“È stato uno Stato”: la denuncia (anonima) degli Emirati all’Onu

Quando il 12 maggio scorso alcuni sommozzatori attaccarono con un sistema magnetico le cosiddette “mine patelle” agli scafi di quattro navi cisterne che stavano transitando nello Stretto di Hormuz – rotta cruciale per il trasporto del petrolio e del gas proveniente dai paesi del Golfo – per danneggiarle e provocare dispersione di greggio, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e gli Stati Uniti, loro potenti alleati, hanno subito sospettato che ci fosse lo zampino dell’Iran. Che peraltro ha un’équipe di subacquei molto preparata, inserita nelle file dei pasdaran. Il regime teocratico iraniano, seduto sulla sponda opposta dello Stretto è, del resto, il più acerrimo nemico dei sauditi e degli emiratini e, guarda caso, tre delle quattro imbarcazioni assaltate sono di proprietà di Ryad e Abu Dhabi (la quarta è norvegese).

A distanza di quasi un mese dall’attacco che ha fatto schizzare alle stelle la tensione tra le due potenze del Golfo e, di conseguenza, tra i loro alleati sullo scacchiere geopolitico, gli Emirati Arabi Uniti hanno dichiarato ieri durante una sessione a porte chiuse del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che dietro agli attacchi davanti alle loro coste si nasconde uno state actor, ovvero uno Stato. Secondo i relatori del rapporto, la tipologia del sabotaggio rivela “un’operazione sofisticata e coordinata” che solo una nazione con un esercito moderno e ben addestrato può aver ordinato.

Gli Emirati Arabi Uniti non hanno tuttavia messo nero su bianco chi fosse il mandante dei sabotaggi navali. Lo hanno fatto al loro posto gli Stati Uniti, ma Teheran continua a negare e ha addirittura chiesto un’indagine. Essendo molto facile accusare i pasdaran di tali gesta, è anche possibile però che gli autori siano coloro che vorrebbero far scoppiare una guerra diretta tra Arabia Saudita e Iran. Il presidente Trump e il premier israeliano uscente Netanyahu non hanno mai nascosto il desiderio di veder capitolare il clan degli ayatollah iraniani. Un regime spietato tanto quanto quello saudita. Secondo l’indagine condotta dagli Eau, “gli attacchi sono stati realizzati da esperti di navigazione su barche veloci e in grado di introdursi nelle acque territoriali degli Emirati Arabi Uniti”.

Gli Emirati hanno fatto sapere di “non voler assistere a una guerra” in Medio Oriente, ma chiedono all’Iran di “cambiare comportamento”. Lo ha dichiarato il ministro di Stato emiratino per gli Affari Esteri, Anwar Gargash, nel corso di un’intervista rilasciata a The National a margine di una conferenza sulla sicurezza a Bratislava. Per fermare l’“escalation in corso nella regione” c’è bisogno di “saggezza” e “pazienza”, ha notato Gargash, secondo il quale “evidentemente non vogliamo assistere a una guerra che l’intera regione pagherebbe a caro prezzo”. Ha poi aggiunto: “Allo stesso tempo siamo piuttosto irremovibili sul fatto che il comportamento dell’Iran debba essere migliorato, debba cambiare, perché chiaramente gli ultimi anni sono stati estremamente difficili per le politiche che l’Iran ha messo in atto”. Queste accuse non sono nuove in quanto tali, ma sono maturate in un contesto diverso, non fosse altro che per il cambiamento a 360 gradi nei confronti di Teheran imposto agli Usa dall’Amministrazione Trump con la fuoriuscita degli Stati Uniti dal trattato sul nucleare e l’imposizione di nuove pesanti sanzioni che devono essere rispettate anche da tutti i Paesi che commerciano e importano petrolio dall’Iran. Ma l’escalation è iniziata proprio poco prima degli attacchi alle navi. Questi sono stati realizzati pochi giorni dopo l’invio di navi da guerra e bombardieri americani nella regione in risposta a quello che la Casa Bianca ha definito un piano, non specificato dell’Iran per attaccare le forze statunitensi nell’area.

Mentre non è chiaro il motivo per cui l’Iran avrebbe compiuto un attacco di livello relativamente basso contro le petroliere, gli osservatori hanno ipotizzato che potrebbe essere stato un segnale indirizzato ai nemici per dimostrare che se Teheran vuole, può mettere in crisi il commercio mondiale di petrolio. Rispondendo al rapporto degli Emirati Arabi Uniti, l’ambasciatore saudita all’Onu, Abdallah Y al-Mouallimi, ha affermato che il regno ritiene “che la responsabilità di questa azione ricada sulle spalle dell’Iran. Non esitiamo a rilasciare questa dichiarazione”. E a proposito dei rapporti sempre più stretti tra l’amministrazione Trump e la casa reale saudita, nonostante i bombardamenti indiscriminati dell’aviazione di Ryad contro scuole e ospedali nella zona sciita dello Yemen, gli Usa hanno deciso di accelerare la vendita di nuovi stock di armi americane all’Arabia Saudita e di permetterle l’accesso a tecnologie che le serviranno per produrre le proprie versioni di bombe teleguidate. L’autorizzazione consente alla Raytheon Company, una delle principali società di difesa americane, di collaborare con i sauditi per costruire parti di bomba ad alta tecnologia in Arabia Saudita. Questa disposizione, non riportata in precedenza, fa parte di un ampio pacchetto di informazioni dell’amministrazione al Congresso.

“Come fu che Martin Heidegger studiò la mia tesi di laurea”

Nei Pensieri Leopardi – che in questa casa è così di casa da avere una stanza a lui solo dedicata – spiega: “Quasi tutti i grandi uomini sono modesti, perché si paragonano continuamente, non cogli altri, ma con quell’idea del perfetto che hanno dinnanzi allo spirito”. L’infinito compie 200 anni, splendidamente portati; il nostro ospite, che tanto si è occupato di eterno, non è da meno, avendo da poco oltrepassato il ragguardevole traguardo dei 90 anni. Per festeggiare Emanuele Severino alcuni dei suoi allievi, tra cui Ines Testoni e Giulio Goggi, hanno organizzato un convegno a Brescia (dal 13 al 15 giugno) sui rapporti tra il filosofo bresciano e Martin Heidegger. Il padre di Essere e tempo ha riflettuto sul pensiero di Severino dalla fine degli anni Cinquanta: una prima nota reca la data 1958, altre risalgono alla fine degli anni Sessanta. Ma tutto comincia nel 1948 quando il giovanissimo Emanuele mette mano alla sua tesi di laurea. Titolo: Heidegger e la metafisica. Lavoro che viene subito pubblicato e che il “il pastore dell’essere” leggerà anni dopo: ed è qui che ci mette lo zampino la leopardiana modestia di cui sopra.

Professore, perché non ha mandato a Heidegger la sua tesi?

Ero un ragazzo, per carattere non sono uno che si promuove. Erano anche altri tempi, non usava.

A quei tempi il filosofo tedesco era poco conosciuto in Italia.

Non conosciuto come meritava. A 19 anni ho dovuto fare i conti con Sein und Zeit. Il tedesco lo conoscevo perché al liceo andavo a lezione di tedesco da un gesuita: Padre Auer. E Padre Auer conosceva Hitler. Ricordo che mi raccontava i contorcimenti di Hitler quando le cose non andavano come voleva lui.

Come ha fatto a prendere la libera docenza a 21 anni?

Mi sono laureato giovane, avevo saltato la prima liceo. Dopo la guerra c’era voglia di fare tutto subito. Nell’inverno del 1950 Esterina, che l’anno dopo sarebbe diventata mia moglie, vide sul Corriere una noticina in cui si diceva che quell’anno poteva partecipare al concorso di libera docenza anche chi era laureato da meno di cinque anni. Io avevo pubblicato il libro su Heidegger e durante l’università anche Note sul Problematicismo italiano. E quel peccato di gioventù che era La coscienza. Pensieri per un’Antifilosofia…

Stiamo sempre parlando di un ragazzo di diciannove anni…

No, lì ne avevo tre di meno, ne avevo sedici e mezzo.

Quando ha deciso di studiare filosofia?

Mio fratello, morto alpino nell’ultima guerra, era normalista a Pisa e aveva come docenti Gentile, Carlini Russo e Calogero. A casa parlava dei suoi studi, io lo adoravo. Quindi direi che il mio primo contatto con la filosofia è stato con quanto mio fratello diceva di Gentile e che mi sembrava estremamente intelligente, anche se capivo poco.

Era un bimbo!

Sì, sì, ero un bimbo. Intuivo che poi, quando sarei andato al liceo, avrei capito di più. Ma quando dovetti decidere cosa fare ero indeciso tra fisica, matematica e filosofia.

Si sa com’è andata… Torniamo a Heidegger: come sappiamo che legge la sua tesi nel ‘58?

In occasione del convegno di Brescia mi ha scritto Friedrich-Wilhelm von Herrmann, illustre cattedratico dell’Università di Friburgo, e di cui è assistente il professor Francesco Alfieri dell’Università lateranense, che possiede le chiavi dell’archivio e di queste note inedite di Heidegger che saranno pubblicate. In questa lettera spiega – le leggo – che il mio nome era “costantemente presente nella mente di Martin Heidegger”, quando negli anni Sessanta lui era l’assistente di Eugen Fink prima e dello stesso Heidegger poi. “Durante i suoi incontri con il fratello Fritz, Heidegger parlava spesso di Emanuele Severino e anche il figlio di Fritz, il reverendo Heinrich Heidegger, ricorda molto precisamente quelle menzioni, perché partecipava spesso agli incontri tra i due fratelli”.

Nella lettera von Herrmann le scrive: “La sua lettura autonoma di Heidegger e la fluidità del percorso delle sue ricerche fanno di lei un maestro”.

Molto lusinghiero.

Decisamente: al convegno le consegneranno perfino la traduzione di una sua opera in cinese. Ma andiamo avanti: anche il nipote di Heidegger le ha scritto una lettera molto affettuosa in cui racconta di come zio Martin parlava di lei, di quanto era impressionato dal modo in cui lei interpretava i suoi testi.

Dice che anche il padre Fritz, che aiutava il fratello trascrivendo a macchina i suoi manoscritti, ripeteva spesso il mio nome.

“Spero – aggiunge il reverendo Heidegger – che Lei un giorno verrà a trovarmi qui a Meßkirch”. Ci andrà?

No: io ho appena compiuto 90 anni, e lui ha la mia stessa età. Gli ho risposto così: “Caro reverendo, grazie per l’invito ma credo che sarà difficile, comunque ci incontreremo… in quella che io chiamo Gioia”. Gioia è quello che si apre con la morte, morire vuol dire entrare nella Gioia.

Si è fatto un’idea del perché Heidegger è stato colpito dalla Sua interpretazione?

Ho studiato a Pavia, con un grande maestro, Gustavo Bontadini. Il quale aveva interpretato Gentile non come chiusura alla metafisica classica, ma come un pensatore che indipendentemente dalle sue convinzioni apriva la porta a tale metafisica. Ho creduto in quel periodo che lo si dovesse dire in modo ancora più adeguato di Heidegger; cioè che anche Heidegger non fosse da intendere come un filosofo che, alla Nietzsche, afferma la morte di Dio, ma come un filosofo che – lo dice esplicitamente, ad esempio, in Essere e Tempo – intende indagare la base a partire dalla quale si può costruire una metafisica.

Torniamo a Gentile, un filosofo che l’ha influenzata moltissimo: quanto lo ha danneggiato l’adesione al fascismo?

Immensamente, è stata un pretesto per non studiarlo. Intanto diciamo che era il fascismo a essere gentiliano: quando pensava, il fascismo, pensava attraverso Gentile. Faceva, anche, e purtroppo faceva male. Ma quando si metteva sul piano culturale, l’orizzonte era Gentile. È Gentile che ha scritto la voce “Fascismo” sulla Treccani. Gentile è pressoché ignoto nel mondo anglosassone: c’è un motivo. Abbiamo perduto una guerra in un modo indecente. Abbiamo avuto il Partito Comunista più forte dell’Occidente, infastidendo notevolmente il mondo capitalistico. Tutti questi sono fattori che ci hanno resi antipatici al resto del mondo.

Anche su Heidegger ha pesato la macchia dell’antisemitismo e del nazionalsocialismo.

Il fascismo è stato un pretesto per non studiare all’estero l’italiano Gentile, ma non ha impedito l’affermazione internazionale del tedesco Heidegger. Era un tedesco e i tedeschi contano di più all’estero degli italiani.

La “moda” politicamente corretta per cui non bisogna studiare un filosofo perché fascista, o non leggere Céline per le stesse ragioni, che fondamento ha?

Mi sembra una sciocchezza. Quando Heidegger scrive quelle frasi antisemite, le scrive nel contesto di una critica all’intero atteggiamento metafisico quale si è andato di fatto realizzando, e che invece egli vuole ripensare. Le critiche che rivolge agli ebrei son le stesse che rivolge al cristianesimo, ad Aristotele, alla tecnica moderna, alla dimenticanza dell’“Essere”. E quindi non è che sia caratterizzato dal suo antisemitismo. Così come nel mio discorso filosofico non è che l’avversario sia il cristianesimo: il cristianesimo appartiene a una dimensione in cui i vari protagonisti hanno in comune qualche cosa di essenziale, cioè la fede nel diventare altro delle cose, la fede nella storicità delle cose del mondo.

Secondo lei perché questi tabù si ripresentano periodicamente come stigma? Volersi rifare una verginità storica, facendo finta per esempio che tutta la colpa sia stata del duce e del re, è un modo per non fare i conti con il passato e per legittimare il “fascismo eterno” di Eco. Ma non ogni forma di intolleranza è fascismo.

Certo. Ma non parlerei di periodicità. Il nostro è un tempo interessante anche perché è un unicum. Stiamo abbandonando la tradizione. Ma la tecnica destinata al dominio non si è ancora fatta innanzi. In questa fase intermedia anche il livello di intelligenza della gente ne risente. Nel Settecento i servi origliavano alla porta delle sale dei padroni dove si eseguivano Mozart e Haydn. Stavano lì a sentire. Se adesso pensiamo che il corrispettivo di Mozart e di Haydn è la musica pop e che la gente va in estasi per la musica pop, ecco, è accaduto qualcosa di profondo. Certo, le condizioni di vita del servo del Settecento erano pessime, ma allora anche i re, se avevano mal di denti, non se la passavano bene. Però l’abbandono della tradizione, di quella tradizione che può dire alla tecnica “guarda che tu non puoi fare tutto quello che sei capace di fare”, provoca uno stato di decadenza e di smarrimento che giustifica anche i fenomeni di cui parlava lei. La superficialità del nostro tempo ha ragioni profonde.

Resta il fatto che una parte di opinione pubblica ritiene che si prospetti un regime parafascista. Ma un fenomeno storico può essere utilizzato come contenitore di tutte le malvagità? Qualunque, anche eventuale, restrizione di libertà si può dire fascismo?

Ha detto una cosa molto interessante. Vorrei osservare che il mondo diventa sempre più pericoloso per i popoli ricchi perché i poveri vogliono vivere, vogliono mangiare e quindi tendono ad andare dove ci sono risorse e benessere. Questo è in qualche modo inevitabile dal punto di vista dei popoli poveri, ma è altrettanto inevitabile che i popoli ricchi si sentano minacciati nei loro privilegi e che mettano sbarramenti, e quindi limitazioni alle libertà che, per esempio, renderebbero più agevole un fenomeno come l’immigrazione. È inevitabile che si vada verso una restrizione della libertà. È però inevitabile che non si vada verso una restrizione di tipo politico ma verso una restrizione di tipo tecnico-razionale della libertà; e altro è un dittatore politico, altro è una dittatura della ragione scientifica, la quale pensa soprattutto all’incremento della potenza come tale, e non al potenziamento di una casta o di un’ideologia .

La domanda riguardava i fenomeni storici: si ripresentano, sono reiterabili, semplicemente perché se ne ravvisano alcune tracce? Lei vede similitudini con la Germania di Weimar o l’Italia pre-mussoliniana?

Anch’io parlavo di un grande fenomeno storico, che è il contenitore di quelli più particolari e per il quale è fuori luogo parlare di analogie con la Germania di Weimar o con l’Italia pre-mussoliniana. Ho scritto da qualche parte che la politica vincente è quella che si rende conto della fine della politica. Ora una delle forme più invasive della politica, in cui la politica è strapotente rispetto a una politica di tipo democratico, è proprio la politica delle dittature, come quella fascista o nazionalsocialista. Se e poiché si sta andando verso il tempo della dominazione della tecnica, allora un atteggiamento politico che non veda questa destinazione della tecnica al dominio e invece rafforzi il carattere politico del proprio agire è destinato al fallimento. Sarebbe come se ci si trovasse su un treno che va a Roma e sul treno ci fossero dei passeggeri che credono di stare andando a Berlino. Credo di essere uno dei pochi, oggi, che considera criticamente la politica, perché in genere prevale un’ansia di rivendicare il carattere autenticamente politico rispetto alle sue degenerazioni totalitarie. Laddove no, è la politica in quanto tale a esser destinata al tramonto.

Lei ha detto al premier Conte, che è venuto qui a trovarla, “io ritengo che il suo governo sia di fatto un governo tecnico”. Lui non era molto d’accordo, in effetti.

Ma dopo il suo messaggio alla stampa del 4 giugno si è abbondantemente parlato del carattere tecnico della sua presidenza! Quando ci incontrammo qui a casa mia, egli per “governo tecnico” intendeva un governo come quelli che ci sono stati in Europa e in Italia (cioè governi pur sempre inscritti nel sistema capitalistico), mentre io intendevo che quei governi erano e sono un vago presagio della gestione tecno-scientifica della società. In altri termini, quando parlo di destinazione della tecnica al dominio non mi riferisco alla necessità che in futuro vi siano governi alla Monti. La tecnica del futuro destinata a prevalere è una tecnica che sente la voce della filosofia del nostro tempo, la quale dice: non esistono assoluti, dimensioni eterne, quindi non esistono limiti all’azione, e pertanto tu, tecnica, puoi andare avanti senza inchinarti alla saggezza tradizionale, che invece mette in guardia ammonendo che non tutto quello che si può fare è lecito fare. Oggi, invece, la tecnica domina ancora soltanto di fatto, non di diritto: la sua potenza è soltanto una pre-potenza.

La scienza triste, l’economia, ha un’importanza enorme nelle nostre vite e nel dibattito pubblico. Le nozioni economiche sono un nuovo vangelo e spesso sono utilizzate come una clava sul cittadino che non ha strumenti. Forse è già successo che la tecnica domina.

Oggi non è la tecnica a dominare, ma, come dicevo, è l’economia capitalistica che si serve della tecnica. La tecnica destinata al dominio è invece quella che, avendo come scopo l’aumento indefinito della potenza, si serve dell’economia, e può servirsi anche dell’economia capitalistica. In Cina si sono incamminati in questa direzione. Ma attenzione: nemmeno l’autentica dominazione della tecnica ha l’ultima parola.

Il trucco dei best seller per finanziare l’anti-Papa

Robert Sarah è un cardinale africano dal doppio volto. A Roma lavora per Papa Francesco: è alla testa della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Ma in Francia, dove pubblica i suoi libri, è uno dei più implacabili oppositori delle idee del pontefice. Le sue opere sono finanziate dall’estrema destra americana e il cardinale è diventato la figura di riferimento degli anti-Francesco. I suoi sostenitori vogliono una sola cosa: la caduta e le dimissioni del papa. Tutto comincia con una serie di tre libri, l’ultimo è appena uscito in francese: Le Soir approche et déjà le jour baisse (“La sera si avvicina e il giorno sta finendo”, edizioni Fayard). Secondo il giornale La Croix, queste opere sono “noiose” ma ottengono un certo successo tra l’estrema destra cattolica francese, quella dei lefebvriani o dei circoli islamofobi.

I tre libri sono stati pubblicati da Fayard e scritti con Nicolas Diat, figura controversa del cattolicesimo francese. Diat è l’editore di libri sulfurei come quello di un generale dell’esercito che critica il presidente Emmanuel Macron o quello di un politico dell’ultradestra, Philippe de Villiers (quest’ultimo è stato stroncato dai giornali per plagi e inesattezze). Diat è stato anche consigliere di Laurent Wauquiez, il presidente del partito di Nicolas Sarkozy, Les Républicains.

Il misterioso successo editoriale di Sarah si spiega guardando al network che lo sostiene. A cominciare dai media. Gli addetti stampa di Sarah (gli stessi di Philippe de Villier e di Nicolas Diat) sono legati all’Opus Dei o al movimento contro i matrimoni gay “La Manif pour tous”. La promozione dei libri di Sarah ha goduto anche del sostegno del nunzio vaticano a Parigi, Luigi Ventura, tuttora connesso ai gruppi più estremisti della Chiesa cattolica, come l’Opus Dei, i legionari di Cristo o il giro del prete pedofilo Fernando Karadima in Cile. Ma Ventura oggi accusa il colpo delle quattro denunce per aggressione, molestie o abusi sessuali da parte di alcuni ragazzi (rivelati da Le Monde) e la giustizia francese chiede al Vaticano di revocargli l’immunità diplomatica. Sarah, che ha vissuto presso il nunzio, ora dovrà evitarlo. Molti dei giornalisti che scrivono recensioni favorevoli ai libri di Sarah sono vicini a Marine Le Pen o a Marion Maréchal Le Pen (su testate come Valeurs actuelles, L’Homme nouveau, La Nef o l’ala destra di Figaro Magazine).

Sarah, 79 anni, della Guinea, già si immagina come il primo “Papa nero”. E sfruttando le proprie origini africane, concede spesso interviste contro l’accoglienza dei migranti in modo da contestare frontalmente il messaggio del Papa senza poter essere però accusato di razzismo. Il suo coautore Nicolas Diat, nel corso di una colazione a Parigi, spiega: “Il cardinale Sarah non è un traditore, come qualcuno vuole presentarlo, ma un conservatore. Prima di tutto è un capo tribale, non bisogna dimenticarlo, ma anche un santo dotato di grande compassione”.

Un influente teologo francese che vive a Roma spiega però che “Sarah è un teologo di bassa qualità, il suo approccio è puerile: ‘prego quindi conosco’ e abusa del principio di autorità”.

Diat vuole accreditare l’immagine di Sarah come di “uno degli uomini più vicini al Papa”. Ma il cardinale si oppone a Francesco su tutti i fronti: immigrazione, cristiani d’Oriente, teologia della liberazione, comunismo, Aids, omosessualità, famiglia, ambiente, povertà. Nel 2015 Sarah ha pronunciato un discorso sulla “bestia dell’Apocalisse” pronta a distruggere la Chiesa. Si riferiva alla “ideologia del gender”, delle unioni omosessuali e delle coppie gay. La minaccia Lgbt per Sarah è allo stesso livello del terrorismo islamico Il cardinale Sarah, omofobo in pubblico, in privato è circondato da vari omosessuali, il più noto dei quali è Luigi Ventura, il nunzio vaticano a Parigi.

Il “papa nero” è stato attaccato dalle teologhe per alcune sue dichiarazioni più recenti sulla possibilità di ordinare preti anche le donne: “Non succederà mai nella Chiesa cattolica, neppure se tutti i preti del mondo dovessero estinguersi, e questo non per demerito delle donne, ma perché è la volontà di Dio”.

La celebre teologa Christine Pedotti protesta: “È falso che sia stato Gesù a decidere l’esclusione delle donne dal clero. Anzi, al contrario, Gesù si opponeva al clero della sua epoca e proprio questo ha contribuito alla sua condanna. I preti cristiani sono una tradizione della Chiesa che risale al secondo secolo, ma ciò che la Chiesa ha stabilito, la Chiesa può modificare: nel 2019 escludere le donne dal sacerdozio in nome di Dio significa insultare, Dio, le donne e l’intelligenza”.

Sarah e Diat dicono che i libri pubblicati da Fayat hanno successo. Ma è difficile credere che siano “best-seller a sorpresa da 250.000 copie”, come si legge su qualche giornale (numeri forniti dallo stesso Diat). In realtà Dieu ou rien ha venduto solo 17.466 copie nella prima edizione, La Force du silence 32.320, nonostante la prefazione di Benedetto XVI (cifre GFK, marzo 2019. Ottimi risultati, ma di proporzioni diverse da quelli annunciati. Come si spiega allora quel dato delle “250.000 copie”? Secondo tre fonti diverse vicine al dossier, più di 100.000 copie sono state comprate all’ingrosso da mecenati e fondazioni per distribuirli gratuitamente in Africa. Un bel vantaggio anche per il cardinale Sarah, che ha diritto alla sua percentuale sul prezzo di copertina. Fonti diplomatiche dicono che poi questi volumi vengono effettivamente distribuiti in Africa, in Paesi come il Benin. Io stesso ho visto in un centro culturale francese pile di centinaia di volumi di Sarah. Interpellata sul punto, l’amministratrice delegata di Fayard, Sophie de Closets, smentisce con un sorriso e spiega che le sarebbe molto piaciuto avere quel tipo di vendite all’ingrosso che, in ogni caso, sono perfettamente legali.

Chi sostiene le attività, anche editoriali di Sarah e Nicolas Diat? Di sicuro Sarah ha rapporti con varie organizzazioni ultraconservatrici come Dignitatis Humanæ Institute legata a Steve Bannon, l’ex consigliere di Donald Trump (lo conferma il direttore, Benjamin Harnwell). Negli Stati Uniti Sarah ha poi legami con tre fondazioni: la Becket Fund of Religious Liberty, i Cavalieri di Colombo e la National Catholic Prayer Breakfast. In Europa invece ha rapporti con l’associazione di Marguerite Peeters, una militante estremista belga, anti-gay e anti-femminista (Sarah ha anche firmato la prefazione a un suo libro contro le teorie di genere).

Sono queste organizzazioni gli acquirenti misteriosi del libro di Sarah? Almeno i Cavalieri di Colombo confermano un acquisto in blocco: “Nel 2015 abbiamo comprato da Fayard 10.000 libri di Sarah in francese per distribuirli in Africa, il continente d’origine del cardinale”, spiega un portavoce dagli Stati Uniti.

Il cardinale Sarah è dunque il terminale di una rete che vuole far cadere Papa Francesco ed è finanziato dall’estrema destra cattolica, anche grazie all’acquisto dei suoi libri.

Muore a 15 anni: tuffo per festeggiare la fine della scuola

Un ragazzo di soli 15 anni è morto nelle acque del lago di Como. Si è lanciato dal pontile davanti a Villa Geno.

Voleva festeggiare la fine della scuola insieme ai suoi compagni. Si è tuffato in acqua ma non è più riemerso. È stato quindi necessario l’intervento dei sommozzatori dei vigili del fuoco, subito dopo la rianimazione dei soccorritori e l’immediato trasferimento in eliambulanza all’ospedale di Bergamo. Il ragazzo è spirato dopo poco. Doveva essere un giorno di festa e allegria per il gruppo di studenti invece si è trasformato in una tragedia davanti ai loro stessi occhi.

Il compagno di classe è stato ripescato a dieci metri di profondità dopo circa mezzora di ricerche. A nulla è servito l’avviso di divieto di balneazione.

È risaputo della pericolosità in quel particolare punto del bacino lacustre. Il pontile viene comunemente e con troppa frequenza utilizzato come trampolino di lancio nel Lario.

Due morti in soli due anni: entrambi giovanissimi.

La Corte d’appello non deposita le motivazioni della condanna, Graziano Mesina torna in libertà

Graziano Mesina, l’ex primula rossa del banditismo sardo in carcere a Nuoro per traffico internazionale di droga, è stato scarcerato per decorrenza dei termini: le motivazioni della sentenza d’appello, infatti, non sono ancora state depositate, facendo dunque decadere la misura cautelare. Arrestato 6 anni fa perché ritenuto a capo di un organizzazione che – secondo gli inquirenti – avrebbe progettato anche sequestri di persona, Mesina era stato condannato a 30 anni nel processo d’appello svoltosi a Cagliari nel 2018. Con l’arresto nel 2016 gli era stata revocata la grazia, concessagli dall’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel 2004 grazie alla sua mediazione per la liberazione del piccolo Farouk Kassam, figlio del gestore di un grande albergo di Porto Cervo, rapito in Sardegna nel 1992. A 77 anni, Grazianeddu – che ha passato in carcere 40 anni della sua vita – torna dunque un uomo libero.

Nato a Orgosolo nel 1942, arrestato per la prima volta nel 1956, Mesina è stato insieme al fratello Nicola (ucciso il 13 maggio 1976) uno dei principali esponenti del banditismo sardo nel Novecento, coinvolto a partire dalla metà degli anni Sessanta in numerosi crimini che gli erano costati l’ergastolo. Fu anche protagonista anche di innumerevoli evasioni, l’ultima nel 1984. Mesina ha lasciato ieri pomeriggio il carcere di Badu ‘e Carros accompagnato dalle sue avvocate, Maria Luisa Venier e Beatrice Goddi.

“E’ tutto cambiato in sei anni. Stavo andando alla vecchia caserma, anche quella è nuova”, ha detto con un sorriso Graziano Mesina prima di entrare nella nuova sede che ospita la stazione dei carabinieri di Orgosolo (Nuoro), inaugurata a fine maggio. Dopo aver lasciato il carcere, Mesina è arrivato nel suo paese natio alle 17.30. Per l’ex bandito, in attesa della sentenza definitiva della Cassazione, è stato disposto l’obbligo di firma giornaliero e non potrà uscire dalla propria abitazione dalle 22 alle 6.

Scende di casa per difendere il negozio e uccide un ladro: “Legittima difesa da valutare”

Dal 2004 al 2014 aveva subito sette furti. Ieri notte intorno alle tre, quando ha sentito l’allarme della tabaccheria, il titolare ha preso la sua pistola, regolarmente detenuta, ed è sceso di casa per andare in negozio, che sta al piano terra sotto la sua abitazione. Davanti a sé ha trovato tre uomini incappucciati. Ha sparato sette colpi e ha ucciso un uomo colpendolo al petto, mentre gli altri due complici scappavano portando via una macchina cambiasoldi con all’interno circa duemila euro.

È successo a Pavone Canavese, a pochi chilometri da Ivrea (Torino). Il protagonista si chiama Marcellino Iachi Bovin, detto Franco, e ha 67 anni. La vittima è un 25enne moldavo incensurato e disarmato. Il procuratore di Ivrea Giuseppe Ferrando e il sostituto Giuseppe Drammis hanno dovuto iscrivere nel registro degli indagati il 67enne accusandolo di eccesso colposo di legittima difesa, un provvedimento preso per poter garantirgli il diritto alla difesa e la nomina di un avvocato: “Per capire se si applica la nuova legge sulla legittima difesa o no dobbiamo innanzitutto capire come si sono svolti i fatti”, ha sottolineato Ferrando.

La polizia ha eseguito i rilievi e dovrà svolgere le analisi su proiettili e traiettoria. “Dobbiamo anche tenere conto dello stato d’animo”, ha aggiunto il pm. Bovin, assistito dall’avvocato Sara Rore Lazzaro, ieri non ha risposto ai magistrati: “Siamo rimasti d’accordo che la prossima settimana ci spiegherà come sono andate le cose”, ha concluso Ferrando. “Totale solidarietà al tabaccaio – ha scritto sui social il ministro dell’Interno Matteo Salvini ieri mattina –. Spero possa fruire della nuova legge”. Nel pomeriggio il capo del Viminale ha poi aggiunto che “se invece di fare il rapinatore questa persona avesse fatto un mestiere onesto, oggi staremmo parlando di altro”.

Non è un paese per tosaerba. La multinazionale svedese Husqvarna lascia l’Italia

Alla lista di multinazionali pronte a chiudere fabbriche in Italia si è appena aggiunta la svedese Husqvarna. L’azienda di attrezzi da giardinaggio licenzierà 81 operai a Valmadrera (Lecco). In quel sito, dove fino al 2009 lavoravano 190 persone, resteranno solo 21 addetti al reparto commerciale. Quelli impegnati nella produzione andranno a casa nel giro di poche settimane, salvo che la cassa integrazione straordinaria non permetta di rimandare di un anno e nel frattempo cercare soluzioni.

Che quello stabilimento avesse prospettive incerte era chiaro da tempo. La Husqvarna lo ha rilevato nel 1999, acquisendo il marchio McCulloch, ma nel 2009 ha ridotto la produzione: ha mantenuto a Valmadrera solo le linee dei tosaerba, rimuovendo le altre. I dipendenti si sono progressivamente ridotti fino ad arrivare agli attuali 102. Questi, tra l’altro, erano tenuti a riposo forzato per almeno tre mesi all’anno: “A seconda degli ordinativi – spiega Fabio Anghileri della Fiom Lecco – si lavorava al massimo tra ottobre e luglio, otto o nove mesi. Nei periodi di fermo erano in cassa integrazione ordinaria. Abbiamo sempre chiesto, invano, di portare nuove produzioni”.

La casa madre però ha deciso di far finire questo perenne singhiozzo smobilitando definitivamente. “Prima hanno detto che hanno chiuso fabbriche in America e in Polonia – aggiunge Anghileri – e che a Valmadrera avrebbero tagliato il 50%. Poi hanno avviato il licenziamento per quasi tutti”. La Husqvarna ha fatto sapere di essere in contatto con una società interessata a rilevare lo stabilimento. I sindacati vogliono che il ministero del Lavoro attivi la cassa integrazione straordinaria per concedere un anno di tempo alle trattative. “Speriamo sia possibile – conclude il sindacalista Fiom – e che con tutte le grosse crisi in atto ci siano risorse anche per questa”.

Anche gli altri sforano: lite Austria-Italia su chi deve pagare gli 80 milioni extra

Anche gli austriaci sforano. E non di poco: 80 milioni. La lievitazione dei costi delle grandi opere non è una specialità solo italiana. Ci voleva il tunnel del Brennero per scoprirlo. Così, coperto da centinaia di metri di roccia, sta covando un conflitto tra Austria e Italia. Oggetto: gli extra-costi richiesti nel 2017 dalle imprese di entrambi i paesi per realizzare lavori non previsti. Si dirà: sono meno di cento milioni, su un’opera da 8,38 miliardi (da completare nel 2027).

Da Fortezza a Tulfes (Innsbruck) sono 64 chilometri, ma bisogna contare un tunnel per ogni direzione, la galleria di servizio e vari tunnel ausiliari. Totale: 230 chilometri. Strada facendo, però, sono stati necessari lavori extra-capitolato: in uno dei quattro cantieri (tra Tulfes e Pfons, 380 milioni) si è dovuto realizzare un incrocio, perché in Austria e in Italia il senso di marcia non è lo stesso. Difficoltà tecniche, ma anche burocratiche: a guidare i lavori è un organismo – il Bbt, Brenner Basis Tunnel – che raggruppa i due paesi, mentre il consorzio impegnato vede coinvolti i colossi Strabag (Austria) e Salini Impregilo (Italia). Ed eccoci al punto: le imprese da tempo chiedono che siano pagati 80 milioni per lavori compiuti in territorio austriaco. Ma le due teste della Btt non riescono a mettersi d’accordo. L’Austria punta il dito sulle nostre procedure di approvazione dei lavori che sarebbero lente e farraginose. Dall’altra parte del confine invece si risponde che i lavori extra sarebbero stati approvati soltanto dagli austriaci.

Le imprese premono, Vienna protesta, Roma risponde picche. Si sta anche lavorando per arrivare a una modifica dello statuto Btt per snellire le procedure. Ma il nodo resterebbe, perché le opere sono soggette alla vecchia disciplina. E il conto per i due paesi rischia di essere salato, perché l’Europa – che finanzia il 50% dell’opera – non paga i lavori extracapitolato.

Chi ha fatto la frittata? “Il problema doveva prima o poi emergere”, storcono la bocca sul versante italiano, dove il governo austriaco è accusato da tempo di voler fare la parte del leone.

La questione non pare più soltanto tecnica, ma anche di potere. Adesso la parola, come ha scritto il Corriere dell’Alto Adige, passa al consiglio di sorveglianza Btt che dovrà stabilire chi dei due amministratori abbia ragione. Se l’italiano Raffaele Zurlo o l’austriaco Konrad Bergmeister. Una figura cui non mancano la competenza, né il sostegno politico altoatesino (e le poltrone). Luis Durnwalder (storico leader Svp) lo aveva immaginato come suo successore alla Provincia di Bolzano. Bergmeister, titolare di un grande studio ingegneristico, oltre a sedere in Btt è presidente della fondazione Sparkasse, la banca dell’Alto Adige. Ma le cronache ricordano che è stato presidente dell’università di Bolzano e direttore dell’autostrada del Brennero. Erano stati Paul Köllensperger (ex M5S, oggi consigliere provinciale con una propria lista) e Riccardo Fraccaro (oggi ministro M5S) a sollevare una questione di opportunità: “Lo studio Bergmeister tra il giugno 2001 e il gennaio 2014 ha ricevuto 4,17 milioni di incarichi dalla ripartizione provinciale Strade e infrastrutture. In tutto 69 incarichi”.

Columbro, gli alieni e i reduci degli anni 80

Con Cesare Battisti si spera conclusa la processione dei reduci degli anni 70, ma ecco gonfiarsi una nuova onda, quella dei reduci degli anni 80, il giardino dell’Eden della videocrazia. Non più tetri figuri di piombo, ma figurine placcate oro come i 13 Telegatti 13 vinti da Marco Columbro, un tempo conduttore di successo, oggi ufologo di chiara fama, eppure in odore di guai economici. Ognuno di questi reduci gestisce il declino a modo suo; qualcuno va all’Isola dei famosi e tira qualche moccolo, come Marco Predolin; qualcun altro, come Claudio Lippi, racconta le sue sfighe dalla D’Urso, che non aspetta altro. C’è chi salta sul carro della politica, come Lorella Cuccarini, un tempo sovrana delle cucine Scavolini. Detronizzata da Carlo Cracco, Lorella ha dichiarato “Resto la più sovranista degli italiani”, suscitando il plauso di Matteo Salvini.

Ma il reduce del giorno, si diceva, è il compagno della Cuccarini di tanti show Marco Columbro. In un’intervista al Corriere della Sera, pur smentendo di essere in difficoltà, ha confermato che la sua villa di Milano 3 è stata appena rilevata da Silvio Berlusconi. Gratitudine come nel caso delle olgettine? Solidarietà tra cavalieri? (Columbro, fa sapere, in una vita precedente è stato templare). Voglia di tenersi buoni gli alieni? Parlando di B., un’ipotesi non esclude l’altra. Certo, stavolta i venusiani si sono dati, Milano 3 non deve essere di loro gusto. Come si diceva negli anni 80, meno male che Silvio c’è.

Venezia a rischio, una notizia vecchia di 25 anni

“Capita a volte che niente sia più falso della verità”.

(da “La fuga del signor Monde” di Georges Simenon – Adelphi, 2011 – pag. 154)

 

Poco meno di 25 anni fa, il 3 dicembre 1995, scrissi un “neretto” nelle pagine dei Commenti su Repubblica intitolato “Venezia a rischio”. Era bastata una falla nella tubatura di un oleodotto al Petrolchimico di Porto Marghera per mettere in allarme la città e l’intera laguna. Quella volta, fortunatamente, il pericolo rientrò. I tecnici provvidero tempestivamente a circoscrivere la chiazza d’olio e la Serenissima tirò un sospiro di sollievo.

In realtà, osservai in quel breve commento, “il problema e la minaccia continuano a incombere sull’ecosistema lagunare. Venezia è a rischio. Non solo e non tanto a causa delle acque alte e delle mareggiate, quanto per il traffico delle petroliere che attraversano il Canal Grande”. Quella era, evidentemente, un’iperbole che riprendeva gli allarmi lanciati dagli esperti e anche dagli amministratori locali, senza trovare tuttavia una soluzione. Tant’è che già nel ’90 il Consorzio Venezia Nuova aveva elaborato un progetto con l’obiettivo prioritario di allontanare le petroliere dalla laguna.

Non si trattava, insomma, di una fake news come quelle che dilagano in Rete e sui social network. Oggi, al posto delle petroliere, si parla delle grandi navi da crociera, quei “grattacieli galleggianti” che ospitano migliaia di passeggeri in vacanza, di stazza pari o anche superiore alla “Msc Opera” che domenica scorsa s’è schiantata su un battello turistico ormeggiato nel canale della Giudecca, provocando un incidente navale su cui la Procura di Venezia ha aperto un’indagine per “danneggiamento con pericolo colposo di naufragio”. E per fortuna, anche questa volta tutto s’è risolto con molto spavento e pochi danni, rischiando però una figuraccia su scala mondiale.

Non è stata sufficiente – dunque – la campagna fotografica di Berengo Gardin, con le sue immagini-choc censurate dal sindaco Luigi Brugnaro, per fermare le navi da crociera in laguna. Anche venticinque anni fa, all’epoca delle polemiche sulle petroliere, il suo più illustre predecessore Massimo Cacciari reagì piccato alle denunce giornalistiche, per contestare in una lettera apparsa sulla stessa Repubblica il 5 dicembre ’95 che “il Canal Grande non è mai stato solcato da petroliere, o altro tipo di navi, né mai potrà esserlo”, fornendo a riprova le misure della larghezza e della profondità del medesimo. E così concludeva: “Il modo in cui tutta, o quasi, la grande stampa continua a seguire i problemi di Venezia, a colpi di apocalittici allarmismi alternati da cartolinesche banalità, è – se mi si permette – veramente scandaloso”. Con il rispetto dovuto a un intellettuale come Cacciari, mi limitai a replicare che non si trattava di discutere su “una metafora che per quanto iperbolica non poteva e non può destare equivoci: le dimensioni del Canal Grande non hanno evidentemente nulla a che fare con il suo valore simbolico”.

Quella delle petroliere prima e delle navi da crociera poi nella laguna di Venezia è una storia emblematica del cortocircuito mediatico che spesso scatta fra la politica e l’informazione sulle questioni dell’ambiente. Anche le foto a effetto di Gardin, realizzate con il teleobiettivo per “schiacciare” la sagoma incombente dei “grattacieli galleggianti” sullo sfondo dei palazzi di Venezia, rappresentano una metafora o un’iperbole. Ma purtroppo sono terribilmente reali. E se invece di essere contestate o censurate fossero state accolte come una denuncia a cui dare seguito, ora la Serenissima potrebbe stare molto più serena.