La vera sfida non è quella sul deficit

Mai abbiamo raggiunto un livello di sviluppo paragonabile a quello attuale. Mai siamo stati in grado di produrre così tanta ricchezza. Mai abbiamo avuto condizioni migliori per garantire a ogni persona il diritto alla felicità. Eppure povertà, precarietà e solitudine accompagnano la vita di sempre più persone, mentre l’emergenza climatica trasforma i bollettini Onu in distopia quotidiana. Non esiste prova più evidente della bancarotta del nostro sistema che questa contraddizione fra ciò che potremmo essere e ciò che invece siamo. Qui sta la sconfitta della sinistra. Mentre si accende uno sterile scontro con l’Ue ci troviamo dinanzi a un’opposizione a destra di questo governo. Criticare Salvini e Di Maio invocando la fiducia dei mercati, lo spread e la disciplina significa suonare la campana a morto per ogni idea di futuro. La sfida è trasformare un sistema marcio, non aspirare a una supposta normalità europea che non regge più.

Ma cambiare il sistema non significa accendere inutili polemiche quotidiane per richiedere scampoli di flessibilità da gettare in campagna elettorale. Non significa avanzare proposte quali la flat tax, per fare pagare meno chi più guadagna. Tutto questo non è che piccolo cabotaggio clientelare. Una versione più cialtrona e più crudele di quanto faceva Matteo Renzi.

L’Europa ha di fronte a sé un’opportunità storica: mostrarsi all’altezza dei moniti dell’Onu sull’incipiente disastro climatico e rimettere al lavoro un continente per salvare un pianeta. Serve una richiesta chiara a Bruxelles: un piano di investimenti verdi per costruire l’economia di domani, raggiungere la piena occupazione e salvare i nostri figli dalla crisi climatica. I soldi ci sono: basta fermare l’evasione fiscale delle multinazionali permessa dall’assenza di una comune fiscalità europea. Gli alleati con cui farlo non sono il governo autoritario di Orbán ma i verdi europei; non il nazionalismo francese di Le Pen ma il nuovo socialismo spagnolo e portoghese.

Nel frattempo, direte, la procedura di infrazione incombe. E allora si può iniziare già in Italia. Da un lato cancellando ogni velleità di flat tax e rimodulando la spesa corrente per tornare a una traiettoria fiscale sostenibile di deficit strutturale discendente. Dall’altro, e come contropartita, lanciando un piano straordinario di investimenti verdi pari a 50 miliardi di euro, il 3 per cento del Pil.

Non possiamo arrenderci al declino industriale, dalla Whirlpool all’Ilva: servono risorse per affiancare le imprese nella riconversione ecologica e nell’aggiornamento tecnologico per aumentare produttività e valore aggiunto. Non possiamo accettare che 300.000 italiani debbano emigrare ogni anno: occorre raddoppiare il bilancio in ricerca e sviluppo e creare lavoro nella Pa, nelle università e nella cura del territorio. Non possiamo buttare 40 miliardi l’anno per importare gas e petrolio dalle peggiori dittature: serve raggiungere l’autosufficienza energetica 100% rinnovabile e lanciare un piano di efficientamento sul patrimonio immobiliare per abbattere le emissioni di CO2 e la bolletta energetica e rimettere in moto le costruzioni.

Tutto questo potrebbe sostituire, già oggi, l’inconcludente avanspettacolo politico di cui siamo vittime. Ma come? Pare mancare quella forza, come scriveva Tomaso Montanari su queste pagine, capace di rovesciare il mondo dalle fondamenta. Cosa avverrà prima: un ravvedimento delle componenti più dinamiche del M5S, una trasformazione del Pd, la nascita di un nuovo movimento rossoverde capace di offrire un’alternativa a governo e opposizione? Ciascuno si spenda là dove può. La scelta è chiara. Vivere fino alle estreme conseguenze il paradosso di un mondo mai così ricco e mai così cupo. Oppure rimettere al lavoro un Paese e salvare un pianeta.

Via dalla ciurma il mozzo Toninelli

Finalmente si cambia musica. Di Maio e Salvini si sono incontrati e, pare, hanno convenuto sull’unica soluzione che mette tutti d’accordo, anche gli oppositori più implacabili: il governo legastellato, già stelloleghista, riprenderà a navigare col vento in poppa non appena sul ponte di coperta si sarà proceduto a opportuno lancio dal trampolino del marinaio portasfiga, il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli. Chi mastica politica dalla Prima Repubblica chiama la mossa “rimpasto” (si dovrà decidere pure il successore di Paolo Savona alle Politiche europee e la “rotazione” alla Sanità), ma trattasi chiaramente di sacrificio rituale di cui la filibusta di governo si incaricherà al fine di sedare le forze contrarie, lenire le angosce nazionali e europee, rimettere il Paese al ritmo dell’Universo.

La cosa è praticamente certa, e a darcene definitiva conferma non è solo la smentita del de cuius (“Sono dibattiti che non mi appassionano e che rigetto senza neanche ascoltarli, sto lavorando per migliorare la vita degli italiani”, ha detto la vittima mentre veniva incaprettata, con la consueta mancanza di sincronizzazione col resto del mondo), ma anche i toni sacrali e vagamente liberatorî che insufflano le cronache dell’evento lustrale, coi giornali che a stento celano persino una certa euforia nel travolgente furor nectandi: “Lunedì nuova agenda”, “Vertice dopo settimane di gelo”, “Toninelli fuori gioco” (Corriere), “Si riparte”, “Di Maio e Salvini: ricominciamo” (Repubblica), “Resa incondizionata all’alleato che mette in un angolo velleità di elezioni anticipate”, “Fitta agenda di temi made in Lega”, “ L’obiettivo di liberare il ministero di Porta Pia” (Messaggero), “Salvini incontra Di Maio e gli chiede di cacciare Toninelli” (Libero).

Ora, mentre è prevedibile che del Toninelli politico non si patirà troppo rimpianto, il Toninelli espiatorio diventa improvvisamente una figura di rilievo antropologico, che sta per sperimentare nel fuoco che lo avvolgerà la legge infallibile su cui si fonda ogni società: il Sistema premia i suoi servitori per i loro difetti e li punisce per i loro pregi. Nel caso del ministro, di pregi se ne ricordano pochissimi (uno), ma ciò che conta è che nell’Italia mentale egli è sacrificabile non certo per i suoi tanti demeriti, ma per aver detto “no”, che è come bestemmiare in Chiesa, all’Immacolata Concezione del Tav, la Madre di tutte le Grandi Opere, l’inesistente fantasma adorato da tutti i potenti e loro affini, dai leghisti vecchi e da quelli nuovi, dalle madamine del Rotary ai benpensanti aristo-dem finto progressisti, dai berlusconiani e dai pidini, e persino, in questo sottoinsieme, da tutte le correnti del Pd all’unisono.

È indicativo che proprio sulle sorti di uno come Toninelli, opaco e dimenticabile, si giochi la tenuta del governo e si legga lo stato presente dei costumi degl’Italiani, scolpiti come in un bassorilievo nella persona e nelle parole di Salvini diligentemente riportate dai giornali fideisticamente pro-Tav: “Se qualcuno si è contraddistinto per la posizione contraria, per esempio, a opere e infrastrutture, non si vede come possa continuare come prima e nella stessa posizione”.

Infatti è chiaro a tutti che il Partitone del Sì, che ha ancora sullo stomaco l’unica analisi costi-benefici attendibile – a cui ha contrapposto contro-analisi senza numeri, apprezzamenti di principio, canti propiziatori e riti apotropaici – se ne strafrega delle imperdonabili lacune del ministro del M5S in fatto di infrastrutture. La costruzione del gasdotto Tap a Melendugno in Puglia, che il M5S avversava e che poi ha dovuto accettare come “scelta dolorosa” (Di Maio) per via delle “penali per quasi 20 miliardi di euro”, interessa ormai solo ai pugliesi che si erano affidati al M5S, visto che tutti gli altri lo volevano fare (Pd e Forza Italia firmarono addirittura una nota congiunta al Parlamento europeo, l’anno scorso, in cui definivano il Tap “un progetto strategico per la sicurezza energetica dell’Italia e dell’Europa”, che “preserva l’ambiente e il territorio e non comporta rischi per la popolazione”). La questione Ilva, su cui il M5S ha bruciato i suoi voti, la sua credibilità e forse qualcosa di più (il suo iniziale, non-statutario anelito di pulizia), viene usata solo per rinfacciare al movimento di essere come tutti gli altri, il che peraltro in certi ambienti è garanzia di successo.

Formalmente, il rimpasto toccherebbe al presidente del Consiglio, che era in Vietnam mentre i sacerdoti-macellai si spartivano pezzi di Toninelli (e di Tav, e di Pil, e di Paese) in casa sua (“Il vero problema è Giuseppe Conte”, La Stampa); il che aggiunge al rituale di purificazione un’ombra di contro-minaccia a Conte che ha tentato di fare il Padre, ma tirare in ballo Il ramo d’oro di Frazer per questo frangente storico pare davvero troppo.

Mail box

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo di Gianluca Roselli sui compensi Rai pubblicato da Il Fatto Quotidiano del 6 giugno, desidero precisare che esso – al di là di altre imprecisioni sulla mia retribuzione (il colossale taglio del compenso mi è stato praticato a prestazioni invariate e con una serie di clausole punitive) – fornisce cifre fantasiose sulla mia collaborazione con RaiCom e Railibri. Trattandosi peraltro di dati riservati, ne risponderanno nelle sedi opportune sia il giornale che i responsabili del trattamento.

Bruno Vespa

 

Gentile Vespa, ribadisco le cifre dei compensi riportate nell’articolo, anche quelle derivanti da prestazioni extra “Porta a Porta”, collaborazioni che lei stesso conferma in queste righe. Cordialmente.

Gi. Ros.

 

In merito all’articolo Su Luca e Amara ora indaga anche il Pm di Milano, precisiamo quanto segue:

1- Eni non ha pagato alcuna tangente in Nigeria. Eni confida che il processo presso il Tribunale di Milano potrà accertare la completa estraneità della società e del management rispetto ad asserite condotte illecite legate all’acquisizione del Blocco Opl245. Non appena Eni venne a conoscenza delle indagini sull’ Opl245 da parte della Procura di Milano, gli organi di controllo della compagnia commissionarono verifiche interne ad advisor indipendenti di reputazione internazionale, che mai avevano lavorato per Eni, per assicurarsi che la condotta nell’ambito della transazione fosse corretta. Le indagini, concluse nel marzo 2015, non individuarono alcuna attività illecita da parte del management di Eni. A dicembre 2016 il pubblico ministero comunicò di aver chiuso le indagini e depositò la relativa documentazione. Eni incaricò il consulente legale americano di condurre indagini indipendenti su tale documentazione. I consulenti conclusero che le verifiche addizionali confermavano che non emergeva alcune evidenza di condotta illecita. Da allora e nel dibattimento di oggi nulla è emerso di diverso.

2- In merito all’ipotesi del “depistaggio”, che il vostro giornale accosta alle vicende che stanno coinvolgendo alcuni rappresentanti della magistratura, Eni ribadisce la fermissima convinzione di essere la parte lesa in ogni prospettiva legata, o comunque connessa, alle ipotesi inerenti presunti depistaggi delle attività investigative presso qualsivoglia procura della Repubblica, o altrimenti in relazione alle nuove ipotesi di reato emerse e sotto indagine. La società si è dichiarata parte offesa nell’ambito delle fattispecie precedentemente note in relazione alla medesima indagine presso la Procura di Milano. Eni perseguirà la tutela della propria reputazione nei confronti di chiunque, sia che abbia già confessato un proprio coinvolgimento, sia che altrimenti risulti responsabile di eventuali condotte censurabili che si potranno evincere a esito dalla conclusione delle attività di indagine in corso o dagli accertamenti interni in itinere.

Erika Mandraffino, Senior Vice President, Global Media Relations and Crisis Communication, Eni

 

L’attuale ad di Eni e il suo predecessore, Claudio Descalzi e Paolo Scaroni, sono stati rinviati a giudizio con l’accusa di corruzione per il caso Nigeria. Il processo stabilirà se sono colpevoli o meno ma per il momento rivestono il ruolo di imputati. Prendiamo atto che Eni si è costituita come parte offesa nella vicenda “depistaggio” ma ricordiamo anche che, nel relativo fascicolo aperto dalla Procura di Milano, è indagato Massimo Mantovani, ex responsabile dell’ufficio legale di Eni.

Antonio Massari

 

Gentile direttore leggo su Il Fatto Quotidiano un articolo dal titolo “Su Luca e Amara ora indaga anche la Procura di Milano” nel quale il mio nome spunta non si sa bene accostato a cosa. La pregherei di non inserire più il mio nome a fatti di cronaca giudiziaria che mi sono del tutto estranei o se per dovere di cronaca deve farlo di delinearne il contesto in quanto il venire meno di questo potrebbe suscitare nel lettore il pensiero che io sia complice di chissà cosa quando invece non so neppure di cosa si stia parlando. Io non conosco l’Avvocato Amara così come non conosco Palamara, Calafiore, Longo etc nè le vicende ad essi imputate e riferite nell’articolo. Ad essere tutto franco e sincero, rileggendo i vecchi articoli che ormai da tempo sul suo quotidiano campeggiano su questa strana vicenda che mi vede peraltro da quello che ho potuto apprendere parte lesa, non ho mai neppure capito bene a che titolo, da chi è per cosa io sarei stato messo nel mezzo in un periodo in cui fare il mio nome era fare scoop o rendere più credibili chissà quali misteri o trame. Per mia fortuna quel periodo è passato e gradirei che il mio nome non fosse accostato a queste vicende e a queste persone. Cercherò di capire, se mai mi riuscirà, anche come poter tutelare il mio nome in via giudiziaria da questi personaggi. Purtroppo non si deve temere così si dice ma cosa altre persone, peraltro in questo caso anche del tutto sconosciute, dicono di noi.

Con stima.

Marco Carrai

 

Non è il Fatto ad accostare il suo nome a questa vicenda, ma Massimo Gaboardi – coinvolto e indagato nell’indagine sul depistaggio ordito attraverso un fascicolo farlocco aperto dalla Procura di Siracusa – il quale ha sostenuto in un interrogatorio che alcuni soggetti erano impegnati nel far sostituire l’ad di Eni Claudio Descalzi – è la tesi del falso complotto contro di lui – e che in quest’operazione alcuni soggetti “avevano cercato contatti con il dottor Carrai”. Il pm che all’epoca svolgeva l’inchiesta intendeva sentirla come persona informata sui fatti. Ci conforta sapere che nulla ha a che vedere con questa vicenda.

A. Mass.

Federer-Nadal nemici-amici, ma sulla terra vincerà sempre lo spagnolo

Buongiorno, ho visto ieri la semifinale del Roland Garros tra Federer e Nadal, stravinta da quest’ultimo: ogni volta mi stupisco di come lo svizzero, nonostante l’età e l’esperienza, si faccia fregare dallo spagnolo. È sudditanza psicologica? O è, solo colpa della terra rossa?

Povero Roger, quando vede dall’altra parte della rete Nadal sa già che perderà. Almeno sulla terra. Per chi aspettava l’ennesimo capitolo della loro storia infinita, la semifinale del Roland Garros è stata una delusione: lo spagnolo ha praticamente passeggiato, guadagnandosi la sua 12esima finale a Parigi. Le prime 11 le ha vinte tutte. Non è il caso però di condannare Federer. I numeri spiegano che la netta sconfitta è frutto soprattutto della superficie: a Parigi nei 5 precedenti non aveva mai vinto, sulla terra il bilancio è di 14-2 per Rafa. Il rosso, per giunta giocato 3 su 5 set, si addice troppo alla fisicità di Rafa, ai suoi colpi arrotati, alle sue doti difensive. Ieri poi la partita è stata pure condizionata dal vento, che ha inciso sicuramente più sui raffinati ricami dello svizzero che sulle bordate dello spagnolo. È più una questione tecnica che psicologica, insomma. La sudditanza sicuramente c’è stata, come testimoniano le sconfitte più brucianti della carriera dello svizzero (su tutte la finale di Wimbledon 2008) e il bilancio totale di 24 a 15 a favore di Nadal. Forse però appartiene più al passato che al presente: Federer contro di lui non perdeva da quasi 5 anni, da quando è iniziata la sua seconda giovinezza che lo ha portato a vincere altri tre Slam. Semplicemente a Parigi le condizioni erano tutte a favore dello spagnolo e il pronostico è stato rispettato. L’incrocio è stato comunque emozionante. Era dall’Australian Open 2012 che alle semifinali di uno Slam non si qualificavano le prime quattro teste di serie. La cosa incredibile è che 7 anni dopo in campo c’erano ancora gli stessi protagonisti di allora. Solo l’austriaco Thiem ha preso il posto di Murray. Il tempo passa per tutti ma non per loro. Dietro Djokovic (saldamente n. 1 Atp) ci sono sempre Federer e Nadal: Roger e Rafa, 38 e 33 anni, rivali ma in fondo amici, uno dei più iconici duelli sportivi della storia. Sono ancora lì e non hanno ancora finito.

Anche Facebook molla Huawei: niente app preinstallate

Il social network Facebook non consentirà più la preinstallazione delle sue app sui telefoni Huawei dopo che il presidente Usa Donald Trump ha inserito Huawei nella lista nera delle minacce alla sicurezza globale e sta intimando ai suoi alleati globali di chiudere la porta al 5G cinese. A rivelare la mossa di Facebook è Reuters, a cui il gruppo del celebre social neetwork ha confermato che i clienti che già dispongono di telefoni Huawei potranno comunque utilizzare le proprie app e ricevere aggiornamenti. Ma i nuovi telefoni Huawei non avranno più preinstallate le applicazioni di Facebook, oltre che di WhatsApp e Instagram. I venditori di smartphone spesso costruiscono le offerte commerciali inserendo nei pacchetti app famose già in dotazione. Intanto, dal Forum internazionale di San Pietroburgo, in Russia, il presidente cinese Xi Jinping ha detto che la Cina è pronta a “condividere” la tecnologia 5G con tutti i suoi partner. E a fargli sponda c’è l’omologo russo, Vladimir Putin, che condanna “i tentativi di scacciare Huawei senza troppe cerimonie dai mercati internazionali”. Secondo Putin, Trump sta combattendo contro Pechino “la prima guerra tecnologica dell’era digitale”.l

Su Ilva torna l’ombra della chiusura

C’è un dato che deve far riflettere. La multinazionale dell’acciaio ArcelorMittal, mettendo in cassa integrazione ordinaria per 13 settimane 1.400 dei 10.600 lavoratori dell’Ilva di Taranto, risparmierà 7-8 milioni di euro. Paragonate questa cifra con le altre di questa storia. Nel 2018 il gruppo ArcelorMittal ha fatturato quasi 70 miliardi di euro, con un utile netto di 4,5 miliardi. Lo stabilimento di Taranto continua a perdere un milione al giorno. Tutti sanno che difficilmente quell’acciaieria tornerà a produrre utili prima di aver raggiunto una produzione annuale di almeno 8 milioni di tonnellate. L’obiettivo di portare a 5 milioni di tonnellate la produzione di quest’anno contro le 4,7 dell’anno scorso non sembra più raggiungibile, complice la fase bassa del ciclo siderurgico.

In attesa di investire i 2,3 miliardi pattuiti con il governo per rimettere in sesto gli impianti e adeguarli alle norme ambientali, i manager mandati a Taranto dal Lakshmi Mittal, decidono di risparmiare 8 milioni. Per così poco lasciano cadere una bomba sulle già tese relazioni sindacali e sull’umore di Taranto.

È lecito chiedersi perché l’abbiano fatto. La prima risposta è quella della semplice ottusità. L’ipotesi è poco convincente: Mittal ha costruito il più grande impero mondiale dell’acciaio venendo dall’India a trattare con i governi europei. In Francia si è preso l’Arcelor, fiore all’occhiello della siderurgia di Stato.

La seconda ipotesi è quella di una mossa negoziale per mettere alle strette il governo italiano. L’annuncio della cassa integrazione, come ha notato sul Fatto

Francesco Casula, è giunto “a distanza di pochi giorni dall’avvio delle procedure di riesame dell’Autorizzazione integrata ambientale alla fabbrica ionica annunciata dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa”, che punta a imporre ai nuovi padroni dell’acciaio italiano prescrizioni severe e costose. Questa ipotesi è più sensata ma zoppica. È vero che, a quanto si dice, il signor Mittal in persona sta chiedendo invano da giorni un incontro a Di Maio, ed è anche vero che il ministro dello Sviluppo pare distratto dai numerosi altri impegni. Ma è il quinto ministro che si cimenta con il caso Ilva e Mittal ha firmato con lui accordi e impegni avendo avuto modo di prendere le misure alla sua credibilità e confrontarla con quella dei precedenti ministri. Inoltre è complicato convincersi che, dopo anni di confronto con la politica italiana, il magnate indiano abbia deciso di buttarsi nell’avventura di Taranto mettendo in preventivo da una parte un investimento di miliardi e dall’altra logoranti bracci di ferro a colpi di forzature e ultimatum con il governo italiano.

Resta la terza ipotesi, la più assurda ma la più coerente con i fatti di questi anni: ArcelorMittal potrebbe non essere del tutto dispiaciuta di vedere la storia di Taranto sfociare nello sbaraccamento del centro siderurgico. È un’idea che alberga da tempo nei retropensieri di molti. Gli uomini di Mittal l’hanno sempre respinta come offensiva.

Ciò che preoccupa davvero è lo scenario del mercato siderurgico. I produttori europei sono messi alla strette da una domanda in contrazione per il ciclo sfavorevole, mentre permane nel Vecchio continente una sovracapacità produttiva di 30 milioni di tonnellate all’anno. Da anni sull’Ilva di Taranto si aggirano gli avvoltoi della concorrenza europea: con 30 milioni di sovracapacità, perché dannarsi l’anima per rimettere in pista quegli 8-10 milioni di capacità italiana? E siccome anche ArcelorMittal faceva parte della schiera degli avvoltoi, rimane senza risposta da anni la stessa domanda: perché voler accaparrarsi gli impianti di Taranto promettendo investimenti miliardari? I più maligni hanno una risposta: per evitare che altri la rilanciassero davvero. Non resta che aspettare. Taranto chiede una prospettiva chiara da sette anni, rimane condannata ad attendere ancora.

B. declina, l’Italia non basta Mediaset trasloca in Olanda

La notizia è finanziaria ma è anche l’inevitabile epilogo del declino politico, che accompagna quello industriale, di Silvio Berlusconi. Era nell’aria ma da ieri è ufficiale: Mediaset trasferirà la sua sede legale in Olanda, creando una holding con Mediaset Spagna, fusa nel gruppo. Lo ha deciso ieri il cda del Biscione con l’obiettivo di “facilitare le alleanze internazionali”, ha spiegato l’ad Pier Silvio Berlusconi, dopo l’acquisto nei giorni scorsi del 10% del gruppo televisivo tedesco Prosieben.

La holdindg MediaforEurope (Mfe) sarà quotata a Milano e Madrid, ma la sede fiscale resterà in Italia. “Nessuna delocalizzazione, le attività resteranno dove sono: semplicemente lì le regole fanno sì che una società che affronta un cambiamento possa avere una stabilità di azionariato”, ha spiegato Pier Silvio in una conferenza stampa convocata a Borse chiuse dopo una giornata di rumors (il titolo è salito del 3% a 2,69 euro, mentre quello di Mediaset Spagna dell’8% a 6,9 euro). Tradotto: un sistema che assegna diritti di voto doppi ai soci stabili, che agevola il mantenimento del controllo da parte di Fininvest. L’azionariato dovrebbe essere così composto: Fininvest, che oggi ha il 44% di Cologno Monzese, scenderà al 35,43%; la francese Vivendi passa dal 9,98 al 7,71% mentre l’altro suo 19,94% – che l’Antitrust ha imposto di trasferire in un trust (la Simon Fiduciaria) a causa della partecipazione in Tim – si ridurrà all’15,3%; il mercato deterrebbe il rimanente 41,47%. La nuova holding non si porterà dietro il voto maggiorato oggi garantito a Fininvest, ma la cassaforte della famiglia Berlusconi avrà oltre il 50% dei diritti di voto del nuovo Biscione in salsa olandese.

Creare “una casa per un broadcaster paneuropeo” sembra oggi una mossa obbligata, complice l’inconsistenza elettorale di Forza Italia e di Silvio Berlusconi, a lungo bene rifugio. L’urgenza dell’ex Cavaliere è per una successione che assicuri alla famiglia una rendita lontana dalla gestione manageriale. Ci ha provato con lo sciagurato patto con Vivendi. L’accordo siglato ad aprile 2016 prevedeva la cessione ai francesi di Premium, la disastrata pay tv del Biscione, e uno scambio di quote per permettere ai Berlusconi di entrare nella media company di Vincent Bolloré, che fattura quattro volte Mediaset (ferma a 3,4 miliardi).

È finita con i francesi che hanno stracciato l’accordo e tentato una scalata conclusa con un contenzioso miliardario. Oggi Cologno Monzese si è liberato della voragine Premium, cedendola a Sky, ma il monopolio trentennale delle tv generaliste arranca e il mercato saturo tiene solo grazie ad alcune rendite di posizione. E la concorrenza spietata dei colossi internazionali – Googole Comcast, Amazon, Disney, Netflix – che offrono cinema, eventi, film e serie tv di qualità a pagamento su internet è sempre più forte.

Se la mossa era obbligata, lo scenario sembra più quello di una scommessa. Replicare il modello scelto da John Elkann con Fiat, oggi Fiat Crhysler Automobiles con sede legale in Olanda e fiscale nel Regno Unito (così come la cassaforte Exor) è complicato dal fatto che la scelta dell’erede designato da Gianni Agnelli avvenne a valle di una brillante operazione finanziaria: l’acquisto di Chrysler chiuso da Sergio Marchionne, che ha salvato il gruppo. La cura imposta dal manager col maglioncino ha poi permesso a Elkann di avere qualche carta da giocarsi nel risiko delle fusioni. Mediaset ha fatto il grande passo senza questo punto di forza. Al momento i partner sono solo una speranza. L’acquisto del 10% di Prosiebensat (340 milioni grazie alle cessione delle torri) può essere il prologo a un’ingresso nel Biscione del gruppo bavarese, che ha un fatturato simile. Entrambi sono, insieme ai francesi di Tf1 e agli inglesi di Channel4, parte di una piattaforma che fabbrica spot, ma niente di più. E il patron di Tf1, Martin Bouygues, non sembra al momento interessato ad andare oltre. L’82enne Silvio Berlusconi ha affidato a Fedele Confalonieri una missione ardita. Ma l’unica possibile.

Nervi sani e nervi lesionati per ricostruire le mani

Aveva perso l’uso di entrambe le mani dopo un incidente. Sei mesi fa, un pasticciere di 52 anni, residente in Piemonte, tornando a casa dal lavoro in macchina durante un acquazzone aveva perso il controllo ed era uscito di strada. Lo scontro era stato violento. Dall’urto ha subìto una lesione al midollo ed è diventato tetraplegico: ha perso l’uso delle gambe e la possibilità di aprire e chiudere le dita delle mani. Non poteva più afferrare niente, neanche una biro, e non poteva neanche utilizzare le mani per muovere le ruote della sedia a rotelle.

La sua vita dipendeva totalmente da altri. La sua situazione, però, potrebbe cambiare nel giro di pochi mesi dopo l’operazione eseguita due giorni fa al Centro traumatologico ortopedico della Città della Salute di Torino. Qui un’équipe di medici ha sfruttato per la prima volta in Italia una tecnica innovativa per permettere al 52enne di riprendere l’uso delle mani. In sostanza, i nervi lesionati sono stati “affiancati” da altri nervi prelevati dalle parti sane a monte della lesione, come la spalla o l’avambraccio. I medici di due reparti specializzati – il primario di chirurgia della mano Bruno Battiston insieme ai medici Paolo Titolo e Andrea Lavorato con il neurochirurgo Diego Garbossa – hanno operato per quasi quattro ore sugli arti dell’ex pasticciere. Oltre al loro lavoro è stato fondamentale il contributo del dipartimento di Ortopedia, Traumatologia e Riabilitazione (diretto dal professor Giuseppe Massazza) e della Struttura dell’Unità spinale unipolare diretta da Salvatore Petrozzino: “Questo risultato è nato dalla condivisione dei percorsi di quattro squadre specializzate – spiega il professore Garbossa, direttore di Neurochirurgia universitaria –.

Il professore Petrozzino ha osservato il paziente tetraplegico e ne ha parlato con Battiston e me. Insieme abbiamo pensato a una soluzione”. “Era necessario che dopo l’incidente la situazione si stabilizzasse e che parte dell’arto superiore funzionasse”, dice Battiston. Così hanno pensato di innestare i nervi funzionanti sui nervi “deficitari” nel tentativo di “reinnervare” la muscolatura delle mani. Si tratta di una recentissima metodica eseguita in pochi altri centri al mondo. “Abbiamo fatto interventi più complessi – precisa Battiston –, ma qui abbiamo aperto una strada”. “L’intervento è tecnicamente riuscito – commenta Garbossa –. Ora il paziente deve sottoporsi a un ciclo intensivo di riabilitazione. Abbiamo buona fiducia che l’operazione possa dare buoni risultati”.

Nel corso dell’intervento non ci sono state complicazioni, ma ci vorranno mesi di lavoro ed esercizi prima di vedere il risultato e vedere se il 52enne potrà tornare a muovere le mani: “Un tetraplegico come questo paziente non può neanche tenere una forchetta, tenere una levetta per mettere in moto una carrozzina, usare un computer come possono fare invece i paraplegici – aggiunge Battiston –. Se dopo l’intervento tornasse a utilizzare un po’ le dita, potrebbe cambiare notevolmente lo stile di vita”.

Questo darebbe speranze anche ad altre persone nelle sue condizioni: “Questo è stato il primo di una serie di interventi, ma non tutti i pazienti possono essere trattati con questa metodica”, conclude Garbossa. “In Piemonte – stima il primario di chirurgia della mano – potremmo fare sei o sette interventi all’anno”.

Agenzia delle Entrate, il motto fascista inguaia un dirigente

Mattarella e Mussolini. La foto di Sergio Mattarella, presidente della Repubblica nata dalla Resistenza, e accanto la stampa di una frase di Benito Mussolini: “L’aratro traccia il solco, ma è la spada che lo difende”.

L’inedito accostamento è comparso ieri mattina in un ufficio dell’Agenzia delle Entrate di Genova, alla Fiumara (poco lontano dal Ponte Morandi). Ad attaccare nel proprio ufficio la frase del Duce – tratta da un discorso del 1934 – è stato un dirigente dell’Agenzia. Dopo pochi minuti, però, i colleghi l’hanno notata e segnalata a superiori e sindacati. È stata la Cgil a diffondere subito una nota di reazione: “Si tratta di una grave offesa ai principi di libertà e democrazia sanciti dalla Costituzione nata dalla lotta di Liberazione antifascista, nel cui alveo agisce la Pubblica amministrazione”. Per la Cgil “atti simili, oltre a offendere i lavoratori e i cittadini, recano discredito alla Pubblica amministrazione”. La Cgil ha chiesto “un immediato intervento dell’Agenzia delle Entrate”. In serata fonti ufficiose dell’ente hanno reso noto che la stampa era stata rimossa. Al dirigente è stata fatta notare l’inopportunità del suo comportamento.

La “cricca” di Legnano da Giorgetti per salvarsi. E Salvini sta con loro

Un viaggio a Roma, destinazione Palazzo Chigi negli uffici del sottosegretario di Stato, Giancarlo Giorgetti. E poi telefonate al presidente della Regione Attilio Fontana, incontri al Pirellone con i vertici di Forza Italia, contatti con il difensore civico di Palazzo Lombardia Carlo Lio. Tutto in pochi giorni. E tutto per evitare che il Comune di Legnano venisse commissariato. A tessere la tela è la “cricca” delle nomine con in testa il sindaco della Lega Giambattista Fratus, il vicesindaco di FI, Maurizio Cozzi, e l’assessore all’urbanistica, Chiara Lazzarini. Le operazioni si svolgono tra marzo e aprile, subito dopo che 13 consiglieri si dimettono staccando la spina a consiglio e giunta. Il trio così punta ai vertici nazionali della Lega per frenare l’emorragia.

Incontri e telefonate stanno nelle intercettazioni dell’inchiesta della Procura di Busto Arsizio che il 16 maggio scorso esegue tre misure cautelari nei confronti di Fratus, Cozzi e Lazzarini. Tutti sono accusati di turbativa per aver pilotato alcune nomine nelle partecipate. Al solo Fratus, poi, viene contestata una corruzione elettorale consumatasi nel giugno del 2017 a ridosso dei ballottaggi per le elezioni al Comune di Legnano. In cambio dei circa mille voti della lista di Luciano Guidi, Fratus nomina la figlia Martina in una partecipata con un bonus da mille euro. I brogliacci degli incontri romani al momento non sono depositati.

In Procura vengono letti con molta attenzione per capirne la rilevanza penale. Allo stato non vi sono indagati in questo filone che potrebbe aprirsi a breve con una prima ipotesi di abuso d’ufficio a carico di ignoti. Al centro ci sono le dimissioni dei consiglieri, protocollate il 27 marzo. Nonostante questo, la giunta reggerà dopo l’intervento del difensore civico, l’azzurro Carlo Lio, che nominerà un commissario ad acta per le surroghe dei consiglieri. Su questo si è giocata una battaglia al Tar che ha respinto l’ipotesi di sospensiva senza entrare nel merito ma motivandola con il fatto che Fratus si era dimesso. Peccato che Fratus subito dopo la sentenza abbia ritirato le dimissioni con il plauso dei vertici della Lega, tra cui ieri anche il ministro dell’Interno Matteo Salvini: “Fratus – ha detto il vicepremier – è una persona per bene”. Fratus nel frattempo resta ai domiciliari e in Comune resta il commissario nominato dal prefetto di Milano dopo gli arresti. Il balletto delle dimissioni è dunque solo politico.

Torniamo a fine marzo. La Finanza ha piazzato una microspia nell’ufficio di Cozzi. Le intercettazioni proseguiranno fino al 20 aprile. Sul tavolo i contatti diretti con i vertici nazionali. Agli inizi di aprile, Fratus, Cozzi e Lazzarini decidono di scendere a Roma. In tasca hanno l’indirizzo di Palazzo Chigi. Qui incontrano il sottosegretario di Stato nonché numero due del Carroccio, Giancarlo Giorgetti. Il dato emerge dai dialoghi tra Cozzi e Fratus. I brogliacci al momento non sono depositati. Ma è qui che Cozzi illustra la questione generale. Mentre Fratus si sofferma maggiormente sul motivo specifico. Ovvero quello di salvare il comune di Legnano. Obiettivo condiviso anche dai vertici nazionali. Che già furono messi a conoscenza da Fratus dell’accordo politico prima del ballottaggio. A riferirlo è la Lazzarini intercettata. La zarina dell’urbanistica riporta le parole di Fratus: “A livello regionale io ho fatto un accordo con Paolo Alli, Salvini e quell’altro provinciale loro della Lega”.

A marzo la Lega non può permettersi di perdere un comune simbolo come Legnano soprattutto con le Europee dietro l’angolo. E così il trio delle nomine trova terreno fertile a Roma negli uffici di Giorgetti. Non emergono, invece, incontri diretti con il vicepremier Salvini, ma contatti telefonici con il segretario nazionale Paolo Grimoldi. Da Roma a Milano. Ai piani alti della Regione Lombardia. Nelle telefonate viene ascoltata la voce di Mariastella Gelmini, ex coordinatrice regionale di FI, dimessa di recente, al suo posto Licia Ronzulli. E se la Gelmini pare possibilista, ma senza dare una soluzione, più netta è la posizione di Fontana.

Anche la voce del governatore, indagato per abuso d’ufficio nell’indagine milanese sul sistema delle tangenti, finisce nei brogliacci. A quanto risulta al Fatto, Fontana negherà un aiuto a Fratus. Nel frattempo, la Prefettura di Milano, subito avvisata delle dimissioni dei consiglieri, non dà risposte. E così entra in gioco il difensore civico. A lui il compito di salvare Legnano. Fratus, Cozzi e Lazzarini sono di nuovo in azione. Carlo Lio, presente alle cene da Berti assieme alla cerchia di Nino Caianiello, l’ex coordinatore di FI a Varese ritenuto il burattinaio delle tangenti, sarà contattato più volte. Fino a quando, a pochi giorni dalla nomina del commissario, il suo cellulare diventa muto.