Torna in libreria “Appuntamento a Trieste” di Giorgio Scerbanenco. Pubblichiamo stralci delle prime pagine a firma dell’autore.
La prima volta che arrivai a Trieste vi erano l’oscuramento e la guerra. Avevo appuntamento con una donna all’albergo Corso. Non conoscevo la città e non avevo niente altro da fare che vedere quella donna. Giunto all’albergo chiesi di lei e il direttore mi guardò un po’ stupito, poi esitando mi disse che era morta, dodici giorni prima. Gli dissi di guardare meglio il registro, che non si trattasse di un’altra signora dal nome uguale, ma sul registro era scritto esattamente il nome di lei. La mia storia non ha importanza, dirò soltanto che la amavo da diversi anni e che non potevo aspettarmi di arrivare lì e sentirmi dire che era morta. Il direttore dell’albergo mi spiegò che era stata una paralisi cardiaca e riuscì a trovarmi il numero della tomba dove era seppellita, al cimitero di Sant’Anna. Vi andai la mattina dopo a piedi, e fu una lunga, lunga e triste passeggiata. Trovai una tomba modestissima, senza fiori, senza ceri. Mi aveva detto che era triestina, lei, ma che fin da piccola mancava dalla città, così che non aveva parenti e non conosceva nessuno, per questo nessuno poteva venire a visitare quella tomba. Vi deposi io i fiori che avevo portato, lessi tante volte il suo nome inciso di fresco sulla pietra. Solo quindici giorni prima la tenevo fra le mie braccia e adesso era lì, sotto terra. Ricordo che non soffrii neppure tanto. […]
Poi ritornai verso il mio albergo e a un certo punto mi trovai davanti a una cartoleria e mi ricordai di mia sorella che mi aveva tanto raccomandato di portarle delle vedute e delle cartoline di Trieste. Entrai e il negozio mi parve vuoto. Invece, nascosta dietro il registratore di cassa, vi era una bambina che mi chiese che cosa volevo. “Delle cartoline di Trieste”, le dissi senza guardarla. Dalla sera prima, quando il direttore dell’albergo mi aveva detto che lei era morta, non guardavo forse niente e nessuno. Ma d’un tratto dovetti guardarla e strinsi le mascelle perché provai la più forte scossa della mia vita. La bambina aveva gli occhi grigi, chiari, di una dolce, opaca luminosità d’alluminio, e vicino all’occhio destro aveva un minuscolo segno, una specie di cicatrice, piccola ma profonda, che non toglieva nulla, però, alla grazia infantile e femminea del suo volto. La donna che io ero venuto a cercare a Trieste era così, come lei, solo che aveva venticinque anni invece di essere una bambina. Ma aveva quel viso, quegli occhi, e aveva vicino all’occhio destro quel segno, quella cicatrice, piccola ma profonda. Le stava bene come sta bene un neo. “Che cosa hai fatto lì, vicino all’occhio?” chiesi alla bambina sfogliando l’album delle cartoline. “Sono caduta”, mi disse, ma un po’ risentita. “Ti sta bene,” le dissi, “sembra un neo”. Erano le stesse parole che avevo detto alla donna che ero venuto a cercare a Trieste, i primi tempi che l’avevo conosciuta. Era strano ripeterle, a una bambina, ora che quella donna era morta. La piccola allora sorrise, già felice del complimento, ma io mi sbrigai a prendere un po’ di cartoline e ad andarmene, perché non respiravo più a vederla. Poi in treno, mentre ritornavo a Milano, pensai che non c’era niente di straordinario che una ragazza di undici, dodici anni, rassomigliasse tanto alla donna che ero andato a cercare. Non era straordinario neppure che avesse una cicatrice come l’aveva lei, allo stesso posto. Ne accadono tante di combinazioni simili.
Tornai a Trieste nel 1946, soltanto per portare dei fiori su quella tomba. […] Mi fermai un poco a parlare con lei, le dissi di perdonarmi se non sempre l’avevo ricordata in tutti quegli anni, certo lei ora doveva sapere che l’amore dei vivi non ha nessun valore, è labile come un’impronta sull’acqua, ma che io, pur essendo vivo, l’avevo molto amata e l’amavo ancora, e che invecchiavo senza amarezza pensando che, in un certo senso, l’avrei raggiunta, e anche se la morte fosse stata un eterno buio e un nulla, per lo meno sarei stato morto come lei, libero da questa vita a cui non riuscivo più a credere.
Naturalmente cercai anche quella cartoleria dove avevo veduto una bambina che rassomigliava a lei. Tanti anni, tante tragedie erano passate, chi sa dove era, adesso, quella bambina, chi sa se esisteva ancora la cartoleria, invece ritrovai tutto come era, stranamente intatto, in una città dove erano passati tanti anni di guerra e di sofferenze. Voglio dire, naturalmente, la cartoleria, che era come allora e anche il registratore di cassa mi parve lo stesso, ma dietro non c’era più la bambina come la prima volta. […]
Due anni dopo ero ancora a Trieste: non solo, insieme con un amico, un italoamericano, figlio di tarantini emigrati negli Stati Uniti. Si chiamava Rolazza e parlava il pugliese, imparato in famiglia, altrettanto bene l’inglese, ma l’italiano no. Lo avevo incontrato per caso in treno e quando fummo a Trieste mi accompagnò anche al cimitero, rimanendo in disparte, mentre io deponevo i fiori sulla tomba. Quella volta non passai alla cartoleria: non perché avessi dimenticato, ma perché non avevo speranza di trovare quella bambina che adesso doveva essere una giovane donna di oltre vent’anni. Neanche ritornando a Trieste due anni dopo (eravamo ormai nel ’50), vi sarei passato se il mio amico pugliese-americano non mi ci avesse portato lui. “Devo prendere della carta da lettere, e intanto saluto la fidanzata del capitano,” disse. Entrammo, e vidi la donna che amavo e che era morta. Stava lì, dietro il banco, i suoi occhi chiari dolcemente luminosi e dolcemente tristi, il piccolo segno vicino all’occhio destro che sembrava un neo.
Voi avete compreso che non era la donna che amavo e che era morta, era invece la bambina che io avevo veduto dietro il registratore di cassa durante la guerra, cresciuta e divenuta donna. Voi lo avete compreso subito leggendo queste righe, perché leggendo non la vedete, ma io la vedevo, e rassomigliava a tal punto alla donna che io avevo tanto nel cuore, che, pur comprendendo, non volevo comprendere che non era lei. Poi dovetti cedere alla realtà e rimasi a guardare il mio amico pugliese in divisa di sergente, che comprava della carta da lettere e parlava sommessamente in inglese con la giovane donna. Quando uscimmo il pugliese mi disse: “Bella ragazza, vero?”. “Molto bella”, mormorai. “Una terribile storia”, egli disse dopo un poco. Ma non aggiunse altro, fino alla sera, quando lo invitai a cena. Terminato di mangiare, e aveva anche molto bevuto, mi disse: “Tu non hai l’aria di una spia e non vivi a Trieste, forse posso raccontarti la storia di quella ragazza”. È infatti la storia di Diana che devo raccontare, la ragazza della cartoleria, l’immagine viva della donna che tanti anni prima ero venuto a cercare a Trieste, e avevo trovata morta.