I nuovissimi mostri

Spunti e appunti per una nuova, grande commedia all’italiana a episodi, nella migliore tradizione de I mostri e I nuovi mostri.

Il sindaco da balcone. Arrestato per corruzione e turbativa d’asta, il sindaco leghista di Legnano Giambattista Fratus è recluso ai domiciliari dal 16 maggio. Non potendo governare con le manette ai polsi, Fratus si dimette, il prefetto lo sospende in base alla legge Severino e commissaria il Comune. Ma il 7 giugno Fratus cambia idea e, mentre il Riesame conferma il suo arresto, ritira le dimissioni e resta sindaco. Vivo compiacimento dalla Lega tutta, a partire dal leader Matteo Salvini: “Conosco Fratus come persona seria, corretta e perbene come Siri, Rixi, Fontana e tanti altri. Se l’ha fatto, vuol dire che si sente assolutamente tranquillo. Fare il sindaco è un mestiere difficile, quindi ha il mio sostegno”. Cioè, con l’aria di fargli un complimento beneaugurante, lo paragona a due leghisti già condannati, l’uno con patteggiamento definitivo per bancarotta fraudolenta e sottrazione fraudolenta di beni al fisco (Siri), l’altro con sentenza di primo grado per peculato (Rixi). Il guaio è che Salvini è pure ministro dell’Interno, superiore del prefetto che ha sospeso il sindaco per legge. Ora Legnano si ritrova con un commissario legittimo e un sindaco abusivo che però si crede ancora sindaco anche perché – aspetto ancor più interessante – ci crede pure Salvini. Ora si procederà così. Per motivi pratici, le riunioni di giunta si terranno alternativamente in Comune sotto la presidenza del commissario e nel giardino di casa Fratus sotto la presidenza del sindaco abusivo che, non potendo uscire, parteciperà ai lavori affacciandosi al balcone o alla finestra.

Tiritiritu? Grande retata in Umbria per concorsi truccati nella Sanità: il 12 aprile arrestati assessori, dirigenti e manager del Pd e indagata la governatrice del Pd Catiuscia Marini (per abuso d’ufficio, rivelazione di segreto d’ufficio, favoreggiamento e falso). Che annuncia subito di non volersi dimettere. Poi il segretario del Pd Nicola Zingaretti la chiama implorando un “gesto di responsabilità”. Allora la Marini si dimette e riunisce il Consiglio regionale, mettendo ai voti le dimissioni. Purtroppo bocciate anche col suo voto. Cioè: prima rassegna le dimissioni nelle sue proprie mani, poi dopo una serrata consultazione con se stessa se le respinge. Zingaretti, quando finalmente riesce a capire l’accaduto, le ritelefona per invocare un secondo “gesto di responsabilità”, possibilmente più responsabile e comprensibile del primo, ma non la trova.

La Marini è ricoverata in ospedale. Di lì annuncia che si ridimetterà eventualmente quando starà meglio. Di solito, per motivi di salute la gente, si dimette: lei invece resta per motivi di salute. Poi si vota: il Pd perde 110 mila voti, in Umbria viene sorpassato dalla Lega e perde pure le Comunali a Perugia. Poi, a danno fatto, il 28 maggio il Consiglio regionale si autoscioglie dopo le dimissioni rassegnate in gran segreto, e stavolta addirittura accolte, dalla Marini. Invece il governatore Pd della Calabria Mario Oliverio, anche lui indagato ma per reati ancor più gravi (corruzione e associazione a delinquere) resta al suo posto. Zingaretti si scorda di chiedergli il “gesto di responsabilità”. Forse pensa che commettere reati più gravi in Calabria sia meno grave che commetterne di meno gravi in Umbria, o che la Calabria non sia in Italia.

I Lotti-zzati. Non bastando la Marini, Zingaretti si ritrova altri due morti in casa: i deputati renziani Luca Lotti e Cosimo Ferri, che incontrano nottetempo il capocorrente togato Luca Palamara e quattro consiglieri del Csm per scegliere il nuovo procuratore di Roma, che sosterrà l’accusa nel processo Consip contro l’imputato Lotti. I quattro si sospendono dal Csm su richiesta del capo dello Stato per aver parlato con Lotti e Ferri. I quali però restano nel Pd, mentre tutti fischiettano e nessuno fa un plissé. Poi il Fatto domanda in prima pagina: “Ma lo sapete che il caso Csm è targato Pd?”. Zingaretti si accorge che Lotti e Ferri sono del suo partito e convoca Lotti per uno stringente interrogatorio. Ma purtroppo sbaglia le domande. Tipo questa, riportata da Repubblica: “Ti chiedo di spiegare il sodalizio con Palamara” (come se il problema dell’imputato Lotti fosse che frequenta magistrati). La risposta di Lotti aggiunge surrealismo a surrealismo, ton sur ton: “Sono accuse infondate e infamanti, non ho commesso reati, chi mi infanga alla fine ne risponderà”. Dal che si deduce che Lotti tutto può sentirsi dire, anche di essere amico di Renzi, ma non di frequentare magistrati: quello sarebbe un reato infamante e partirebbero le querele. Comunque, spiega, quella con Palamara è “un’amicizia nata sul calcio: abbiamo organizzato partite fra la squadra dei parlamentari e quella dei magistrati”. È la vecchia linea Previti che, accusato di pagare mazzette al giudice Squillante, si difendeva con i “tornei di calcetto al circolo Canottieri Lazio”: funziona sempre. I renziani accusano Zingaretti di “dimenticare il garantismo” e di essere “manettaro” perché “non c’è nulla di sconveniente a occuparsi di giustizia”. Manca solo che si parli dei primi caldi estivi, pur di scansare il cuore del problema: due deputati del Pd, di cui un imputato dalla Procura di Roma, che scelgono il nuovo capo della Procura di Roma. Alla fine l’intrepido Zingaretti le canta chiare: “Non ho mai dato solidarietà a Lotti”. E ci mancava pure.

La comica finale. Il vicepresidente renziano del Csm David Ermini, deputato Pd amico di Lotti e Ferri, eletto otto mesi fa dalle correnti dello scandalo (MI e Unicost) e dal laico del Pd con l’astensione di FI, tuona: “Meno potere alle correnti”. Si ride di gusto.

La denuncia di Pereira contro la dittatura

Il libro Sostiene Pereira è stato scritto da Antonio Tabucchi, professore di Lingua e Letteratura portoghese. L’autore è piuttosto noto e già nel 1994 presentò questo libro che vinse ben due premi nello stesso anno.

Sostiene Pereira racconta la storia di un giornalista nel periodo della dittatura in Portogallo. Un giorno invita Monteiro Rossi (pubblicista in un altro giornale) ad aiutarlo a scrivere nella parte cultura del libro: Monteiro è però un attivista contro il regime dittatoriale e Pereira lo ritrova morto nell’appartamento, probabilmente ucciso da persone che si ritenevano poliziotti politici. Dopo la morte del suo amico e collega, decide allora di scrivere un articolo denunciandone la morte e accusando il regime.

Ma un nuovo problema si presenta, un problema che tutt’oggi è presente, che interrompe il rapporto tra una persona e l’altra e impedisce l’accesso alla cultura e al sapere. Sì, avete immaginato bene, stiamo parlando della censura, tanto temuta da tutti i giornali dei Paesi che ancora oggi soffrono di questa limitazione. L’autore ci fa scoprire nuovi lati della politica che forse non conoscevamo, ci fa scoprire nuovi eventi politici e militari, ci fa scoprire le limitazioni dei giornali, della gente, della vita sociale e quotidiana a causa di qualcuno che vuole avere e conservare il potere, qualcuno che vuole mettere confini tra le persone e l’intelligenza.

 

Se avesse avuto Instagram, forse Van Gogh sarebbe stato più felice

Da qualche anno siamo vittima di un’ossessione collettiva per la biografia di Vincent van Gogh: film, libri, spettacoli teatrali e fumetti. Difficile quindi trovare qualcosa di nuovo o almeno un modo originale per parlare del pittore olandese. Ernesto Anderle ci è riuscito in un modo un po’ spregiudicato ma efficace: nelle sue pagine Facebook e Instagram ha lanciato Vincent van Love, che ora diventa un graphic novel per Becco Giallo. La corrispondenza di Van Gogh offre mille spunti che possono diventare frasi iconiche da social, specie se corredate dai disegni di Anderle, che brillano della luce riflessa del maestro. Qualcuno potrà obiettare che si riduce una personalità complessa e tormentata come quella di Van Gogh a un generatore di quelle che paiono citazioni da un manuale di self help o dalla bacheca Facebook di un life coach. Tipo “Non so nulla con certezza, ma la vista delle stelle mi fa sognare”. Oppure: “Non dimentichiamo che le piccole emozioni sono i grandi capitani della nostra vita e che obbediamo loro senza saperlo”. Eppure, con questo semplice schema antologico, Anderle è riuscito a guadagnare decine di migliaia di follower. Il libro riporta il tutto nella giusta prospettiva: Van Gogh potrà pure sembrare un life coach, ma la sua vita che Anderle ricostruisce con garbo e leggerezza (almeno fin quando possibile) è quella di un uomo tormentato, infelice e travolto dagli eventi. La follia è solo accennata con garbo (mentre è il cuore di un bello spettacolo di Stefano Massini), ma tutto il libro è percorso da un’energia creativa e nervosa che si declina in tratti sfuggenti e personaggi che sembrano sempre ritratti mentre sono in movimento. Un fumetto nato dai social è sempre un azzardo, ma questo è un piacevole esperimento.

 

Lichtenstein non è solo un capolavoro

 

Come il capolavoro possa essere l’ossessione estrema e insieme la condanna per un artista, lo narra ottimamente Honoré de Balzac ne Il capolavoro sconosciuto. Scritto nel 1831, il racconto (dei più complessi) indaga la passione sempre sconfitta dell’uomo per l’assoluto, tra l’impotenza artistica e il mito della perfezione impossibile. Se da un lato la vita dello scrittore francese è stata interamente avviticchiata, oltre che all’ossessione per il denaro, attorno al desiderio di scrivere un capolavoro, che fosse riconosciuto tale in vita dai suoi contemporanei (non a caso sognava di diventare “il Dante dei francesi”), c’è chi ha sperimentato vieppiù la condanna di realizzarlo, un capolavoro.

Si pensi a Leonardo da Vinci, genio dei più versati, che sembra essere delle volte il pittore di un solo quadro, La Gioconda, come Alessandro Manzoni, l’autore dei Promessi Sposi, o – rimanendo nei pressi del nostro secolo – si pensi a Isabel Allende, le cui opere saranno sempiternamente destinate a un confronto con La casa degli spiriti.

Per questo è benvenuta e necessaria la mostra Roy Lichtenstein – Multiple Visions al Mudec, Museo delle culture di Milano (a cura di Gianni Mercurio, fino all’8 settembre), che proprio a partire dal titolo vuole dire proprio tutta la verità su Lichtenstein. Nell’arte figurativa è, difatti, più frequente che un’immagine assurga al rango di capolavoro nella memoria collettiva (gli orologi sciolti di Dalì, gli omini di Haring, i quadrati colorati di Mondrian, i fiori erotici di Robert Mapplethorpe), la stessa che però delle volte finisce col dimenticare o ignorare l’intero excursus di un artista. Allora, all’interno dell’accuratissima mostra milanese, accanto alle immancabili Action Comics, le coloratissime strisce di fumetto con il puntinato tipografico in cui Lichtenstein rilegge gli stereotipi della cultura positivista americana – in Reverie (1965) la donna romantica, bionda e casalinga, e in Reflections on Crash (1990), l’uomo guerriero in azione –, scopriamo dunque tanto altro in quasi cento opere: la serie minimalista Interiors di interni e arredamenti domestici stampate su supporti sempre differenti come Red Lamps (1990) e The Oval Room (1992); e ancora paesaggi naturali espressionisti quali Landscape with Boats (1996) o River Landscape (1969); nudi femminili introspettivi, tra i quali spicca Two nudes (1994); e infine la serie di dipinti dedicati alla cultura nativa americana, come The Chief (1964) e A Cherockee Brave (1952).

 

Il ritorno di Teresa Battaglia, grande e anziana indagatrice del buio del Male

Ci sono storie che trasfigurano le pagine in calamite, con il lettore che non riesce a staccarsi e si isola dal resto del mondo. In fondo è questo il meccanismo che sorregge le speranze degli editori. E lo è ancora di più nel caso dei thriller. Il suddetto pistolotto è la migliore introduzione al secondo romanzo di Ilaria Tuti, qui presentata nel gennaio dell’anno scorso come promettente star del giallo alpino, il nuovo sottogenere italiano esploso con l’altoatesino Luca D’Andrea.

Ilaria Tuti, davvero un gran talento da narratrice, è invece friulana di Gemona, e con Ninfa dormiente è destinata a superare il successo di Fiori sopra l’inferno, il suo libro d’esordio. La ninfa del titolo è stata uccisa e l’omicidio viene scoperto con un macabro colpo di genio dell’autrice. Grazie a un disegno. “Era il ritratto di una donna. Misurava una quarantina di centimetri per poco meno. La carta sembrava spessa, quasi increspata”. Il ritratto è stato disegnato con il sangue della vittima, le dita dell’assassino infilate nel cuore. L’autopsia del quadro è certa: sangue e tessuto cardiaco. La ninfa è venuta fuori dopo 70 anni e l’autore, un partigiano italiano filotitino, è ancora vivo anche se da allora non parla più, rinchiuso nel suo casale. È lui l’assassino? Il rinvenimento in soffitta è del nipote. A indagare è sempre il commissario Teresa Battaglia, sessantenne solitaria. Convive con i suoi segreti indicibili ed è capace di intuire il “non visibile” nelle indagini. Con lei l’ispettore Massimo Marini, personalità dolente come Battaglia e quasi un figlio per il commissario. In questo thriller ci sono tante cose. Non solo il buio del Male, ma anche il nostro passato, i personaggi, i luoghi. Scopriteli.

 

 

Senza pietà (e ipocriti) si vive molto meglio

“Holden Caulfied” ha cambiato casa. Ora vive ad Amsterdam, in un quartiere bacato nel cervello e senza speranza. “Devi averlo visto con i tuoi occhi, altrimenti non ci credi”. Bisognerebbe demolirlo “mattone per mattone oppure bombardarlo una volta per tutte”. Qual è il problema? I soldi. “Ce ne sono semplicemente troppi”. “Holden” frequenta il “Montanelli”. Un liceo che somiglia molto al Montessori, a suo tempo, non amato da Koch. Una scuola che “costa sedici volte di più” delle altre, dove certe ore sembrano diciotto volte più lunghe. Un edificio così deprimente che “non si capisce come mai tutti quei genitori si dannino per farci entrare i figli”. L’aspetto peggiore? Il fatto che al Montanelli siano tutti “convinti di aver concepito davvero la scuola più bella del mondo”.

Di buono, invece, sono rimaste solo le intenzioni. Quelle che, si sa, lastricano le strade dell’Inferno. Come atto supremo di elevazione progressista, il Montanelli decide di ammettere, “con fierezza”, un ragazzo ritardato, Jan Wildschut: “nome perfetto per una persona con qualche rotella fuori posto”. È la goccia che farà traboccare il vaso. Nell’aria comincia a diffondersi l’inequivocabile sentore di irreparabilità. La tragedia non è più questione di se ma di quando. La cosa che a “Holden” non va proprio giù è che tutti facciano a gara per giustificare, aiutare e compatire un Wildschut “molto più sveglio di quanto desse a vedere”. È quel trattarlo da diverso a renderlo diverso. “Se non esistesse la pietà, il mondo sarebbe parecchio più bello”. Koch spietato? Niente affatto. Non serve infierire: basta descrivere la realtà com’è. Cinico, allora? Neppure. Appassionato, semmai. Della verità, però, non dell’ipocrisia. La sua lingua – salingeriana dai piedi ai capelli – divide i moltissimi sommersi dai pochissimi salvati con la lucidità di chi ascolta i pensieri non le parole. La prova del nove? I funerali: “Capisci subito da chi devi tenerti lontano”. Quelli di “Holden” sono giudizi, non pregiudizi. Netti, forti, lucidi e senza sconti, come le pennellate di Van Gogh. I giudizi di un adolescente che non sopporta ciò che proprio non si può (e non si dovrebbe) sopportare: ipocrisia, falsità, buonismo, meschinità, sentimenti inautentici. E, soprattutto, il conformismo più maleodorante di tutti: quello degli anticonformisti liberal-chic. Infinitamente peggiore del conformismo vero e proprio, il quale, se non altro, non prova a mostrarsi per quello che non è. La felicità si chiama Cristina. Talmente bella che persino un compagno di scuola, “che può avere tutte le ragazze che vuole”, “fatica a nascondere la sua gelosia”. Quando si mette i capelli lunghi dietro le spalle e “comincia a mangiare con gli occhi sonnacchiosi e struccati e il lenzuolo tirato su fino al seno”, è un sogno a occhi aperti di pura beatitudine: immagini “meravigliose nella loro semplicità e limpidezza, senza significare nulla e senza voler raccontare una storia, esistevano semplicemente com’erano sempre esistite”. Ha ragione “Holden”: “Non serve per forza una storia, bastano due persone che discendono un fiume su una barca e cominciano ad amarsi: io non ho bisogno di vedere altro”. E voi?

 

Torna Sophia Loren diretta dal figlio Edoardo Ponti

Sophia Loren tornerà nei prossimi giorni sul set in Puglia, fra Trani e Bari, per interpretare, diretta da suo figlio Edoardo Ponti, Madame Rosa, trasposizione del romanzo La vita davanti a sé di Romain Gary, già portato sullo schermo da Moshe Mizrahi, con protagonista Simone Signoret e Oscar per il miglior film straniero nel 1978. Anche nella nuova versione prodotta da Palomar e un gruppo di investitori Usa, e sceneggiata dal regista con Ugo Chiti, la protagonista sarà la vibrante e indomita Madame Rosa, anziana e indigente ex prostituta ebrea residente in un quartiere multietnico che decide di allevare i figli abbandonati delle colleghe occupandosi in particolare del piccolo Momo.

A 22 anni di distanza da Tre uomini e una gamba Aldo, Giovanni e Giacomo gireranno di nuovo in Salento sotto la guida di Massimo Venier in una nuova commedia prodotta da Agidi Due e Medusa dal titolo “Odio l’estate”. Accanto al trio comico reciteranno da metà giugno in poi fra Otranto, Laghi Alimini e Marina di Ugento anche tre commedianti di razza come Claudia Pandolfi, Lucia Mascino e Maria Di Biase.

Sulla scia dei consensi ottenuti con Il primo re, Matteo Rovere dirige tra Roma e dintorni Romulus, una serie tv prodotta da Sky, Cattleya e Groenlandia e distribuita nel mondo da ITV Studios Global Entertainment. Girata in protolatino in 10 episodi (diretti anche da Michele Alhaique e Enrico Maria Artale) è interpretata da Andrea Arcangeli, Marianna Fontana e Francesco Di Napoli nei ruoli principali, quelli di tre ragazzi segnati dalla morte, dalla solitudine e dalla violenza. In scena fra storia, leggenda e rivoluzione il racconto della nascita di Roma ambientato otto secoli prima di Cristo in un mondo primitivo e brutale in cui il destino è deciso dal potere implacabile della natura e degli dei.

Lo straziante grido di disperazione e speranza di Ecuba e le sue “Troiane”

Assuefatti come siamo all’orrore, e alle immagini dell’orrore, la tragedia è una benedizione proprio perché l’orrore non lo mostra: si limita a evocarlo in modo ancor più feroce e lancinante. Le troiane di Euripide, l’altra tragedia siracusana diretta dalla francese Muriel Mayette-Holtz, ci ricorda, ancora una volta – ché non è mai troppo – che la guerra è una barbarie, anche se a provocarla, combatterla e vincerla sono i paladini della civiltà (i greci) contro la barbarie (i troiani), o presunta tale.

In una Troia in fiamme tocca agli eroi spartirsi l’ultimo bottino utile: le donne sopravvissute, accuratamente tirate a sorte per essere concesse a questo o a quello come schiave. Cassandra andrà a ad Agamennone; Andromaca a Neottolemo; Ecuba a Odisseo, che – tra l’altro – convince i compagni a gettare giù da una rupe il piccolo Astianatte, figlio di Ettore, pur di assassinare definitivamente la stirpe troiana. Un’ecatombe, consumata sotto gli occhi di una città distrutta, popolata solo da tronchi morti e spettrali, come da suggestivo progetto scenico di Stefano Boeri.

Ottima è la concertazione della compagnia – quasi 60 persone, tra attori e comparse – e magnifico e arioso l’uso dello spazio, su su fino alla cavea e oltre il fondale verso il bosco: in questo si coglie prepotente il grido di speranza della regista, che nelle Troiane ci legge “un canto di sofferenza in omaggio alla vita… Lo spettacolo ci offrirà la possibilità di ripiantare nuovi alberi, affinché ciascuno possa sperimentare la potenza della ricostruzione”.

Alle donne è affidato il seme di questa rinascita: sotto le vesti di stracci sporchi, tutte nascondono una regalità non comune, a partire dalla regina Ecuba, nella monumentale interpretazione di Maddalena Crippa, e dalla furibonda e intensa Cassandra, alias Marial Bajma Riva. Peccato, solo, per i lamenti funebri trasformati in canzoni, in ballate e schitarrate che indeboliscono l’atmosfera, pur senza irridere – come Elena – l’infelice “pianto greco”.

 

 

 

“Elena”, basta fare tragedie

Uscito per vedere Euripide, lo spettatore è rientrato avendo visto Mozart, quasi un dramma burlesco. Capita, con l’Elena, che proprio tragedia non è, e infatti a Siracusa non veniva rappresentata da oltre 40 anni.

Firmata da Davide Livermore, la tragicommedia ha aperto la 55esima stagione della Fondazione Inda, che ha per filo rosso “Donne e guerra o Donne contro la guerra”. Elena va in scena a sere alterne con Le troiane, e ai due drammi, come da prassi, seguirà una commedia: Lisistrata di Aristofane, diretta da Tullio Solenghi, dal 28 giugno al 6 luglio.

Poco frequentata, Elena debuttò nel 412 a. C.; per lei Euripide si ispirò a una variante bizzarra del mito, attinta da dubbia fonte: Stesicoro, che riscrisse – stravolgendola – la storia della donna più bella e odiata di Grecia, riabilitandola dalle calunnie e scagionandola da qualsiasi responsabilità sulla guerra di Troia, per venire incontro ai gusti del pubblico spartano, la città di Elena. Cosa non si fa per compiacere l’audience, e infatti lo fa anche Livermore, in un allestimento dallo straordinario impatto visivo che riempie d’acqua l’intera orchestra del teatro.

Siamo infatti in Egitto, dove la vera Elena è stata nascosta dagli dei, mentre il suo simulacro veniva spedito con Paride, innescando il decennale conflitto. Proprio lì vicino al Nilo, e a guerra finita, naufraga Menelao con i soldati e la finta moglie recuperata, destinata a evaporare non appena il re ritroverà la vera consorte. Unico intoppo il rais locale Teoclimeno, che vuole sposare – pure lui – la donna più contesa del pianeta. Finirà bene, almeno per i greci: anche Euripide aveva il suo pubblico di riferimento.

L’opera è imbevuta di pacifismo, di invettive contro la guerra folle scatenata nel “nome” di Elena: solo un nome, appunto, un fantasma, una “nuvola” per cui tanti, troppi “sono morti invano”. E nella traduzione di Walter Lapini ci scappa persino una battuta sui “porti chiusi”, che fa molto applaudire il pubblico: qui i naufraghi sono sacri. Accanto al j’accuse politico, striscia però l’Euripide sofista: è il relativismo novecentesco, verrebbe da dire con maliziosa blasfemia.

“Amo Elena perché sfuma in un giuoco ironico: non si muore. E si sorride”: stressando la commedia a scapito della tragedia, Livermore confeziona un sciantoso vaudeville di equivoci, borghese (altra patente affibbiata a Euripide, per cui l’operazione non è affatto peregrina), capriccioso, lezioso, luccicante, decadente, come in una Venezia settecentesca o in una Mitteleuropa di damerini ed eunuchi, che ballano il valzer e ascoltano Mozart-Da Ponte (cui il regista si è dichiaratamente ispirato). Complice del suo disegno sono gli sfarzosi costumi di Gianluca Falaschi e la brillante interpretazione dell’ensemble: quasi venti attori-danzatori, tra cui gli ottimi protagonisti Laura Marinoni, Sax Nicosia e Simonetta Cartia.

L’orchestrazione è opulenta e lirica: da opera lirica, non per poesia. Ne esce un fogliettone sentimentale da ubriacarsi il cuore, immerso com’è in quel mare color del vino.

 

Realtà o finzione, il furto del secolo è un atto di fede

Esiste un modo nuovo per raccontare al cinema una storia vera? Il londinese Bart Layton prova a inventarsene uno audacissimo, e paradossale. Perché il suo American Animals è pieno di finzioni benché i titoli di testa sembrino dirci il contrario: “Questo film non è basato su una storia vera. Questo film è una storia vera”. Mutatis mutandi, la notizia è che il cinema sa essere più vero del vero quando riesce a mescolare realtà e finzione a punto di sovrapporle. Come nel caso di quest’opera sorprendente quanto inclassificabile fra i generi.

In principio è un libro, antico e prezioso come Birds of America di cui il pittore e naturalista John James Audubon ne dipinse e colorò a mano le 435 tavole illustrate attorno al 1830. Una delle sue 120 rarissime copie è conservata a Lexington, nella biblioteca della Kentucky University: questa nel dicembre 2003 diventa l’obiettivo di una delle più folli rapine della recente storia americana. A organizzarla nei minimi dettagli – inclusi gli improbabili travestimenti – sono quattro studenti dello stesso ateneo, a quanto pare animati dal desiderio di “compiere un’impresa straordinaria ed uscire dall’anonimato della provincia”. I ragazzi vengono naturalmente scoperti (nel tentativo di rivendere il volume) e rinchiusi in carcere per alcuni anni. La notizia balza agli occhi del regista inglese, che fino ad allora aveva diretto solo documentari, e lo stimola verso un film straordinario almeno quanto il “colpo grosso” intentato dai ragazzi.

Da un soggetto da classico heist (o caper) movie Layton produce un doppio salto mortale narrativo e drammaturgico, mettendo in scena sia i veri colpevoli (che contatta e con cui intrattiene per mesi un rapporto epistolario facendosi raccontare la loro versione dei fatti) sia attori incaricati di interpretarli nella ricostruzione della genesi, realizzazione e conseguenze della rapina. La novità sta nel fatto che i veri studenti, ormai adulti, vedono, commentano, e spesso “coesistono” con la “copia” di loro stessi da ragazzi, operando quella vorticosa sovrapposizione fra realtà e finzione spinta alle estreme conseguenze su più livelli spaziali e temporali. In American Animals avviene una squisita contaminazione fra i generi che parte dal documentario con interviste a diversi reali personaggi coinvolti inclusi i genitori degli studenti-ladri, e arriva all’action/heist movie passando per il romanzo di formazione e di ricerca dell’identità profonda (sia individuale che delle piccole comunità contemporanee americane) nello stile di una commedia a sfondo sociale di intelligente intrattenimento. Ma il film è soprattutto una riflessione meta-cinematografica che mette in discussione il dispositivo nelle sue potenzialità, ribalta il vero e il falso (emblematiche le prime sequenze con il mondo capovolto), compie un gesto etico sull’estetica della rappresentazione ricordandoci da una frase di uno dei giovani ladri (“Devono fidarsi della mia parola”) che quanto il cinema chiede ai suoi spettatori è anche un atto di fede.