratelli, figlio di un allevatore di polli e conigli, era concesso di vivere la sua passione per la montagna senza dover sgomitare in mezzo alla calca degli alpinisti della domenica. Era lui stesso, il buon vecchio Messner, a lamentare: “L’impossibile è sgominato, il drago è morto avvelenato e l’eroe Sigfrido è disoccupato.”

Cosche, la guerra di Giletti per le tre sorelle antimafia

Difficile essere semplici in una terra complicata. Questo è il tema. Difficilissimo – poi – esserlo in settanta ettari di seminativo a mille metri di altezza: la proprietà da cui si dipana la storia di Marianna, Ina e Irene Napoli. Sono le fimmine note al grande pubblico per via del grande romanzo tivù, le protagoniste di quella “straordinaria miniatura delle dinamiche del potere” raccontata da Non è l’Arena su La7 e che Massimo Giletti, il suo autore, oggi fissa in un volume edito da Mondadori. Sono, appunto, Le Dannate. E sono le tre sorelle di Mezzojuso, in provincia di Palermo, che non si arrendono alla mafia. Il libro esce nella collana Strade Blu, la stessa di Gomorra. A differenza però del best seller di Roberto Saviano – con i ragazzini innamorati del mito assassino – dalla storia delle sorelle Napoli non ne discende un’estetica di emulazione, piuttosto l’esatto contrario. Il pubblico, infatti, è chiamato a parteggiare per queste donne che sono vittime di reato e tra i tratturi di questo Mondo Piccolo all’ombra di Rocca Busambra l’unica epica è esclusivamente quella per la giustizia “che arriva”. E arriva come la stagione di perfetta felicità, proprio quella di questi giorni – in ritardo dopo un maggio grondante pioggia – quando il ruminare della ferraglia meccanica tra le spighe annuncia la festosa messa in opera delle trebbiatrici per la mietitura. È quella stessa giustizia che Salvatore Battaglia – uno dei personaggi del coro stretto intorno alle sorelle Napoli – descrive con una squillante metafora: “Arriva come il giorno della gita quando sei alle elementari”. A proposito: Battaglia, si schiera al fianco delle tre sorelle – si piazza davanti alle telecamere per dire la propria nella domenica sera degli italiani – e si ritrova la macchina bruciata.

Un incidente di percorso fin troppo simbolico, questo del falò, nel viaggio in Sicilia con cui affrontando una storia di oggi Giletti si ritrova spiegata la Sicilia di sempre: Cosa Nostra, dopo la stagione delle stragi – sconfitta dallo Stato – lascia la città e se ne torna in campagna. Nessuno può mai accorgersene ma Giletti, al modo di Fedor Dostoevskij che gli argomenti se li trovava nelle pagine di cronaca nera, in un articolo di Salvo Palazzolo su Repubblica legge di tre donne, proprietarie di settanta ettari e di tutto quello che si trovano a patire a causa di bravacci che le vogliono far scappare via. C’è come una cantata degli scavalcamontagne in questo breve spunto, ancora una volta è un “questo matrimonio non s’ha da fare”, è appunto un’abbanniata – il grido – per farne posteggia con la gente in cerchio ad ascoltare il cantastorie per arrivare a capire come va a finire la minaccia, sempre la stessa: “Né ora, né mai”.

Peggio della grandine, in campagna, c’è solo la prepotenza. Tanto basta per accendere in Giletti la sua curiosità professionale. Nel frattempo Le Iene ne fanno un servizio televisivo – mostrano le sorelle Napoli e anche uno che non vuol farsi vedere, uno con un sacco in testa – ma la regola del mestiere conosce un solo obiettivo. E quello vero – scrive Giletti che non lo molla il fatto – “non è arrivare per primi alla notizia, ma capirla”. Non si tratta di fare al modo dei tromboni – dire la verità – piuttosto “dire le cose come stanno” e quelle tre senza marito, senza figli maschi e senza più un padre sono sole e isolate, preda degli sconfinamenti, delle intimidazioni e di una sassaiola inquietante assai. La chiarezza – mettere in fila i fatti per come stanno – si riavvolge in quel doppio cordame che intreccia il filo blu delle notizie e quello rosso delle verifiche. Solo questo è il fatto. E sono abbandonate le tre sorelle Napoli affinché il lupo della malacoscienza – che così come opera, pensa – possa tornarsene in campagna e da lì ricominciare a comandare carne, mangiare carne e fottere carne.

Le tre sorelle non hanno altra scelta che chiedere aiuto a don Cola Muccuneddu, ovvero bocconcino, chiamato così – ma mai apertamente – perché un asino con un calcio in faccia gli ha sfigurato il viso. La casa di Muccuneddu, per undici anni, è il rifugio di Bernardo Provenzano e c’è appunto, nelle Dannate, il racconto di tutto senza neppure il bisogno di troppe parole. Giletti è troppo parte in causa per non portare il sè stesso bambino tra le montagne del biellese quando la prima volta è in sopralluogo a bordo di una campagnola dei carabinieri e va a sovrapporsi nella sfacciata bellezza di un paesaggio siciliano che pur imbrattato di pale eoliche, segnacolo di soldi facili, attende la giustizia che sempre arriva.

Incubi remoti e storie di altri tempi vanno a incastrarsi con spaventi di oggi: il sindacalista Giuseppe Muscarella ucciso a colpi di fucile, la sua giumenta impiccata – in altri tempi – e il cane delle sorelle Napoli che sparisce in una storia di appena ieri. U canuzzu è fatto ritrovare ormai putrefatto ma perfettamente scuoiato, infilato dentro due copertoni. Un suggello di beffarda ferocia. Con la domanda che salta come mosca nel naso di tutti: “Il cane si scuoiò da solo?”. Le tre sorelle hanno scelto altrimenti che un altro Muccuneddu e tutto quel vedere come poi è andata a finire s’è visto in tivù. E adesso in questo libro: Marianna, Ina e Irene hanno bussato alla porta del maresciallo Pietro Saviano – un formidabile intellettuale oltre che un coraggioso soldato – il comandante della stazione dell’Arma a Mezzojuso. E l’hanno fatto senza neppure il bisogno di troppe parole. Nel solo nome della Legge. Il famoso giorno della gita quando si è alle elementari.

“Un’ora di pose per uno scatto. Ora con labbra nuove…”

Giulia ha 22 anni e una fissazione. Quella di avere le labbra troppo sottili. Ma nessuno gliel’ha mai fatto notare. E lei non se n’è mai accorta. Lo pensa da quando si fa selfie compulsivamente. “Non mi piacevo in foto e ho deciso di andare dal medico per un ritocchino”.

Quando?

Due mesi fa. Ora con le labbra più carnose è tutto più facile.

In che senso?

Non devo più fare mille prove e inventarmi posizioni strane per la foto da postare sui social network.

Tipo?

Prima dovevo spingere le labbra in avanti, forzando un sorriso, e ruotare il busto di tre quarti per avere un profilo decente. Ma comunque non andava bene. Le app non risolvono il problema. Stava diventando un incubo. Ci mettevo un’ora per trovare la posa ideale. E mi servivano 50 autoscatti per salvarne uno.

E adesso?

Ho ridotto i tempi: ci impiego un quarto d’ora. E mi bastano una 15 tentativi. Considerando che pubblico almeno un selfie al giorno è un bel risparmio di energie e di tempo.

Hai il fidanzato?

No. Ma non sono sempre stata single eh.

Ti sei fatta il filler per piacere a qualcuno?

Per piacere a me stessa. Poi certo posto foto su Instagram e Facebook per farmi guardare dagli altri e piacere agli uomini.

Lo specchio ti fa lo stesso effetto del cellulare?

No, in effetti… Davanti allo specchio mi sono sempre vista normale. Ma l’autoscatto risalta smorfie e difetti che detesto.

E i tuoi genitori come la pensano?

Non erano d’accordo che mi facessi gonfiare le labbra. Per loro avevo una bocca normale. Agli occhi di tutti a dire il vero. È una cosa mia, mi volevo vedere come volevo.

Hai amiche che si sono già rifatte le labbra?

No.

E tu che te le sei rifatte lo hai detto a qualcuno a parte la tua famiglia?

Solo alle amiche più intime. Non avrei imbarazzo a raccontarlo ai miei futuri fidanzati comunque. Ma l’effetto è naturale, quasi impercettibile. Nessuna bocca a gommoncino da clown. Il medico mi ha tranquillizzata mettendomi allo specchio e facendomi vedere che non c’erano difetti da correggere.

Cosa fai nella vita?

Studio Architettura. E poi faccio lavoretti saltuari, come la hostess per le fiere e la figurante nei film. Con i soldi che guadagno mi pago i filler.

Quanto costa?

Dipende. Io ho pagato circa 400 euro per il primo trattamento. Ogni sei mesi almeno dovrò ritornare dal medico per rifare le punturine.

Vorresti modificare qualche altra parte del tuo corpo?

Magari un giorno mi rifaccio il seno. È un po’ piccolino, porto una seconda. Ma per adesso mi accontento. Sono normopeso, faccio palestra due o tre volte la settimana. Non faccio schifo ecco.

Si dice che chi non si accetta per come madre natura l’ha fatto è insicuro. Ti senti così?

Un po’ sì. Ma ognuno ha la sua debolezza. La mia erano le labbra sottili. Per il resto sono in pace con me stessa.

Iniezioni e creme fai-da-te: rovinarsi solo per un selfie

Labbra sporgenti come per dare un bacio. Occhi un po’ strizzati. Corpo girato di tre quarti. Oppure braccia tese al cielo e inquadratura dall’alto. E vai di scatti. Decine e decine prima di ottenere il selfie perfetto. Ma spesso non bastano più neanche i segreti della posa e le app con filtri ed effetti per vedersi belle sullo schermo dello smartphone. L’ossessione per l’autoscatto sta generando dei mostri immaginari. Sono infatti sempre di più le donne millennial (nate tra il 1980 e il 2000 e cresciute con il cellulare in mano) che a forza di selfie scoprono di avere difetti estetici da non farle dormire la notte. Tanto da sentirsi in dovere di chiedere aiuto alla medicina estetica. “Sono bombardata di richieste di ventenni e trentenni che vogliono venire bene in foto. Da me ne arrivano circa 20 al mese – racconta Nadia Fraone, specialista in medicina estetica e vicedirettrice della scuola di Medicina estetica all’ospedale Fatebenefratelli di Roma – Si vergognano a confessarlo, si presentano con altre scuse. Ma alla domanda perché vogliono ritoccare il viso rispondono che si vedono brutte nei selfie”. Il desiderio più frequente, continua Fraone, “è avere labbra più voluminose, o un naso senza gobbe o all’insù perché, mi dicono, quando rido la punta scende troppo”.

Nell’era iperconnessa, insomma, ecco gli inestetismi illusori. “La prima cosa che faccio – dice la dottoressa – è scattare alla paziente una foto con una macchina fotografica per mostrarle che i difetti di cui è convinta non esistono, ma sono creati dalla prospettiva dell’inquadratura, che fa spuntare strane ombre, o dall’alterazione delle proporzioni dovuta alla distanza focale dell’obiettivo del cellulare, molto ridotta”. La fotocamera di un telefonino in pratica è grandangolare e inevitabilmente distorce la realtà. “Il mio compito – sottolinea – è insegnare innanzitutto ad accettarsi così come si è e se proprio una non si piace allora studiamo un trattamento che dia un risultato naturale, senza esagerare”.

A preoccupare i medici è anche la mania di assomigliare all’immagine di sé alterata dalle maschere istantanee come quelle di Snapchat. “La dismorfia da Snapchat – spiega Fraone – indica gli adolescenti che vogliono occhi più grandi e nasi filiformi come quelli creati dalla app. Queste tecnologie fanno credere che tutto è modificabile e fanno perdere il senso della realtà”.

Ma i nuovi protagonisti della medicina estetica non sono soltanto i millennial contagiati da selfite. Anche gli over 65 che hanno paura di invecchiare. “Negli ultimi dieci anni questi pazienti, tanti anche 80 enni, sono aumentati del 10% e rappresentano il 30% di quelli che curiamo”, racconta Emanuele Bartoletti, che dirige l’ambulatorio di Medicina estetica al Fatebenefratelli, il più grande in Italia con quasi 600mila utenti dal 1994, e presiede la Società italiana di medicina estetica (Sime). “Pretendono di ringiovanire ma non siamo dei maghi e non è questo il nostro lavoro – dice Bartoletti – Li aiutiamo ad avere un viso più curato piuttosto, in modo che possano portare bene la loro l’età. Nessun ritocco artificioso quindi. Miglioriamo le rughe, togliamo le macchie e distendiamo le labbra al massimo”.

All’ambulatorio sull’isola Tiberina è attivo anche un servizio unico a livello nazionale per le complicanze da trattamenti estetici. Aperto nel 2009, ha accolto 500 pazienti con danni derivanti soprattutto da iniezioni di filler (sostanze per aumentare i volumi o riempire una depressione) sbagliato, non riassorbibile completamente o non testato scientificamente. Gente che arriva con ematomi, gonfiori, bruciori e dolori lancinanti. “Sono reazioni immunologiche o di intolleranza che si ripetono nel tempo e causano infiammazioni e infezioni. Effetti che possono peggiorare se uno è affetto da un virus influenzale – spiega il medico – La maggior parte delle volte non sappiamo cosa è stato iniettato perché al paziente, erroneamente, non è stata rilasciata la cartella clinica”. Nei casi peggiori compaiono granulomi (cioè lesioni sottocutanee dovute allo stato infiammatorio cronico), noduli e perfino necrosi. “Se un filler viene iniettato in un vaso sanguigno ostruisce l’afflusso del sangue e provoca la morte di quella zona che poi si annerisce, si secca e forma una cicatrice. Bisogna conoscere bene l’anatomia della regione prima di fare le punture”. Il naso per esempio è un’area molto rischiosa. Se si colpisce uno dei vasi che comunicano con gli occhi si perde la vista in pochi minuti.

Poi ci sono gli effetti collaterali causati da peeling troppo aggressivi e le ustioni da luce pulsata, la tecnica per l’epilazione permanente che oggi va di moda. A volte è colpa di professionisti poco preparati. Altre del fai-da-te: pericolosissimo. “Mi è capitata una paziente – racconta Bartoletti – che ha richiesto al farmacista una dose di acido glicolico a bassa concentrazione per trattare le rughe sulla fronte. Peccato poi che abbia applicato un cerotto sulla pelle che, impedendole di respirare, ha moltiplicato l’effetto dell’acido. Il risultato? Ustioni e cicatrici”. Il fai-da-te può portare a conseguenze molto serie. La storia di Anna, 55 anni, fa riflettere. Lei usa botox e filler da quando ne ha 39: “Ho iniziato con una liposuzione alle cosce e non mi sono più fermata. Volevo labbra a canotto, zigomi alti e viso liscio. Ho il terrore della vecchiaia. Non ho voluto figli anche per questo”. Ma qualche tempo fa ha rischiato grosso: “Stanca di andare dal medico ogni tre o sei mesi per le punture di mantenimento avevo deciso di comprare l’acido ialuronico online e di iniettarmelo da sola negli zigomi. Ho guardato un video su internet e mi sembrava facile. Ma dopo un po’ mi sono comparsi dei granulomi con dolori fortissimi. I sintomi di una setticemia, mi hanno detto i medici. Ho dovuto prendere così tanto cortisone che mi sono cresciuti i peli sul viso”.

Youtube è un far west di tutorial per fare in casa, oltre all’acido ialuronico, anche creme di tutti i tipi: solari, idratanti, anticellulite o antirughe. “Non sono sicure – mette in guardia Bartoletti – perché non seguono formule testate clinicamente e possono provocare reazioni allergiche. Tra l’altro non prevedono l’uso di conservanti, quindi dopo pochi giorni sono da buttare. E poi procurarsi gli ingredienti non è facile, spesso vengono acquistati online senza certificazione”. Dal punto di vista legale è un guaio. Alexia Ariano, avvocato esperta di diritto della cosmesi, fa presente che “non c’è una legge che regola i cosmetici prodotti in casa”. Di conseguenza “se una persona regala o vende un prodotto fatto tra le mura domestiche a un’altra persona e questa sviluppa delle reazioni avverse, il danneggiato non potrà essere risarcito perché è molto difficile provare il fatto”. Occorre fare attenzione alle suggestioni del “green” e “bio”. “Il ritorno al naturale sta alimentando una sfiducia verso tutto ciò che producono le aziende – commenta l’avvocato – Ma i laboratori aziendali sono sottoposti a stringenti regole di sicurezza microbiologica che in ambito domestico non vengono rispettate. Inoltre, non basta che una crema homemade sia efficace: deve avere basi scientifiche, essere accompagnata da indicazioni con avvertenze e posologia, ed essere testata su un campione molto ampio affinché sia sicura”. Occhio alle fregature, dunque, e a chi si professa medico specialista in medicina estetica senza esserlo. Non è soltanto la realtà virtuale a essere un campo minato. “Non esiste un corso di specializzazione medica in questo settore – chiarisce Bartoletti – Ma non significa che non ci siano dei percorsi da seguire per diventare esperti. Esistono due scuole post laurea, quella al Fatebenefratelli gestita dalla Sime e un’altra a Milano di Agorà, la società scientifica di medicina estetica. E poi dei master universitari specifici”. Per evitare che il paziente si rivolga a studi abusivi sul sito web della Sime c’è l’elenco dei medici abilitati. Anche alcuni Ordini dei medici (Milano, Roma, Napoli, Vibo Valentia, Palermo) hanno messo online gli iscritti che svolgono la professione regolarmente. “Con la Federazione nazionale degli ordini dei medici – ci anticipa il presidente della Sime – faremo presto un unico registro nazionale”. Infine Bartoletti ci ricorda due regole fondamentali: “Pretendete sempre la documentazione con i dettagli dei trattamenti effettuati, dai farmaci ai presidi utilizzati, e non puntate a modelli irraggiungibili perché anche per le veline e le modelle ci sono i trucchi della tv e di Photoshop”.

Statue e lusso ai banchieri: regali per piazzare diamanti

Il viatico, oltre ovviamente ai ricchi guadagni a scapito dei clienti raggirati, erano i regali. Omaggi e regalìe ai top manager delle banche per accedere alla loro clientela vendendo diamanti a prezzi gonfiati da parte delle due società, la Intermarket Diamond Business (Idb) e la Diamond Private Investment (Dpi), coinvolte con cinque banche Banco Bpm, Unicredit, Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi di Siena e Banca Aletti nella truffa dei preziosi. Si andava dal soggiorno in hotel di lusso fino a preziosi reperti archeologici. È quello che ha scoperto Report, in onda stasera (servizio di Emanuele Bellano).

Il programma di Rai3 aveva sollevato il caso già nel 2016, avviando l’inchiesta della Procura di Milano che ha imposto il sequestro di 700 milioni agli istituti di credito con l’ipotesi di reato di truffa aggravata e autoriciclaggio. Ora ha recuperato alcuni file della Idb con l’elenco degli omaggi e dei destinatari. Nei documenti rinvenuti nei pc della Intermarket Diamond Business, vengono indicati i nomi dei dirigenti di banca e dei reperti archeologici che sarebbero stati loro recapitati. Federico Ghizzoni all’epoca amministratore delegato di Unicredit, avrebbe ricevuto una lucerna in bronzo di epoca romana e una scultura della magna Grecia, raffigurante una pantera. Per entrambi i regali la Idb annota la “consegna a mano”. E ancora Gabriele Piccini, fino al luglio 2016 presidente di Unicredit per il mercato italiano, invece avrebbe ricevuto un vasetto in alabastro etrusco-corinzio, una paletta per incenso e un busto femminile di Palmira, il sito archeologico siriano. Anche qui per tutti e tre i regali la Idb segna: “Consegnato a mano”. Ad aver ricevuto regali archeologici ci sarebbe anche Cristiano Carrus al tempo direttore generale del Credito Bergamasco, con una coppa in alabastro, una statuetta e un bucchero. E poi, Maurizio Faroni, ex direttore generale di Banco Bpm, indagato e sospeso dalla banca. Avrebbe ricevuto un vasetto etrusco-corinzio in alabastro, una bottiglia di epoca romana e un bucchero. Valori difficili da stimare, ma certo oggetti più che preziosi non solo dal punto di vista economico.

Più prosaicamente la Idb era anche munifica quanto a soggiorni di lusso. Sempre a Ghizzoni, la Idb avrebbe inviato un buono per due persone, per due notti con pensione completa, nella prestigiosa suite design dell’Abano Ritz Hotel. Incluso nel pacchetto un trattamento spa con un massaggio ayurveda, un impacco di fango rimineralizzante e un bagno termale in aromaterapia. Sempre dai file della Idb risulta che la società gli avrebbe inviato anche voucher per un soggiorno in un altro hotel di lusso di Salò. Valore di ogni buono: circa mille euro.

Stessi buoni per il trattamento relax al Ritz hotel di Abano Terme e nell’albergo sul lago di Garda risultano inviati a Piccini e a Lionello Guidetti, all’epoca amministratore delegato di Banco Popolare di Verona. Tra i destinatari dei voucher per l’hotel a Salò, invece, risulta anche Alessandro Profumo, all’epoca Presidente di Mps.

Ma i top manager che avrebbero ricevuto i buoni stando agli appunti della Idb sono molti di più. Il già citato Carrus, tra il 2013 e il 2015, avrebbe ricevuto voucher per soggiorni relax ad Abano Terme, per un valore di 2.745 euro. Stessa cifra per Carlo Lombardi allora top manager in Banca popolare di Lodi. Per Giovanni Chelo responsabile del settore immobiliare di Unicredit invece risultano, tra il 2015 e il 2016, buoni vacanza per 1.900 euro. Si tratta di una ventina di dirigenti di banca ai più alti livelli di Unicredit e Gruppo Banco Bpm.

I giornalisti di Report hanno contattato i diretti interessati. Piccini smentisce di aver goduto di soggiorni relax e di regali archeologici. Invece Carrus sostiene di “non sapere di essere destinatario di tali regali”, ma ammette di aver goduto di un soggiorno ad Abano Terme. Guidetti conferma di aver ricevuto gli omaggi per i soggiorni, ma di non averli mai utsati. Maurizio Faroni, contattato, dice: “Io non ho mai beneficiato di soggiorni e tanto meno di regali archeologici”. Profumo scrive che “non ricordo, è passato molto tempo, ma sono certo di non essere andato in vacanza a spese della Idb”. Mentre Ghizzoni, Chelo e Lombardi non hanno risposto o commentato.

I presunti regali ai banchieri sono solo la punta dell’iceberg dell’indagine che ha visto cadere nella trappola migliaia di clienti delle cinque banche. Clienti che si sono ritrovati in tasca diamanti a prezzi gonfiati, difficilmente liquidabili e la cui vendita, invece, garantiva alle banche ricche commissioni: si stima fino a 10 volte il valore delle commissioni rispetto ai normali prodotti finanziari. È qui l’ingranaggio chiave dello scandalo. Tanti soldi e facili a spese degli incosapevoli clienti. Report documenta, attraverso il racconto di un gestore, anche le forti pressioni dall’alto verso il basso: dai manager verso i gestori e i dipendenti, per spingere la vendita dei preziosi. Gestore che ha illustrato anche le modalità di selezione della clientela. Pressioni fortissime che i sindacati dei lavoratori, Fabi in testa, hanno denunciato con forza e non solo per lo scandalo diamanti. Significativa la testimonianza di un lavoratore intervistato da Report: “Le pressioni avvengono quotidianamente, abbiamo dei budget da raggiungere per i diversi tipi di attività e le pressioni ci sono. Vengono pubblicate classifiche e graduatorie, vengono anche indicati in maniera negativa chi è ultimo in classifica. A volte si arriva anche a minacce di trasferimento in caso di mancato raggiungimento dei risultati, ho visto persone trasferite per non aver raggiunto determinati obiettivi”.

“Il tesoretto doveva servire per integrare le pensioni”

Correva l’anno 2006. La crisi Alitalia era esplosa da tempo, il debito dello Stato pure. Quanto ai salari del Paese, erano tra i più bassi d’Europa. Allora come oggi il governo, quello di Romano Prodi, era alla ricerca del mitico “tesoretto” per rimettere a posto i conti pubblici e magari finanziare qualche misura per la crescita. È in questo contesto che nacque la riforma del trattamento di fine rapporto (Tfr) dei lavoratori che nel settore privato veniva accantonato in azienda fornendo liquidità in prestito alle imprese. “Annusando il fatto che il governo stava per utilizzare il trattamento di fine rapporto dei lavoratori, ho accelerato al massimo l’utilizzo del medesimo a favore dei fondi di pensione complementare. Cioè ho dato un’accelerata ai fondi tant’è che ci furono un milione di nuovi iscritti”, ricorda Cesare Damiano, allora ministro del Lavoro e della previdenza sociale.

Il governo puntava a mettere le mani sul Tfr delle imprese. In questo modo avrebbe avuto maggiore liquidità in cassa per finanziare nuove misure per la crescita o anche solo tamponare situazioni di crisi di aziende pubbliche o parastatali. “Intervenni per evitare un diverso utilizzo di una risorsa che, a parere mio, doveva andare a vantaggio delle pensioni integrative”, prosegue Damiano. Così alla fine solo una parte residuale del denaro accantonato per il futuro trattamento di fine rapporto dei lavoratori finì nelle casse pubbliche. Era quello dei dipendenti di società con oltre 50 lavoratori che avessero scelto di “lasciare il Tfr in azienda”, non aderendo esplicitamente alla previdenza complementare.

A distanza di 13 anni si può dire che l’operazione sia riuscita solo in parte: se infatti la previdenza complementare è decollata grazie al meccanismo del silenzio assenso, la quota di Tfr versato dalle aziende all’Inps è scivolata nelle pieghe del bilancio dello Stato (articolo a lato). Eppure, come spiega Damiano, “quella risorsa lì può essere utilizzata per mille scopi: per fare investimenti, per fare cassa, per fare pensioni, per fare risparmio. È una risorsa sola, bisognava trattarla con cura e io preferivo che andasse li dove doveva andare”, cioè alla previdenza complementare. Un sistema che, secondo l’ex sindacalista, oggi potrebbe essere perfezionato “rendendo fiscalmente più vantaggiosa l’adesione, riproponendo il silenzio assenso, o almeno rendendo obbligatorio il versamento del contributo del solo datore di lavoro per invogliare l’iscrizione”. Tutto questo perché, come ricorda l’ex ministro, “la previdenza complementare ha ormai cambiato natura. Non è più una piccola pensione che si aggiunge ad una pensione già dignitosa (appunto, complementare), ma è ormai un piccolo assegno che renderà appena dignitosa la pensione dei giovani lavoratori poveri che diventeranno pensionati poveri”.

Il problema è però che lo Stato è in conflitto d’interessi: implementando la pensione complementare, si assottiglierebbe il flusso di denaro che ogni anno arriva al fondo di tesoreria dell’Inps e che scompare nel bilancio generale dello Stato, dove è alla mercé della politica, sempre alla ricerca di risorse per mantenere le promesse elettorali.

34 miliardi spariti: il Tfr “espropriato” dallo Stato

“Vorrei l’ultima relazione sull’uso delle somme del Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto istituito dalla legge 296/2006 (commi 755 ss.). Potreste cortesemente inviarmela?”. La domanda dev’essere stata posta all’interlocutore sbagliato. Il ministero del Tesoro, infatti non si ritiene competente in materia: “La richiesta va fatta all’Inps e al Ministero del Lavoro”, è l’asciutta risposta di un portavoce. Peccato che neanche al dicastero guidato da Luigi Di Maio ne sappiano nulla. “I dati da lei richiesti sono in possesso dell’Inps”, rispondono. Bingo? No, all’istituto di previdenza presieduto da Pasquale Tridico suggeriscono “di rivolgersi per competenza al ministero dell’Economia e delle Finanze in relazione a quanto previsto dalla legge 296/2006”. Conclusione: nessuno sa che fine abbiano fatto i quasi 35 miliardi di euro che l’Inps ha girato allo Stato dal 2007 al 2017 attingendoli dal Fondo di Tesoreria. Quello dove le imprese private con oltre 50 dipendenti sono obbligate a versare le quote di Tfr dei lavoratori che non hanno scelto di depositare il proprio trattamento di fine rapporto in fondi pensione.

Il flusso medio al lordo delle prestazioni erogate, per intenderci, è di oltre 5 miliardi l’anno. Denaro che aveva dei precisi vincoli di investimento. Sia qualitativi che quantitativi. E i ministeri interessati, così come l’Inps sono già stati messi in guardia dalla Corte dei Conti che, in una dettagliata relazione del marzo 2011, aveva espresso severi giudizi e grandi timori sui rischi di un uso sconsiderato di queste grosse quantità di soldi, parlando tra il resto di “prelievo forzoso” ai danni delle imprese private, di “tassa occulta” e di rischio di squilibri per i conti dello Stato a carico delle generazioni future e a danno dei lavoratori veri proprietari dei soldi. Nelle intenzioni del legislatore, lo Stato avrebbe dovuto utilizzare i Tfr depositati per stimolare crescita e occupazione, finanziando infrastrutture attraverso fondi per favorire la crescita o aziende pubbliche come Anas e Ferrovie dello Stato, con precisi tetti di spesa per ogni voce. Ma cosa sia poi successo, non si sa. Nonostante la legge prevedesse anche l’obbligo, per il ministero del Tesoro e quello del Lavoro, di presentare al Parlamento una relazione dettagliata sulla consistenza e l’utilizzo del Fondo entro il 30 settembre di ogni anno. Gli ultimi ad affrontare la questione in modo analitico sono stati appunto i magistrati contabili, che nel 2011 hanno dedicato un’intera deliberazione della Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato proprio all’utilizzo del Tfr depositato dalle imprese presso l’Inps.

 

L’alt dei giudici contabili: “È un prelievo forzoso”

“La Corte sottolinea il pericolo derivante dall’utilizzazione del fondo per mere finalità di provvista finanziaria: detta pratica potrebbe pregiudicare i futuri equilibri di bilancio e creare problemi di equità intergenerazionale a danno dei futuri contribuenti e percettori dei servizi”, si legge nel documento, che paventa “il concreto rischio di far ricadere sulle future generazioni il possibile sbilanciamento economico del sistema, che non potrà essere colmato, se non attraverso l’inasprimento delle aliquote contributive o del prelievo fiscale”. L’anno prima, la magistratura contabile aveva rilevato come tra il 2007 e il 2009 il ministero dell’Interno avesse utilizzato il denaro raccolto per finanziare la spesa corrente, pagando con il Tfr dei lavoratori gli oneri di ammortamenti dei mutui per i comuni dissestati, la gratuità dei libri di testo e la spesa per i lavoratori socialmente utili dei Comuni di Napoli e Palermo e della Provincia di Napoli. Voci che “non corrispondevano alle finalità delle norme in tema di utilizzazione del Tfr”. Dall’incidente con il Viminale, poi chiuso, a questioni di rilevanza ancora maggiore, il passo è stato breve. Nella sua ricognizione la Corte dei Conti è infatti giunta presto al nocciolo: “L’Amministrazione statale non sta predisponendo alcun meccanismo di reintegrazione del fondo Tfr gestito dall’Inps, in relazione alle somme già prelevate per il triennio 2007-2009 e per quelle dell’anno in corso. Anzi, il contestato meccanismo risulta confermato almeno fino allo scadere del decennio dalla sua introduzione: a fronte delle somme ad oggi prelevate, pari a 15,86 miliardi di euro, sono previsti introiti di analoga natura fino a raggiungere, a tale scadenza, i 30 miliardi complessivi”.

 

Giulio Tremonti spende, poi combia la norma

In pratica il dicastero all’epoca guidato da Giulio Tremonti riteneva di poter continuare, almeno fino al 2017, a finanziare i conti pubblici attingendo a fondo perduto dal denaro dei lavoratori depositato temporaneamente presso l’Inps, senza prevedere dei meccanismi di restituzione nel tempo, meno che mai con gli interessi. Anzi, in seguito alle rimostranze della magistratura contabile circa l’uso dei fondi non a norma, è stata la norma ad essere modificata, non l’usanza, con la possibilità di utilizzare il Tfr depositato presso l’Inps anche per sostenere l’equilibrio della gestione sanitaria. Da qui la pesante accusa dei magistrati contabili secondo i quali un “simile prelievo, senza il correlato onere di ricostituzione del fondo, costituisce una operazione di natura espropriativa senza indennizzo o comunque di prelievo fiscale indiretto nei confronti delle categorie interessate a versamenti finalizzati a scopi ben diversi dal sostegno alla finanza pubblica”. Per di più basato su “dati statistici elementari”. Che al contrario, se confermati, dovrebbero “servire a garantire le categorie interessate, attraverso un migliore rendimento di quello attualmente fissato dalla legge. Non vi è nessuna norma in grado di giustificare una utilizzazione delle somme prelevate diversa dalle finalità per le quali datori di lavoro e prestatori le conferiscono”. In altre parole, è il ragionamento, visto che il denaro non è dello Stato ma dei lavoratori o delle aziende, i suoi frutti dovrebbero andare ai lavoratori e alle aziende, non allo Stato. Che per di più se ne serve senza preoccuparsi di doverlo restituire. Purtroppo poi, “il trend economico-finanziario affermato non appare comunque attendibile e sussistono buone ragioni per prevedere esiti molto diversi rispetto a tale previsione”.

 

Nessuna rendicontazione: l’opacità della politica

Il conto rischia di essere ancora più salato: “La carenza dei dati istruttori e la sottovalutazione di importanti fattori di criticità è idonea a creare squilibri nel tempo, dei quali potrebbero fare le spese i futuri contribuenti e percettori delle prestazioni”, tuonava la Corte. I magistrati quindi fin dal 2011 contestavano “l’assenza di analitica individuazione delle partite di spesa finalizzate con il Tfr”, completando “il criticato percorso di prelievo e utilizzazione della risorsa a scopo di riequilibrio del bilancio statale”, con un “deficit di trasparenza nell’utilizzazione delle risorse”. Non solo. “Si può fin d’ora precisare che alle suddette problematiche, sollevate da questa Corte sulla base di incontrovertibili elementi obiettivi, non è stata data adeguata risposta, anzi le risultanze della presente indagine hanno posto in luce questioni e disfunzioni ancor più complesse di quelle precedentemente accertate”. Mentre “allo stato degli atti si deve ragionevolmente dedurre che a partire dal 2010 questi fondi serviranno semplicemente a finanziare il bilancio confondendosi con le altre entrate correnti dello Stato”. Viste le risposte ricevute, impossibile verificare come sia andata davvero. Quel che è certo è che l’Inps ha continuato a girare allo Stato gli accantonamenti per il Tfr non utilizzati per coprire le prestazioni. Per un totale che a fine 2016 superava i 30 miliardi stimati dal Tesoro di Tremonti. Delle relazioni però non c’è traccia come sottolinea il professor Francesco Vallacqua, docente di Economia e gestione delle Assicurazioni vita e dei fondi pensione presso l’Università Bocconi di Milano. “Vorrei un’analitica descrizione di dove sono andati a finire ogni anno i circa 5 miliardi di euro che dovevano servire per finanziare le infrastrutture come previsto dalla legge 296/06 – spiega a Il Fatto Quotidiano –. Mi andrebbe bene anche se, legittimamente, qualcuno istituzionalmente indicasse che c’erano esigenze più contingenti di spesa corrente e che i soldi sono stati utilizzati per altro. Però aboliamo quella legge che dice che vanno da un’altra parte, altrimenti rimane una norma non rispettata. Intanto sarebbe interessante leggere le relazioni dei vari ministri del Lavoro sul tema”. Peccato che al ministero non ne sappiano niente.

giro

Le grandi scoperte. “La Repubblica delle Idee, fra gli ospiti Fabio Fazio: ‘La Rai è terreno di scontro della politica’” (Repubblica, prima pagina, 8.6). Ma va? Ma siamo proprio sicuri?

Prima e dopo la cura. “Notte serena Amici, oggi non c’è un cazzo da festeggiare” (Matteo Salvini, europarlamentare Lega Nord, Twitter, 2.6.2013). “Non capisco cosa ci sia da festeggiare… il 2 giugno c’è poco da fare parate e sventolii. Io eviterei un giorno di festa, risparmierei i quattrini, è una presa in giro, ipocrisia. È una festa della Repubblica invasa e disoccupata, sarebbe da abolire” (Salvini, europarlamentare e leader Lega Nord, La Zanzara, Radio24, 31.5.2016). “#Buonadomenica e buona #FestadellaRepubblica, Amici. Orgoglioso di poter esercitare il mio ruolo di governo sempre a difesa dell’Italia! #2giugno” (Matteo Salvini, leader della Lega, vicepremier e ministro dell’Interno, Twitter, 2.6.2019). A Salvi’, facce Tarzan!

Poveretto, come s’offre. “Non possiamo più permetterci un esecutivo in mano ai grillini” (Marcello Veneziani, La Verità, 4.6). Manco uno strapuntino m’hanno dato.

Che pretese. “Salario minimo, stangata da 15 miliardi. Allarme Confesercenti: ‘Per le imprese costi esorbitanti, a rischio gli equilibri dei contratti’” (La Stampa, 4.6). Non c’è limite alla sfrontatezza: ora manca soltanto che questi lavoratori pretendano pure uno stipendio.

Il titolo della settimana/1. “Paperino, il veterano degli anticomunisti. L’eroe borghese compie 85 anni. È l’emblema della sfiga. Nonostante abbia problemi di soldi ed è (sic, ndr) inseguito dai creditori, ha un’anima popolare di centrodestra” (Libero, 8.6). Gulp! Gasp! Squaraquack!

Il titolo della settimana/2. “Italia game over. Governo al capolinea. Parlamento bloccato. Economia nel mirino della Ue. Magistratura corrotta e pilotata dalla politica. È la tempesta perfetta. E sul Paese cala il buio” (copertina tutta nera de l’Espresso, 9.6). Ricordati che devi morire. Mo’ me lo segno.