La cicatrice, la tomba e la spia: ma chi era Diana?

Torna in libreria “Appuntamento a Trieste” di Giorgio Scerbanenco. Pubblichiamo stralci delle prime pagine a firma dell’autore.

La prima volta che arrivai a Trieste vi erano l’oscuramento e la guerra. Avevo appuntamento con una donna all’albergo Corso. Non conoscevo la città e non avevo niente altro da fare che vedere quella donna. Giunto all’albergo chiesi di lei e il direttore mi guardò un po’ stupito, poi esitando mi disse che era morta, dodici giorni prima. Gli dissi di guardare meglio il registro, che non si trattasse di un’altra signora dal nome uguale, ma sul registro era scritto esattamente il nome di lei. La mia storia non ha importanza, dirò soltanto che la amavo da diversi anni e che non potevo aspettarmi di arrivare lì e sentirmi dire che era morta. Il direttore dell’albergo mi spiegò che era stata una paralisi cardiaca e riuscì a trovarmi il numero della tomba dove era seppellita, al cimitero di Sant’Anna. Vi andai la mattina dopo a piedi, e fu una lunga, lunga e triste passeggiata. Trovai una tomba modestissima, senza fiori, senza ceri. Mi aveva detto che era triestina, lei, ma che fin da piccola mancava dalla città, così che non aveva parenti e non conosceva nessuno, per questo nessuno poteva venire a visitare quella tomba. Vi deposi io i fiori che avevo portato, lessi tante volte il suo nome inciso di fresco sulla pietra. Solo quindici giorni prima la tenevo fra le mie braccia e adesso era lì, sotto terra. Ricordo che non soffrii neppure tanto. […]

Poi ritornai verso il mio albergo e a un certo punto mi trovai davanti a una cartoleria e mi ricordai di mia sorella che mi aveva tanto raccomandato di portarle delle vedute e delle cartoline di Trieste. Entrai e il negozio mi parve vuoto. Invece, nascosta dietro il registratore di cassa, vi era una bambina che mi chiese che cosa volevo. “Delle cartoline di Trieste”, le dissi senza guardarla. Dalla sera prima, quando il direttore dell’albergo mi aveva detto che lei era morta, non guardavo forse niente e nessuno. Ma d’un tratto dovetti guardarla e strinsi le mascelle perché provai la più forte scossa della mia vita. La bambina aveva gli occhi grigi, chiari, di una dolce, opaca luminosità d’alluminio, e vicino all’occhio destro aveva un minuscolo segno, una specie di cicatrice, piccola ma profonda, che non toglieva nulla, però, alla grazia infantile e femminea del suo volto. La donna che io ero venuto a cercare a Trieste era così, come lei, solo che aveva venticinque anni invece di essere una bambina. Ma aveva quel viso, quegli occhi, e aveva vicino all’occhio destro quel segno, quella cicatrice, piccola ma profonda. Le stava bene come sta bene un neo. “Che cosa hai fatto lì, vicino all’occhio?” chiesi alla bambina sfogliando l’album delle cartoline. “Sono caduta”, mi disse, ma un po’ risentita. “Ti sta bene,” le dissi, “sembra un neo”. Erano le stesse parole che avevo detto alla donna che ero venuto a cercare a Trieste, i primi tempi che l’avevo conosciuta. Era strano ripeterle, a una bambina, ora che quella donna era morta. La piccola allora sorrise, già felice del complimento, ma io mi sbrigai a prendere un po’ di cartoline e ad andarmene, perché non respiravo più a vederla. Poi in treno, mentre ritornavo a Milano, pensai che non c’era niente di straordinario che una ragazza di undici, dodici anni, rassomigliasse tanto alla donna che ero andato a cercare. Non era straordinario neppure che avesse una cicatrice come l’aveva lei, allo stesso posto. Ne accadono tante di combinazioni simili.

Tornai a Trieste nel 1946, soltanto per portare dei fiori su quella tomba. […] Mi fermai un poco a parlare con lei, le dissi di perdonarmi se non sempre l’avevo ricordata in tutti quegli anni, certo lei ora doveva sapere che l’amore dei vivi non ha nessun valore, è labile come un’impronta sull’acqua, ma che io, pur essendo vivo, l’avevo molto amata e l’amavo ancora, e che invecchiavo senza amarezza pensando che, in un certo senso, l’avrei raggiunta, e anche se la morte fosse stata un eterno buio e un nulla, per lo meno sarei stato morto come lei, libero da questa vita a cui non riuscivo più a credere.

Naturalmente cercai anche quella cartoleria dove avevo veduto una bambina che rassomigliava a lei. Tanti anni, tante tragedie erano passate, chi sa dove era, adesso, quella bambina, chi sa se esisteva ancora la cartoleria, invece ritrovai tutto come era, stranamente intatto, in una città dove erano passati tanti anni di guerra e di sofferenze. Voglio dire, naturalmente, la cartoleria, che era come allora e anche il registratore di cassa mi parve lo stesso, ma dietro non c’era più la bambina come la prima volta. […]

Due anni dopo ero ancora a Trieste: non solo, insieme con un amico, un italoamericano, figlio di tarantini emigrati negli Stati Uniti. Si chiamava Rolazza e parlava il pugliese, imparato in famiglia, altrettanto bene l’inglese, ma l’italiano no. Lo avevo incontrato per caso in treno e quando fummo a Trieste mi accompagnò anche al cimitero, rimanendo in disparte, mentre io deponevo i fiori sulla tomba. Quella volta non passai alla cartoleria: non perché avessi dimenticato, ma perché non avevo speranza di trovare quella bambina che adesso doveva essere una giovane donna di oltre vent’anni. Neanche ritornando a Trieste due anni dopo (eravamo ormai nel ’50), vi sarei passato se il mio amico pugliese-americano non mi ci avesse portato lui. “Devo prendere della carta da lettere, e intanto saluto la fidanzata del capitano,” disse. Entrammo, e vidi la donna che amavo e che era morta. Stava lì, dietro il banco, i suoi occhi chiari dolcemente luminosi e dolcemente tristi, il piccolo segno vicino all’occhio destro che sembrava un neo.

Voi avete compreso che non era la donna che amavo e che era morta, era invece la bambina che io avevo veduto dietro il registratore di cassa durante la guerra, cresciuta e divenuta donna. Voi lo avete compreso subito leggendo queste righe, perché leggendo non la vedete, ma io la vedevo, e rassomigliava a tal punto alla donna che io avevo tanto nel cuore, che, pur comprendendo, non volevo comprendere che non era lei. Poi dovetti cedere alla realtà e rimasi a guardare il mio amico pugliese in divisa di sergente, che comprava della carta da lettere e parlava sommessamente in inglese con la giovane donna. Quando uscimmo il pugliese mi disse: “Bella ragazza, vero?”. “Molto bella”, mormorai. “Una terribile storia”, egli disse dopo un poco. Ma non aggiunse altro, fino alla sera, quando lo invitai a cena. Terminato di mangiare, e aveva anche molto bevuto, mi disse: “Tu non hai l’aria di una spia e non vivi a Trieste, forse posso raccontarti la storia di quella ragazza”. È infatti la storia di Diana che devo raccontare, la ragazza della cartoleria, l’immagine viva della donna che tanti anni prima ero venuto a cercare a Trieste, e avevo trovata morta.

“Sono come Rocco Siffredi: pagato per divertirmi molto”

Il buongiorno partenopeo di Maurizio De Giovanni è sorseggiando il caffè, ma non come il luogo comune recita, con il sorriso e lo sguardo aperto verso la giornata; alle 8 e poco oltre della mattina ha già il cervello iperconnesso con la vita, la favella fluida e articolata, voce chiara, quotidiani letti, e una preoccupazione impellente: “Questa emorragia verso destra mi angoscia, non c’è più limite, stanno saltando tutti gli argini etici, anche quelli cattolici. Oramai come diceva Luigi Pintor ‘non moriremo tutti democristiani’”. E quindi? “Dobbiamo aggrapparci all’Europa, è l’unica”.

Sessantuno anni, 31 dei quali passati dentro a una banca, è un uomo appagato e compatibilmente sereno perché consapevole di fortune, guai e capacità; quando parla è in grado di visualizzare, di dettare i confini della parola, non dell’immaginazione, e come cantava Enzo Jannacci “per fare certe cose ci vuole orecchio”. A lui non manca, e per questo è uno degli scrittori più prolifici, amati, venduti, invidiato da alcuni colleghi proprio perché prolifico, amato e venduto. E dopo la fiction dedicata ai suoi Bastardi di Pizzofalcone, ora la Rai sta girando la serie ispirata a Il commissario Ricciardi.

È instancabile.

Mi diverto. Mica come ai tempi del lavoro in banca, quello era terribile.

Così tanto?

Lì è inevitabile il confronto quotidiano con i soldi che inquinano ogni rapporto umano: in 31 anni ho visto e vissuto di tutto, figli contro padri, fratelli azzannarsi, anziani trattati di merda.

Bel quadro…

E poi quando sei sottoposto a una forma di lavoro piramidale, è inevitabile confrontarsi con degli idioti. È statistica.

Insomma, è rinato.

Ogni giorno ho in mente un punto fondamentale della mia esistenza: sono fortunato, mi sento come Rocco Siffredi.

Uguali, uguali.

Mi pagano per scrivere e il pubblico è contento di vedermi; non solo: posso viaggiare in prima classe, ospitato in bellissimi hotel, mi applaudono a prescindere, anche se pronuncio una minchiata.

Una Pasqua.

Posso sempre esprimere la mia opinione e senza bluffare, libero di essere me stesso: con una situazione del genere, come posso qualificarmi “infelice”?

La banca l’ha proprio sofferta…

Da quando me ne sono andato non ho più indossato la cravatta, quel nodo lo considero una delle più alte forme di masochismo al mondo.

Alcuni suoi colleghi manifestano un certo fastidio per le presentazioni.

In quel caso è un atteggiamento: lo scrittore deve soffrire, deve risultare giallastro in volto, deve manifestare problemi gastrici, certamente emaciato, ancora meglio se con la forfora sparsa sulla giacca.

Una meraviglia.

Aggiungo: deve indossare il maglioncino anche d’estate, e gli altri non possono percepire minimamente quanta sofferenza costa tutto questo.

In realtà, chi è lo scrittore?

Uno che guarda dalla finestra.

Lei ha iniziato a guardare tardi.

Fino a 48 anni sono stato un buon lettore, uno da 4-5 libri al mese, e dei più vari argomenti, spaziavo, mi divertivo a scoprire, a capire i dettagli.

E poi?

Da quando scrivo ho leggermente ridotto la quantità e gli argomenti: ora per lavoro mi dedico molto alla saggistica e ai romanzi degli amici. Tra noi siamo uniti.

Tra voi giallisti?

È una realtà differente rispetto al resto della letteratura, dove la competizione è forte: qui invece ci conosciamo tutti, ci sosteniamo, ci inviamo le prime copie e poi attendiamo i commenti (sorride). Questi disgraziati scrivono come matti.

Lei produce più di tutti.

Allora sono disgraziato pure io. Però ho iniziato tardi, devo mettermi in pari con gli arretrati.

È sincero quando poi commenta i libri degli amici-colleghi?

Quando il romanzo è brutto, sto zitto, evito di parlarne.

Exit strategy.

Ma se uno va al battesimo del figlio di un amico, e il piccolo è brutto, cosa fa? Lo dice? I libri sono come creature, non si può offendere, e comunque ogni romanzo alla fine ha la sua dignità.

Quindi lei sta in “finestra”.

Vivo in una città che racconta storie, è una realtà scritta, l’unica in Italia con la periferia nel centro; mentre a Roma impieghi un’ora per passare dai Parioli (quartiere bene) alla Magliana (quartiere meno bene), da noi via Toledo o i Quartieri Spagnoli sono la stessa cosa.

E quindi?

La storia nasce da un conflitto, e dalla successiva costruzione di un riequilibrio; la storia è il racconto di un cambiamento, e a Napoli la quotidianità ribolle, per questo vado costantemente in giro e osservo.

Fonte inesauribile.

Ho più storie di quelle che posso raccontare, purtroppo non posso andare più veloce nella digitazione dei tasti, uso due dita, altrimenti chissà cosa combinerei.

Ama Napoli.

Vorrei dire al ministro dell’Interno…

Non lo nomina?

Non ricordo il suo nome (improvvisamente un’espressione sorniona), come non ricordo come si chiama la seconda squadra di Torino.

Dicevamo?

Napoli è sostantivo plurale, è la città d’Europa con il maggior numero di bambini e di immigrati; abbiamo una lingua influenzata da tutte le parole del mondo, un menù arricchito da infinite contaminazioni straniere. Questa è una città moribonda e immortale, ed è la sua ricchezza.

Perché?

La si può raccontare in ambo i modi, sia come moribonda che immortale, sono legittimi tutti i punti di vista.

Le altre città?

Milano e Torino sono realtà europee, Firenze e Venezia dei monumenti nei quali cammini; Roma è un conglomerato di città differenti, mentre a Secondigliano trovi la stessa identità culturale di Posillipo.

Ci sarà un pecca…

Il genio è frutto dell’individualismo e l’individualismo è il grande limite; ognuno di noi crede di essere diverso, ed è fatale che diventi egocentrico.

Un esempio.

Napoli non ha una casa editrice di livello nazionale, eppure gli scrittori bravi sono tanti; stessa storia per l’etichetta discografica.

Spiega Alessandro Gassmann di lei: “I suoi protagonisti sono umani, hanno sbagliato, o sono accusati di aver sbagliato”.

Racconto le imperfezioni, le crepe, le fratture, le alterazioni; narro l’eccezione, non la normalità. E con Alessandro c’è un rapporto bellissimo e costante: oltre a essere il protagonista dei Bastardi, ha portato a teatro alcuni miei lavori.

Ha due figli.

Uno si è laureato in Ingegneria, l’altro in Medicina.

Come giudicano il suo lavoro?

La stessa domanda l’ha posta un giornalista tedesco a loro. La risposta mi ha commosso: “Le storie più belle le ha raccontate a noi da piccoli, non a voi”.

Bello.

Nel 1998 ho divorziato, e sono rimasti con me, noi tre soli; siamo cresciuti insieme.

Si è risposato.

E a lei devo tantissimo, nutro una profonda riconoscenza, è il mio equilibrio.

Necessario…

Sono una persona instabile, vado per picchi, lei fa da contrappeso, bilancia gli eccessi.

La sua serotonina.

Ricordo ancora quando Fandango ha rimandato indietro il secondo manoscritto, era completamente segnato di rosso, correzioni continue, suggerimenti che per me erano coltellate.

E…

Lo buttai nel cestino con la frase: è finita; quindi andai a letto distrutto. Lei no. Lo riprese dalla spazzatura, si mise alla scrivania, e al mio risveglio trovai il lavoro completato.

Ora è sempre in giro, quando trova il tempo?

Ogni attimo è buono: ieri ho scritto sei pagine, un intero capitolo, da mezzanotte all’una.

Fenomeno.

Non sono un grande scrittore, punto più sulla storia: io la vedo nella mia testa e la butto giù con un flusso creativo diretto.

Alla Picasso.

Per carità, non sono neanche un genio, né un artista. Ribadisco: narro solo ciò che vedo, mi basta anche lo sguardo di due ragazzi che si baciano al treno, o lo scambio tra persone dentro un bar.

Prende appunti?

Non mi serve.

Le arrivano molti manoscritti?

Tutti ritengono di poter scrivere.

Ma oggi è difficile viverci.

È vero, siamo in pochi, oggi è veramente complicato.

Ama i suoi personaggi?

Da loro sono coinvolto affettivamente, anche dai peggiori, perché dentro hanno comunque un motivo, e per narrarli è obbligatorio comprenderli; lo scrittore è la guida turistica della sua storia.

Lei-uomo rispetto alla sua seconda vita.

Sono peggio di quindici anni fa, ero più giovane e migliore, solo che ora sono in possesso di un importante microfono virtuale.

È una responsabilità.

Molto grande, ma uno non deve arrivare a cambiare ciò che pensa.

Mai.

Poche settimane fa la Rai mi porta in uno dei quartiere di Napoli considerato a rischio; mentre mi microfonano si avvicinano dei ragazzi che non mi conoscevano, alcuna idea di chi fossi, però avevo il microfono, questo a loro bastava.

Allora?

Senza tanti preamboli partono con una richiesta: “Potete dire che qui non c’è lavoro?”. Chiaro? Quei ragazzi mi avevano assegnato un mandato, e così è stato: appena collegato ho manifestato subito quell’esigenza.

Il giornalista?

Mi ha guardato come fossi pazzo, ma è fondamentale offrire la voce a chi non ha quel microfono.

Le sono arrivate proposte dalla politica?

Sì.

Ci pensa?

No, non sono un politico, il mio è un altro ruolo.

Lei è famoso.

Un po’ di tempo fa questa frase l’ha pronunciata il mio medico.

A proposito?

Con una nota di disappunto mi ha spiegato: “Non ti voglio più come paziente, sei sovrappeso, e non posso rischiare di perderti: in caso di morte farei una figura di merda”.

Risultato?

Mi sono messo a dieta e ho perso 24 chili.

I suoi libri sono densi di storie d’amore.

Il sentimento è il denominatore comune, vuol dire parlare dell’unica sfaccettatura umana.

Mai la Camorra.

Perché sul piano narrativo per me è come un gruppo d’affari, è come Wall Street con la pistola, e non mi interessa, non la conosco così a fondo da poterci interagire in modo da creare un denominatore comune.

Che poster aveva nella sua stanza da bambino?

Prima di essere un marito, un padre e un figlio, sono un tifoso del Napoli: la mia scala di valori parte dal dodicesimo posto, i primi undici sono la formazione titolare.

Ecco…

Il mio libro migliore è Il resto della settimana, quindi quei giorni inutili tra un partita e l’altra.

Sarri allenatore della Juventus?

Dal momento in cui non sono più nel Napoli, cessano di esistere.


Report
la settimana scorsa ha attaccato il caffè napoletano.

E pensare che lo bevo solo qui, per me è una necessità, quando esco da Napoli salto l’appuntamento con la tazzina. (Ci pensa) Forse non sono andati da Tico al Duomo, lì il caffè è una delle poche prove dell’esistenza di Dio, non a caso è davanti al Duomo. Scatta la conversione.

Chi è lei?

Un signore di sessant’anni, per ora, che ha vissuto e ama raccontare.

(Magari, come cantava Pino Daniele: “Napule è ’na cammenata, dint’ e viche mmiezo all’ate…”)

Twitter: @A_Ferrucci

Steve, lo “sciattone” di successo che fa la parte del cattivo

Occhi color bourbon con ghiaccio, fisico massiccio, capello fluente, eloquio ad alta gradazione populista, Steve Bannon ha conquistato l’America con Donald Trump, che lo chiamava “il mio sciattone” per via delle camicie scure senza cravatta e della pancia. Poi quella ruvida America sbarcata alla Casa Bianca l’ha persa malamente, per ritrovarla in sedicesimo qui da noi, nell’Italia gialloverde, dove ancora i sovranisti di nuovo conio longobardo lo prendono sul serio. Anzi lo trattano da guru della comunicazione. Nonché bandiera del patriottismo contro le ondate dei migranti straccioni che mirano al cuore bianco e puro del vecchio mondo per dissolverlo nel baratro multiculturale di quello nuovo.

Peccato che le odiose élite della curia romana lo abbiano appena cacciato anche dalla Certosa di Trisulti, monastero del XIII secolo, che lui voleva trasformare in una “Scuola di gladiatori” per difendere nientemeno che “le radici giudaico cristiane dell’Occidente”. Compito fino a oggi egregiamente svolto dall’ultimo monaco certosino di anni 83 che ancora abita le antiche mura a presidio della bella e cristiana Ciociaria, località Collepardo.

Steve s’è battezzato street fighter, combattente di strada, “rivoluzionario”. I suoi nemici, invece, lo chiamano “razzista, prepotente, xebofobo”. Passa per un genio della propaganda informatica, ma gioca sporco con le notizie capovolte. Usandole ha issato mister Trump in cima all’America, dopo avere bruciato nell’urna l’effigie di Hillary Clinton, detta “la corrotta”, “la bugiarda”, la strega delle cene sataniste, la spia degli arabi, l’elegante marionetta nelle mani dei depravati miliardari di Wall Street. Che chissà come sono gli acerrimi nemici del patriota miliardario Trump, uomo della provvidenza evangelica, cresciuto sui prati dei golf club e tra le bionde del jet set, ma arruolatosi in politica nella esclusiva difesa del popolo. Quello dei loser, i perdenti senza più identità, che sognano le radici e la rinascita. Cioè a dire gli americani bianchi impoveriti dalla crisi economica del 2008 e dai complotti dei banchieri, dalla globalizzazione liberal e dalle fiacche nazioni sguarnite di frontiere, dai politici senza palle e dalle élite senza cuore. Dentro le quali Trump ha moltiplicato la sua ricchezza, il suo ego e ora il suo potere.

“Bannon è una persona altamente qualificata che ama vincere e sa come farlo”, disse di lui Trump quando gli affidò le chiavi della sua campagna elettorale. Era l’estate del 2016. La Clinton era in testa ai sondaggi. Talmente in alto che tutti i rancori della nazione erano pronti a coalizzarsi contro di lei, bastava mettere in moto gli ingranaggi giusti. Per esempio usando i 50 milioni di profili Facebook ottenuti illegalmente da Cambridge Analytica, dove Bannon sedeva nel consiglio di amministrazione. O le email della Clinton svelate da Wikileaks che secondo Trump “avevano messo in pericolo la sicurezza nazionale”. E siccome anche gli asini volano se lo ripetono migliaia di siti nella piena luce del web e lo leggono milioni di cittadini nel buio delle loro solitudini, Bannon compì il miracolo. Confermandosi, secondo l’agenzia Bloomberg “l’attivista politico più pericoloso d’America”. Ma anche quello che la conosceva meglio, in grado di misurare la temperatura delle sue vene profonde, e la fragilità dei suoi nervi in superficie.

Stephen Kevin Bannon, detto Steve, nasce nel 1953 in una famiglia che non ti aspetti: irlandese di origine, cattolica, democratica, padre operaio che fa propaganda porta a porta per Kennedy, madre casalinga, terzo di cinque figli. Radici nella verdeggiante Virginia. La scuola con buoni voti, la chiesa alla domenica, con messa in latino, secondo tradizione. Poi il college e l’Accademia militare a Richmond, i primi imbarchi in Marina, i due anni nel Pacifico a bordo di un cacciatorpediniere “a dare la caccia ai sommergibili nucleari sovietici”, come raccontò con una certa enfasi. In realtà passando interi mesi a fare niente, leggendo libri buddhisti e giocando a basket sul ponte della nave, “senza passare mai la palla”.

Quando i ragazzi della Delta Force falliscono la liberazione degli ostaggi americani sequestrati a Teheran dai guardiani della Rivoluzione di Khomeini, anno 1979, Bannon naviga nel mare arabico. Gli prudono le mani, ma non succede niente, tranne l’umiliazione della sconfitta. Per lui è uno choc e una rivelazione: “Vidi la debolezza di Carter” che “mandava a puttane l’America”. E quando sorge l’astro repubblicano di Ronald Reagan, il suo cuore ex democratico, si illumina per sempre. E cambia vita. Sbarca dopo sette anni. Si iscrive alla Business School di Harvard, dove impara a maneggiare numeri, informazioni e soldi. Lavora “100 ore la settimana” per la Goldman Sachs, la banca d’affari. Cavalca gli anni 80 diventando ricco. Ma quando Wall Street “si trasforma in un casinò”, cioè “in un posto totalmente ingiusto”, il suo liberismo compassionevole si ribella. O almeno così la racconta, visto che si trasferisce a Hollywood dove impara a destreggiarsi tra “gli stupidi irresponsabili” che si scambiano Studios, star, giacimenti di film. Lui compra, vende, incassa come fosse a Las Vegas. Produce una quarantina di film, compreso uno sul suo eroe, Reagan, la sua vittoria contro il comunismo. Che dopo l’11 settembre assume una nuova luce: “Unimmo i puntini: quella lotta ora somigliava a quella dell’America contro l’Islam”.

L’ultimo passo della sua lunga formazione, lo compie nel 2005 quando vola a Hong Kong per entrare nel business dei videogiochi di ruolo, dove traffica in mondi abitati da elfi, draghi cattivi, cavalieri buoni per milioni di clienti paganti e sognanti. È lì che misura quanto sia attraente per il vasto pubblico di adulti-bambini semplificare i labirinti della vita nella eterna lotta tra il bene e il male. Tra il principe e la strega, tra i nativi e i barbari invasori.

Quando rientra in America è la stagione dei Tea Party, la destra fondamentalista che si batte contro il “genocidio degli aborti”, ma difende il mercato delle armi, ultracattolica, ma anche aggressiva contro tutte le minoranze. Dopo avere letto René Guenon, occultista francese e Julis Evola, esoterico teorico della superiore razza ariana, è convinto che l’Occidente viva nell’Era Buia. E dunque qualunque mezzo è legittimo per ridare luce alla nostra civiltà assediata. Per quattro anni dirige il sito Breitbart News che fabbrica notizie di propaganda per l’ultradestra, teorie cospirazioniste, bugie come l’origine non americana di Obama, moltiplicate dagli eserciti di troll.

Quando Trump vince promettendo soldi per vivere e muri per non morire, Bannon neanche ci crede. Entra nella stanza ovale da chief strategist, e siede alla destra del capo. Ma perde tutto quando confida al giornalista Michael Wolff che la Casa Bianca è diventata un “covo di vipere”, che Trump è considerato “un idiota” e sua figlia Ivanka “stupida come un mattone”. Trump lo caccia e se la gode: “Quando l’ho licenziato si è messo a piangere e a implorare. Peccato che adesso si ritrovi solo come un cane”.

Ma Steve non è affatto solo. Ha avuto tre mogli, tre figlie, tante vite. E ora ha trovato il nuovo nemico e il nuovo ingaggio, l’Europa.

Ha attraversato l’oceano. Ha abbracciato la Brexit di Nigel Farage. Danzato con Marine Le Pen contro Macron. Ora marcia con Matteo Salvini e Giorgia Meloni contro Bruxelles. Voleva istruirli nella scuola dei gladiatori, ma il suo portaborse Benjamin Harnwell – un tizio convinto che “Mussolini abbia salvato l’Italia” – si è dimenticato di pagare i 100 mila euro di affitto. È di sicuro più furbo del compratore della Fontana di Trevi. E anche più consapevole della sua missione. Quando un giornalista gli disse che le sue vittorie erano degne di Hollywood, lui scosse la testa: “Fratello, Hollywood non fa film in cui vincono i cattivi”.

Il gioco dell’oca Usa: Messico torna al via, Iran va in prigione

Un tweet li materializza, un tweet li dissolve: funziona con i dazi, nei confronti del Messico; come funziona con le sanzioni – le ultime, nei confronti dell’Iran –. Sei ore dopo averli confermati, Donald Trump annuncia la sospensione a tempo indeterminato dell’entrata in vigore dei dazi sull’import messicano, che dovevano scattare domani. Gli Stati Uniti hanno raggiunto un accordo con il Messico che prevede – dice soddisfatto il magnate presidente – “forti misure per arrestare il flusso di migranti attraverso il Messico verso il confine meridionale” dell’Unione.

Meglio così, per l’economia messicana e per quella statunitense, che avrebbe subito il contraccolpo dei dazi. Quanto ai migranti, la loro strada dal Sud del Continente verso gli Usa è sempre più in salita.

Come sono sempre più tese le relazioni tra Washington e Teheran. L’amministrazione Trump, che ha denunciato l’accordo sul nucleare concluso nel 2015 e che ha reintrodotto e inasprito le sanzioni a suo tempo levate, ha ora colpito il maggiore gruppo petrolchimico iraniano (e uno delle più grandi in Medio Oriente), la Persian Gulf Petrochemical Industries Company, perché sosterrebbe il corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, i Pasdaran. Le penalizzazioni riguardano pure 39 tra aziende ed agenzie collegate al gruppo, che detiene il 40 per cento della produzione e gestisce il 50 per cento dell’export petrolchimico iraniano. Un’altra tessera del mosaico anti-iraniano della politica estera di Trump. Che i negoziati Usa-Messico, affidati al segretario di Stato Mike Pompeo e al ministro degli Esteri Marcelo Ebrard, avessero preso una buona piega, lo si era capito a Washington venerdì pomeriggio, quando il presidente twittava: “Se daremo un accordo col Messico, e c’è una buona chance che ci riusciamo, allora cominceremo subito ad acquistare prodotti agricoli in gran quantità”. Altrimenti, “il Messico inizierà a pagare le tariffe al 5 per cento da lunedì!”. Bastone e carota, anzi carota e bastone. Ancora qualche ora e, quando in Italia era l’alba di sabato, Trump dava l’annuncio: “Sono felice” che abbiamo chiuso un’intesa con il Messico. “I dazi sono quindi sospesi a tempo indeterminato … Il Messico, in cambio, ha accettato di prendere misure forti per arrestare il flusso di migranti verso il nostro confine meridionale. Questo sarà fatto per ridurre di molto, o eliminare, l’immigrazione illegale proveniente dal Messico verso gli Stati Uniti”. Poco più tardi, il Dipartimento di Stato e l’ambasciatore messicano negli Stati Uniti Martha Bárcena diffondevano dettagli dell’accordo: il Messico rafforzerà l’applicazione delle sue leggi sui migranti e fornirà opportunità di lavoro alle persone che attendono la conclusione dell’iter della loro richiesta di asilo; gli Stati Uniti amplieranno il programma per rimandare in Messico chi chiede asilo, nell’attesa che la sua richiesta sia vagliata; e il Messico schiererà da domani la guardia nazionale lungo il confine meridionale con il Guatemala, per fronteggiate il flusso di migranti verso gli Usa, provenienti anche dall’Honduras. Le due parti continueranno a discutere ulteriori passi da prendere, nei prossimi 90 giorni. Il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador aveva già disposto l’invio di 6 mila uomini al confine con il Guatemala, mentre le autorità messicane stanno cercando di bloccare una carovana di circa 1.000 migranti provenienti dal Guatemala, entrati in Messico con l’obiettivo di raggiungere la frontiera degli Stati Uniti. L’azione si svolge nello Stato del Chiapas – un mito degli Anni 80 -, nella zona di Metapa, a 15 chilometri da Tapachula. I migranti sono partiti dalla città guatemalteca di Tecún Umán e sono entrati in Messico attraverso il ponte internazionale Rodolfo Robles: si tratta di verificare se hanno i documenti in regola per transitare sul territorio messicano.

Il segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin giudica l’intesa su immigrazione e dazi “molto, molto significativa”.

Il presidente messicano López Obrador, che non ha mai dato eco alle sortite di Trump, aveva già indetto ieri a Tijuana, alla frontiera con gli Stati Uniti, un evento pubblico per “difendere la dignità del Messico ed a favore dell’amicizia con il popolo degli Stati Uniti”. L’appuntamento è divenuto una celebrazione dell’intesa con governatori, parlamentari federali e locali, sindacalisti, imprenditori, leader religiosi, giudici, militanti politici e cittadini.

Chernobyl, una serie di disastri

Il lampo nucleare. La nube nera che raggiunge il cielo. La polvere che fa brillare l’aria di grafite. Le linee telefoniche tagliate per evitare la disinformazia, in quella città sigillata nel suo inferno d’uranio 235. Le sirene d’emergenza che la notte del 26 aprile 1986 svegliarono Chernobyl risuonano nelle prime scene della serie tv che sta soffiando sulle braci dell’Est. Quello che accadde allora torna notizia da prima pagina oggi perché sono gli americani a raccontarla. Si riaccende l’incendio tra Mosca, Kiev e ora, anche la Hbo.

La crociata radioattiva dei giornali russi contro la serie del regista di Breaking Bad e Walking Dead, Johan Renck, è cominciata. È una caricatura, non la verità per Argumenty i Fakty. “Non è mostrata la parte più importante: la nostra vittoria” scrive la Komsomolskaya Pravda, che insinua che serva in realtà a minare la Rosatom, agenzia nucleare russa. All’eterna lotta tra fiction e propaganda, dove la verità è sempre materiale infiammabile, partecipa anche l’ultimo leader dell’Urss, Michail Gorbaciov, che ha commentato il suo personaggio a Echo Moskvy.

Il web slavo non ha dogana tra Ucraina e Russia. La rete fuma come le turbine di quell’aprile, lo fa anche il ministero della Cultura russo che non ha girato la serie tv per primo. Per alcuni giornali è fango e “offesa alla potenza nucleare russa”, per altri è una descrizione potente di quell’esplosione che uccise anche chi sopravvisse. Una giustizia filmica a puntate cadenzate, con qualche battuta aforistica, banale ma realistica, scambiata tra i personaggi: “La posizione ufficiale del partito è che non è possibile una catastrofe nucleare in Urss”. Un reattore non è politica, ma in Unione Sovietica tutto lo era.

È caccia a ogni particolare sbagliato: dal più grande al più insignificante, nella guerra fino all’ultimo dosimetro, numero esatto dei liquidatori e fotogramma. Ricostruzione scenografica esemplare. Carta da parati color perestroika, pizzi alle tende, telefoni e orologi d’epoca, come tute e maschere antigas. Sul set retro soviet ricostruito, gli scienziati negano la realtà, vomitano sangue sui camici bianchi, bruciano e muoiono. Uno dopo l’altro, con accento britannico. Ma “è un film, non un documentario!” ha ricordato per fortuna un ingegnere di Chernobyl. “C’è poco di reale ma lo spirito del film è giusto” ha detto un residente, Serhii Parashin. La ruota panoramica, le scritte ancora sulla lavagna a scuola, il sarcofago protettivo del radiatore, la città rimasta mummia radioattiva di se stessa. Chernobyl è ancora lì, sospesa come una Pompei nucleare, ingombrante reliquia sfruttata dal turismo nero. Una tragedia sempre sold out per l’agenzia di viaggio Cherobyl tour. “È difficile capire tra tutti questi turisti chi è venuto perché ha visto la serie” dice Julia Maskun, manager dell’organizzazione che preferisce il no comment sul prodotto tv.

Serhii Mirnuy, ex lavoratore della centrale, ora guida per i visitatori che pagano 200 dollari per una giornata tra macerie e fantasmi, dice che “la realtà di allora supera di gran lunga in emozione e fantasia la finzione della tv, sono un testimone”.

Nadia Filimonova, bambina di Chernobyl, aveva due anni nel 1986. “Tutti ci nascondevano che era successo qualcosa di terribile. Io ho saputo tutto solo a 6 anni, quando mi hanno spedito in Francia per curare malattie che si hanno solo in vecchiaia”. Oggi aiuta i bambini rifugiati della guerra del Donbas a Irpin. “I russi hanno silenziato tutto allora, vogliono rifarlo oggi”. Per lei non è questione di dettagli della ricostruzione, ma l’atto stesso di raccontare: “Noi ucraini oggi vajuem, combattiamo su tutti i fronti, questa è un’altra infovoina, guerra dell’informazione”.

Ieri la Pripryat sovietica, oggi l’Ucraina di guerra: per Nadia è una questione molto più vecchia di Chernobyl, è quella che riguarda il monopolio della narrazione della memoria sovietica. Soprattutto dopo Maidan. Ma il Cremlino ha deciso. È geopolitica anche il cinema e risponderà con misure a specchio: la storia di quegli eroici sovietici deve essere rinarrata in un nuovo serial russo, prodotto dall’Ntv, tv allineata alla linea patriottica, per mostrare il loro trionfo contro uranio, vento radioattivo e infine, un sabotatore della Cia, che nella storia alternativa di Mosca, è il vero colpevole del disastro. Lo spoiler sul reo è concesso, perché, come si dice in una delle prime scene della serie americana, “non importa chi è l’eroe, ma chi è il responsabile”. E Chernobyl, 33 anni dopo, è stata tutta colpa degli americani.

Draghi, “C’era una volta in America” e l’inflazione

“Tanto quello non s’alza…”. La beffarda maledizione che il poliziotto (poco gentilmente detto “faccia di merda”) lancia al giovane Max in C’era una volta in America, mentre quest’ultimo è preda di alcune difficoltà idrauliche con una signorina di larghe vedute, ci torna in mente da giorni. Anche a Mario Draghi infatti, absit iniuria verbis, non s’alza: l’inflazione s’intende. E son problemi perché la stabilità dei prezzi – la cui dinamica deve essere “inferiore, ma vicina al 2%” – è il mandato fondamentale della Bce, la quale quindi da 6 anni prova con tutta la “cassetta degli attrezzi” a centrare l’obiettivo. E quella maledetta, l’inflazione, niente: non s’alza. Abbassa i tassi, fai le aste per regalare liquidità alle banche, compra tutto quello che puoi con trilioni di euro e fai i tuoi bravi outlook ogni tanto: ecco, vedrete che adesso s’alza… E quella niente: non s’alza da anni e, non alzandosi, tiene giù anche il Pil nominale e mette in difficoltà quei Paesi (?) che hanno un problema di rapporto debito/Pil. È chiaro che così uno, e specialmente Draghi, si preoccupa e infatti giovedì, ribadito che non s’alza (1,3% la stima di quest’anno, a cui nessuno crede), ha detto che la cassetta degli attrezzi è sempre lì, pronta all’uso: intanto si riparte con le aste che almeno le banche stanno tranquille e poi magari si rifà quella cosa di ricomprare tutto dalle banche stesse che così ci guadagnano e stanno ancora più tranquille. E così ad libitum, aspettando un miracolo, uno choc petrolifero oppure il muro: queste ultime due opzioni, va detto, hanno delle controindicazioni.

Le Procure opache dettano legge al suk delle nomine Csm

Sul cancro che si sta mangiando la credibilità della magistratura vanno dette tre cose. Primo: l’ex magistrato e scrittore Gianrico Carofiglio giorni fa ha accompagnato un commento sullo scandalo che travolge il Csm con una premessa apparentemente ovvia: “Se è vero quello che leggiamo sui giornali”. Purtroppo, se è vero quello che legge sui giornali Carofiglio lo saprà con certezza tra anni, come vedremo più avanti.

Secondo: si guarda il dito (i comportamenti di Luca Lotti) anziché la luna, i comportamenti dei magistrati. Se un magistrato avesse accusato i palafreniere di Matteo Renzi di aver rubato il Colosseo gli avrebbero applicato l’etilometro. Se invece si ipotizza che abbia trafficato per avere a capo della Procura presso cui è imputato un soggetto compiacente o quantomeno “avvicinabile”, si apre la discussione sui suoi comportamenti (il dito). Ma si finge di non vedere la luna: i magistrati ritengono normale (da quando?) che imputati eccellenti partecipino al suk dove entità occulte si contendono gli incarichi per i loro affiliati.

Terzo: il magistrato e membro del Csm Giuseppe Cascini ha paragonato la guerra tra magistrati per la spartizione degli incarichi alla vicenda P2 e nessuno invoca l’etilometro. I magistrati dunque sanno (da quando?) che le cosiddette correnti dell’Associazione nazionale magistrati si muovono negli snodi più delicati delle istituzioni con modalità da loggia massonica coperta. L’ipocrisia più scandalosa è di magistrati, avvocati e giornalisti loro entusiasti trombettieri: non spiegano mai in nome di quale interesse generale le correnti Unicost, MI, Area, Aei e quant’altre si scannino per far fare carriera a uno dei loro affiliati. Per loro è meglio essere arrestati da uno di Unicost piuttosto che da uno di Magistratura democratica? E perché? Non c’è risposta, c’è solo una guerra di potere tra bande. Come la P2.

È un’emergenza per la democrazia e non c’entrano niente a che fare indipendenza, separazione delle carriere, obbligatorietà dell’azione penale e altri cavalli di battaglia dei volenterosi partecipanti al suk delle correnti. Lo scandalo è che le Procure sono di gran lunga l’istituzione più opaca della Repubblica. Forse chi non fa il giornalista non ha chiari i meccanismi. Un cronista qualsiasi può rivolgere qualsiasi domanda al presidente della Repubblica, al Papa, ai ministri, a tutti gli enti pubblici, ma anche ai servizi segreti e alla massoneria. Hanno un ufficio stampa i tribunali e la Cassazione, Corte dei Conti e Consiglio di Stato. A tutti puoi chiedere non di rivelare i segreti d’ufficio ma, banalmente, “è vero che…?”. A tutti fuorché alle Procure della Repubblica. L’opacità, spacciata per serietà, è l’arma letale di un potere malato. Consente ai pm di parlare solo con i giornalisti amici e, per questa via, di decidere a loro capriccio a quali indagini dare risonanza e quali lasciare sconosciute. Quali reputazioni distruggere e quali proteggere. Nelle intercettazioni della Procura di Perugia (anch’esse diffuse in modo esoterico, fuori di ogni regola) si intravede un mondo in cui alla bisca delle nomine è in palio il potere – sul quale si costruiscono carriere – di non trovare le prove o fingere di non vederle, di insabbiare e insomma di farla fare franca agli amici degli amici o ai clienti degli avvocati amici.

Possiamo solo augurarci che di questo potere incontrollato si serva solo una piccola minoranza di farabutti con la toga. Ma basterebbe poco per aprire le finestre e liberare le Procure di un po’ dei loro miasmi: obbligarle a istituire un ufficio stampa, un indirizzo email a cui poter rivolgere domande. Vi sembra poco? Chiedete a un magistrato onesto se sembra poco a lui.

 

Nel soffio dello Spirito, il Padre pronuncia in noi la Parola del Figlio

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre”. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”

(Giovanni 14,15-16.23b-26).

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste (At 2,1), il Signore Risorto invia lo Spirito Santo, dono di comunione e inizio della missione degli apostoli. È l’anniversario della nascita della Chiesa! Giorno in cui, nella storia dell’umanità, prende fervido avvio l’esperienza della vita cristiana come compimento della Promessa di Dio fatta ai Padri.

Nel discorso-testamento dell’ultima Cena, Gesù promette lo Spirito che, rimanendo con voi, insegnando e ricordando, completerà la sua opera. Senza la Pentecoste, il mistero pasquale non maturerebbe il suo frutto. Agendo nell’intimo dei cuori e rovesciando continuamente le mentalità, lo Spirito aiuta ad incarnare, a fondare di continuo il fatto nuovo della fede. Non si tratta tanto di apprendere una dottrina, quanto piuttosto di un modo diverso, da parte degli uomini, di realizzare un’autentica libertà e di testimoniarla con una vita in piena dignità. Dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà (2 Cor 3,17).

Egli unifica la nostra vita e la trasforma in un’esistenza filiale, perché ci si riconosce raggiunti dall’amore dello stesso Padre e chiamati, per questo, ad accogliere e comprendere gli uomini con animo di fraternità, nonostante la diversità delle lingue.

Tre sono i simboli che identificano l’efficacia dell’evento di Pentecoste. Il vento, come segno dell’irrompere di Dio nella storia del mondo e che spinge i credenti a diventare Chiesa; il fuoco, come segno di purificazione, ma anche come datore di vita e di calore, che inciderà indelebilmente la coscienza; le lingue, come segno che abilita tutti i carismi e quelli di tutti al servizio della comunione e per corroborare l’unità, rinfrancandola ogni giorno.

Lo Spirito riversa questa abbondanza nei nostri cuori e trasforma le relazioni tra noi, non segnate più dalla diffidenza, dall’ostilità, dall’indifferenza e dall’incomunicabilità, ma dalla gioia, dalla fiducia, dall’amicizia, dalla fraternità, caratteristiche che permettono di camminare insieme nella vita bella del Vangelo.

Gesù promette che lo Spirito rimarrà con noi per sempre. Infatti, se sapremo creare spazio in noi e ascoltare la Parola, il Paràclito, che il Padre manderà nel mio nome, abiterà i luoghi del nostro peccato e della nostra morte con la potenza del Suo perdono e della Sua vita per sempre.

La custodia della Parola esige corrispondenza feconda, perché non ci si aspetta l’imprevedibile, come avvenne in Maria, la Madre di Dio, presente anche oggi con gli Apostoli nel Cenacolo. Nel soffio dello Spirito, il Padre pronuncia in noi la Parola del Figlio, il Signore Risorto che ci fa divenire suoi figli. Lo Spirito ci dona tutto ciò di cui abbiamo bisogno per diventare fratelli, liberi da ogni paura e peccaminosa competitività. In filiale e fraterno abbandono e ricolmi di confidenza, è lo Spirito Santo che ci fa invocare Dio chiamandolo papà, Padre nostro.

 

Unite peggior destra e miglior sinistra

Chi conosce persone di “sinistra” sa che si è subito diffusa una sorta di sollievo nell’apprendere del ritorno dei socialdemocratici al governo della Danimarca. Stesso partito con rigoroso pedigree socialista (occupazione, salari, attenzione alle scuole e agli ospedali, protezione ai più deboli, sostegno a famiglie e bambini, parità delle donne) con in più un correttivo che ha subito portato al successo: tutti sì, ma gli immigrati no. Sono i giorni in cui reparti militari americani al confine con il Messico e reparti militari messicani al confine con il Guatemala sono schierati in fitta catena per impedire che le disperate carovane di famiglie in fuga dal banditismo e dalla fame, che continuano ad arrivare dai poverissimi Stati centroamericani, possano passare il confine e varcare la frontiera. I confini sono chiusi e devono restare chiusi. Se lo restano, decenni di illusorio lavoro delle Nazioni Unite nel tentativo di mettere in contatto i ricchi con i poveri, e di colmare, almeno fino a un grado minimo di sopravvivenza, i paurosi dislivelli di esistenza e sopravvivenza fra popoli e popoli, Stati e Stati, e giochi economici ben congegnati dove comunque il più forte si prende tutto, saranno stati inutili.

Ancora una volta il leader mondiale della riorganizzazione del mondo è il presidente Usa. Donald Trump ha portato una straordinaria innovazione nella storia del mondo agiato. Prima di lui, presidenti americani avevano cercato, con vera grandezza di visione (Roosevelt, Kennedy, Carter, Clinton, Obama) di accostare le due parti (i ricchi e i poveri, gli stanziali e i profughi) e altri avevano soltanto espresso, ma con cautela e moderazione, buoni sentimenti e nessun tentativo di cambiare le cose.

Trump ha fatto squillare le trombe di un giudizio universale che proclama il diritto di razza, e di controllo esclusivo della propria ricchezza. Si tratta di proclamare un riconoscimento delle cose così come sono: i ricchi si difendono dietro confini chiusi e armati, pronti alla vendetta in caso di violazione (con diritto di prelievo di qualunque bene di necessità esistente presso i poveri, come il titanio in Africa). I poveri restano dove sono anche in caso di rovinosi cambiamenti climatici e di malattie. E, per precauzione, i volontari vengono scoraggiati, disprezzati e, in caso di rischio per la loro vita, denigrando ogni tentativo di salvezza come un costo inutile. Abbiamo sempre detto che Trump è un pessimo americano, e che gli americani della grande tradizione solidarista sono contro. Ma proprio in questi giorni una importante rivista “liberal” (The Atlantic) titola: “Se i progressisti non fanno rispettare le frontiere, ci penseranno i fascisti” (cito da Repubblica, 7 giugno). È la posizione del celebre e ultra-liberal sindaco di New York De Blasio, e di più di metà dei democratici che – a Washington – hanno il controllo di una delle Camere. Ma anche del socialista Sanders e di molti democratici post kennediani. La vera differenza fra le due posizioni prevalenti sulle barriere alla migrazione sta diventando il linguaggio e i modi di dissuasione. Secondo alcuni italiani, per esempio, “il muro” dovrebbe smettere di salvare in mare e dichiarare reato il salvataggio. Ciò che colpisce è che non si intravedano tentativi di affrontare il problema “migranti” come si fa con le malattie: non si negano ma si affrontano con espedienti che puntano al malanno, non alla persona malata. Prevale di nuovo la parola frontiera, come se il ricordo di un mondo con le frontiere chiuse (che portano fatalmente armi, soldati e guerra) fosse andato perduto, dopo avere insanguinato la storia. Un fatto sensazionale poco notato ma tristemente esemplare è la visita (che viene descritta come “amichevole”) fra Aung San Suu Kyi (Nobel per la Pace, lungamente prigioniera politica e ora presidente formale di Myanmar-Birmania) e il leader Orbán, che il dizionario, e non l’opinione, impone di definire “fascista”.

Orbán ha costruito una vasta barriera di filo spinato per isolare l’Ungheria, non ha mai visto un migrante, la sua minoranza da reprimere sono gli intellettuali liberi e antifascisti del suo Paese. Ma fa da sponda e alleato ai sovranisti e suprematisti europei come i leghisti italiani. La Nobel birmana conosce la tragedia del suo Paese, la persecuzione della minoranza uigura, e non l’ha mai condannata. Siamo di fronte all’espandersi di un “buon senso” di frontiera, un fenomeno grave e in crescita? Qualcuno sta trovando un punto di congiunzione fra il timore di ritorno del fascismo e un modo di rassicurare i cittadini che rafforza la democrazia? O stiamo assistendo a un forte sbandamento a destra? Quando sapremo a quale sponda del guado stiamo approdando, dovremo riconoscere che solo il Papa, tra i leader, ha continuato a vedere gli immigrati come esseri umani in cerca di un aiuto che la peggiore destra e la migliore sinistra hanno, quasi con le stesse ragioni, negato.

Mail box

 

Contro la disinformazione, io regalo il “Fatto Quotidiano”

Siccome mi sono accorto che Sky News, Rai News, Tgcom, le tv del pregiudicato B. e la Rai lottizzata, hanno isolato Il Fatto non inserendolo nella rassegna stampa, dopo 15 anni oggi ho disdetto l’abbonamento a Sky. In più, per esservi vicino, coi soldi risparmiati ho regalato a un amico l’abbonamento annuale al Fatto (io sono già abbonato dal 1° numero). Lo so che è una goccia nell’oceano ma spero che altri seguano il mio esempio, così le gocce saranno due, poi tre, poi quattro…

Tristano Onofri

 

Salvini tradisce le leggi su cui ha giurato

Non sono i magistrati a essere contro il governo: è Salvini che è spergiuro. Ha giurato di osservare “la Costituzione e le leggi”, ma poi se ne è subito dimenticato. Ad esempio, c’è una legge che ratifica il trattato per il salvataggio in mare. Trattato che non consente di vietare l’attracco alle navi con a bordo persone salvate in mare, e che obbliga la nave dei soccorritori a portarli nel porto più vicino, qualunque sia la bandiera che essa batte. Il vicepremier vuole poi che la festa della Repubblica sia “riservata agli italiani” e non siano chiamati a far festa anche i rom, ma forse non ricorda che la stragrande maggioranza di quelli presenti nel nostro Paese sono anch’essi cittadini italiani, come lui e come me. Dunque, che colpa possono mai avere i magistrati di Firenze e Bologna se lui fa approvare provvedimenti illegittimi e inapplicabili?

Emilio Zecca

 

Il cambiamento arriva solo votando responsabilmente

L’italiano ormai esce sempre con una matita in tasca, per non farsi trovare impreparato, casomai tocchi tornare subito a votare! Però poi fa come la star che firma un autografo: accontenta il fan, ma senza mai guardarlo in faccia. Rispetto l’opinione di tutti, ma se cerchiamo il cambiamento e poi ci ritroviamo col bipolarismo copia-incolla di un anno fa, non lamentiamoci dell’ennesima marcia su Roma di fanatici sopra alle ruspe. Non è con l’odio e le finte rottamazioni di politici che avremo un’Europa più umana. La sinistra è colpevole di questa deriva nera, come in parte il M5S: la prima non ha saputo coalizzarsi, mettendo da parte il clientelismo, i secondi non hanno avuto il coraggio di opporsi ad un ministro sprezzante delle leggi e del ruolo che ricopre. Abbiamo perso un’altra opportunità. La matita poteva essere una bacchetta magica, ma è rimasta solamente una matita.

Gianni Dal Corso

 

DIRITTO DI REPLICA

Illustre Direttore,
in un suo articolo di ieri, nel ripercorrere talune indagini nell’Italia intera, fa anche menzione del Governatore della Calabria, On. Gerardo Mario Oliverio, che difendo per le ipotesi di reato cui fa cenno, rispetto alle quali mi corre l’obbligo segnalarle talune abnormità giudiziarie, giusto per usare un eufemismo! Le Procure della Repubblica possono metter in campo ciò che vogliono, come ipotesi da verificare in un giudizio. Quello che a lei certamente sfugge nei procedimenti in parola, perché si occupa di fatti dell’Italia intera, è che la Suprema Corte di Cassazione, due mesi or sono, ha già detto la parola fine sulla vicenda cautelare che ha interessato il Presidente Oliverio, utilizzando, nei confronti dei magistrati requirenti, parole molto severe, del tipo “grave pregiudizio accusatorio”! La seguo e conosco la sua cultura anche giuridica, le assicuro che in questi termini mai i supremi giudici si erano espressi, al fine di stigmatizzare un’indagine degna di miglior causa! Ovviamente, nell’utilizzare quelle parole tranchant nei confronti dell’accusa, accogliendo in toto il ricorso, la Corte di Cassazione ha statuito non esservi i c.d. “gravi indizi di colpevolezza”, che sono un minimum rispetto alle prove che servono per un giudizio! E che non vi siano neanche i “gravi indizi di colpevolezza”, rispetto alla associazione per delinquere, lo dice anche il capo dell’ufficio gip di Catanzaro, che, senza veruna smania di facile protagonismo, ha bocciato del pari quella fantasiosa ipotesi! L’Italia ha già visssuto una stagione di protagonismo giudiziario a dir poco eccessivo e non ha alcun bisogno di bissarla! Le chiedo, in parte qua, di rettificare, ai sensi della legge sulla stampa, le notizie divulgate sul Presidente Oliverio, per onor di verità, che è ciò che la ha sempre contraddistinta. ,

Avv. Vincenzo Belvedere

 

Gentile avvocato, auguro al suo assistito – se, come lei assicura, è innocente – di essere assolto. Al momento risulta soltanto una diversa valutazione fra giudici diversi a proposito delle esigenze cautelari (alle quali non ho dedicato una sola parola), ma le indagini di cui ho parlato sono in corso. L’articolo, fra l’altro, segnalava soltanto il doppiopesismo del Pd nei confronti della governatrice dell’Umbria e del governatore della Calabria: non pretendeva certo di anticipare il giudizio, che spetta soltanto alla magistratura giudicante.

m.trav.

 

I NOSTRI ERRORI

Per un nostro errore, ieri è saltata la firma di Federico Pontiggia dall’articolo “Essere Cecchi Gori, tra vizi e virtù”. Ce ne scusiamo con l’interessato e con i lettori.

FQ