Renzi, Ferri e la “rottamazione” dei magistrati

Oggi vanno a cena insieme per decidere le nomine dei vertici delle Procure e per controllare tutto il Csm, Luca Palamara e Cosimo Ferri. Ma andando indietro negli anni, c’è un momento che può essere considerato l’origine delle vicende di questi giorni: ovvero il decreto legge del 24 giugno 2014, numero 90, quello in cui il governo Renzi abbassò l’età pensionabile dei magistrati da 75 a 70 anni, come ha denunciato l’ex procuratore nazionale antimafia oggi eurodeputato dem, Franco Roberti, qualche giorno fa, sottolineando sia la volontà dell’allora premier di decapitare gli uffici giudiziari, sia di influenzare il Csm.

Con quella legge (che poi negli anni fu parzialmente ritoccata) si mettevano rapidamente in pensione centinaia di alti magistrati. Tra le ricadute anche quella che costringeva il Csm a lavorare sulle nuove nomine in maniera rapida e confusa.

Sottosegretario alla Giustizia in quegli anni era lo stesso Ferri. Che ebbe un ruolo in tutte le evoluzioni di quel decreto, anche nel decidere le successive proroghe, che favorivano alcuni e lasciavano fuori altri. Questo mentre il Guardasigilli, Andrea Orlando, cercò dall’inizio di introdurre il principio della gradualizzazione del pensionamento, come era già stato fatto per i professori universitari. Senza successo: Renzi era all’apice del suo potere e in quegli anni la “Rottamazione” pareva un must (la norma per far andare in pensione i magistrati a 75 anni era stata voluta da Berlusconi, per orientare gli assetti della Corte di Cassazione).

Grazie a quel decreto, negli ultimi cinque anni, sono andati in pensione, tra gli altri, Marcello Maddalena (procuratore generale di Torino), Livia Pomodoro (presidente del Tribunale di Milano) e Edmondo Bruti Liberati (procuratore di Milano), Giuseppe Pignatone (procuratore di Roma), Guido Lo Forte (procuratore di Messina), Sergio Lari (procuratore generale di Caltanissetta).

Quel provvedimento ha avuto una storia lunga e travagliata: la prima proroga, l’anno successivo, riguardava i magistrati che non avevano compiuto i 72 anni entro il 31 dicembre 2015. L’anno dopo, nell’agosto del 2016, si decise una proroga a 72 anni fino alla fine del 2017 che valeva non per tutti, ma solo per i vertici di Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Avvocatura dello Stato. Tanto che l’Anm parlò di intervento con profili di incostituzionalità. Si trattava di quella che fu definita la “Salva Canzio” con l’idea che si trattasse di una norma ad personam per l’allora primo presidente della Cassazione. In origine la proroga avrebbe dovuto riguardare solo stesso Canzio e Pasquale Ciccolo, il procuratore generale presso la Suprema Corte. Entrambi anche membri di diritto del Consiglio superiore della magistratura, anzi nel Comitato di presidenza, che al governo in carica dovevano la loro permanenza in servizio.

C’è poi una vicenda che risale al febbraio 2017 e riguarda il procuratore di Napoli andato in pensione di lì a poco, Giovanni Colangelo, il capo di Henry John Woodcock che indagava sullo scandalo Consip. Il senatore Pd Vincenzo Cuomo aveva presentato un emendamento (poi sottoscritto da Vito Crimi) al Milleproroghe in cui si prolungavano le carriere “fino alla copertura dell’organico della Magistratura e non oltre il compimento del settantaduesimo anno di età per tutti i magistrati”. Avrebbe interessato lo stesso Colangelo. Ma l’emendamento fu bocciato anche dallo stesso Pd. Al centro delle manovre di oggi c’è la Procura di Roma, che ha chiesto di processare Luca Lotti. Sempre per il caso Consip.

“Il trojan rivoluziona le indagini. Non può stare in mani private”

L’ex superconsulente Gioacchino Genchi incarna tutte le competenze per analizzare a 360° vizi, virtù, potenzialità e i limiti del trojan, “la rivoluzione delle investigazioni”, il virus che ha messo nei guai il pm di Roma Luca Palamara, lo spyware che trasforma lo smartphone in un microfono e può copiarne i dati e la memoria da remoto. Genchi è stato poliziotto informatico, esperto nell’incrocio di dati telefonici, e ora è avvocato penalista in processi che si decidono sulla valutazione e l’utilizzabilità delle intercettazioni. Ha giocato all’attacco e ora ogni tanto si schiera in difesa. Sul trojan solleva un problema preliminare grande come un grattacielo: “Non capisco perché lo Stato ne abbia affidato ai privati l’uso e la gestione. I Tribunali sono statali, i pm sono statali, i processi li fa lo Stato e le intercettazioni informatiche che vengono discusse nei processi vengono appaltate a soggetti esterni? Lo Stato dovrebbe diventare imprenditore in proprio di questo settore per evitare le anomalie del caso Exodus” (nelle scorse settimane la Procura di Napoli ha ottenuto l’arresto del titolare e dello sviluppatore di un software-trojan dal nome Exodus con il quale avrebbero trasferito sui cloud di Amazon montagne di dati riservati di inchieste giudiziarie, accessibili da chiunque fosse in possesso di un paio di password, ndr).

Cosa avrebbe dovuto insegnare il caso Exodus?

Che è sbagliato consegnare alle ditte una delega in bianco per fare il bello e il cattivo tempo. Sono soggetti senza titolo giuridico, potenzialmente corruttibili, sfuggono ad ogni controllo, e nei confronti dei quali non può essere attivata alcuna verifica.

I privati gestivano e gestiscono anche le intercettazioni telefoniche.

Il trojan non è assimilabile a una intercettazione telefonica. Quando facevo il consulente delle Procure, acquisivo un tabulato in forma elettronica certificata, e i dati sul numero e la durata delle conversazioni erano verificabili e riscontrabili dalle parti, come l’audio della telefonata, si sa quando inizia e quando finisce. Il flusso dati del trojan invece non è così: dipende dalle scelte di chi stabilisce quando accendere e quando spegnere il microfono e copiare i file, e può anche cancellarne una parte senza che nessuno se ne accorga. Io da cittadino non mi sentirei al sicuro.

Ma come? Il microfono audio-video non è sempre acceso?

No. Il trojan impegna molte risorse dell’apparecchio, lo surriscalda e lo rallenta. Scarica subito la batteria. Non esisterà mai un trojan che funzioni senza alimentazione, sull’accumulo di energia siamo fermi ai tempi di Alessandro Volta. Quindi, decisivo per la qualità delle indagini è il ‘pilota’ del trojan. La persona che decide quando attivarlo e quando spegnerlo, dopo aver raccolto – ascoltando le telefonate e leggendo i messaggi – i dati su mosse e appuntamenti dell’indagato. Dovrebbe essere un attento investigatore di polizia giudiziaria. Ne abbiamo di bravissimi, che però non lo fanno. Lo fanno i tecnici delle ditte, che assumono le funzioni di ausiliari di polizia giudiziaria. Ma questo può porre dei motivi giuridici per chiedere la nullità dell’utilizzo delle intercettazioni del trojan. Io da avvocato in qualche caso li ho sollevati.

Quindi un cellulare surriscaldato potrebbe mettere in guardia l’indagato.

Vuole una chicca? Un cliente mi ha confidato di aver acquistato un apparecchio che misura la temperatura del telefonino.

Ci sono altri modi per eludere il trojan?

Il virus è sviluppato in modo da accendersi in automatico quando rileva che l’apparecchio si sta caricando, perché è sicuro di funzionare senza azzerare la batteria. È sufficiente non attaccarlo alla corrente nei luoghi dove si prevede di tenere delle riunioni riservate. Un altro modo, ovviamente, è spegnere il cellulare. Meglio se qualche ora prima dell’appuntamento.

Esiste uno smartphone che non si può intercettare?

Sì. Quello guasto.

Landini (Cgil): “Non si può escludere lo sciopero generale”

Un autunno con sciopero generale. L’ipotesi viene ventilata dal segretario generale della Cgil Maurizio Landini, a margine della manifestazione sindacale del pubblico impiego che si è svolta ieri a Roma. Da giorni Landini ripete che il governo ha preso la direzione sbagliata: “Chiediamo che si cambi la politica economica e sociale di questo Paese. È necessaria una legge di Bilancio completamente diversa. La mobilitazione c’è e lo decideremo insieme a Cisl e Uil”. Tanto che incalzato dai giornalisti sulla possibilità di una mobilitazione nazionale, il leader della Cgil dice: “Non escludiamo nulla”. E il segretario generale della Uil Carmelo Barbagallo avverte Palazzo Chigi: “O ci ascoltano, o le lotte che faranno con l’Europa le faranno anche con noi. Lavoriamo per avere un incontro con il governo e avere risposte sulla nostra piattaforma: siamo pronti a tutto e le piazze ci dicono che facciamo bene”. I manifestanti a Roma hanno chiesto una riforma del pubblico impiego, il rinnovo dei contratti (immutati da più di un decennio). Annamaria Furlan, leader della Cisl, auspica “assunzioni urgenti nella Pubblica amministrazione, per rafforzare i servizi ai cittadini”.

“Stagionali addio: è colpa del reddito di cittadinanza”

Il sindaco di Gabicce. Molti giovani del Sud che facevano la stagione nei nostri alberghi non tornano perché ricevono il reddito di cittadinanza
Domenico Pascuzzi

Nei giorni scorsi tutti, tra giornali e siti, raccontavano una storia incredibile: a Gabicce Mare, in provincia di Pesaro, non si trovano lavoratori stagionali. L’allarme era stato lanciato dal presidente dell’associazione albergatori della cittadina e in molti articoli il suo pensiero è stato così sintetizzato: è colpa del reddito di cittadinanza, i camerieri e i cuochi del Sud preferiscono stare a casa con il sussidio invece di andare a lavorare. Eppure, contattato dal Fatto, il presidente della stessa associazione, Angelo Serra (che possiede anche un albergo), spiega meglio la questione: “In realtà sono anni che lanciamo l’allarme dei lavoratori che mancano. Evidentemente negli anni passati nessuno ci ha fatto caso perché non essendoci appiglio per un attacco alla politica non è stato dato molto peso alle nostre dichiarazioni. La ricerca diventa sempre più problematica”. Ma perché? “Perché l’estate si accorcia progressivamente e si lavora quindi sempre meno”. Non più quattro o cinque mesi, ma poco più di tre. “Quindi il professionista preparato e qualificato – perché alle prime armi se ne trovano – ha magari già trovato una occupazione annuale”. E il reddito di cittadinanza? “Che abbia inciso, è possibile. Ma in misura molto ridotta. Su un malato, anche una piccola spinta diventa un colpo di grazia. Parliamo del 5, 10% del fabbisogno. Ma di sicuro non è questa la causa”. Anche perché uno dei principi del reddito è proprio dare la possibilità ai lavoratori di poter scegliere se accettare o meno, senza essere spinti dalla necessità immediata, di lavorare per soli tre mesi e passare il resto dell’anno in disoccupazione. Una cosa, però, Serra tiene a precisarla: “Questa storia dello sfruttamento non esiste. Qui gli stagionali sono ben pagati e hanno vitto e alloggio inclusi. Chiaro: il weekend è lavorativo perché per le strutture ricettive è il momento di maggiore intensità. Ma anche i riposi, se si saltano poi si recuperano”.

Roma, via uno striscione contro i vicepremier

“Uno striscione che prende in giro i due vicepremier? Chiudetelo, altrimenti ci arrabbiamo”. Con questa frase i funzionari della Digos di Roma – secondo quanto il segretario generale della Uil Fpl, Michelangelo Librandi, si dice disposto a testimoniare “davanti al mondo” – ieri mattina avrebbero “censurato” la vignetta di 9 metri per 12, che il sindacato voleva mostrare alla manifestazione nazionale del pubblico impiego. “Nessuna valutazione contenutistica, esporla avrebbe violato la tutela del paesaggio”, la replica della Questura di Roma. Sullo striscione erano raffigurati Luigi Di Maio e Matteo Salvini: “Matte’, dicono che mettese contro il sindacato porta male”; e l’altro, indosso la maglia della Uil: “Sì Gigino infatti mi sto portando avanti col lavoro”.

“Hanno detto proprio così: ‘Non ci fate arrabbiare”, conferma Librandi al Fatto. Secondo il racconto dei sindacalisti, gli agenti in borghese avrebbero bloccato i manifestanti sulla terrazza del Pincio, mentre erano intenti a stendere lo striscione dalla balconata. “È pericoloso”, il monito. Così i militanti Uil l’hanno portato giù lungo la discesa che porta a Piazza del Popolo. E anche qui sarebbe stato fatto ripiegare. Quindi lo stop definitivo in piazza: “Non apritelo, non ci fate arrabbiare”, e alla richiesta di spiegazioni, la replica: “È lesivo delle istituzioni”.

Fa discutere la nota della Questura: “Nessuna valutazione circa l’aspetto contenutistico. Si è ritenuto che lo striscione fosse lesivo del decoro paesaggistico” perché il Pincio è “area tutelata dai Beni Culturali”. E ancora: “È prevista una comunicazione preventiva al Comune nel caso in cui si voglia procedere a tali esposizioni”, che “in analoghe situazioni” sarebbero già state vietate. In realtà, il web è pieno di foto, recenti, raffiguranti striscioni di ogni tipo calati dalla terrazza del Pincio, dagli studenti a Greenpeace passando per i ‘No Ius Soli’. Fonti informali della Soprintendenza confermano al Fatto che “l’obiezione della Questura è corretta ma sono anni che nessuno chiede quel tipo di permesso” e che nei casi di specie “interviene la Polizia Locale”. Lo stesso Librandi replica: “Anche se fosse, non dicono perché non ci hanno fatto aprire lo striscione in piazza”.

La polemica ha investito in particolare Matteo Salvini, capo del Viminale. “Mi occupo di lotta alla mafia e non faccio guerre agli striscioni. Ho dato indicazioni, già nelle scorse settimane, di non intervenire. Rispetto ovviamente la scelta della Questura di Roma”, ha detto il ministro dell’Interno. Posizione giunta dopo la netta presa di distanza del collega M5S, Luigi Di Maio, che ha postato la vignetta e scritto: “Evviva la libertà”.

Ecco il Partito verde di Sala con la benedizione del Pd

Beppe Sala, non oggi, tra un po’. Beppe Sala, senza la tessera del Pd, però attorno al Pd. Beppe Sala, ispiratore di un partito che copra il versante ambientale e sociale. Con il voto da qui a un anno, non oltre per ragioni di fragili equilibri, di resistenza di una classe dirigente non all’esordio, di stanchezza fisica nonché politica: è il sindaco di Milano l’uomo che allarga e completa i dem di Nicola Zingaretti segretario e Paolo Gentiloni presidente.

Beppe Sala pianifica con discrezione – e le rituali smentite – un progetto/movimento/cartello elettorale per proiettare la sua gloria milanese in Italia, per seminare in uno spazio di consensi che cresce incolto e che è attiguo ai dem. Ha l’ambizione. Ha il supporto. Ha il tempo. Così pure da commissario Expo – ora aspetta la sentenza di primo grado per l’inchiesta, dopo la richiesta di condanna a 13 mesi – si era già preparato a raccogliere il testimone di sindaco da Giuliano Pisapia. Adesso può contendere a Zingaretti e Gentiloni una porzione del centrosinistra o ratificare un accordo col Nazareno. Più plausibile la seconda ipotesi.

Già dirigente di azienda, tra Pirelli e Telecom, Sala frequenta il comune di Milano dall’epoca di Letizia Moratti, e la provenienza era il giro di Silvio Berlusconi. Più di un decennio, con vari cambi di muta e, dopo la carriera di manager, al vertice di Milano, però sempre Milano, che soddisfa, di certo lusinga, forse non basta. Ai politici capita spesso di soffrire di claustrofobia, di sentirsi oppressi in un luogo o in una divisa, di convivere troppo con un’immagine pubblica che risente di esagerazioni, iperboli, piaggeria. Questo è il momento di Sala. Il mandato di sindaco scade nel giugno del 2021, Sala ha promesso ai milanesi, ovvio, che non lascia le opere incompiute, ma è altrettanto ovvio che la fine della legislatura nel 2019 e nel 2020 gli offre un’occasione non ripetibile: fare politica non soltanto a Milano.

Zingaretti era un giovane comunista, Sala s’è laureato alla Bocconi. Hanno un buon rapporto, non solido, ma funziona per le reciproche esigenze. Zingaretti ha bisogno di ampliare il campo del centrosinistra per “assimiliazione”, non per “scissione”. La politica non è una scienza esatta, però ha familiarietà con la matematica e soprattutto la logica, dunque un’uscita dal Nazareno di un Carlo Calenda per fondare un ennesimo partitino non toglie né aggiunge. Sala è un tipo cauto, non si sporge mai troppo, sa che può cadere per eccesso di ego, come quelli che si candidano a tutto e non vincono niente. Tant’è che adesso, al prologo del futuro, dice che è disponibile a sostenere chi fa politica per incentivare i “temi sociali e ambientali”. Sala non è un iscritto del Nazareno, ma ormai è un riferimento (civico) che si contrappone ai gialloverdi, a Matteo Salvini oppure a Giorgia Meloni, anche se utilizza un vocabolario – come successo con la proposta per il “Daspo per i rom” – poco consono al garantismo lessicale dei dem.

Sarà vero che il centro della politica è disabitato e un motivo ci sarà e che, per dirla con Massimo D’Alema, la sinistra deve ricominciare dai vecchi valori, ma la vocazione maggioritaria del Partito democratico non esiste più e, come ripete Sala, il Nazareno in solitudine non tornerà mai al potere. Ecco il patto di Sala con “Zinga”. Da qui a un anno, non oltre. Per Beppe Sala, che può sottrarsi a una complicata replica da sindaco di Milano. Per Nicola Zingaretti, che è riuscito a mantenere il respiro dei dem anche se non scoppiano di salute. Per Paolo Gentiloni, che potrebbe tentare di correre da premier (senza misurarsi proprio con Sala). E Matteo Renzi? È tra i dem, non si vede, forse si percepisce, se saluta Sala&C. non si disperano. Che si decidano. Da qui a un anno, non oltre.

Decreto Sicurezza, martedì arriva sul tavolo dei ministri

A volte ritornano: il decreto Sicurezza bis fortemente voluto da Matteo Salvini rischiava di rimanere seppellito con la possibile crisi di governo. Ora invece torna in auge: è all’ordine del giorno nel prossimo Consiglio dei ministri che si svolgerà martedì. Si tratta di una seconda versione del testo che circolava in origine, rivisto e corretto per rispondere ai dubbi di costituzionalità sollevati dal Movimento 5 Stelle, dal premier Conte e (soprattutto) informalmente dal presidente della Repubblica Mattarella. Le “limature” riguardano gli aspetti più controversi: nella nuova versione sono state cancellate le multe da 3.500 a 5.500 euro per ogni straniero trasportato nelle operazioni di salvataggio delle Ong (si sono trasformate in sanzioni da 10mila a 50mila euro per chiunque violi il divieto d’ingresso in acque territoriali). È stata eliminata dal testo anche l’assunzione del commissario straordinario per velocizzare le notifiche di reati passati in giudicato, ma rimangono 800 assunzioni in due anni di “personale non dirigenziale”. Inoltre vengono ulteriormente inasprite le pene per le violenze contro pubblici ufficiali, soprattutto se compiute in occasione di manifestazioni o eventi pubblici.

A rapporto da Beppe, prima che tutto cambi

Il capo politico fa visita al padre fondatore per raccontargli il nuovo M5S e mostrargli devozione, nella speranza che gli eletti apprezzino. Magari tranquillizzandosi, nonostante il 17 per cento nelle urne. Però l’incontro tra Luigi Di Maio e Beppe Grillo non placa neanche un po’ il M5S.

Perché la graticola per i sottosegretari, che partirà domani sera, ha ulteriormente intorbidito le acque, più o meno come il rimpasto che potrebbe toccare uno o due ministri. Una verità che pesa sul sabato del Movimento, in cui Marina di Bibbona pare una mezza Canossa. Con il capo politico Di Maio che rende omaggio al Grillo un po’ allontanatosi ma soprattutto allontanato dal M5S di governo, che lo attende nella sua casa sul mare in Toscana, invece di palesarsi a Roma nel solito albergo sui Fori. Il vicepremier gli racconta dettagli della riorganizzazione, basata su una segreteria politica di una decina di persone, divise per temi, e referenti territoriali per ogni regione o macro-area (dai 3 ai 5). Passaggio in parte obbligato, visto che Grillo è pur sempre il Garante. Ma il pranzo serve anche a mostrare che Di Maio tiene ancora conto del suo parere. Un modo come altri per cercare di uscire dalle sabbie mobili del tonfo nelle Europee. Così sul tavolo assieme ai piatti di pesce finisce l’ipotesi di nuova struttura. Con il comitato di saggi che pare finito nel cassetto, per lasciare strada alla segreteria. “Mandatemi segnalazioni sui temi, metterò tra i referenti chi mi avrà mandato le idee migliori” ha ripetuto nelle varie riunioni con gli eletti sull’organizzazione (ieri a Palazzo Chigi ha visto i consiglieri comunali). Ma Di Maio e Grillo parlano anche di governo, con il vicepremier che giura: “Andremo avanti”. Da fuori però arrivano gli echi di un diffuso malessere. Effetto della graticola per i sottosegretari, che partirà domani sera dentro una sala della Camera.

Di fatto, un confronto con i parlamentari delle commissioni competenti sui loro temi, chiamati a valutare l’operato dei sottosegretari nel primo anno di governo. E i loro giudizi dovrebbero aiutare Di Maio a decidere se e chi tagliare. Sta di fatto che i primi due a sottoporsi alla gogna saranno Simone Valente e Vincenzo Santangelo, sottosegretari alla presidenza del Consiglio con delega ai Rapporti con il Parlamento. Previsti 40 minuti di graticola a testa: 20 per raccontare in sintesi quanto fatto, e gli altri 20 per rispondere alle domande di deputati e senatori. “Una cosa alla Grande Fratello” ringhia un deputato. Irritato come tanti colleghi, che pure da tempo lamentavano uno scollamento con alcuni sottosegretari (e ministri). “Però con la graticola Di Maio vuole dare a noi la colpa di eventuali sostituzioni” accusa un senatore. Ergo, vuole darsi un alibi. “E poi – morde un big – perché la graticola non ci sarà per i ministri? Forse perché lui di ministeri ne ha due?”. In questo clima, rimane la tensione proprio con alcuni ministri a rischio rimpasto, come la titolare della Salute, Giulia Grillo. Ieri circolava anche il nome della possibile sostituta, la leghista Barbara Saltamartini. Ma Grillo resiste, e spera che ieri nell’incontro con Di Maio il fondatore l’abbia difesa, come aveva fatto venerdì con un post.

Tre posizioni per l’Europa

 

Giuseppe Conte Dovrà rappresentare, insieme al ministro dell’Economia Giovanni Tria e al collega degli Esteri Moavero Milanesi, la posizione del partito del Colle: la posizione italiana a Bruxelles va difesa, ma trovando un accordo con la Commissione e i governi dell’Ue.
In realtà, sulla minaccia di procedura di infrazione contro l’Italia sia i “mattarelliani” di governo che 5 Stelle e Lega la pensano allo stesso modo: alla fine
di quest’anno i conti saranno assai migliori di quel che dicono Juncker e soci, quindi non c’è bisogno di alcuna manovra correttiva. Una linea che potrebbe anche passare (magari definanziando fin d’ora reddito di cittadinanza e quota 100 sulle pensioni, per i quali si sta spendendo assai meno del previsto), ma solo dando ampie rassicurazioni sulle intenzioni per il 2020: la Ue non vuole vedere cose come la flat tax a deficit e Tria è molto d’accordo; Conte quando sarà il momento dovrà fare il poliziotto buono come a dicembre: cedere facendo finta di non farlo.

 

Luigi Di Maio Il M5S è l’incognita in questa partita e lo è forse anche per se stesso. In questa fase, pur sottolineando esigenze diverse, Luigi Di Maio e soci si muovono in sintonia con gli alleati leghisti sugli obiettivi macro: la procedura che la Commissione definisce “giustificata”, secondo i 5 Stelle non lo è affatto ed è anzi la dimostrazione che quello dei commissari europei (peraltro in scadenza) è un attacco politico all’Italia. Insomma, i grillini restano del parere espresso nel contratto con la Lega, ovvero che il “programma di riduzione del debito pubblico” debba basarsi “non su tasse e austerità, politiche che si sono rivelate errate”, ma “per il tramite della crescita del Pil”. Di Maio preferirebbe a quel punto concentrarsi su misure “sociali” (come il dl Famiglia) invece che sulla flat tax o il taglio delle tasse, ma anche questo è nel contratto e la Lega lo rivendica con la forza del suo 34%. Il problema è che non è chiaro come reagirà il Movimento quando la temperatura con la Ue (e sui mercati) tenderà al caldo. Per capirci, fatto salvo il blocco degli aumenti dell’Iva, già ora importanti fonti di governo M5S ritengono che “la flat tax non potremo farla”.

 

Matteo Salvini I leghistipensano, dopo il cedimento del 2018 che ha azzerato la natura espansiva della manovra, che stavolta bisogna andare fino in fondo. Per quest’anno, esattamente come Tria, ritengono non ci sia nulla da correggere: il deficit sarà attorno al 2%, forse persino più in basso (quota 100 alla fine riguarderà 1/3 della platea attesa). Il punto, di nuovo, è la manovra d’autunno: Salvini e i suoi “strateghi” ritengono che la situazione di tensione internazionale e rallentamento economico – guerra dei dazi, Brexit, etc. – offra una chance all’Italia. La Germania, che resta il Paese guida dell’Ue e vive un anno difficile, non avrebbe interesse a creare un nuovo focolaio di crisi: per questo potrebbe concedere all’Italia quello che in realtà l’Ue ha già concesso alla Francia, sforare i vincoli sul deficit (zero speranze, invece, ci sono per le riforme dei Trattati tipo scorporare la spesa per investimenti dal Patto di Stabilità). Salvini, sempre tenendo invariata l’Iva, sa che deve portare a casa un taglio delle tasse: la trattativa potrebbe essere su dimensione e gradualità nel tempo.

 

Conte e i vice si vedono a Roma ma la partita è tutta a Bruxelles

Sono bastati una elezione e un viaggio in Vietnam per far tornare Giuseppe Conte a essere il presidente del Consiglio “tecnico” che era quando i dioscuri gialloverdi lo chiamarono a Palazzo Chigi. Nei mesi e con le liti interne che aumentavano il premier si era ritagliato un notevole spazio politico, ma ora la vittoria della Lega e il tracollo dei 5Stelle hanno spinto Matteo Salvini e Luigi Di Maio a rinsaldare il rapporto e, ovviamente, Conte è rimasto isolato.

Domani dovrebbe tenersi finalmente l’incontro “chiarificatore” tra Conte, Di Maio e Salvini: il problema è che i due vice si sono già chiariti tra loro questa settimana e le bordate arrivate in stereofonia a Giovanni Tria sulla questione minibot ne sono un plastico segno. Insomma, la melodrammatica conferenza stampa di lunedì scorso e le interviste in cui spiegava di non “aver sciolto la riserva” sulla sua permanenza a Palazzo Chigi paiono superate dall’accordo tra i partiti che lo hanno portato al governo.

Ora l’agenda dell’esecutivo è segnata dalle questioni economiche e dal rapporto con Bruxelles, di questo si parlerà domani: nell’incontro si affronteranno due linee e Conte sarà costretto dai dioscuri a indossare la grisaglia del partito del Quirinale e a difendere Tria. Adesso, però, è solo l’antipasto, un’occasione utile forse per qualche photo-op.