Scaricato dalla Lega il candidato dalle amicizie pericolose: “Database usato a fini personali”

Poche righe a firma del senatore Paolo Arrigoni, commissario della Lega per le Marche, per dare il benservito a Mauro Lucentini, candidato, non eletto alle Europee da “responsabile regionale del tesseramento della Lega”. L’accusa è pesante: aver “utilizzato, impropriamente, senza autorizzazione, il database tesseramento per un invio massiccio di e-mail“ per la sua campagna elettorale. “Molti tesserati e sostenitori marchigiani hanno ricevuto email di invito da ineuropaconlucentini@gmai.com“, continua Arrigoni. E, “cosa ancor più grave”, lo ha fatto anche “il 24 maggio alle ore 23, dopo che era stato diffidato a reiterare l’utilizzo del database”. In sintesi: Lucentini ha violato la privacy per trarne vantaggio personale. Abbiamo cercato inutilmente il senatore Arrigoni che, invece, sentito dal sito cronachefermane.it cerca di mettere una pezza che si rivela più grande del buco spiegando che si è trattato di un “normale avvicendamento e che la notizia doveva restare riservata”. Per Lucentini si era scomodato lo stesso Matteo Salvini arrivato a Montegranaro per sostenerlo ribadendo dal palco: ”Lotta alla contraffazione e difesa del made in Italy”. Pochi giorni dopo il Fatto rivelava le amicizie compromettenti di Lucentini con soggetti, suoi soci in altre società, coinvolti, proprio, nella contraffazione delle scarpe. Oltre al fatto che era stato candidato nonostante fosse imputato a Bologna, poi assolto, art 530 2° comma c.c.p (la vecchia insufficienza di prove), per concorso in bancarotta fraudolenta nel fallimento della Rimini Yacht di Lolli per aver sottoscritto una fideiussione personale di ben 2 milioni e 883 mila euro per l’acquisto da parte del suo ex socio di uno yacht da 4 milioni di euro. Arrigoni, da noi sentito prima della pubblicazione dell’inchiesta, cadde dalle nuvole dicendo che si sarebbe informato. Evidentemente, deve averlo fatto.

Cinque militari fuori servizio insultano e poi picchiano un cameriere: “Negro di m…”

Un 29enne ghanese, cameriere in un bar pizzeria davanti alla stazione di Bologna, è stato aggredito e offeso con insulti razzisti da cinque militari dell’esercito, fuori servizio. La polizia è intervenuta e ha sanzionato per ubriachezza molesta i soldati. L’esercito ne sta valutando l’allontanamento. Il 29enne li aveva rimproverati proprio perché ubriachi e molesti. “Negro di m…, vieni qua che ti spacco una bottiglia in testa”, lo hanno provocato fino alla colluttazione nella quale il ragazzo è rimasto ferito. L’episodio è avvenuto intorno alle 2 della notte tra venerdì e sabato in un locale dove il giovane, in Italia da circa 15 anni, lavora da tempo. È stato lui a chiamare la polizia. Nella colluttazione il bancone in vetro è andato in frantumi e il cameriere è stato leggermente ferito da una scheggia, oltre che da un pugno e da un colpo alla schiena con una sedia che gli è stata lanciata addosso. L’aggressione, secondo il racconto del 29enne, sarebbe cominciata dopo il suo invito ai cinque a “comportarsi bene” perché i militari, in città per il progetto “Strade sicure”, erano ubriachi e stavano disturbando gli altri clienti, parlando ad alta voce e mettendo i piedi sui tavolini. Inoltre si erano rivolti in modo sgarbato a un suo collega. A quel punto sarebbero partiti gli insulti. In due gli avrebbero lanciato addosso una sedia e, quando il cameriere ha provato a difendersi impugnando un attrezzo per tagliare le pizze, un militare avrebbe infranto con un pugno il bancone in vetro. I cinque soldati, fra i 25 e i 34 anni, clienti abituali del bar pizzeria, secondo i titolari, finora non avevano mai creato problemi. Erano in borghese e la polizia li ha rintracciati poco lontano dal locale. Il cameriere, uscito in mattinata dal pronto soccorso dell’ospedale Maggiore di Bologna dove è stato portato in ambulanza e ha passato la notte per essere medicato, ha spiegato di non avere deciso se fare denuncia contro chi lo ha aggredito. Anche i gestori del bar pizzeria stanno ancora valutando se procedere per il danneggiamento del bancone, vista l’intenzione che sarebbe stata manifestata dai militari di andare a scusarsi e ripagare il danno.

Al Gay pride contro il giornalista polacco che ha scritto: “Sparate alle persone lgbt”

Valentina l’infanzia in seminario all’ombra del Cupolone, oggi studentessa. Attivista del Mit (Movimento identità trans), lavora in carcere e allo sportello per migranti Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali e transgender) di Bologna.

Trans non è solo prostituzione ma può significare violenza di genere. Non a caso la madrina dell’edizione 2019 è Porpora Marcasciano figura storica del transfemminismo italiano, “si è detta trans” all’indomani dell’omicidio Pasolini, fu una vittoria con se stessa. “Che si tratti di una donna o di una persona Lgbt conta poco – afferma Valentina –. Le trans hanno il doppio stigma: quello di essere donne e di aver negato il patriarcato del loro sesso di nascita”. Il protagonismo maschile gay detiene la parola e in fondo il potere. Roma, piazza Repubblica. Da una parte le bandiere dei sindacati per diritti del lavoro che non esistono più; dall’altra l’arcobaleno per i 50 anni del Gay pride (25 dell’edizione nazionale) per diritti che non esistono ancora. Mille sfumature di lgbt. Mezzo secolo di Gay pride: Sylvia Riviera la transessuale simbolo del Stonewall, il bar gay in cui irruppe la polizia. Ieri la manifestazione che dall’esterno è per lo più folklore, anche l’eccesso di corpi esibiti. Quello che non appare invece sono le singole storie di vita. Una comunità che rappresenta un bacino elettorale vastissimo che spesso non vota neppure più, la sua politica attiva la pratica nei consultori. La comunità lgbt citata o strumentalizzata quando si tratta di evocare “nuovi” diritti civili. “È il vizio della parte istituzionale del movimento e della sinistra – il commento –. Si concentrano sui diritti civili dimenticando quelli sociali: welfare o lavoro. Diritti universali, che chiede la base”. Tra chi ha partecipato alla manifestazione – Arcigay, Cgil, Anpi e Onfalos di Perugia –, la consigliera comunale M5S Maria Agnese Catini che si è augurata come Roma possa diventare la sede del World pride 2015. Presente il vice sindaco di Roma. “Abbiamo chiesto alla sindaca Virginia Raggi di presenziare, ma c’è stato detto che era all’estero, ma per estero intendevano il Vaticano, era alla messa del Papa invece di essere qui con noi”, così uno degli organizzatori del Roma Pride. Fabrizio Marrazzo, portavoce Gay center chiede venga portata in Aula la proposta di legge contro l’omofobia presentata dalla stessa maggioranza. Nel corteo di Roma rimbalza l’eco del tweet scritto da Rafal Ziemkiewicz, giornalista di estrema destra della televisione pubblica polacca: “Bisogna sparare alle persone Lgbt”, prima di aggiungere: “Non nel senso letterale, naturalmente, ma queste non sono persone di buona volontà o difensori dei diritti di nessuno, (il movimento è) una nuova mutazione dei bolscevichi e nazisti”. Ieri i cortei ci sono stati in diverse città all’estero e in Italia, oltre a Roma, anche a Trieste, Ancona, Pavia e Messina. La fotografia della realtà trans appare meno sfocata solamente ascoltando: gli uomini trans sono invisibili nel senso che sono più tollerati, perchè passare dal genere femminile al maschile è meno traumatico sia da un punto di vista fisico, psicologico che sociale. Il corpo di una donna trans invece è più visibile, a volte scatena violenze. L’Italia per il numero di omicidi di persone transessuali è seconda (se si considera la Turchia) in Europa: 37 morti negli ultimi 9 anni, 4 nel corso del 2018.

“Di Matteo ritorni nel pool sulle stragi”. Già 57 mila le firme

Ha superato le 57 mila firme la petizione lanciata da Giorgio Bongiovanni e dalla redazione di Antimafia Duemila in solidarietà con Antonino Di Matteo, già pm a Palermo nel processo per la Trattativa Stato-mafia, oggi in servizio alla Direzione nazionale antimafia e allontanato per un’intervista dal pool “stragi e mandanti esterni”. “In una settimana è stata raggiunta e superata la quota di cinquantamila firme – si legge su www.antimafiaduemila.com –. Un numero importante, che ha superato le nostre aspettative. Vogliamo ringraziare uno a uno questi 57028 cittadini (questo il dato al momento della pubblicazione). Con questa petizione non si vuole condizionare a furor di popolo le autorità competenti ma caso mai sensibilizzare le stesse a valutare attentamente i fatti affinché lo stesso magistrato possa essere reintegrato e proseguire quell’attività che lo ha visto impegnato in oltre vent’anni di carriera, ovvero cercare la verità sulle stragi del 1992 e del 1993 e dare un volto ai mandanti dietro cui si nascondono personaggi potenti e settori deviato dello Stato. L’augurio, ovviamente, è che il numero delle firme possa ancora aumentare. Evitando quell’isolamento che distrugge e devasta quanto una bomba”.

La nuova sede in affitto per 16 milioni. Sulla Regione pende un ricorso al Tar

La Regione Lazio ha deciso di trasferire mille dipendenti in un immobile privato all’Anagnina, periferia sud della Capitale, al costo di circa 16 milioni di euro per i primi sei anni di affitto, “più altri 600 mila euro per la ristrutturazione”, fanno sapere da via Cristoforo Colombo.

La delibera però è stata impugnata al Tar dalla Fedirets DirerLazio, sindacato dei dirigenti regionali. In cima al ricorso, firmato anche da 187 dipendenti, ben due ipotesi di violazione di legge, una nazionale e una regionale. “Oltre alle evidenti irregolarità procedurali l’immobile non sembra adeguato per ospitare uffici“, aggiunge Domenico Farina dell’Usb che ha effettuato un sopralluogo sul posto. “La Regione – spiega Roberta Bernardeschi, segretario regionale della DirerLazio – per adeguarsi alle indicazioni di una norma nazionale sulla riduzione dei costi della politica, ha approvato nel giugno del 2013 un regolamento preciso che prevede che l’amministrazione, in presenza di necessità locative correlate allo svolgimento della propria attività istituzionale, utilizzi, di regola, immobili di sua proprietà. Solo in subordine – prosegue – l’amministrazione può stipulare contratti di locazione passiva”. La Regione sottolinea che immobili di proprietà disponibili non ce ne sono ma il sindacato non è d’accordo. “C’è l’ex ospedale Forlanini – spiega la segretaria della DirerLazio – o anche l’ex ospedale San Giacomo, un immobile di 30 mila metri quadri in pieno centro di Roma che Zingaretti ha deciso di svendere ai privati a 61 milioni di euro”. Il sindacato evidenzia che proprio il Forlanini era stato individuato dall’amministrazione come immobile fondamentale per il piano di razionalizzazione delle sedi, tant’è che, con una delibera del 2015, la giunta prefigurava la creazione di un polo polifunzionale degli uffici regionali di Roma nell’ex nosocomio per eliminare tutte le sedi istituzionali in locazione.

Ma pochi mesi dopo la Direzione regionale “Programmazione economica” ha indetto una procedura a evidenza pubblica per l’acquisizione di proposte immobiliari a seguito della quale è stato individuato il palazzo in questione, di proprietà della Release Spa del gruppo Banco Bpm, “dove verranno trasferite otto direzioni regionali – prosegue la Bernardeschi – circa 750 dipendenti da sedi distaccate e 250 dalla sede della giunta di proprietà della Regione”.

La Regione fa sapere che intende farsi carico della questione inerente lo spostamento del personale “anche con l’attivazione di apposite navette che collegheranno gli uffici con le stazioni più prossime della metropolitana o ferroviarie”. Problema correlato all’incremento delle polveri sottili evidenziato dal Comitato unico di garanzia della Regione. “Il trasferimento dei 1000 dipendenti regionali interessati – conclude il ricorso – che mediamente, per stessa ammissione della Regione, devono percorrere 7 chilometri in più ogni giorno per recarsi e tornare dal lavoro, produce un aumento del carico ambientale e di traffico su un quadrante particolarmente gravato della città di Roma di quasi 2 milioni di chilometri (senza considerare l’utenza) a cui corrispondono mediamente quasi 250 tonnellate di CO2”.

Il costruttore accusato di truffa e la figlia che lavorava con Zinga

Il padre, costruttore, affronta un processo per truffa al danni, tra gli altri, della Regione Lazio. La figlia, manager, ha lavorato con Nicola Zingaretti per cinque anni e ora è nel direttivo dei giovani costruttori edili di Roma, dopo aver fatto parte dei Cda di Acea e Zecca dello Stato. La stessa Regione, oltre a essersi costituita parte civile, sarà anche citata come responsabile civile nel processo per “omesso controllo”.

Lui è Agostino Maggini, classe 1952, seconda generazione di una delle più importanti famiglie di palazzinari romani. Il suo nome è in uno dei 28 filoni d’inchiesta sulla truffa dei piani di zona, programmi di edilizia agevolata con cui sono stati costruiti decine di migliaia di alloggi a Roma: molti costruttori, dopo aver ottenuto dal Comune i diritti di superficie in concessione e i permessi a costruire, non decurtavano i contributi pubblici ottenuti dalla Regione Lazio dal prezzo massimo al metro quadro previsto dalle convenzioni. Entro quei limiti dovevano essere fissati i prezzi di vendita e, proporzionalmente, i canoni d’affitto.

Il processo a Maggini riguarda tre piani di zona, Torresina 2, Ponte Galeria e Tor Vergata, realizzati dalle società Torrenova 3000 e Consorzio Cesp Srl, in base all’articolo 18 della legge 2013/1991 con destinazione alle forze dell’ordine. Secondo i magistrati, Maggini “non ha restituito agli inquilini gli importi riscossi in eccedenza per complessivi 349.381,33 euro”. I finanziamenti ricevuti e non sottratti dal canone ammonterebbero a quasi 5 milioni di euro.

È solo uno dei numerosi processi in corso sui piani di zona. In Campidoglio, che negli ultimi tre anni ha revocato tre convenzioni, ci sono almeno sei dirigenti indagati; il danno totale calcolato dalla Procura toccherebbe il miliardo di euro. Il tema ha ricadute potenziali su circa 500.000 romani che hanno vissuto o vivono nelle case costruite con i piani di zona. Non solo gli inquilini diretti ma anche i successivi acquirenti: il mancato rispetto dei prezzi massimi ha generato controversie a catena, richieste di restituzione degli importi versati e perfino una legge speciale…

Fra il 2013 e il 2014, mentre il Comune di Roma procedeva a ricalcolare i prezzi massimi di cessione delle convenzioni degli anni 2000, nello staff di Nicola Zingaretti si faceva spazio Elisabetta Maggini, figlia di Agostino, classe 1982, da sempre vicina all’attuale segretario Dem. Candidatasi alla Provincia di Roma nella lista civica Zingaretti e non eletta, Maggini nel 2009 è entrata nella segreteria politica del presidente per occuparsi di “giovani, imprenditoria e donne”. Stesso ruolo ricoperto dal 2013 al 2014, con il passaggio di Zingaretti in Regione, prima di essere nominata nel Cda della multiutility capitolina Acea Spa, sponsorizzata dell’allora sottosegretario Pd Giovanni Legnini, poi vicepresidente del Csm. Fino al 2017, quando è entrata nei vertici dell’Istituto Poligrafico dello Stato, per poi uscire nel 2018. Nel frattempo, Elisabetta ha continuato a lavorare nel mondo dell’imprenditoria edile: Cda di Sorgente Group dal 2014, presidente del Gruppo Giovani Costruttori e membro del comitato direttivo dell’Acer, presidente della Consulta Giovani imprenditori di Roma e del Lazio e consigliere del fondo Nova Re Siiq Spa. Nel gruppo Maggini, Elisabetta ha lavorato fra il 2006 e il 2011, quando era già in Provincia, come “collaboratrice alle attività di gestione immobiliare”. L’ufficio stampa della Regione Lazio precisa che “nel periodo in cui Elisabetta Maggini ha collaborato col presidente Zingaretti, si è occupata di tutt’altro, politiche sociali prima e giovanili poi, non trattando in alcun modo le tematiche in oggetto”. Contattata dal Fatto, Maggini conferma: “Non ho mai lavorato con mio padre e non ho mai voluto mescolare le cose per ragioni di opportunità. Con Zingaretti mi occupavo di giovani e imprenditoria, ma non certo di urbanistica o tematiche che riguardassero la mia famiglia. Fra l’altro la mia parentesi in Regione è stata molto breve”.

La Regione Lazio si è costituita parte civile nel processo a papà Agostino, ma verrà comunque citata come responsabile civile dall’avvocato Vincenzo Perticaro, che difende gli inquilini. “Lo schema è lo stesso per tutti i piani di zona. Quando ha erogato i contributi, la Regione Lazio non ha verificato la corretta applicazione della convenzione stipulata con il Comune. Ci sono tutti i profili per un omesso controllo”. Dal 1998 al 2009, la Regione ha avallato almeno 1.000 finanziamenti per l’edilizia agevolata: totale 1,5 miliardi di euro. La Regione ribadisce di non essere “tenuta a effettuare verifiche sulla determinazione del prezzo, avendo la normativa stabilito che debbano provvedere i Comuni, come previsto dall’art. 18 del Dpr 380/2001”.

La Dc di Rotondi con Cairo e Conte

La battaglia ai terribili populismi che affliggono l’Italia e l’Occidente ha già un crociato (pure nel senso dello scudo) e due possibili eroi: Giuseppe Conte e Urbano Cairo. A proporre questa bizzarra alchimia politica è il vecchio democristiano (ascendente berlusconiano) Gianfranco Rotondi. “I populismi – dice – si battono solo mobilitando l’elettorato cattolico e centrista, niente affatto sparito, semmai rifugiato nell’astensione”. Rotondi prosegue nel ragionamento: “Il Centro non può rinascere alleato con Salvini, che del populismo è la massima espressione. Né ha spazio un Centro alleato o peggio ancora partorito dal Pd”. E allora cosa si fa? “Serve un vero partito di Centro, può essere Forza Italia o una forza completamente nuova”. E con chi la si fa, questa forza completamente nuova? Rotondi ha già pensato a tutto: “Lavoreremo naturalmente con gli amici dc: Lorenzo Cesa e Mario Tassone. Useremo una ‘strategia dell’attenzione’ verso chiunque mostri interesse per il cattolicesimo politico”. E chi saranno i leader? “Due esempi per tutti: il presidente Giuseppe Conte e Urbano Cairo, del cui impegno pubblico si parla sempre di più. Perciò – il grido di battaglia del crociato Rotondi – rialziamo il vessillo dello scudo crociato, per ritrovarci e camminare insieme a chi mostrerà più coraggio”.

Il confine sottile tra finanza creativa e uscita dall’euro

Imini-Bot sono un geniale strumento per pagare i debiti della Pubblica amministrazione con le imprese fornitrici o il primo passo per uscire dall’euro? Tutto parte da una mozione di ispirazione leghista approvata all’unanimità alla Camera il 28 maggio. Il solito appello al governo ad accelerare il saldo di quei 26,9 miliardi che al 31 dicembre 2018 lo Stato doveva alle imprese. Tra gli strumenti caldeggiati ci sono “iniziative per l’ampliamento delle fattispecie ammesse alla compensazione tra crediti e debiti della Pubblica amministrazione, oltreché la cartolarizzazione dei crediti fiscali, anche attraverso strumenti quali titoli di Stato di piccolo taglio”. Zero dettagli, ma abbastanza per incendiare la discussione.

Da un decennio, in Italia si cercano strumenti di finanza creativa per risolvere il problema (anche se la situazione è migliorata). Poiché le imprese che aspettano di essere pagate devono, nel frattempo, continuare a pagare le tasse, sarebbe utile almeno poter compensare e attribuire all’azienda un credito fiscale pari al credito commerciale. Se deve avere dieci milioni per lavori eseguiti ma non pagati, pagherà meno tasse fino a raggiungere quel valore di dieci milioni. Facile a dirsi ma difficile da applicare. Perché quasi mai l’amministrazione verso la quale l’impresa ha un credito è la stessa a cui deve pagare le tasse.

Meglio allora farsi anticipare i soldi dalle banche. Ma prima di accollarsi un credito che chissà quando verrà rimborsato, la banca vuole una certificazione che il credito esiste e un’idea di quando sarà saldato (l’impresa otterrà subito una somma inferiore a quella promessa, la banca si farà carico del rischio e in cambio avrà un margine di profitto). Con fatica l’Italia ha costruito un sistema di certificazione dei crediti che oggi funziona, Siope Plus: 33.000 imprese hanno presentato al ministero dell’Economia 169.000 istanze di certificazione per un controvalore di oltre 8 miliardi di euro, di cui 2,4 miliardi “smobilizzati” da banche o altre società.

Cosa c’entrano i titoli di Stato? Nella contabilità nazionale i debiti commerciali non sono classificati allo stesso modo delle emissioni di titoli di Stato (Bot, Btp ecc.). Un po’ perché sono sparsi in giro per la Pubblica amministrazione, ed è difficile perfino avere chiaro a quanto ammontino, un po’ perché le regole europee non riescono a considerare la variabilità dei tempi di pagamento (se un debito viene saldato in sei mesi è davvero un debito commerciale, se per dieci anni non viene pagato è debito pubblico mascherato).

Nel 2012 la Spagna chiede l’intervento della Troika (Fmi, Ue e Bce) e del fondo Salva Stati per evitare il collasso del suo sistema bancario. Nell’ambito di una serie di riforme per rimettere in sesto l’economia, avvia una procedura straordinaria di certificazione di debiti della Pubblica amministrazione cui segue una emissione straordinaria di debito pubblico che permette di rimborsare alle imprese 27 miliardi di euro in cinque mesi. Così costruita, è un’operazione una tantum, che viene calcolata a parte rispetto al debito pubblico e vista positivamente dai mercati. In Italia il governo Monti, con il ministro dello Sviluppo Corrado Passera, valuta di replicare lo schema ma il progetto si arena.

I mini-Bot leghisti con tutto questo c’entrano poco. Il riferimento esplicito nella mozione a “titoli di Stato di piccolo taglio” indica il retropensiero: lo scopo non è creare una emissione una tantum per smaltire l’arretrato di debito commerciale, ma introdurre in circolo titoli di credito di importo analogo a quello delle banconote. Un’operazione che, peraltro, sarebbe anti-economica perché avrebbe costi di emissione più alti per il Tesoro rispetto al debito normale.

I Bot possono essere utili in taglia ridotta soltanto per una ragione: usarli come denaro, se qualcuno cioè li accetta come forma di pagamento in cambio di beni e servizi. Ma è ovvio che un singolo o un’impresa che deve avere 100 euro, accetterà un pagamento in mini-Bot invece che in denaro vero soltanto se avrà titoli per un importo superiore, diciamo un controvalore di 120 euro. Per l’antica legge in base alla quale la moneta cattiva scaccia quella buona, tutti vorranno liberarsi quanto prima dei loro mini-Bot in euro, col risultato che la domanda di mini-Bot sarà più bassa di quella di euro (cosa che equivale a una svalutazione). Ammesso che tutto questo sia legale, e la Banca centrale europea non lo pensa, a cosa serve?

L’unica spiegazione si trova nei siti anti-euro tipo Scenarieconomici.it. Poiché l’eventuale uscita dalla moneta unica deve essere rapida e senza dibattito pubblico (o ci sarebbero fughe di capitali e corsa agli sportelli per prelevare i risparmi), l’unico modo per evitare la paralisi dell’economia una volta annunciata la decisione è che ci sia già in circolazione una qualche forma di moneta alternativa. Come i mini-Bot.

Mini-Bot, doppio schiaffo a Tria

Non sono bastati i tre no di peso di Tesoro, Banca centrale europea e Banca d’Italia per chiudere qualsiasi discussione sui mini-Bot (buoni ordinari del Tesoro di piccolo taglio) come strumento di pagamento dei debiti e dei crediti della Pubblica amministrazione, vecchio cavallo di battaglia leghista sponsorizzato dal consigliere economico Claudio Borghi e dal sottosegretario Giancarlo Giorgetti.

Ad andare in soccorso della Lega è l’alleato di governo Luigi Di Maio, aprendo così una nuova spaccatura con il ministro dell’Economia Giovanni Tria. Che, ieri mattina, a margine del G20 finanziario di Fukuoka, in Giappone – accodandosi al governatore della Bce Mario Draghi – ha bollato i mini-Bot senza appello. “Sarebbe illegale o inutile che l’Italia emettesse obbligazioni per pagare i suoi fornitori, perché queste banconote violerebbero le regole della moneta europea o si aggiungerebbero al massiccio debito pubblico del Paese”, ha detto il ministro. Insomma, inutili per il debito e inutilizzabili come valuta alternativa. Tanto che per gli altri detrattori rappresenterebbero il primo passo verso l’uscita dell’Italia dall’euro, fino a essere paragonati da Confindustria alle banconote del Monopoli.

“Questa storia dei mini-Bot sta diventando paradossale. Dire non si può fare non è una soluzione, sono una proposta da mettere sul tavolo e discutere”, scrive su Facebook il ministro dello Sviluppo economico Di Maio. Che si scaglia contro il ministro dell’Economia Tria. “Il Mef dice che sono inutili e che è sufficiente pagare le imprese? Allora lo faccia. O che studi un piano per iniziarlo a fare. Perché qui stanno sempre tutti zitti, fermi, immobili, poi appena qualcuno propone qualcosa si svegliano e dicono ‘ah, no, non si può fare’. Ripeto, una parola: soluzioni”, intima il Cinque Stelle. Ma l’attacco a Tria raddoppia quando, pochi minuti dopo la pubblicazione del post, arriva la dichiarazione dell’altro vicepremier Matteo Salvini. “È urgente che la Pubblica amministrazione paghi i suoi debiti risalenti a governi e anni precedenti”. E se si farà con i mini-Bot o con altre misure, questo è il succo del discorso del leader del Carroccio, poco importa. Per la Lega l’urgenza è pagare l’enorme debito che lo Stato ha nei confronti delle aziende: a inizio maggio 2019 lo stock generato nel 2018 e ancora da onorare è pari a circa 27 miliardi di euro (la differenza tra 148,6 miliardi di euro di fatture emesse e 120,7 miliardi di euro di fatture pagate).

Quella dei mini-Bot è, comunque, una partita parlamentare, come ha ricordato il premier Conte “che da giurista” ha anche evidenziato “diverse criticità” e su cui il ministero di Tria ha espresso parere negativo quando la Camera lo scorso 28 maggio ha approvato all’unanimità una mozione in maniera bipartisan (poi ripudiata dal Pd) in cui i mini-Bot sono stati indicati proprio come possibilità per pagare i debiti della Pubblica amministrazione.

Patroni griffi, lezione di “rigore”

Dice Filippo Patroni Griffi, presidente del Consiglio di Stato, che “ si è smarrito il concetto di etica pubblica”, che all’”autonomia” dei giudici deve corrispondere il “rigore”, che i magistrati devono “misurare le parole ed evitare circoli di affari”. Lo dice al Corriere della Sera, il più alto esponente della magistratura amministrativa che venerdì ha aperto il suo primo congresso. Lo dice nel pieno della bufera che ha investito il Csm e quindi la magistratura ordinaria. Ne sa più di qualcosa, il presidente Patroni Griffi. Il Consiglio di Stato e la giustizia amministrativa vengono da anni terribili, segnati dall’inchiesta sulle sentenze pilotate a Roma e in Sicilia dagli avvocati del cosiddetto “sistema Siracusa”, Piero Amara e Giuseppe Calafiore, fino al caso del consigliere di Stato Francesco Bellomo, destituito per le minigonne e le altre vessazioni imposte alle allieve della sua scuola per l’accesso alla magistratura; per non dire della questione generale delle costose scuole gestite dai magistrati amministrativi perché quelli ordinari non possono. Patroni Griffi dà lezioni anche sulla distanza da tenere tra magistrati e politica, anche in materia di “incarichi ministeriali”: solo “attività tecnica”, dice, senza “commistioni”. Nessuno meglio di un ex ministro ed ex sottosegretario a Palazzo Chigi come lui.