“Il vicepremier vuole la catastrofe per poi essere l’uomo forte”

I due vicepremier?Fanno paura! Intervistato a Repubblica delle idee, a Bologna, il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, accusa i due alleati di governo di non comprendere la situazione italiana e di badare solo agli interessi di partito. “Mi preoccupa Di Maio che ha già detto di no all’ipotesi di un italiano alla guida di uno dei livelli di governo dell’Europa – dice – Se crede negli interessi dell’Italia dovrebbe dire di sì. E invece diranno di no, marginalizzando ancora di più il nostro Paese”.

Secondo il segretario del Pd, ci sarebbe una sudditanza fra i partiti al governo: “Il M5S ha sbagliato alle elezioni e sta sbagliando in questo momento – aggiunge – permette a Salvini di dire tutto e il contrario di tutto”. E proprio sulle intenzioni del leader leghista, Zingaretti ha le idee ben chiare: “La Lega, un pericolo per la democrazia. Ho paura che Salvini stia preparando la terza fase, della catastrofe economica, cercando poi il capro espiatorio e proponendo l’uomo forte che risolve tutto”. E in caso di crisi, cosa faranno i democratici? “Dobbiamo essere pronti e organizzare una grande alleanza attorno al Pd per essere più forti sui territori e tra la gente. Una confraternita di correnti non serve a niente”.

13.341 km in 21 giorni: ecco perché Salvini non è mai al Viminale

Sembra di stare dentro al Never Ending Tour di Bob Dylan, quello che è iniziato nel giugno 1988 e che non è mai finito. O, se preferite, l’immagine giusta può esser quella di un enorme Giro d’Italia dove la maglia rosa è assegnata per incontestabili meriti sportivi. A chi? A Matteo Salvini, vicepremier, ministro dell’Interno, leader della Lega e uomo delle lunghe distanze.

Già, perché l’autoproclamatosi Capitano nell’ultimo mese – ma il riferimento temporale è arbitrario – ha girato l’Italia come una trottola con ritmi da far impallidire chi, nello stesso periodo, gareggiava in sella alla bici: 75 tappe e altrettanti comizi da Nord a Sud. Mettendo insieme i tragitti per spostarsi da una piazza all’altra si arriva a 13.341 chilometri, al netto di deviazioni verso Roma o Milano: si tratta di due volte la distanza tra Lisbona e Baku (o tra Roma e New York) e di quasi quattro volte la lunghezza totale del Giro (quello dei ciclisti, appunto), oltreché, per gli amanti della scienza, di un migliaio di chilometri in più del diametro terrestre.

 

Viaggi mascherati a carico nostro?

Roba da far commuovere ogni sostenitore leghista, che sa di poter contare su un leader iper-attivo in campagna elettorale permanente, ma numeri un po’ più preoccupanti se si tiene conto del senso di solitudine che negli stessi giorni avranno provato i funzionari del Viminale, il palazzo dove Salvini ha l’ufficio e dove le sue presenze sono sempre più rare. L’elenco delle tappe elettorali è lunghissimo: tre o quattro città nello stesso giorno, centinaia di chilometri su cui, peraltro, sta indagando la Corte dei Conti per capire se qualcuno di quei viaggi sia stato mascherato da volo di Stato e messo a carico della comunità. Il 9 maggio si parte con sei tappe: Montegranaro, Osimo, Fano, Pesaro, Giulianova, Montesilvano. Il giorno dopo Salvini è a Catanzaro, ideale perché poco lontana da Platì, dove c’è un evento istituzionale. Utile e dilettevole insieme.

Così si va avanti per tutto maggio: Milano, dove annuncia che “il cuore Immacolato della Vergine Maria porterà la Lega alla vittoria”, e poi Alessandria, Albenga, Fossano, Bra, Potenza, San Severo, Firenze, Verona, Sassuolo. Piccoli e grandi centri, col record di incontri il 13 maggio, quando le piazze riempite sono sette tra Brembate, Dalmine, Lumezzane, Montichiari, Legnano, Schio e Bassano del Grappa.

 

Da Palermo a Novi: la tappa più lunga

Il 23 maggio altro primato: prima tappa a Palermo (è la commemorazione di Giovanni Falcone, ma è lo stesso Salvini a inserirla nei propri manifesti elettorali), poi Novi Ligure, distante appena 1.447 chilometri.

A balzare all’occhio c’è la continuità degli eventi, tanto che Salvini in un mese si ferma soltanto undici giorni. Altro record, se si pensa che quattro di questi (25 e 26 maggio, 8 e 9 giugno) è riposo forzato causa silenzio elettorale e che qualche giorno è stato necessario per calcolare i risultati delle Amministrative e studiare i ballottaggi. Per il resto, nessuna cesura tra prima e dopo il voto del 26 maggio: incetta di piazze prima, incetta di piazze dopo, nonostante i richiami dello stesso Salvini a smetterla con le campagna elettorale e a iniziare “a lavorare a testa bassa”.

Dopo il voto per l’Europarlamento gli appuntamenti sono comunque quotidiani, dal 31 maggio fino a ieri. A Mirandola, cuore dell’Emilia, il 4 giugno lo accoglie un cartello: “Più tortellini, meno Salvini”. Lui reagisce: “Vinciamo perché abbiamo più stile, cultura, educazione”. A Foligno, 5 giugno, dichiara di pensare agli italiani come a “60 milioni di figli”, forse annebbiato dalla fame: “In campagna elettorale ho perso 6 chili” (Ascoli, 6 giugno). Sul palco di Cesena gli regalano la maglia della squadra di calcio locale, con tanto di “Salvini 10” sulla schiena. Passano due ore e la società dirama una nota ufficiale il cui senso, parola più parola meno, è: “Noi non c’entriamo niente, ci dissociamo, i politici locali e nazionali evitino di strumentalizzare la nostra maglia”.

Salvini vede Casoria e Aversa, poi Campobasso, Tivoli e Civitavecchia fino al gran finale a Biella, Paderno Dugnano, Romano di Lombardia e Novate Milanese, proprio mentre in Lussemburgo i ministri dell’Interno dell’Ue si riuniscono per discutere di immigrazione. Ma non c’è tempo, ci sono i ballottaggi. Poi da domani chissà: magari arriverà il turno del Viminale.

In Parlamento nasce la fronda trasversale contro De Magistris

Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris una settimana fa, con un’intervista sul Fatto, aveva lanciato una proposta a Roberto Fico e alla “sinistra” del Movimento Cinque Stelle: un patto politico per le prossime elezioni a Napoli e in Campania. Con uno scenario possibile: Fico prossimo sindaco partenopeo e De Magistris presidente della Regione. I Cinque Stelle hanno risposto in maniera non proprio diplomatica (per usare un eufemismo): 58 senatori pentastellati – primo tra loro il campano Vincenzo Presutto – hanno inoltrato una doppia interrogazione parlamentare inviata ai ministri Tria e Salvini con la richiesta, in sostanza, di commissariare Napoli. A causa, scrivono i grillini di “una gestione finanziaria del tutto fallimentare, denotando una sistematica e perdurante carenza di liquidità”. La novità è che la manovra anti De Magistris ha trovato il supporto anche del Partito democratico. L’ha annunciato la senatrice napoletana Valeria Valente: “Lo diciamo da anni, finalmente adesso anche da parte dei grillini arrivano parole chiare e nette. L’amministrazione finanziaria di De Magistris è un fallimento”. Con lei pronti a firmare altri 7 senatori dem.

Lega a caccia delle “ridotte” rosse. M5S in corsa solo a Campobasso

Siamo quasi all’ultima curva di questa eterna campagna elettorale che ha portato al voto – solo nel 2019 – 3.843 Comuni e 4 Regioni (Abruzzo, Basilicata, Piemonte e Sardegna), oltre alla sfida campale delle Europee. Eccetto Cagliari, Sassari e le altre città sarde che aprono le urne domenica prossima, oggi si chiudono i conti. Si vota per i ballottaggi in 136 Comuni, tra cui 16 capoluoghi di Provincia: Potenza e Campobasso (che sono anche capoluoghi di Regione), Livorno, Prato, Ferrara, Forlì, Cesena, Avellino, Reggio Emilia, Biella, Verbania, Vercelli, Foggia, Ascoli Piceno, Cremona e Rovigo. In tutto sono coinvolti 3.648.485 elettori.

La sfida è quasi ovunque tra centrodestra e centrosinistra: il M5S compete solo a Campobasso, dove al primo turno era avanti la candidata meloniana Maria Domenica D’Alessandro. Per Salvini, che ha preparato i ballottaggi girando come un ossesso da un comizio all’altro, c’è la possibilità di strappare qualche altra città simbolo nelle ultime Regioni rosse. Il centrodestra è favorito a Ferrara, che nella sua storia ha avuto solo sindaci socialisti, comunisti e democratici di sinistra: il leghista Alan Fabbri ha sfiorato la vittoria al primo turno (48,4%) e parte con quasi 17 punti di vantaggio su Aldo Modonesi (31,7%). La destra parte avanti anche a Forlì e se la gioca – da sfavorita – a Cesena e Reggio Emilia.

Altra sfida simbolica è a Livorno: dopo la breve parentesi dei Cinque Stelle i partiti tradizionali si riprendono la città, che rischia una clamorosa svolta a destra con il poliziotto post-missino Andrea Rossi (al primo turno era avanti il dem Luca Salvetti, saranno decisivi i voti degli elettori grillini). Anche Piombino, città degli operai delle acciaierie, potrebbe avere un sindaco di FdI: Francesco Ferrari parte dal 48% di due settimane fa, a un passo da una vittoria storica.

Da seguire il Molise: a Campobasso e Termoli si è parlato di una desistenza – un sostegno reciproco – tra Movimento 5 Stelle e Pd per far vincere i rispettivi alleati nei due ballottaggi e fermare la destra. La Lega ha fatto filtrare una certa inquietudine, i grillini hanno smentito: vedremo come si comporteranno gli elettori.

 

Il Club Privé

Dite la verità: non siete anche voi stupefatti e sgomenti per “il veto gialloverde su Enrico Letta” denunciato da Repubblica? Se è vero quel che scrive il quotidiano dei migliori-buoni-giusti dell’“altra Italia”, è accaduto questo: misteriose entità vaganti fra Bruxelles e Strasburgo non specificate avrebbero offerto a Di Maio e Salvini la preziosa opportunità di nominare l’ex premier del Pd, quello che nel 2014 governò con Berlusconi, nientemeno che alla guida del Consiglio europeo. Ma quelli niente, se la sono lasciata sfuggire. Per la verità, questi illustri euroectoplasmi avevano prospettato anche alcune alternative ancor più succulente: Renzi, Gentiloni e Monti. Ma i cattivoni giallo-verdi non hanno raccolto neppure quelle: hanno “sostanzialmente bloccato sul nascere la trattativa” (non si sa con chi). Ma si può? Chi ti insulta un giorno sì e un altro pure e non vede l’ora di sterminarti con una procedura d’infrazione ti propone di nominare come unico rappresentante italiano in Europa un tuo acerrimo nemico, che rappresenta un partito del 20% (senza neppure esservi iscritto) e ti dà continuamente del cialtrone, dell’incapace e del fascista, e tu che fai? Dici no? Roba da matti. Se, per dire, ai premier Monti o Letta o Renzi o Gentiloni ai loro tempi qualcuno avesse detto: “Che ne dici di promuovere al Consiglio d’Europa Di Maio o Di Battista o Salvini o Borghezio?”, quelli, sportivi come sono, avrebbero firmato su due piedi. Altrimenti Repubblica avrebbe dovuto titolare “Veto montiano su Di Maio”, “Veto lettiano su Salvini”, “Veto renziano su Di Battista”, “Veto gentiloniano su Borghezio”. E qualcuno avrebbe domandato: embè?

Anziché domandarsi perché solo il 25% dei votanti, pari al 15% degli elettori, vota ancora centrosinistra e studiare il modo di recuperare i milioni di elettori perduti, il club dei migliori-buoni-giusti rifiuta l’idea che in democrazia il diritto di governare sia direttamente e non inversamente proporzionale ai consensi. Ritiene che il governo sia riservato agli iscritti al club privé, anche se non li vota nessuno. E non si dà pace che governi chi ha la maggioranza: molto meglio i governi di minoranza dell’ultimo quinquennio. L’altra sera, a Otto e mezzo, ci si interrogava sul perché i 5Stelle restino al governo anziché farlo cadere. Domanda che si potrebbe porre a chiunque vinca le elezioni in qualsiasi democrazia del pianeta, ma curiosamente la sentiamo porre solo in Italia e solo al M5S. Le risposte degli ospiti – Lella Costa, il rag. Claudio Cerasa e Luca Telese – erano che i 5Stelle “amano il potere e vogliono fare le nomine”.

O “da buoni rivoluzionari si illudono di fare le cose”. O “non vogliono perdere le poltrone, del resto quando gli ricapita?”. Esclusa a priori la risposta più ovvia: chi prende il 33% alle Politiche, le uniche che contino per il governo nazionale, ha non solo il diritto, ma il dovere di governare per cinque anni con i propri alleati e di realizzare il programma premiato dagli elettori, finché ha la fiducia del Parlamento. Non che quello giallo-verde sia il miglior governo possibile, tutt’altro: ma è l’unico possibile in questa legislatura, a causa della mancanza di alternative dovuta alla cinica scelta del Pd di Renzi e poi di Zingaretti di rifiutare qualunque dialogo col M5S. Ora, dopo le Europee che li hanno dissanguati, i 5Stelle sono tentati di cercare un buon pretesto per affossare il governo, ritirarsi all’opposizione, leccarsi le ferite, ritrovare l’identità smarrita, tentare la rimonta e lasciare ad altri il peso di una impopolarissima legge di Bilancio. Ma poi ha parlato Conte e ha garantito che non farà il prestanome di Salvini. Non sarà facile, ma vale la pena di sostenerlo. Le possibili conseguenze della sua caduta sarebbero solo due: o le elezioni a settembre, che ci regalerebbero un governo Salvini-Meloni (con o senza FI); o una spaccatura del M5S, con una pattuglia di parlamentari terrorizzati di votare e perdere il seggio, pronti a salutare Di Maio per sostenere un governo Salvini-FdI-FI. Cioè: se cade Conte, comunque vada, avremo Salvini a Palazzo Chigi. E chi spensieratamente tifa contro Conte dovrà pentirsene e rimpiangerlo. Perché le follie che Salvini non è ancora riuscito a realizzare grazie al freno di M5S e Conte diventerebbero ipso facto legge: dl Sicurezza-bis, secessione del Nord, Tav, deregulation totale sugli appalti, sottomissione dei pm al governo, abolizione dell’abuso d’ufficio, ritorno della prescrizione, flat tax per ricchi, mano libera alle lobby del cemento e del petrolio contro l’ambiente e alle forze dell’ordine contro il dissenso. E sarebbero Salvini e vassalli a scegliere, nel 2022, il nuovo presidente della Repubblica.

È vero: dopo le Europee, il rischio è che alcuni di questi incubi si avverino anche con questo governo, se Conte e i 5Stelle non troveranno la forza di arginare la bulimia salviniana. Ma, per scongiurarlo, occorre spronare il premier e Di Maio a mangiare bistecche di tigre. E a tenere pronte le dimissioni per non rendersi mai complici. Ma che senso ha accelerare la caduta di una maggioranza formata per due terzi dal M5S e per un terzo dalla Lega per sostituirla con una tutta salviniana? È il sogno di Salvini, che pagherebbe per veder cadere Conte per mano M5S e poi prendersi tutto senza pagare il prezzo dello spread e dell’impopolarità. Resta da capire cosa ci guadagnerebbe il Pd, che invoca scriteriatamente le elezioni e a prendersela con gli unici che ancora possono frenare il salvinismo arrembante. E soprattutto cosa ci guadagnerebbe l’Italia. Solo un pazzo può voler votare ora, nel momento più alto della parabola politica di Salvini, anziché lasciarlo logorare un altro po’ alla prova più temuta dai parolai e dai cazzari: quella dei fatti.

Essere Cecchi Gori, tra vizi e virtù

“Mi arrestarono davanti a mio figlio, ma sono rimasto sereno. Ho capito che eravamo nella follia del potere, che l’accordo Telecom e Tv sarebbe saltato, insieme con tutto il resto. Non è stato semplice trasferirsi da Palazzo Borghese a Regina Coeli, ma mi son dato una medaglia: ho resistito bene”. Vittorio Cecchi Gori si confessa, o giù di lì, nel documentario Cecchi Gori – di Vizi e di Virtù, diretto da Simone Isola e Marco Spagnoli e prodotto da Giuseppe Lepore.

Set la casa ai Parioli che il padre Mario acquistò con i proventi del Sorpasso, si ripercorre nascita e ascesa – e fallimenti – dell’unica major italiana, capace di 300 titoli prodotti – ultimo Silence di Martin Scorsese nel 2016 – e oltre mille distribuiti in cinquant’anni. Tra le talking heads, Roberto Benigni e Giuseppe Tornatore, Leonardo Pieraccioni e Lino Banfi, Marco Risi e Carlo Verdone, che rivela la genesi dell’opera terza Borotalco: “Dopo il successo di Un sacco bello e Bianco rosso e Verdone ero fermo e abbastanza depresso, finché non mi chiama Mario Cecchi Gori. Sigaro, faccia autorevole e autoritaria, mi chiede un film a personaggio unico: ‘Son convinto che ci riesci, fai quello che vuoi’”.

Dalla Fiorentina (“Commisso? Spero bene, ma già fanno pasticci con Chiesa”) al gossip (“Una camminata con Rita Rusic e Valeria Marini andrebbe a ruba, ma eviterei…”) fino alla politica (“Martinazzoli mi candidò contro i comunisti, però la Dc mi si è sbriciolata sotto i piedi”), Vittorio bacchetta il presente: “Il produttore non è più indipendente, ma un dirigente televisivo” e apre al futuro: “Non rifarei calcio e Tv, ma il cinema sì. Con Scorsese c’era un altro contratto, vedremo”.

Dedicato a “il” fotografo del cinema italiano Pietro Coccia, Cecchi Gori – di Vizi e di Virtù è in predicato per Venezia.

“Pur di giocare a pallone, mi sta bene anche l’Islanda”

La mania del selfie per lui non è un grosso problema: “Forse me l’hanno chiesto una volta”; poi non esistono copertine di settimanali, guerra tra procuratori e società, nessuna vacanza a Ibiza (“a prescindere dai costi, non mi interessa”), alcun acronimo tipo CR7 o DDR, o altre affinità con i suoi colleghi. Perché Giacomo Ratto, 33 anni, è un calciatore, ruolo portiere, caratteristica principale: giramondo in campionati semi sconosciuti e categorie basse. Quindi Malta, Panama, Nicaragua, Fiji, Svizzera, Mongolia, Zimbabwe, Grecia, ancora Malta e ora l’Islanda dove gli otto gradi di ieri sono già un sollievo. A lui basta avere una maglia, uno stipendio, vitto, alloggio e la possibilità di scoprire differenti realtà dalla natia Varese.

Quindi l’Islanda.

Luogo complicato, gioco nella formazione di un paesino di 3.000 abitanti, Ísafjarðarbær, a 400 km da Reykjavik; qui è un attimo passare dalla neve, al sole, fino alla pioggia.

Come le è venuto in mente di iniziare questa carriera?

Nel 2002 giocavo in una squadra di dilettanti, non ero male, ed ero seguito da un bravo preparatore che mi filmava per poi correggere gli errori. Un giorno mi riguardo, mi illumino, monto una serie di immagini e creo un video da spedire alle formazioni.

In Italia nessuno spazio?

La mia chance l’ho persa quando ho rifiutato una panchina di Serie B.

Perché?

Non volevo allontanarmi dalla mia ragazza d’allora, ma a 21 anni evitare le stupidaggini è quasi un colpo di fortuna. E poi sono alto un metro e 80, mi mancano cinque centimetri fondamentali.

Malta.

Entro in una squadra con uno stipendio da 1.500 euro.

Non molto.

Ma lì si sta benissimo, la vita costa poco, la temperatura fantastica. Peccato che hanno ridotto il numero di stranieri, quindi è finita dopo un anno.

Panama.

Scelta dopo aver visto un servizio su Sky nel quale raccontavano la crescita del Paese: ho mandato il video e mi hanno chiamato.

Nicaragua.

Il posto più bello e tranquillo, almeno fino a quando ci sono stato io, poi sono scoppiati i casini con Ortega.

Nel frattempo…

Sono arrivato a quasi 4.000 spettatori per una partita.

Record.

Per me sì. E poi lo stipendio era di 2.000 euro, sempre con il solito vitto e alloggio…

C’è qualche “ma”?

All’inizio non era semplice la vita con gli altri compagni, mi vedevano come uno che toglieva lavoro.

Un immigrato.

Esatto, solo che per loro ero l’europeo ricco che andava a rompere le palle. “Sei qui a toglierci il pane”, mi dicevano.

Fiji.

La Capitale fa schifo, ma appena fuori, sono meravigliose; lì ho giocato la Champions League asiatica.

Rapporti con vecchi amici?

Quasi nessuno, persi tutti. L’unica che mi sopporta è Chiara, la mia ragazza, insieme dal 2008.

Ha una buona proprietà di linguaggio.

Ho studiato Ragioneria, altra stupidaggine, in realtà il mio sogno era diventare un archeologo; cerco di compensare leggendo libri di storia, di geografia e con i viaggi.

Sempre in giro.

Quando scopri posti differenti dalla tua immaginazione, non puoi più fermarti: la fascinazione diventa necessità.

Non è una fuga.

Da Varese? Piuttosto è desiderio di uscire da quella realtà razzista.

Che squadra tifa?

Deportivo La Coruna (formazione spagnola).

Come mai?

A fine anni Novanta giocava un calcio fantastico.

Situazioni di pericolo?

Una volta alle Fiji mi hanno rubato il portafogli, però mi era accaduto pure a Varese.

Soldi da parte?

Quasi nulla.

Mica come i colleghi vip…

Qui c’è un errore di fondo: secondo uno studio pubblicato da Marca (quotidiano spagnolo) il 45% dei calciatori professionisti guadagna circa 1.000 euro al mese; sono i big a mangiarsi tutta la torta, un po’ come nel resto della vita.

Problemi con il cibo?

Benissimo, sperimento.

Anche in Mongolia?

Il proprietario della squadra era ricchissimo, aveva anche un ristorante, ma la loro cultura culinaria è influenzata da russi e cinesi, facile trovare la Borsch o i ravioli al vapore.

Rapporti umani?

Complicati, sono chiusi, legati alle loro tradizioni, all’eco del passato, parlano spesso dell’impero Mongolo (bussano alla porta) Mi scusi…

Chi era?

Il mio compagno di stanza, un ragazzo brasiliano bravissimo, mi ha portato del pesce perché oltre a giocare a pallone lavora nell’azienda ittica del presidente.

Lei, no?

Non ci penso proprio.

Come si trova con gli attuali compagni?

In squadra oltre al brasiliano ci sono un croato, un serbo e quattro inglesi.

Croato e serbo si tollerano?

Vivono assieme, amici.

E lei con il brasiliano?

Una lezione di vita: non è alfabetizzato al cento per cento, è nato e cresciuto in una favela, ma parla inglese e spagnolo, lavora tanto ed è riuscito a salvarsi dal destino.

Quanto intende andare avanti?

Fino a 38 anni, poi vorrei allenare.

Sempre in giro.

Lo so, non diventerò mai ricco, uno con certezze e conto in banca, però sono contento, e con un bagaglio di esperienze umane che non si possono valutare secondo i comuni parametri economici.

Twitter: @A_Ferrucci

Niente sesso, siamo attori: sul set c’è il garante intimo

Con i se e i ma non si fa la storia, nemmeno quella del cinema. Chissà però che ne sarebbe stato della famigerata scena con il burro di Maria Schneider e Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci o del cunnilingus di tredici minuti ricevuto – complici le pressioni del regista e l’abuso di alcool, secondo alcuni – da Ophélie Bau in Mektoub, My Love: Intermezzo di Abdel Kechiche all’ultimo Festival di Cannes, se su quei set ci fosse stato un “intimacy coordinator”. Nata sulla spinta del caso Harvey Weinstein e del movimento #MeToo, è figura nuova, per ora appannaggio dell’audiovisivo americano e anglosassone. Sul set della serie con James Franco e Maggie Gyllenhaal The Deuce, Hbo annunciò lo scorso ottobre che un “coordinatore dell’intimità” sarebbe stato di lì in poi presente su tutte le proprie produzioni che prevedessero scene di sesso. Per fare che cosa? Supervisionare le prove, stabilire in anticipo le nudità, sincerarsi dell’esplicito consenso degli attori prima del contatto fisico, predisporre guaine e marsupi per evitare l’accostamento dei genitali, prescrivere termini adatti per indicare parti del corpo e attività sessuali, assicurarsi la completa coreografia delle scene di sesso, come se fossero di lotta, e così via.

Ita O’Brien, londinese che ha lavorato per Hbo e Netflix (la teen comedy Sex Education), ha tracciato le linee guida di “Intimacy on Set”, affinché ognuno disponga di “regole, confini, linguaggio e comunicazione” atti a inibire abusi, scorciatoie e umiliazioni sotto i riflettori.

Dal canto suo, Alicia Rodis ha co-fondato nel 2016 la Intimacy Directors International, che dal teatro s’è allargata a cinema e televisione. Base a New York, s’è adoperata sulla seconda stagione di The Deuce, nonché sulla serie Watchmen di Damon Lindelof in arrivo, e sul palcoscenico ha persino apparecchiato, a partire dalla Bisbetica domata, un #MeToo Shakespeare.

Da chiarire se sortiranno nudi più consapevoli o solo meno nudi sullo schermo, le nuove politiche per le scene di sesso a Hollywood nell’era #MeToo sono necessarie, superflue o, addirittura, nocive? Il “nudity rider” – normalmente allegato negli Usa al contratto di un attore per disciplinare le scene senza veli – non basta e avanza? E, a maggior tutela delle attrici, la clausola “no-nudity” di Sarah Jessica-Parker per Sex and the City e ora Divorce, l’analogo veto strappato da Emilia Clarke per Game of Thrones e il controllo totale su The Handmaid da parte di Elisabeth Moss non sono forse eccezioni che invalidano queste novelle, intime regole? Sopra tutto, esse sono estendibili alle nostre – il teatro con i sindacati di categoria e Federvivo s’è appena dato un codice di condotta – latitudini?

Per Antonietta De Lillo, regista e consigliere di Women in Film, Tv & Media, “il #MeToo è particolarmente scivoloso: curiosità, morbosità e aneddoti si sprecano, qui si parla di qualcosa già normato dai contratti”. Viceversa, “servono buon senso e buoni comportamenti per far fronte agli abusi, e i giudici siamo noi: non abbiamo bisogno di controllori e specialisti, bensì di autodisciplina”.

Agente tra i più affermati, Valentina Conti scava un solco “tra il nudity rider americano e la discrezionalità, in capo agli attori e a chi li rappresenta, nell’ambito italiano”. Quale caso limite cita lo scandaloso Antichrist, per cui Lars von Trier, “oltre all’abituale accordo di non divulgazione, richiedeva la piena accettazione e la non rinegoziazione del copione: un mio assistito – non vi dirò chi – si vide costretto a rifiutare la parte”. Se oggi i contratti, anche sulla scorta dell’affaire Fausto Brizzi, prevedono il licenziamento in tronco del regista coinvolto in casi di molestie, Conti non raccoglie l’exemplum dell’intimacy coordinator e punta il dito sulla “paranoia e la caccia alle streghe d’Oltreoceano: stanno esagerando”.

Pollice verso anche da Monica Stambrini, regista e già “ragazza del porno”: “Mi stupisce, anzi, no. Anche in ambito queer si sta barattando la libertà con il lavoro basato sul consenso, ma chi decide quale sia una rappresentazione adeguata della sessualità? Se le norme nascono in ambienti tradizionalmente anti-normativi, si va verso la distopia”. Detto che con alcune attrici s’è trovata “di fronte a blocchi, pudori, e dunque alla necessità del compromesso: con Valentina Nappi, invece, non ho avuto limiti”, Stambrini evidenzia il paradosso dell’intimacy coordinator: “Si sessualizza tutto, nel nome del controllo: è come girare con i legali tra i piedi”.

“Putin si crede Stalin, ma non sono gli anni 30”

Lo ripete dall’inizio alla fine dell’intervista: “Non posso rimanere in silenzio”. Aleksandr Gorbunov, il “troll” anti-Cremlino che ha nascosto la sua identità dietro l’avatar di “Stalin Gulag” fino a poche settimane fa, dà questa stessa risposta a domande diverse. Lo schermo di uno smartphone, una sedia a rotelle dove è costretto dall’atrofia muscolare spinale, i commenti sardonici alle scelte del governo che distruggono le vite di milioni di cittadini: lui è tutto questo. Con il solo dito che riesce a muovere, Gorbunov ha conquistato oltre un milione di russi.

Aleksandr, allora Stalin Gulag è lei. Perché questo nome di battaglia?

È una caricatura. Le autorità oggi amano proiettare un’immagine di sé che assomiglia a quella degli anni sovietici, ma questa è la Russia moderna, loro sono dei commercianti che pensano solo al proprio arricchimento. Anche loro sono una caricatura dei tempi di Stalin, ma non siamo più negli anni 30.

Prima che svelasse la sua identità, per alcuni Stalin Gulag era un troll della Cia o di Kiev. Come è cominciata?

Dieci anni fa ho aperto un account Twitter, nel 2013 mi sono iscritto a Telegram. Alla gente piaceva quello che scrivevo e condividevano i link. I lettori mi scrivono come è la loro vita, cosa accade nelle regioni in cui abitano.

Dal 2013 il flusso dell’account non si è mai interrotto, uno scacco matto digitale alle autorità che lei critica. Ha oltre un milione di follower, una cifra che non può vantare nemmeno la redattrice capo del colosso mediatico del Cremlino, Margherita Simonyan. Poi ha deciso di uscire dall’anonimato digitale ed è finito su “Esquire” e “New York Times”.

Ho deciso di dire a tutti chi ero quando la polizia ad aprile scorso ha bussato alla porta dei miei genitori chiedendo informazioni su di me e parlando di ‘terrorismo telefonico’. Al momento non è stato ancora aperto un fascicolo su di me.

Alla luce dell’accaduto, lo rifarebbe?

Ja ne mogu malchat, non posso rimanere in silenzio.

Ultimamente molti russi non lo fanno più, lo dimostra la protesta di Ekaterinburg.

Per ora sono conflitti locali, da un momento all’altro possono diventare politici.

Lei abita in un Paese in cui i giornalisti vengono uccisi, gli attivisti incarcerati. I suoi genitori e sua moglie temono per la sua vita.

Se tutti stanno zitti, la situazione diventa senza soluzione. La cosa giusta è raccontare, io sono solo un ragazzo che scrive. Si tratta di svoboda slova, libertà di parola.

Il governo sta limitando la libertà anche su Internet.

Per il momento esiste la nuova legge che riguarda il web, repressiva come tutte quelle emesse negli ultimi anni. Se la Russia passerà a una rete di internet domestico, l’operazione costerà miliardi, se funzionerà.

Dalle sanzioni alla riforma delle pensioni, fino allo scandalo del talent “The Voice”, dove ha vinto la figlia di un oligarca. Lei commenta tutto provocando sorrisi amari. Il suo sarcasmo corrosivo deriva dai grandi maestri della letteratura russa?

Il sarcasmo è un’arma, la reazione a quello che vedo. I miei scrittori preferiti sono Chekov e Nabokov.

I russi sono narcotizzati dalle notizie sempre favorevoli della propaganda o qualcuno cerca ancora la verità?

Esiste la realtà parallela della propaganda e la realtà che i russi vedono tutti i giorni nei negozi, dove i prezzi diventano sempre più alti. Corruzione diffusa, pensioni basse, arresti arbitrari della polizia. La situazione è peggiorata. Io sogno un futuro in cui in Russia ci saranno democrazia, diritti umani, libertà di parola.

E il suo, di futuro?

Loro non possono mostrarsi deboli con chi li critica, è difficile prevedere cosa mi accadrà. Sono qui e aspetto.

Lei ha 27 anni. Quando ne aveva 7 Putin è arrivato al potere. Se potesse fare una domanda ai suoi giornalisti “cheerleader”, ai politici a lui vicini o al presidente stesso, quale sarebbe?

Chiederei… ma voi davvero non vi siete ancora stancati?

Messico, i militari di Amlo non bastano: lunedì dazi

Il Messico allunga una mano, per cercare di strappare un accordo in extremis agli Stati Uniti. Ma Donald Trump vuole prendersi tutto il braccio: non gli basta che il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador schieri 6 mila soldati al confine meridionale con il Guatemala per impedire ai migranti che risalgono anche dall’Honduras di entrare nel Paese e da lì, dopo averlo attraversato da Sud a Nord, passare negli Stati Uniti.

Il governo messicano ha, inoltre, bloccato i conti bancari dei trafficanti e delle organizzazioni che organizzano le carovane di migranti dal Centro America. L’annuncio fatto dal ministro degli Esteri messicano Marcelo Ebrard non smuove la Casa Bianca. “La nostra posizione non è cambiata. I dazi entreranno in vigore lunedì”, dice Sarah Huckabee Sanders, la portavoce. Trump intende applicare dazi crescenti sull’export messicano (partendo dal 5 e salendo fino al 25 per cento), finché il Paese non arresterà il flusso di migranti dal Centro-America verso gli Usa. Ebrard è a Washington per negoziare e per impedire che gli Usa l’introduzione dei dazi, un’arma che l’Amministrazione Trump minaccia e maneggia con molta disinvoltura, verso i Paesi vicini e versi quelli europei, ma soprattutto nei confronti della Cina, incurante – o ignara? – dei contraccolpi che può subirne il commercio mondiale. Con la stessa facilità, il magnate presidente ripristina o impone sanzioni, da Cuba all’Iran, dal Venezuela alla Russia. Scelte muscolari che privilegiano sempre la prova di forza sulla ricerca di un compromesso.

La Casa Bianca ammette che le trattative con il Messico “hanno fatto molti progressi”, ma resta ancorata all’entrata in vigore delle tariffe: una misura necessaria, secondo Trump, che evoca “un’emergenza economica” dopo avere invocato, nei mesi scorsi, “un’emergenza di sicurezza” nazionale per finanziare senza l’avallo del Congresso l’erezione di un muro lungo il confine col Messico. Ostacolata da deputati e senatori (anche repubblicani) e bloccata a più riprese da giudici federali, che ne contestano la legittimità, la costruzione del muro procede a singhiozzo. Il presidente non demorde e, con i dazi sull’export messicano, intende attuare un’altra sua promessa elettorale rimasta finora lettera morta: che il muro lo avrebbero pagato non i contribuenti americani, ma i messicani – il perché non è mai stato chiaro –. Il fatto è che Trump è di nuovo in campagna elettorale: mancano più di 500 giorni all’Election Day 2020, ma il magnate tiene sulla corda la sua base con i cavalli di battaglia di Usa 2016, migranti e dazi, cioè, in uno slogan, ‘America first’. Nel voto di midterm dello scorso novembre, il mix ebbe scarso effetto: ma, invece di cambiare ricetta, Trump aumenta le dosi. Mescolando il sacro al profano, il diktat al Messico è partito dalla Normandia, dove il presidente celebrava il 75° anniversario dello Sbarco, ed è poi stato ripetuto sulla frontiera fra le due Irlande (come se ci fosse una qualsiasi somiglianza storica o geografica fra le due situazioni). Ma la stretta era già stata tratteggiata: i dazi saranno del 5 per cento da lunedì, saliranno al 10 dal 1° luglio e al 25 per cento entro ottobre. Un’escalation che, secondo le stime degli economisti, rischia di fare saltare almeno 400 mila posti di lavoro negli Stati Uniti, mettendo in difficoltà le economie degli Stati confinanti con il Messico, come il Texas e la California. E per le imprese Usa significano 34 miliardi di dollari in meno.