La mania del selfie per lui non è un grosso problema: “Forse me l’hanno chiesto una volta”; poi non esistono copertine di settimanali, guerra tra procuratori e società, nessuna vacanza a Ibiza (“a prescindere dai costi, non mi interessa”), alcun acronimo tipo CR7 o DDR, o altre affinità con i suoi colleghi. Perché Giacomo Ratto, 33 anni, è un calciatore, ruolo portiere, caratteristica principale: giramondo in campionati semi sconosciuti e categorie basse. Quindi Malta, Panama, Nicaragua, Fiji, Svizzera, Mongolia, Zimbabwe, Grecia, ancora Malta e ora l’Islanda dove gli otto gradi di ieri sono già un sollievo. A lui basta avere una maglia, uno stipendio, vitto, alloggio e la possibilità di scoprire differenti realtà dalla natia Varese.
Quindi l’Islanda.
Luogo complicato, gioco nella formazione di un paesino di 3.000 abitanti, Ísafjarðarbær, a 400 km da Reykjavik; qui è un attimo passare dalla neve, al sole, fino alla pioggia.
Come le è venuto in mente di iniziare questa carriera?
Nel 2002 giocavo in una squadra di dilettanti, non ero male, ed ero seguito da un bravo preparatore che mi filmava per poi correggere gli errori. Un giorno mi riguardo, mi illumino, monto una serie di immagini e creo un video da spedire alle formazioni.
In Italia nessuno spazio?
La mia chance l’ho persa quando ho rifiutato una panchina di Serie B.
Perché?
Non volevo allontanarmi dalla mia ragazza d’allora, ma a 21 anni evitare le stupidaggini è quasi un colpo di fortuna. E poi sono alto un metro e 80, mi mancano cinque centimetri fondamentali.
Malta.
Entro in una squadra con uno stipendio da 1.500 euro.
Non molto.
Ma lì si sta benissimo, la vita costa poco, la temperatura fantastica. Peccato che hanno ridotto il numero di stranieri, quindi è finita dopo un anno.
Panama.
Scelta dopo aver visto un servizio su Sky nel quale raccontavano la crescita del Paese: ho mandato il video e mi hanno chiamato.
Nicaragua.
Il posto più bello e tranquillo, almeno fino a quando ci sono stato io, poi sono scoppiati i casini con Ortega.
Nel frattempo…
Sono arrivato a quasi 4.000 spettatori per una partita.
Record.
Per me sì. E poi lo stipendio era di 2.000 euro, sempre con il solito vitto e alloggio…
C’è qualche “ma”?
All’inizio non era semplice la vita con gli altri compagni, mi vedevano come uno che toglieva lavoro.
Un immigrato.
Esatto, solo che per loro ero l’europeo ricco che andava a rompere le palle. “Sei qui a toglierci il pane”, mi dicevano.
Fiji.
La Capitale fa schifo, ma appena fuori, sono meravigliose; lì ho giocato la Champions League asiatica.
Rapporti con vecchi amici?
Quasi nessuno, persi tutti. L’unica che mi sopporta è Chiara, la mia ragazza, insieme dal 2008.
Ha una buona proprietà di linguaggio.
Ho studiato Ragioneria, altra stupidaggine, in realtà il mio sogno era diventare un archeologo; cerco di compensare leggendo libri di storia, di geografia e con i viaggi.
Sempre in giro.
Quando scopri posti differenti dalla tua immaginazione, non puoi più fermarti: la fascinazione diventa necessità.
Non è una fuga.
Da Varese? Piuttosto è desiderio di uscire da quella realtà razzista.
Che squadra tifa?
Deportivo La Coruna (formazione spagnola).
Come mai?
A fine anni Novanta giocava un calcio fantastico.
Situazioni di pericolo?
Una volta alle Fiji mi hanno rubato il portafogli, però mi era accaduto pure a Varese.
Soldi da parte?
Quasi nulla.
Mica come i colleghi vip…
Qui c’è un errore di fondo: secondo uno studio pubblicato da Marca (quotidiano spagnolo) il 45% dei calciatori professionisti guadagna circa 1.000 euro al mese; sono i big a mangiarsi tutta la torta, un po’ come nel resto della vita.
Problemi con il cibo?
Benissimo, sperimento.
Anche in Mongolia?
Il proprietario della squadra era ricchissimo, aveva anche un ristorante, ma la loro cultura culinaria è influenzata da russi e cinesi, facile trovare la Borsch o i ravioli al vapore.
Rapporti umani?
Complicati, sono chiusi, legati alle loro tradizioni, all’eco del passato, parlano spesso dell’impero Mongolo (bussano alla porta) Mi scusi…
Chi era?
Il mio compagno di stanza, un ragazzo brasiliano bravissimo, mi ha portato del pesce perché oltre a giocare a pallone lavora nell’azienda ittica del presidente.
Lei, no?
Non ci penso proprio.
Come si trova con gli attuali compagni?
In squadra oltre al brasiliano ci sono un croato, un serbo e quattro inglesi.
Croato e serbo si tollerano?
Vivono assieme, amici.
E lei con il brasiliano?
Una lezione di vita: non è alfabetizzato al cento per cento, è nato e cresciuto in una favela, ma parla inglese e spagnolo, lavora tanto ed è riuscito a salvarsi dal destino.
Quanto intende andare avanti?
Fino a 38 anni, poi vorrei allenare.
Sempre in giro.
Lo so, non diventerò mai ricco, uno con certezze e conto in banca, però sono contento, e con un bagaglio di esperienze umane che non si possono valutare secondo i comuni parametri economici.
Twitter: @A_Ferrucci