“Parlavano di creare società per gestire i fondi elettorali”

Oltre alle nomine pilotate, le tangenti e le giunte manovrate, c’è una domanda agli atti dell’inchiesta milanese sul nuovo mazzettificio Lombardia: che fine hanno fatto i soldi? Anche perché Nino Caianiello, l’ex coordinatore di FI a Varese, nonché presunto burattinaio, la decima del 10% la prende, secondo la Procura, da oltre dodici anni. E così una prima risposta arriva dal verbale di Laura Bordonaro, presidente di una società partecipata di Busto Arsizio, molto vicina a Caianiello. Sentita dai pm il 4 giugno, spiega: “Ho sospettato che l’attività di Caianiello potesse essere non limpida, a Fiuggi durante il congresso del Partito popolare europeo di fine settembre 2018.

Ricordo che nel corso di un pranzo, sentii discutere Caianiello (Lara, ndr) Comi e Gorrasi della necessità di costituire delle società per far transitare dei soldi per i finanziamenti elettorali e al fine di far tornare parte dei soldi a Caianiello stesso”. Le parole di Laura Bordonaro aprono uno scenario inedito. Lara Comi ha subito replicato che trova “incredibile” la dichiarazione e si dice “estranea sotto ogni profilo”.

Tra i protagonisti della chiacchierata, oltre a Caianiello, c’è Carmine Gorrasi (indagato), avvocato e presidente della squadra di calcio Busto81. Sul conto della squadra, secondo la Procura, sono passati 10 mila euro di finanziamento pagati dall’imprenditore Daniele D’Alfonso al consigliere regionale Angelo Palumbo. Una triangolazione spiegata dal consigliere comunale di Milano Pietro Tatarella: “Il mister (Gorrasi, ndr) si è inventato una roba! Sponsorizzazione squadra di Busto”. Non solo. Secondo un’idea di Caianiello, l’associazione politica Agorà doveva diventare il collettore delle mazzette.

Cosa non avvenuta almeno a guardare i modesti flussi di denaro. Tra i bonifici ci sono anche quelli dell’eurodeputata uscente Lara Comi, indagata per finanziamento illecito e corruzione. Attorno a questa seconda accusa c’è una società riferibile al politico di Forza Italia con sede in Liguria che, secondo la Procura, avrebbe emesso almeno una fattura falsa per incassare parte di denaro da retrocedere poi al dg di Afol Beppe Zingale, che però dice di non aver mai ricevuto soldi. E poi c’è Nino Caianiello i cui conti italiani sono stati setacciati senza trovare nulla di anomalo.

C’è però un presunto fondo da 70 milioni di euro gestito a Lugano. Ne parla l’imprenditore Emilio Paggiaro con il suo legale. Scrive la Finanza: “Paggiaro riferì anche che incrociò a Lugano Lara Comi e tale Rosiello. In merito a Rosiello, Paggiaro riferì che lo stesso era amico di Caianiello, con il quale, per il tramite del figlio di Rosiello, gestivano un fondo di 70 milioni di euro”. Si tratta di Luca Giovanni Rosiello, non indagato. “Rosiello – annota la Finanza – è Ceo founder del Gruppo Keller Zable di Lugano, che opera nei mercati domestici per lo sviluppo del patrimonio immobiliare”. Di lui dirà Caianiello: “Luca è a Lugano, Luca è uno di successo!”.

Altri 3 mesi di arresti per Nardi e Savasta, accusati di corruzione

Il gip del Tribunale di Lecce, Giovanni Gallo, ha disposto altri tre mesi di custodia cautelare per i magistrati pugliesi Antonio Savasta e Michele Nardi e per l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, arrestati il 14 gennaio scorso. Nardi e Di Chiaro sono detenuti in carcere, Savasta, che ha collaborato alle indagini e si è dimesso dalla magistratura, è ai domiciliari. Sono tutti e tre accusati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e falso commessi tra il 2014 e il 2018 per aver pilotato, in cambio di mazzette, indagini istruite dalla Procura di Trani dove Savasta era pubblico ministero. Al momento dell’arresto, invece, i due magistrati erano in servizio al Palazzo di Giustizia di Roma.

La richiesta di proroga della custodia cautelare per i tre arrestati era stata avanzata giovedì nel corso dell’incidente probatorio in corso dinanzi al gip di Lecce. In quella sede il procuratore Leonardo Leone de Castris e il pm Roberta Licci, poiché è in atto un’attività investigativa e i termini di detenzione (sei mesi) sono in scadenza a metà luglio, hanno chiesto al giudice una proroga. L’incidente probatorio è proseguito ieri con l’esame dell’ispettore Di Chiaro.

Salumi in cambio di favori, giudice tributario a processo

Tredici persone sono state rinviate a giudizio a Bologna con le accuse a vario titolo di corruzione, accesso abusivo a sistema informatico e rivelazione di segreto d’ufficio. Tra gli imputati, il giudice tributario Carlo Alberto Menegatti e Sante Levoni, imprenditore di un’importante ditta modenese di salumi, poi professionisti e dipendenti di Agenzia delle Entrate ed Equitalia. Il gup Gianluca Petragnani Gelosi ha disposto il processo davanti al collegio della seconda sezione penale, per l’11 ottobre. L’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Morena Plazzi, vide nel 2016 le perquisizioni della Guardia di Finanza nello studio del componente della XII sezione della commissione tributaria dell’Emilia-Romagna. Tra l’altro Levoni è accusato di aver corrotto Menegatti, fra aprile e luglio 2016, regalandogli salumi e promettendo soldi, in cambio di consulenze favorevoli su ricorsi pendenti davanti alla Commissione tributaria regionale per la società Globalcarni Spa. Rispetto alle accuse originarie è caduto un capo di imputazione per due posizioni.

Il ministro propone una piattaforma web per segnalare le scorrettezze delle toghe

Una piattaforma web dove poter segnalare comportamenti scorretti dei magistrati, aperta a “soggetti qualificati”. Un modello più o meno analogo al whistleblowing, quello per la segnalazione di condotte illecite nella pubblica amministrazione all’Autorità anticorruzione.

È questa la prima delle proposte a cui lavora il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per “introdurre maggiore trasparenza e maggiore meritocrazia” per i giudici, come spiegano fonti di via Arenula. Una prima reazione al caso che ha travolto il Consiglio superiore della magistratura, un possibile groviglio di interessi e commistioni tra poteri che ha portato Bonafede a rilanciare la necessità di una riforma dell’organismo di autogoverno dei magistrati. “Tutti dobbiamo cominciare a lavorare a una riforma del Csm, del resto era scritto nel contratto di governo”, ha confermato il Guardasigilli 5Stelle due giorni fa, a margine dell’incontro con il capo dello Stato al Quirinale. Ma per una riforma organica del Consiglio serve tempo, vista l’evidente delicatezza del tema. Nell’attesa Bonafede ha accelerato su tre- quattro proposte a più ampio raggio, su cui i suoi tecnici lavoravano già da settimane, che potrebbero confluire nella legge delega per la riforma della giustizia o in un altro provvedimento. E la prima è appunto quella che riprende il meccanismo del whistleblowing, con una piattaforma web dove si potranno segnalare in modo criptato (cioè senza che compaiano le proprie generalità) le possibili irregolarità dei magistrati di ogni organo e grado, compresi gli stessi consiglieri del Csm. “Quelli difficili da riscontrare nella quotidianità, se non tramite inchieste specifiche”, si spiega in estrema sintesi.

Nella lista nera rientrebbe una vasta gamma di comportamenti: dai ritardi e alle assenze, fino al lassismo nel lavoro quotidiano, come il rinvio delle udienze senza motivi concreti. Per passare a conflitti d’interessi e rapporti “inopportuni”.

A inviare le segnalazioni potranno essere anche gli stessi magistrati, assieme ad altre figure “tecniche”, come il dirigente amministrativo del Tribunale o il presidente del Consiglio dell’Ordine forense locale. E a vagliare tutto, almeno in prima istanza, saranno i consigli giudiziari: organismi consultivi composti da magistrati e avvocati, istituiti in ciascuno dei 26 distretti di Corte d’appello, che generalmente si occupano delle assegnazioni e delle promozioni per le mtoghe in servizio negli uffici giudiziari. E l’obiettivo, raccontano, quello di “far emergere il merito”, limitando invece la possibilità di carriera dei magistrati scoperti tramite le indicazioni anonime, ovvero la loro possibilità di accesso a cariche dirigenziali.

Però la proposta ha anche dei rischi, evidenti. E il primo è quello di una guerra dei veleni, in teoria anche tra più livelli. Per questo al ministero pensano a sanzioni, anche severe, per chi abbia inviato tre o più segnalazioni dimostratesi poi infondate. Una via per evitare regolamenti di conti. “Ma si sta ancora lavorando”, spiegano dal ministero. Dove l’idea di fondo rimane quella di una riforma complessiva per scoraggiare le correnti e “le porte girevoli” tra magistratura e politica.

Per ora però il Guardasigilli vuole (e forse deve) “partire da più in basso”, spiegano. Lanciando primi segnali, in attesa di confrontarsi con quel Moloch chiamato Csm.

 

“Non avrà i voti per Roma, diciamo a Lo Voi di ritirarsi”

Si doveva spiegare a Francesco Lo Voi che era meglio fare un passo indietro, nella corsa per la Procura di Roma, perché non avrebbe avuto i voti delle diverse correnti e correntine del Consiglio superiore della magistratura per poter vincere sugli altri candidati. È questo il contenuto di una delle conversazioni che emergono dalle carte della Procura di Perugia che indaga su Luca Palamara, l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) e sostituto procuratore a Roma, ora accusato di corruzione. Le mire di Palamara (con magistrati e politici) potevano restare nel buio pesto delle trame delle nomine – come avvenuto peraltro finora – se non fosse per il trojan (un software capace di intercettare anche le conversazioni ambientali) installato dalla Procura di Perugia sul cellulare di Palamara. “Dobbiamo dire a Lo Voi che non ha i voti, quindi è meglio se si ritira”, è la sostanza di una delle conversazioni captate. Non sappiamo se la pressione sia mai arrivata. Di certo, Lo Voi non si è ritirato.

Quella su Lo Voi è una delle conversazioni contenute nelle carte dei pm perugini ora inviate al Csm, che da questa storia ne esce azzoppato.

Si è già dimesso Luigi Spina (indagato per favoreggiamento e rivelazione di segreto a Perugia), mentre altri quattro consiglieri si sono autosospesi perché – anche se non indagati – avrebbero partecipato a riunioni in cui si discuteva della nomina del futuro procuratore capo di Roma. Era un argomento di interesse anche della politica. Agli atti ci sono pure incontri tra Palamara, l’ex sottosegretario Luca Lotti e Cosimo Maria Ferri, storico ras della corrente di Magistratura indipendente e parlamentare Pd.

Tutti interessati a ciò che doveva avvenire a Roma, dove Lotti ha avuto qualche guaio: per lui infatti è stato chiesto il rinvio a giudizio nell’ambito di un filone dell’indagine Consip in cui è accusato di favoreggiamento. E il pm titolare di questa inchiesta è Paolo Ielo. Lo stesso contro il quale si scagliava Palamara per quelle carte inviate a Perugia in cui si raccontavano i suoi rapporti con l’imprenditore Fabrizio Centofanti e i weekend da quest’ultimo pagati. Palamara contro Ielo usa un esposto scritto dal pm Stefano Rocco Fava in cui “venivano segnalate ‘asserite’ anomalie commesse” da Ielo ma anche da Pignatone. È l’esposto rivelato dal Fatto e da La Verità che riguarda presunte ragioni di astensione in una particolare indagine in capo a Pignatone e Ielo per gli incarichi che sarebbero stati assunti dai due fratelli dei magistrati. Accuse che i pm di Perugia bollano così: “Circostanze allo stato smentite dalla documentazione sin qui acquisita”.

Anche Fava è indagato a Perugia, ma per favoreggiamento e rivelazione di segreto. In ogni modo, proprio “l’esposto di Fava – scrive la Procura di Perugia – nell’intendimento di Palamara sarà suo strumento per screditare” Ielo. Dell’esposto si parla anche il 9 maggio. Ci sono Spina, Ferri, Lotti e Palamara. Spina, è scritto negli atti, “comunica che all’esposto di Fava è allegato un cd che sarebbe stato secretato”.

Ieri Palamara ha consegnato ai pm perugini una memoria, con allegato “ogni movimento bancario”: “Intendo prima dimostrare che non sono un corrotto – ha detto ieri il magistrato –. Poi chiarirò i miei rapporti con Cosimo Ferri, Luca Lotti e altre persone con le quali, viste le cariche che ho ricoperto dal 2008 in poi, ho avuto frequentazioni. Non sono mai stato eterodiretto da nessuno nelle mie scelte”. Ma Palamara non manca di mandare un avviso ai naviganti: dice d’aver “avuto rapporti di amicizia e frequentazione esclusivamente con Fabrizio Centofanti”. Amicizia – continua il pm – che l’imprenditore “peraltro ha anche con importanti figure di vertice della magistratura ordinaria e amministrativa”.

Lo scontro ridisegna il Csm C’è chi rivuole gli autosospesi

Magistratura Indipendente all’attacco. La sezione della Cassazione della corrente conservatrice delle toghe, respinge al mittente, cioè all’Anm (l’Associazione Nazionale Magistrati), la richiesta di dimissioni per i consiglieri del Csm che hanno partecipato a un incontro in cui c’erano, in vista della nomina del procuratore di Roma, pure Cosimo Ferri, ex segretario e mentore di MI (Magistratura indipendente), già sottosegretario oggi deputato renziano e Luca Lotti, imputato a Roma per le soffiate che hanno azzoppato l’inchiesta Consip. MI in Cassazione chiede pure che quei consiglieri annullino l’autosospensione. L’opposto di Area, la corrente progressista che, invece, rinnova la richiesta di dimissioni. Intanto il Comitato di presidenza del Csm sostituisce i consiglieri che si sono autosospesi e che erano in commissioni cruciali: la Quinta, che tratta le nomine, tra cui quella del procuratore di Roma, al centro dello scandalo che ha squassato il Csm e l’intera magistratura e la Prima che tratta i trasferimenti per incompatibilità ambientale.

Nella Quinta, a presiedere, al posto di Pierluigi Morlini, togato di Unicost (la corrente centrista, di cui era dominus il pm Luca Palamara, ora indagato a Perugia per corruzione) c’è ora Mario Suriano, togato di Area, l’unico che il 23 maggio, durante la votazione sul nuovo procuratore di Roma, ha votato per il procuratore di Palermo Franco Lo Voi (MI), il preferito di Giuseppe Pignatone. Morlini, invece, aveva votato per Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, della sua stessa corrente. Come togato di Unicost, subentra Marco Mancinetti, per nulla “palamariano”, mentre per MI, al posto di Antonio Lepre, c’è ora Loredana Miccichè. Lepre aveva votato per Marcello Viola, il pg di Firenze, anche lui di MI. Così si erano espressi pure Davigo, Gigliotti, laico di M5S e Basile, laico della Lega.

In Prima, invece, entrano Giuseppe Cascini (Area) e Concetta Grillo (Unicost) al posto di Luigi Spina, dimissionario perché indagato a Perugia, e Paolo Criscuoli, MI, autosospeso. Per la sezione disciplinare, di cui faceva parte il capogruppo di MI, Corrado Cartoni, autosospeso, deve essere il plenum a eleggere il suo sostituto.

La ricomposizione delle commissioni è stata decisa dal Comitato di presidenza che è composto dal vicepresidente David Ermini, dal presidente di Cassazione Giovanni Mamone, che è di MI, e da Riccardo Fuzio, Pg della Cassazione, di Unicost, cioè le due correnti a cui appartengono i consiglieri autosospesi. Immaginabile il loro imbarazzo. Che diventa doppio per Mammone, visto che ieri proprio la “sua” MI, sezione della Cassazione, ha fatto quadrato attorno agli autosospesi.

Con un documento all’unanimità, critica l’Anm che ha chiesto le dimissioni degli autosospesi, e quindi anche il presidente Pasquale Grasso, che è, altro paradosso di questo terremoto politico giudiziario, proprio di MI. Si invitano, invece, i consiglieri che si sono autosospesi a una marcia indietro, “a riprendere senza indugio le attività consiliari”. Nel documento si parla pure di “faziosa campagna di stampa che continua a vederli associati, impropriamente, a vicende penali”, dato che non sono indagati.

Cartoni e Lepre si sono autosospesi dopo un “plenum informale” alla buvette del Csm, convocato da Ermini lunedì sera, alla vigilia del plenum straordinario voluto dal presidente Mattarella. Sulla loro decisione assunta “per senso di responsabilità istituzionale” ha pesato il pressing di tanti consiglieri e di Ermini.

Morlini e Criscuoli, invece, si sono autosospesi martedì, prima del plenum. Ci risulta che il vicepresidente li abbia convocati singolarmente per chiedere come stavano le cose. Nell’informativa della Finanza, infatti, i due togati non vengono identificati con certezza all’incontro “incriminato” con Lotti, registrato grazie al troyan inoculato nel cellulare di Palamara, presente. Si legge che c’è un “Gigi”, cioè Pierluigi Morlini e un altro “con accento meridionale”, cioè Criscuoli, giudice di Palermo.

In piena bufera, si sta svolgendo pure il congresso di Area. In apertura, la segretaria Cristina Ornano chiede le dimissioni di consiglieri autosospesi: “Chi ha sbagliato ferendo così gravemente l’onore e la credibilità dell’Istituzione giudiziaria deve fare responsabilmente un passo indietro, si dimetta, senza indugi, evitando imbarazzi e impasse istituzionali”. Area, poi, ribadisce la sua contrarietà al sorteggio per l’elezione dei togati del Csm. Al contrario del ministro della Giustizia Bonafede, che ne ha parlato al Quirinale.

Voci e smentite su accordo Dem-M5S a Campobasso

Fake news al ballottaggio. In Molise, M5S e Pd non si sarebbero mai accordati per favorire i rispettivi candidati al secondo giro elettorale previsto per domani. “È frutto di fervente fantasia”, dice il segretario del Pd in regione, Vittorino Facciolla (nella foto). La smentita arriva dopo che la Lega aveva attaccato i due partiti, per presunti piani di desistenza. Cioè, pentastellati e democratici si sarebbero impegnati a sostenere i rispettivi candidati a Campobasso (ballottaggio tra Lega e M5S) e a Termoli (dove il centrodestra sfida il Pd), per assicurarsi la sconfitta del Carroccio. “È un fatto gravissimo” fanno sapere della Lega. “Non appoggiamo il candidato della Lega e non c’è nessun endorsement per il M5S – tuona Facciolla – Noi invitiamo gli elettori ad andare a votare, ma con libertà”. Allora da dov’è partita la voce? “Forse nasce tutto dal fatto che la rete delle sinistre, a Campobasso, ha dichiarato di votare M5S”, riflette. Piccata la replica dei grillini: “Non c’è nessuna trattativa in corso col Pd a livello locale sul Molise. Non stupisce che la notizia venga da fonti Pd. I cittadini sono liberi di scegliere chi votare”. E alla Lega non resta che definirsi “soddisfatta” delle precisazioni del Movimento.

A Foggia si decide se il tacco d’Italia si tingerà tutto di rosso

L’Emilia rossa scende in Puglia: 674 sono i chilometri che separano Bologna, già madre prediletta e generosa del comunismo italiano e di ogni sua trasformazione e trasfigurazione, da Bari, un tempo città devota a Silvio Berlusconi o cliente affamata del fascismo domestico e cortese di Giuseppe Tatarella, l’indimenticabile ministro dell’Armonia, il più democristiano di Alleanza nazionale, la destra di Gianfranco Fini.

La valanga leghista sta per inghiottire Ferrara, dove è spuntato Alex Fabbri, candidato col codino, di intensa fede salviniana, ed espugna forse anche Forlì, dove il “Capitano” ha scelto il balcone del Duce per arringare la folla della capitale della Romagna. Tale è la valanga e la paura di venirne sotterrati che Reggio Emilia, Cesena e Carpi dovranno sudare al ballottaggio e tremare ancora, prima di essere certi di averla scampata.

Il centrodestra sbuca ovunque lì, mentre arretra un po’ ovunque qui. Qui, cioè in Puglia, la nuova regina del progressismo. Domani Foggia, l’ultima rimasta dei sei capoluoghi di regione, decide se concedere al centrosinistra e al Pd il successo clamoroso, il cappotto da sei a zero.

Foggia, la città della quarta mafia, la più violenta e sprezzante di quelle in circolazione (due giorni fa l’ultima retata della polizia, arrestati quasi cinquanta tra boss e affiliati, tra San Severo e il Molise), la capitale della Borsa del grano e purtroppo anche dello schiavismo in agricoltura, impoverita dalla crisi e imbruttita dalle amministrazioni che l’hanno spolpata fino all’osso, e infatti di polpa non ce n’è, deciderà se il tacco d’Italia sarà dipinto tutto di rosso, a guida Pd. Il pronostico della vigilia è sfavorevole. E però… E però ieri hanno raggiunto la Capitanata il presidente della Regione Michele Emiliano e i sindaci del cartello, di recente come di più antica vittoria. Antonio Decaro, ingegnere, tecnico dei trasporti, presidente dell’Anci, un uomo del fare ante litteram, a Bari ha travolto, al secondo mandato, il centrodestra guadagnando al primo turno oltre il 65 per cento dei voti. Non c’è stata partita, e nemmeno a Lecce, un tempo feudo di Adriana Poli Bortone e Raffaele Fitto, il centrodestra ora a trazione leghista è riuscita a spuntarla. Ha vinto Carlo Salvemini, imprenditore illuminato e trascinatore di un popolo dalle sconosciute simpatie a sinistra che con lui ha ritrovato una passione e una dedizione impreviste.

Sul palco con i neo vincitori, quegli altri che hanno festeggiato il successo nelle tornate precedenti. Il sindaco di Taranto, dove il “tradimento” dell’Ilva ha mandato a gambe all’aria i Cinquestelle (alle Politiche avevano saccheggiato le urne e adesso si ritrovano senza più rappresentanza in consiglio comunale). Anche Brindisi è del centrosinistra, come Barletta e Trani. E tutti ieri sera hanno fatto il tifo per Pippo Cavaliere, ingegnere, di estrazione civica, che neanche si pensava potesse impegnare il sindaco uscente Franco Landella al ballottaggio. Landella è il favorito, a un passo dal traguardo. E la decisione dei 5S di non schierarsi e tenere in frigo il 15 per cento dei voti guadagnati al primo turno, certo non lo danneggia.

“Cavaliere è un buon nome, una persona rispettabile. È stato mandato nell’arena un mese fa, non tutti ancora lo conoscono al punto che alcuni cittadini scambiano il suo claim della campagna elettorale (‘Punto primo’, un modo per definire, nella chiacchiera da bar, una questione importante) per il suo nome e cognome. C’è Landella e quell’altro. Quello, Punto primo”. Ride Nancy Mangialardi, archeologa che ha conosciuto sulla sua pelle quanto il territorio sia in mano alla malavita. “Avevamo individuato e fatto venire alla luce una villa romana. Ci sarebbero stati finanziamenti adeguati. Ma in una notte la villa fu avvolta dalle fiamme. Abbiamo perso un tesoro archeologico e un lavoro”.

La campagna deve rimanere libera, magari per sfruttare le braccia dei migranti irregolari tenuti da schiavi nel luogo eletto della schiavitù, località Mezzanone. “Sembra incredibile ma a Foggia la Lega non ha attecchito quanto nel resto d’Italia e persino la sicurezza e lo stop ai migranti, che altrove hanno fatto la fortuna di Salvini, qui si sono rivelati due temi accessori, sicuramente non rilevantissimi”, spiega Sergio, che divide il suo tempo tra la biblioteca e l’insegnamento.

E così Foggia vive la dimensione predatoria e arrogante di un racket che alla vigilia di un comitato straordinario per l’ordine e la sicurezza, fa saltare con due bombe le vetrine di altrettanti negozi, per dare il benvenuto alla polizia e spiegare chi comanda davvero, ma non dibatte della vera emergenza che altrove diviene invece vessillo per liquidare ogni altro problema.

Foggia è in mano alla criminalità, come tutta la Capitanata. Della Puglia, rappresenta la porzione meno attrattiva, il luogo dove l’impresa è fragile e assistita, il posto dove nemmeno il Gargano, maestoso promontorio a picco sul mare, è riuscito a dare sviluppo e stabilità all’imprenditoria turistica, sempre a corto di idee e di finanza. “Il foggianesimo” spiega Alessio, un altro insegnante, è il felice neologismo col quale Nichi Vendola, al tempo in cui governava la regione, rappresentava una postura votata alla richiesta, all’assistenza perpetua o in alternativa al piccolo favore, all’idea che la fortuna sia la somma di furbizie e il talento una condizione non decisiva né necessaria per guadagnare il successo. Cioè arricchirsi, poco o tanto, e amen.

Arrivò a pozzallo… E il capitano tacque

Il copione è notoma il finale inedito. Ieri il mercantile italiano Asso 25 ha salvato 62 migranti nelle acque territoriali di Malta e li ha fatti sbarcare in Italia nel porto di Pozzallo (Ragusa). Ricorda qualcosa? E cos’è che manca alla solita sceneggiatura? Sì, manca Matteo Salvini: che fine ha fatto? Per la prima volta il capitano ha taciuto: niente barricate mediatiche, niente dichiarazioni furibonde, niente porti chiusi, niente navi tenute ferme per giorni – con gli esseri umani rigorosamente a bordo – al largo della terra ferma. Si può obiettare che la Asso 25 è un’imbarcazione italiana, ma pure la Diciotti era una nave della Marina militare. In quell’occasione il ministro dell’Interno montò un caso clamoroso, che gli valse una denuncia per sequestro di persona e una coda politica piuttosto penosa, con il Senato della Repubblica – e i suoi alleati Cinque Stelle – convinti a votare contro l’autorizzazione a procedere. Nel frattempo Salvini si è beccato un’altra indagine (ancora per sequestro di persona) per la gestione dello sbarco dei migranti della Sea Watch 3 (insieme a Conte, Di Maio e Toninelli). Stavolta Salvini si è limitato a dichiarare che “i 62 migranti andranno in strutture della Cei, a spese del Vaticano, ognuno fa la sua parte”. Non sarà mica che il nostro indomito ministro dell’Interno si è impaurito per gli avvisi di garanzia?

Bruxelles minaccia, ma Draghi fa calare lo spread

Se lo spread o, meglio, i rendimenti dei titoli di Stato obbedissero alle logiche un po’ macchiettistiche con cui vengono spesso raccontati dovremmo trovarci in una bufera finanziaria. La Commissione, com’è noto, ha chiesto ai governi Ue di aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia: “Noi siamo aperti al dialogo, ma in questo caso è necessaria prima una manovra correttiva”, ha intimato ieri il vicepresidente Valdis Dombrovskis, frontman dei falchi a Bruxelles.

Non solo. Sempre ieri la Lega ha continuato a proporre i famigerati minibot, già bocciati da Mario Draghi in persona giovedì, per pagare i debiti commerciali dello Stato: “Tutte le soluzioni nuove sono contestate, non dico che siano la Bibbia, ma sono una possibilità per accelerare i pagamenti”, ha detto il sottosegretario Giancarlo Giorgetti (ma ne ha parlato anche Matteo Salvini). Insomma, lo spread sarebbe dovuto andare a 300 e invece no: è calato anche ieri, coi rendimenti dei Btp decennali sotto 2,4%, come non accadeva da un anno e più. La bufera annunciata nei giorni scorsi se la sta prendendo comoda, anche se – va ricordato – l’Italia paga comunque in interessi assai più degli altri Paesi europei.

Il perché lo spread non segua le dichiarazioni bellicose di questo o quello, è semplice: è bastato che il governatore della Bce dicesse che Francoforte continuerà a tenere in piedi la baracca per far dimenticare ai famosi mercati pure i pessimi dati sull’economia tedesca (-1,9% la produzione industriale di aprile su marzo; la Bundesbank ha tagliato da 1,6 a 0,6% la crescita annuale del Pil). Giovedì infatti Draghi, oltre ad allungare il periodo dei tassi bassissimi e a lanciare il terzo round di aste di liquidità quasi gratis per le banche, ha pure buttato lì – visto che l’inflazione continua a non crescere come dovrebbe – che il Quantitative easing potrebbe resuscitare: se andrà come l’altra volta, ora banche e altre istituzioni finanziarie si caricheranno di titoli di Stato scaricandoli poi nel bilancio della Bce quando ripartirà il Qe. Francoforte ha dato l’ennesimo calcio al barattolo.

La situazione sui mercati, insomma, è comunque favorevole per l’Italia, che rimane però sotto schiaffo “politico”. Com’è noto, il Tesoro ha messo nero su bianco che – grazie a un favorevole andamento delle entrate e alle domande più basse del previsto su reddito di cittadinanza e quota 100 (valgono 4 miliardi secondo il leghista Claudio Borghi) – il deficit a fine 2019 si fermerà al 2,1% contro il 2,5 stimato dalla Commissione: ieri Reuters ha raccolto e pubblicato previsioni ancor più “lusinghiere” (tra l’1,8 e il 2%). La tensione sui conti pubblici, però, non è calata nel governo: Bruxelles, di fatto, chiede al ministro Tria – per considerare effettivi i risparmi di cui parla – di “definanziare” reddito e pensioni e non aspettare di accertare le minori spese a consuntivo, né ha intenzione di tener conto dell’andamento delle entrate, senza contare – last but not least – che pretende impegni sulla manovra per il 2020.

Insomma, sul bilancio dello Stato c’è una certa tensione. Basti dire che Di Maio aveva già impegnato i risparmi del reddito di cittadinanza su un “decreto famiglia” stoppato proprio dal Tesoro e ora scomparso dai radar. Quale sia la situazione lo dicono, però, anche le dimissioni ventilate dalla ministra della Salute Giulia Grillo nel caso i fondi del Servizio sanitario vengano decurtati di nuovo: il Patto per la salute con le Regioni prevede infatti – dopo un decennio di fondi bloccati (e quindi di tagli in termini reali) – aumenti per 2 miliardi quest’anno e 1,5 il prossimo; il Tesoro però ha inserito una clausola che gli consente riduzioni se dovesse servire a far quadrare i conti. Problema: la stessa clausola, messa nel Patto 2014-2016, si risolse in 115,5 miliardi all’anno promessi, diventati 111 miliardi al momento di pagare.