Salvini va da Barbara D’Urso e salta un altro Consiglio Ue

E con questa fanno sei su sette: sono le riunioni del Consiglio d’Europa saltate dal ministro degli Interni italiano, Matteo Salvini. Anche ieri il capo della Lega era impegnato – in teoria – a partecipare all’incontro con gli omologhi colleghi degli altri 27 Stati membri; anche ieri, come in cinque precedenti occasioni, il “capitano” ha disertato.

Non si puo dire, d’altra parte, che la sua agenda personale non fosse piena: ore 11, mini conferenza stampa in prefettura a Firenze; ore 14 comizio in piazza a Romano di Lombardia (Bergamo); ore 16 incontro pubblico a Novate Milanese (Milano); ore 19 comizio in piazza a Paderno Dugnano; ore 21 comizio in piazza a Biella. L’unica finestra libera nell’intensa giornata di campagna elettorale salviniana è stata riempita con un’ospitata televisiva nella trasmissione di Barbara D’Urso, Pomeriggio Cinque.

Il Consiglio d’Europa è l’organo dell’Unione che riunisce i ministri dei governi di ciascun Paese competenti per la materia in discussione. Tra giovedì e ieri i ministri dell’Interno degli Stati comunitari si sono incontrati in Lussemburgo e hanno trovato un accordo “parziale” sulla direttiva rimpatri: una serie di misure che avrebbero come obiettivo l’accelerazione e l’aumento dei tassi di rimpatrio, oltreché il contrasto alle fughe e ai movimenti secondari dei migranti (tra un Paese dell’Ue e l’altro).

I rimpatri sono uno degli argomenti più delicati delle politiche salviniane sull’immigrazione: la scarsa efficienza delle procedure di rimpatrio e le statistiche deludenti su questo aspetto sono uno dei pochi punti davvero deboli nel bilancio del primo anno del leghista al Viminale. Eppure Salvini in Lussemburgo non c’è andato: a fare le sue veci c’era il sottosegretario Nicola Molteni.

Il vicepremier era come sempre in giro per comizi: domani si vota per i ballottaggi delle elezioni comunali. Almeno a giudicare dalla sua agenda, Salvini è animale da campagna elettorale a tempo pieno e ministro solo nei ritagli. Negli ultimi cinque giorni – tra lunedì 3 giugno e venerdì 7 – è passato da Roma solo giovedì pomeriggio per l’incontro chiarificatore con Luigi Di Maio a Palazzo Chigi. Per il resto ha percorso centinaia di chilometri, visitato sette regioni (Veneto, Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria) per la bellezza di 23 eventi elettorali. Interrotti quasi esclusivamente per interviste televisive e radiofoniche.

L’argomento è ormai noto. Il capo della Lega ha l’allergia per gli uffici e il lavoro tecnico: le giornate trascorse da Salvini al Viminale sono un’eccezione, si contano quasi sulle dita delle mani; il suo seggio al Senato è rimasto deserto nel 97,89% delle votazioni; le sue assenze alle riunioni del Consiglio d’Europa con quella di ieri sono diventate 6 su 7. “È un argomento polemico che non funziona – risponde lui quando interpellato sul tema – e agli italiani non interessa. Per mandare avanti un ministero non bisogna essere fisicamente presenti. Io lavoro anche al telefono e pure quando mi sposto in macchina”.

Anche ieri, intanto, mentre i colleghi europei decidevano sui migranti, Salvini continuava ad arringare contro l’Unione. Non la frequenta, ma promette una rivoluzione: “Con i voti dati alla Lega abbiamo più forza per cambiare le regole europee che fanno male all’Italia”.

Corte costituzionale: “Prostituirsi non è mai una scelta libera”

“Prostituirsinon è mai una scelta completamente libera”. La Corte costituzionale salva i precetti della legge Merlin, che dal 1958 punisce il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione. La questione di legittimità era stata sollevata dalla Corte d’Appello di Bari durante il processo all’imprenditore Giampaolo Tarantini e a Massimiliano Verdoscia, imputati per aver presentato alcune escort all’allora premier Silvio Berlusconi. Secondo i giudici, in quel caso, non c’era coercizione, perché gli imputati avrebbero favorito una forma di prostituzione “liberamente e volontariamente esercitata”.

Visione ribaltata dalla Consulta, che invece afferma: “La decisione di vendere sesso è quasi sempre determinata da fattori di ordine non solo economico, ma anche affettivo, familiare e sociale che limitano e condizionano la libertà di autodeterminazione dell’individuo”. La Consulta ha quindi specificato: è chi si prostituisce a essere il soggetto più debole del rapporto. “Anche nell’attuale momento storico, non esiste dunque una prostituzione moderna e libera, diversa da quella coattiva o per bisogno, come proposto dalla Corte d’Appello di Bari”, conclude.

Paura da rimpasto: Grillo difende Giulia Grillo

Il rimpasto ancora non c’è, eppure è già una nube sopra un governo che vive tra i nuvoloni. Anche se i Cinque Stelle giocano a nascondino mentre la Lega ammette l’evidente, con Matteo Salvini: “Se ci fosse la necessità di una squadra più compatta e di una revisione del contratto io sono disponibilissimo”. E il riferimento al contratto da rivedere è un bacio al curaro. Nel frattempo però voci e condizionali hanno già aperto una nuova faglia dentro il M5S del 17 per cento. “Se ci saranno tagli alla Sanità mi dimetterò, non parteciperò all’ennesima mannaia sulla salute pubblica” avverte la ministra alla Salute Giulia Grillo: decisa a vendere cara la pelle, perché sa che Di Maio il suo ministero vuole cederlo alla Lega. Ma a forte rischio c’è anche Danilo Toninelli, proprio l’ex capogruppo che assieme alla Grillo accompagnava Di Maio nelle consultazioni al Quirinale per formare il governo.

Ora è il titolare delle Infrastrutture, cioè il ministro che deve gestire la bomba del Tav. Però presto potrebbe essere una rogna di qualcun altro, sempre del M5S, perché in questo caso il capo pensa a una rotazione interna. E il primo nome in lista è quello di Stefano Patuanelli, capogruppo in Senato molto stimato dai colleghi, ingegnere. Però potrebbe essere un azzardo toglierlo da Palazzo Madama, dove la maggioranza si regge su numeri stretti e il M5S ha in pancia dissidenti come Paola Nugnes e Elena Fattori. Non bastasse questo, c’è la paura dei sottosegretari. Come anticipato dal Fatto, per la prossima settimana è in arrivo una graticola, ossia un confronto tra loro e i parlamentari, nel quale tutti i sottosegretari del M5S dovranno spiegare nei dettagli quanto fatto nel primo anno di governo. E sguardi e giudizi degli eletti peseranno sulle sentenze del capo, di Di Maio, che deciderà se e chi rimuovere: e ai piani alti raccontano di almeno 5-6 sottosegretari in bilico. Ma del rimpasto il capo politico, Conte e Salvini discuteranno in un vertice a tre, previsto per lunedì. Nell’attesa, trabocca la rabbia della Grillo. Ieri mattina è stata difesa dal fondatore, Beppe Grillo, che ha rilanciato sul blog una lettera in cui la ministra racconta di “una nostra risoluzione per la trasparenza sul costo dei farmaci, adottata da 194 Paesi”. Un chiaro segnale, notato dai big del Movimento. “Ma anche diversi parlamentari si sono schierati con lei” sostiene un eletto a lei vicino. Insomma, Grillo non ha alcuna voglia di farsi da parte.

Più o meno come Toninelli, che forti voci ieri sera davano come pronto a dimettersi all’inizio della prossima settimana. Ma ufficialmente il ministro fa spallucce: “Su di me ci sono dibattiti che rigetto senza ascoltarli”, scandisce a Radio Anch’io. E su Facebook si palesa con una diretta in cui “fa il punto” sul dossier delle grandi navi a Venezia. “Toninelli? Non chiedo la testa di nessuno” giura Salvini, che invece invoca un sostituto per Paolo Savona alle Politiche Ue: “Chiederò al premier che venga nominato il prima possibile”. Ieri i 5Stelle sussurravano: “Salvini ha buttato lì il nome di Alberto Bagnai”, ossia del presidente della commissione Finanze del Senato. Ma pare una suggestione. Mentre è concreto il fatto che la Lega non ambisca alla Salute, difficile da gestire, e punti piuttosto a prendersi il ministero della Difesa, quello di Elisabetta Trenta, “perché così chiuderebbe il cerchio sulla sicurezza”. Però Di Maio l’ha blindata e terrà il punto, giurano, anche nel vertice di lunedì prima del Consiglio dei ministri. E a occhio sarà una partita a scacchi.

Conte convoca i vice: “Vertice a tre prima del Cdm di martedì”

Si riparte da dove i tre si erano lasciati, cinque giorni fa, dopo la conferenza stampa del premier Giuseppe Conte. “Mi fa molto piacere che Matteo Salvini e Luigi Di Maio abbiano ricominciato a parlarsi, con toni diversi da quelli della campagna elettorale, ma ora dovremo sederci a un tavolo tutti e tre e concordare una piattaforma chiara per proseguire, se non basterà una riunione ne faremo una seconda e poi una terza”.

Il premier è di ritorno da quel viaggio in Vietnam che ha costretto Lega e Cinque Stelle a un paio di giorni di decantazione e adesso convoca il vertice a tre – “lunedì, prima del Consiglio dei ministri di martedì” – per stabilire come andare avanti. Nella sua conferenza stampa a inizio settimana, Conte ha ricordato che sarà lui a trattare con la Commissione europea, “in pieno e necessario raccordo con il ministro del Tesoro”. Di fronte alle notizie sulla possibile procedura di infrazione per debito eccessivo nel 2018, Salvini ha rilanciato chiedendo una revisione addirittura del tetto al 3 per cento del rapporto tra deficit e Pil. Conte, sul punto, non vuole inseguire le provocazioni: “La questione del 3 per cento rimanda al tema della revisione del patto di stabilità e crescita, questione che sono ben disponibile ad affrontare, ma finché non riusciremo a ottenere la modifica del patto sono quelle le regole che ci verranno applicate”. Il messaggio è chiaro: le regole si possono anche cambiare, ma nell’attesa vanno seguite. Palazzo Chigi imposterà un dialogo con la Commissione tosto (“Nessuno può accusarmi di essere mai stato morbido nelle mie posizioni”) ma anche senza strappi. La strategia in vista della legge di Bilancio d’autunno è tutta da delineare e il premier si muoverà soltanto “con il più ampio coinvolgimento politico, concorderemo una linea con i vicepresidenti, in modo che il mio sia un mandato pieno al più alto livello”.

Certo, è complicato farsi prendere sul serio da Bruxelles mentre il Parlamento approva la mozione leghista che chiede l’introduzione dei “mini-Bot” per saldare i debiti arretrati della Pubblica amministrazione, una specie di valuta parallela che a molti è parsa il primo passo per l’uscita dall’euro. Conte risponde da professore, prima che da premier: “È una iniziativa parlamentare che non ho ancora discusso con i promotori della Lega, ma da giurista mi sembra evidente che presenta diverse criticità”.

La questione che più ha inquietato il presidente del Consiglio nei giorni in Vietnam è però quella del Csm e dei contatti tra magistratura e politica per le nomine dei principali incarichi giudiziari. Da ex componente del Cpga, l’organo di autogoverno della giustizia amministrativa, Conte è particolarmente sensibile al tema: “È una vicenda molto grave, da non sottovalutare, senza entrare nel merito delle indagini mi sembra che l’auto-sospensione di alcuni membri del Csm che hanno avuto rapporti impropri con la politica non sia una reazione sufficiente ma sarebbe un errore anche l’azzeramento dell’intero Consiglio, una scelta che finirebbe per penalizzare chi si è comportato bene”. Tutte le idee di riforma che circolano, incluso il sorteggio, per Conte hanno pro e contro da esaminare, ma qualcosa andrà fatto per rimediare a un “gravissimo vulnus alla credibilità della magistratura”. Perché, è il pensiero del premier, “i magistrati devono essere ma anche apparire indipendenti, altrimenti come si può chiedere ai cittadini di avere fiducia nel giudizio di chi il giorno prima discuteva con la politica la spartizione delle poltrone?”.

Martina, di’ qualcosa

“Martina, di’ qualcosa. Martina di’ qualcosa, rispondi, non ti far mettere in mezzo sulla giustizia. Martina di’ una cosa di sinistra. Di’ una cosa anche non di sinistra. Di’ qualcosa di buonsenso. Di’ qualcosa”. Invece di citare il classico anatema di Nanni Moretti su D’Alema, avremmo voluto chiedere a Maurizio Martina di commentare quello che è emerso, nelle recenti indagini, sui rapporti tra alcuni esponenti del Partito democratico e alcuni magistrati. Avremmo voluto chiedergli la sua opinione sui movimenti di Luca Lotti, che è stato uno dei suoi “grandi elettori” nelle ultime primarie del Pd (e che ora peraltro sta svuotando la mozione Martina, portando nella sua nuova corrente “Base Riformista” buona parte dei parlamentari legati all’ex vice segretario). Avremmo voluto chiedergli se era d’accordo con Franco Roberti – l’ex procuratore nazionale antimafia appena eletto nelle liste europee del Pd, candidato proprio su iniziativa di Martina – che sul tema ha avuto parole molto precise: “Il partito, finora silente, deve prendere una posizione di netta e inequivocabile condanna dei propri esponenti coinvolti”. Avremmo voluto, e invece Maurizio Martina ha educatamente rifiutato la richiesta di intervista: “Oggi sono pieno di iniziative elettorali per i ballottaggi, non ho tempo”. Questione di priorità.

Fabio Rampelli (FdI): “I dem hanno ancora il coraggio di parlare?”

Con quale coraggio il Pd mette ancora bocca sulle vicende del Csm? La provocazione è di Fabio Rampelli (Fratelli d’Italia), vicepresidente della Camera. Per il melonaino i dem sono “impudenti” a occuparsi ancora di magistratura, considerato che “nella nomina dei componenti laici hanno costantemente spadroneggiato” e i personaggi coinvolti nell’indagine “fanno parte del cerchio magico di Renzi-Lotti-Ferri”. Secondo Rampelli, ora la priorità “è strappare il potere giudiziario da bande e sottobande legate alle varie costole della sinistra per dare centralità a quella maggioranza silenziosa di magistrati onesti e imparziali, veri servitori dello Stato”. La salute della magistratura – aggiunge – non è mai stata così a rischio: “Spartizione delle procure, promozioni, consulenze pilotate, prebende sono diventati veri e propri cancri da estirpare. Uno scandalo al cubo se si pensa, con terrore, che è il Capo dello Stato a presiedere l’organo di autocontrollo dei giudici”. Per rimediare servono “riforme radicali che ricostruiscano il rapporto fiduciario tra i cittadini e le toghe: separazione delle carriere, abrogazione delle nomine parlamentari, cambiamento del sistema elettorale dei collegi”, conclude Rampelli.

Renzi si difende sul Bilderberg: “È un posto dove ci si confronta”

Il Gruppo Bilderbergè ancora oggetto delle teorie di tutti i complottisti del web: l’edizione 2019 si è tenuta a Montreux, in Svizzera, il weekend scorso, con 130 leader occidentali. Tra i partecipanti italiani c’era anche Matteo Renzi che nella sua enews risponde alle polemiche sui social per la sua presenza: “Sono stato per tre giorni al Bilderberg, per la prima volta. Altro che complotti e logge internazionali: un luogo di alta discussione, di confronti su intelligenza artificiale e cybersecurity, rapporti con la Cina e conquista dello spazio, futuro dell’Europa e relazioni con gli Stati Uniti”. Il senatore del Pd che alterna le presenze in Parlamento con le sue conferenze ben remunerate in giro per il mondo (grazie a un network di conoscenze che la presenza al Bilderberg ha contribuito a rafforzare) non perde l’occasione per attaccare il governo gialloverde: “Purtroppo siamo sommersi da banalità e pregiudizi: se solo si potesse discutere di cose serie, anche in Italia. E invece qui anziché parlare di intelligenza artificiale, dobbiamo confrontarci con la stupidità naturale di una leadership politica che non tocca palla su nulla, dai dossier europei all’operazione Fiat Renault”. Chiude speranzoso: “Tornerà prima o poi il tempo della qualità, della competenza, del merito. Nel frattempo speriamo che questi non facciano troppi danni, altro che i complotti del Bilderberg!”

Così Woodcock fu “tradito” dalla cronista

Henry John Woodcock è un magistrato “stimato” dai colleghi, la cui “professionalità e correttezza” è stata riconosciuta anche dai capi, ma c’è un episodio durante le indagini Consip che gli è costato una censura dalla Disciplinare del Csm, che il 20 maggio ha depositato le motivazioni: è la chiacchierata “salottiera” con l’amica giornalista Liana Milella di Repubblica, di cui non mise a parte l’allora procuratore reggente Nunzio Fragliasso, ad aprile 2017.

La sentenza è stata emessa dal collegio presieduto da Fulvio Gigliotti, laico M5S, relatore Marco Mancinetti (togato di Unicost, la corrente di Palamara, ma “dissidente” rispetto al pm indagato a Perugia). Gli altri componenti erano Piercamillo Davigo (AeI), Giuseppe Cascini (Area, sinistra) e Corrado Cartoni (MI, tra gli autosospesi per l’incontro con Lotti, Ferri e Palamara in vista della nomina del procuratore di Roma), Filippo Donati (laico M5S),

A Woodcock è stata inflitta la censura, pena minima per la colpa di “grave scorrettezza” nei confronti di colleghi, ma dalle conseguenze pesanti: carriera bloccata per una decina di anni, niente incarichi direttivi e semidirettivi.

Si legge nelle motivazioni che il pm non è stato condannato perché ha parlato con Milella. Infatti la giornalista, ha confermato sia davanti al pg della Cassazione Mario Fresa sia davanti al Csm, di aver “tradito” Woodcock, promettendogli che avrebbe tenuto per sé quella chiacchierata su Consip e le polemiche per i presunti conflitti con la Procura di Roma, che aveva ereditato la parte del fascicolo che coinvolgeva Luca Lotti, Tiziano Renzi e l’ex consulente di Palazzo Chigi, Giorgio Vannoni.

Il punto è che Woodcock, secondo i giudici, il giorno dopo non disse nulla a Fragliasso durante la riunione convocata dal procuratore reggente per chiedere massima riservatezza. E non l’avvisò neppure la sera del 12, quando chiese a Fragliasso di parlare con Milella “perché non poteva farlo lui”. Fragliasso ha testimoniato che “se me l’avesse detto non avrei accettato la telefonata della Milella”.

Ma il pm, ha sempre detto la difesa e immaginiamo lo ribadirà in Cassazione, non disse nulla: il suo obiettivo era che Milella riportasse le dichiarazioni ufficiali di Fragliasso e non le sue.

Per i giudici non conta neppure l’ammissione di Woodcock a Fragliasso il giorno della pubblicazione dell’articolo, “tardiva” per i giudici, anche se il pm al collegio aveva sottolineato che questa incolpazione non ci sarebbe stata senza quell’ammissione fatta “per onestà”. Per i giudici del Csm “aveva il dovere di informare prima il dirigente” anche alla luce “delle preoccupazioni manifestate” dal pm sul rischio pubblicazione.

Woodcock, come la collega Carrano, è stato assolto dall’accusa più grave di aver leso il diritto di difesa di Vannoni sentendolo come testimone e non come indagato, con l’avvocato. Secondo i giudici c’è illecito disciplinare solo se si è di fronte a un atto “abnorme”, altrimenti si rientra “nella tutela del principio dell’insindacabilità dell’interpretazione” dei magistrati.

I messaggi di Amara all’ad Eni: “Lavorai per la sua nomina”

Piero Amara, l’ex legale esterno dell’Eni, l’uomo che nell’ombra, secondo le accuse, manovrava magistrati per organizzare inchieste farlocche, aggiustare sentenze, nominare i capi delle Procure che gli stavano più a cuore, è pronto a depositare una memoria che mira dritta all’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi e all’ambiente renziano. Amara sostiene di essersi concretamente occupato della nomina di Descalzi su richiesta di alti dirigenti dell’Eni, attraverso un suo vecchio amico, Denis Verdini, e mettendo al corrente dei suoi movimenti anche Luca Lotti, presentatogli, proprio nel 2014, da Andrea Bacci, imprenditore all’epoca legato al “giglio magico” renziano. “Premettendo che non ero affatto indispensabile – dice Amara ,– in occasione della prima nomina di Descalzi furono messe in campo tutte le possibili ‘risorse relazionali’ che potevano contribuire a creare gradimento sul soggetto. Mi rivolsi con grande insistenza a Verdini perché perorasse anche lui la causa di Descalzi e, soprattutto, convincesse Matteo Renzi a incontrarlo privatamente ma a Londra e non in Italia”.

Un incontro tra il premier in carica e il manager Eni effettivamente vi fu, nell’aprile 2014, a Londra, due settimane prima che Renzi nominasse Descalzi al vertice dell’Eni. Ma nessuno dei protagonisti conferma la versione di Amara. Abbiamo chiesto ad Amara se Renzi fosse al corrente delle sue presunte manovre: “A mio avviso no”, è la risposta. Fonti vicine all’ex premier comunicano al Fatto che Renzi ritiene la versione di Amara ridicola e totalmente infondata. Verdini, al quale abbiamo chiesto di smentire o confermare, non ci ha risposto. “Non so di cosa si stia parlando. È tutto falso”, è la replica di Lotti. “Assolutamente falso”, è la risposta dell’ad di Eni, attraverso il suo ufficio stampa: “Descalzi all’epoca viveva a Londra ed era stato invitato dall’ambasciatore Pasquale Terracciano insieme con altri imprenditori italiani. Non c’era stato neanche un incontro privato. Al tempo non conosceva Lotti e non ha mai conosciuto né Verdini né Amara”.

Nessuno conferma. Il Fatto non può sapere se quel che sostiene Amara sia vero o falso. Se mente, è il caso di capire perché lo stia facendo e quali siano i suoi reali obiettivi. Se dice il vero, apre uno scenario sulla partita Eni del 2014 che non può lasciare indifferenti. Toccherà alla Procura di Milano, alla quale depositerà la sua memoria, vagliare e riscontrare – se lo riterrà opportuno – se questi e altri episodi siano frutto di fantasia o abbiano un appiglio con la realtà. In ogni caso un fatto è certo: Amara sta alzando il tiro ed è il caso di capire perché.

Il Fatto ha già rivelato che la Procura di Milano – non in questi giorni ma nel luglio scorso – s’è informata, durante un interrogatorio, sui rapporti tra Amara e Lotti (non indagato, ndr). E un uomo vicino ad Amara ha confermato che i due si conoscevano già dal 2014. A far incontrare i due fu un amico comune, Andrea Bacci, convocato come testimone, nell’estate 2016, dal pm della Procura di Siracusa, Giancarlo Longo. E non si tratta di un dettaglio da poco.

Il pm Longo – che ha patteggiato 5 anni con l’accusa di corruzione in atti giudiziari – in quel momento è a libro paga di Amara. E istruisce, su indicazione dello stesso Amara, un fascicolo farlocco che mira a dimostrare una tesi: Descalzi era vittima di un fantomatico complotto che voleva scalzarlo dalla guida dell’Eni. Il fascicolo in questione è tra i capi d’accusa patteggiati da Longo. L’obiettivo, secondo la Procura di Milano che indaga sulla vicenda, era intralciare l’inchiesta sulla maxi-tangente pagata, secondo l’accusa, per l’acquisto del giacimento Opl245 in Nigeria, dove Descalzi oggi è imputato per corruzione internazionale.

Convocato da Longo, in sostanza, Bacci conferma che un imprenditore iraniano gli parlò del complotto contro l’ad di Eni. Longo intendeva convocare anche Lotti e Carrai (che al Fatto precisa di non saper nulla di questa storia e di non conoscere Amara) ma non fa in tempo: il fascicolo gli viene sottratto e trasferito a Milano. Si scoprirà che il complotto, in realtà, mirava a colpire due consiglieri indipendenti dell’Eni, Luigi Zingales e Katrina Litvak. Adesso, in questo fascicolo, approderà la versione di Amara sui suoi rapporti con Lotti e Verdini per sponsorizzare Descalzi. È la versione di un uomo che ha già patteggiato tre anni per corruzione in atti giudiziari a Roma; ha chiesto il patteggiamento a Messina nell’inchiesta “Sistema Siracusa”; è indagato a Milano per il “depistaggio” sul finto complotto contro Descalzi e per “induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria” e “autoriciclaggio”, poiché avrebbe ricevuto denaro dall’Eni, tramite contratti di trading petroliferi stipulati con la Napag, una società di cui si sospetta sia il dominus (lui nega). Infine è imputato a Siracusa per false fatturazioni e rischia un rinvio a giudizio con l’accusa di bancarotta. Attore di trame complesse, Amara conosce di certo molti segreti. E in queste ore sta giocando la sua partita: è importante capire quale sia.

Peones, boiardi e nomine: il Lotti Party dentro il Pd

Col solstizio d’estate, il 20 giugno, Luca Lotti compie 37 anni con un grande avvenire dietro le spalle. Non soltanto per i dopocena con i magistrati per confabulare sui capi delle Procure, ma perché il fu prodigioso consigliere comunale di Montelupo Fiorentino – già sottosegretario a Palazzo Chigi, ministro dello Sport e tante altre cose – maneggia un potere residuo con la richiesta pendente di rinvio a giudizio per l’inchiesta Consip e il sostegno residuo (ma a debita distanza) di Matteo Renzi. Addio quei tempi in cui era il pensiero e l’azione di Matteo, quei tempi in cui Lotti era la radice del verbo lottizzare, iperattivo – forse troppo – su più fronti. “Parla con Luca”, così Renzi liquidava i dirigenti d’azienda spaesati nel renzismo che finì per rottamare se stesso. Oggi il “lampadina” – con la chioma rada ma ancora bionda – è un deputato semplice, un piccolo centro di potere nel Partito democratico, ma pure un riferimento di una arcigna corrente e di una manciata di boiardi ancora per poco riconoscenti, di colleghi prudenti perché Luca sa, fa, muove. Dialoga con i magistrati.

All’ex ministro vanno ascritti una decina di parlamentari, consapevoli delle oscillazioni che la politica impone per primario spirito di sopravvivenza: Antonello Giacomelli, che su spinta di Luca bombardava Antonio Campo Dall’Orto, direttore generale Rai; Alessia Rotta, Raffaella Paita, Alessia Morani, Simona Malpezzi, Emanuele Fiano, Salvatore Margiotta, Ernesto Magorno, Franco Vazio, poi il sindaco di Prato, Matteo Biffoni, e con un asterisco va citato anche Davide Ermini. Quest’ultimo è il vicepresidente del Csm, assurto a guida dell’organo di autogoverno della magistratura – adesso violenta arena di lotte fra toghe – con l’inequivocabile regia di Luca. Ermini ha poi saggiamente deciso di consegnarsi al presidente del Csm (e della Repubblica) con una visita da Sergio Mattarella al Quirinale due mesi fa.

Il “lampadina” è la malta che lega il renzismo in sonno ai dem di Nicola Zingaretti. Ma Nicola Danti, candidato lottiano al Parlamento europeo, ha mancato l’elezione. Un’umiliazione. Finché ha goduto della protezione del premier Renzi, Luca ha scorrazzato con libertà di manovra: i buoni rapporti con gli editori per l’incarico di Chigi di generoso sottosegretario all’editoria, l’asse con Denis Verdini, i contatti con Gianni Letta, l’ossessiva attenzione all’immenso capitolo nomine pubbliche, in particolare a quelle di intelligence. Non ha funzionato, invece, la replica con Paolo Gentiloni che gli ha negato la delega ai servizi segreti e l’ha relegato al ministero dello Sport.

Il “lampadina”, però, non ha smesso mai di montare e smontare poltrone. Al primo giro, nel maggio del 2014, lavorò per convincere Renzi a preferire Claudio Descalzi a Paolo Scaroni e intestarsi così il ruolo di “responsabile governativo” dell’Eni. Scaduto il triennio, nel 2017 con Gentiloni a Chigi, Luca s’è infuriato per le scelte – vidimate dal detestato ministro Padoan – di Alessandro Profumo a Leonardo e di Luigi Ferraris a Terna, riuscendo a strappare, però, la promozione al vertice di Poste di Matteo Del Fante, arrivato con fama di renziano e poi capace di emanciparsi al punto da diventare lo snodo cruciale del reddito di cittadinanza dei Cinque Stelle.

Lotti ha sgomitato per lo sbarco in Eni o Enel di Marco Alverà di Snam, manager prudente e giovane (43 anni) che non si è mai stretto a Lotti e ha costruito ponti con M5S e Lega da cui è stato riconfermato. Non per colpa di Gentiloni, ma per i gialloverdi è caduto Renato Mazzoncini di Ferrovie. “Parla con Luca”, era il mantra di Renzi impegnato nel 2016 con la rovina del referendum, mentre Maria Elena Boschi naufragava con Etruria, Luca arruolava la Chiesa, i sindacati (la Cisl) e gli agricoltori per il sì. Con la sponda del segretario generale Enzo Gesmundo, Luca ha schierato la Coldiretti per varie esigenze politiche. E poi ha tentato di trascinare a sé la Chiesa di Francesco – memore dei rapporti privilegiati con “preti e suore” a Firenze come disse Lapo Pistelli, battuto alle primarie fiorentine da Renzi – sfruttando il canale con il cardinale Angelo Bagnasco, allora presidente della Conferenza episcopale. In quel grande avvenire dietro le spalle, Luca Lotti parlava con chiunque e chiunque parlava con Luca Lotti. Ora gli resta poco, ma un poco che conta.