“Madame X”, come lady Ciccone è diventata improvvisamente (molto) banale

Tutto molto bello il politically correct (brano femminista dedicato a Giovanna D’Arco, quello sul conflitto Israele-Palestina, il tributo al Gay Pride e avanti così…) ma la musica? Madonna è stata innovativa sino a Confessions On A Dance Floor dettando le mode; da quel capitolo in poi ha solo cercato di fiutare l’aria e ad affidarsi a produttori poco originali (a differenza di Stuart Price). Madame X è il pretesto per un canovaccio da far durare a lungo sui social. Musicalmente si spara da un fucile con pallettoni sperando di colpire con il pezzo giusto: un po’ reggae, un po’ trap e un folle brano ispirato probabilmente da Random Access Memories dei Daft Punk (Dark Ballet, con un riff di piano e un uso di vocoder veramente fuori di testa, ma senza l’effetto Alice nel paese delle meraviglie in quanto tragicomico). Atterrata a Lisbona per assecondare il figlio in una scuola per futuri calciatori, Madonna si è tuffata nel fado (pur non possedendo la voce di Teresa Salgueiro) con risultati maldestri (la deprimente Killers Who Are Partying). Batuka è inascoltabile, Faz Gostoso – unica cover – è una potenziale hit filone latino abbastanza tamarra, con tanto di discosamba finale. Molto più credibile il primo singolo Medellin con Maluma, quasi una Isla Bonita 2019. Si vola con un unico brano, God Control (e, in parte, con I Don’t Search I Find), nel quale finalmente Madonna torna a fare quello che le riesce meglio, farci ballare, autocitandosi in Vogue. In Future con Quavo e in “Crave” con Swae Lee la Ciccone cerca di copiare il sound mainstream delle radio americane e conquistare lo streaming di Spotify.

Prince si “riprende” le hit nate per i discepoli

Nell’era degli album postumi Prince – a differenza di David Bowie – non ha potuto calendalizzare il materiale inedito e i vari outtakes in una razionale e pianificata pubblicazione. La tragica e prematura scomparsa del folletto di Minneapolis (57 anni), avvenuta il 21 aprile 2016 a seguito di una overdose accidentale di Fentanyl ha interrotto una produzione prolifica in una carriera di quarant’anni. Era quindi necessario che qualcuno degli eredi mettesse ordine in uno sconfinato scrigno di rarità: ci ha pensato la fondazione Prince Estate, rappresentata da Troy Carter in collaborazione con un grande amico di Prince, soprattutto nell’ultima fase della sua vita, Jay-Z, con il quale condivideva una visione dello streaming in hi-fi. E anche, paradossalmente, con la Warner, la sua etichetta dei grandi successi con la quale ebbe una durissima causa legale sino a cambiare il suo nome in Tafkap (The Artist Formerly Known As Prince) e per un certo periodo scrivendo la scritta “slave” sul viso per sputtanare i discografici, rei – secondo l’artista – di limitare la sua vena creativa.

L’idea di pubblicare Originals è vincente per due motivi: crea un ponte tra il periodo più creativo dell’artista (quello di Controversy) e il sound riconoscibile e innovativo dell’album Purple Rain, il suo successo planetario. Inoltre molti dei brani prescelti sono già conosciuti dal grande pubblico essendo state delle hit affidate e interpretate da suoi “pupilli” della sua factory dell’epoca. Da quel Morris Day, genio e sregolatezza, capace di unire l’immaginario gangster e il cabaret (Jungle Love firmata The Time) ad Apollonia 6 (Sex Shooter), trio femminile ironico e grottesco, tutto pizzi e autoreggenti, con una delle tante sue ex-fiamme, Patricia Cotero. Quest’ultima, è stata così scaltra da soffiare all’ultimo minuto il posto a Vanity – musa del pigmalione Prince e sua fidanzata ufficiale – per il film Purple Rain. E ancora, Sheila-E (The Glamourous Life), grande percussionista e amica vera per l’intera carriera di Prince e il gruppo della Bangles, con la hit globale Manic Monday.

Originals ripercorre tutto il periodo nel quale il talent scout dell’r’n’b era diventato il Re Mida, soprattutto a cavallo tra i 1982 e il 1984, anno del successo del film Purple Rain, nel quale quasi tutti i suoi artisti prodotti sono presenti. L’ultimo grande colpo fu Nothing Compares To You ceduta all’inquieta Sinead O’Connors, capace di interpretarla e di farla sua spingendone la drammatizzazione sino all’estremo. La versione di Prince coniuga il blues e il gospel con un sax mozzafiato accompagnato dal suo gruppo-feticcio The Family.

In molti brani è presente il sound tipico del periodo di Let’s Go Crazy, quel tamburello molto simile al rimbalzo di una pallina da ping pong. Baby You’re A Trip, in precedenza affidate all’ex fiamma Jill Jones – diventata meteora di successo anche in Italia con Mia Bocca – racchiude perfettamente uno dei grandi ingredienti della musica del folletto, la sua ipersensualità portata all’eccesso, sia nell’abbigliamento di scena con guepiere strappate e reggiseni indossati che nei falsetti usati quali strumenti di seduzione. Make Up fu scritta per Denise Katrina Matthews in arte Vanity, rimasta per molti anni la spina nel fianco dell’artista di Minneapolis, ancora innamorato. Dopo la sua morte – alla stessa età di Prince – il 15 aprile 2016 per peritonite sclerosante incapsulante, l’artista le dedicò in uno dei suoi ultimi spettacoli dal vivo The Ladder, cambiandone le strofe e confessando al pubblico: “Mi ha amato per l’artista che sono stato e l’ho amata per l’artista che ha cercato di essere”.

D-Day, Trump e Macron grandi alleati per un giorno

Emmanuel Macron: “Sono sempre felice quando il presidente Trump viene in Francia”. Donald Trump: “I rapporti tra noi e tra la Francia e gli Stati Uniti sono eccellenti”. Poi i due presidenti si sono stretti la mano davanti ai fotografi nei locali della prefettura di Caen, in Normandia, al termine di un pranzo di lavoro. Discorsi da vetrina o vero cambio di rotta? È probabile che non bisognerà aspettare molto per saperlo. L’ultima volta che Trump è stato a Parigi, l’11 novembre scorso, per i 100 anni della fine della Grande guerra, ci erano voluti due giorni prima di uno dei suoi tweet provocatori: “I francesi studiavano il tedesco quando sono arrivati gli americani”. Un colpo basso alla Francia che negli anni 40 aveva ceduto all’occupante nazista, ma anche a Macron che, proprio a novembre, aveva sostenuto l’idea, respinta da Trump, di una difesa europea comune.

Ieri mattina, il capo della Casa Bianca ha partecipato alla cerimonia per i 75 anni dello sbarco in Normandia al cimitero americano di Colleville. L’ufficialità dell’evento, con belle parole come quando Macron era stato appena eletto, ha nascosto i dissensi che esistono tra i due. Non c’è intesa su quasi nulla, clima, nucleare iraniano, accordi commerciali. Trump non perde occasione per attaccare Macron, sulla sua impopolarità, sulla crisi dei Gilet gialli o sulla disoccupazione in Francia. “L’America più grande è quella che si batte per la libertà degli altri”, ha detto ieri Macron, paladino del multilateralismo, mentre Trump ne è il più fervente oppositore. Alla cerimonia non è sfuggita, soprattutto a Marine Le Pen, l’assenza di Vladimir Putin. La leader d’estrema destra ha trovato “deplorevole” che l’Eliseo non abbia invitato la Russia che “ha pagato un pesante tributo” alla guerra. Putin però se ne è infischiato: “Perché dovrei essere invitato ovunque? Ho molto da fare qui, non è un problema”.

La strana coppia Orbán-San Suu Kyi

La leader birmana Aung San Suu Kyi, controverso premio Nobel per la Pace, è tornata in Europa per la prima volta dopo aver sostenuto la pulizia etnica della minoranza islamica Rohingya perpetrata dell’esercito due anni fa. Da allora l’icona della libertà è stata retrocessa al rango di paria dalla maggior parte dei Paesi occidentali, tranne due: l’Ungheria e la Repubblica Ceca che fanno parte del gruppo di Visegrad, la combriccola sovranista di destra e islamofoba dell’Unione europea.

La stretta di mano più calorosa, non appena atterrata a Budapest dopo essere stata a Praga, The Lady l’ha ricevuta dal primo ministro in persona, quel Viktor Orbán che per primo ha fatto erigere un muro di filo spinato per impedire agli immigrati in fuga di entrare in Ungheria. La consigliera di Stato del Myanmar – per 15 anni ai domiciliari per volere dell’allora giunta militare – è andata in visita di Stato nel Paese magiaro non solo per rinsaldare gli accordi economici ma anche per “discutere dell’aumento dei migranti musulmani”. Un tema del tutto strumentale visto che in entrambi i Paesi ormai di musulmani ne sono rimasti ben pochi, ma che ha consentito a Orbán di stravincere le recenti elezioni europee e prima ancora di essere riconfermato premier.

La reputazione di Aung San Suu Kyi in Occidente ha subito un ulteriore colpo in seguito alla mancata difesa dei giornalisti birmani incarcerati per mesi a causa dei loro reportage sulle terribili vessazioni subìte dai rohingya. Stupri e omicidi che hanno provocato una fuga di massa dei sopravvissuti nel confinante Bangladesh dove ancora vivono in condizioni disastrose nei campi profughi di fortuna a ridosso del confine. La donna più potente del Myanmar ha però trovato, guarda caso, un nuovo alleato nel primo ministro ungherese ed è subito corsa a omaggiarlo nel tentativo di riaccreditarsi agli occhi di almeno una parte dell’Europa.

I due leader hanno sottolineato che “una delle maggiori sfide attuali per entrambi i Paesi e le loro rispettive regioni – il sud-est asiatico e l’Europa – è la migrazione”, si legge in una dichiarazione rilasciata dopo il loro incontro. Durante una conferenza stampa congiunta hanno spiegato di “aver notato che entrambe le regioni hanno visto emergere il problema della convivenza con popolazioni musulmane in continua crescita”. Il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa di recente ha accusato il governo di Orbán di “usare la retorica anti-migrante per scatenare xenofobia, paura e odio”. Aung San Suu Kyi, da quando è stata eletta nel 2015, ha criticato in molte occasioni “l’imposizione di idee e principi occidentali in Myanmar”. Questa accusa è stata subito raccolta da Orbán che nella dichiarazione rilasciata dopo il loro incontro ha enfatizzato anche il proprio rifiuto “della esportazione di democrazia”.

Secondo Phil Roberton, vicedirettore per l’Asia Human Rights Watch, “Aung San Suu Kyi è ormai talmente isolata in Occidente che può contare solo sul sodalizio con Orbán. Dopo aver vergognosamente aiutato i militari del Myanmar a coprire il loro genocidio contro i musulmani rohingya, ora può solo stringere rapporti di amicizia con i leader più xenofobi e antidemocratici d’Europa”.

La linea dura sui migranti nuova strategia di sinistra

Un giro di vite all’immigrazione e un colpo d’acceleratore al welfare: con questo mix di programmi, i socialdemocratici danesi hanno vinto le elezioni politiche, riconquistando la guida del governo. È la terza volta in nove mesi che gli europei del Nord bocciano il populismo: gli svedesi a settembre 2018, poi i finlandesi ad aprile, ora i danesi. Una tendenza avallata dai risultati delle elezioni europee: nei Paesi Nordici, la marea populista è calante; in Danimarca, hanno perso più della metà dei voti.

La giovane leader socialdemocratica Mette Frederiksen, 41 anni e mezzo, potrebbe però avere difficoltà a formare una coalizione: nel Folketing, il Parlamento, il ‘blocco rosso’ ha 91 seggi su 179 e sarebbe, quindi, maggioritario; il ‘blocco blu’ di centro-destra, coagulato intorno ai liberali del premier uscente Lars Lokke Rasmussen, ha solo 75 seggi.

Ma la Frederiksen intende formare un governo di minoranza che ottenga di volta in volta sostegno dall’uno o dall’altro partito su provvedimenti specifici. L’estrema sinistra le contesta, infatti, la virata sui migranti e non sarebbe un partner di governo docile. La leader socialdemocratica respinge anche l’offerta di Rasmussen di formare una ‘grande coalizione’ fra i due maggiori partiti, che da soli avrebbero la maggioranza. I risultati dicono che i socialdemocratici si confermano primo partito con il 26%, pur con un calo dello 0,3% rispetto alle elezioni del 2015. Ma le altre forze di sinistra crescono e danno quindi loro una potenziale maggioranza parlamentare. Invece, il Partito liberale, sconfitto, guadagna suffragi e arriva al 23,4%, quasi quattro punti in più di quattro anni or sono, ma i suoi alleati del ‘blocco blu’ arretrano: il Partito dell’Alleanza liberale ottiene appena il 2,3%. I populisti xenofobi del Partito del Popolo danese precipitano dal 21,1% all’8,8% (e scendono da 37 a 16 seggi). Entra in Parlamento con quattro seggi la Nuova Destra, fondata da Pernille Vermund, un’architetta. Anche sommando i voti dei due movimenti, ne manca sempre la metà rispetto al 2015. Rasmussen riconosce la sconfitta e s’appresta a rassegnare le dimissioni. Frederiksen assapora la riconquista del potere: “Rimetteremo il Welfare al primo posto in Danimarca, il Welfare, il clima, l’educazione, i bambini, il futuro. Pensiamo a quel che possiamo fare insieme”. La leader socialdemocratica, già ministro del Lavoro e della Giustizia, prima di succedere alla guida del partito all’ex premier Helle Thorning-Schmidt sostiene, inoltre, che queste sono state le prime elezioni danesi nel segno del riscaldamento globale, alla Greta. I socialdemocratici hanno centrato tutta la loro campagna sulla difesa dell’ambiente e del Welfare, un sistema di garanzie sociali molto apprezzato dai cittadini, promettendo di rovesciare il trend degli ultimi anni (tagli della spesa per l’educazione e la salute) e di mantenere un approccio non permissivo sull’immigrazione.

Secondo molti osservatori, questa mossa è stata decisiva per ridurre drasticamente l’impatto elettorale di xenofobi e islamofobi. Per molto tempo un termine di riferimento per tutta l’Europa, il modello sociale nordico è da anni posto sotto crescente pressione dall’invecchiamento della popolazione. In Danimarca, le riforme introdotte dal centro-destra hanno condotto a una crescita economica superiore alla media dell’Ue, ma i tagli imposti alla spesa pubblica hanno avuto come corollario che molti devono ora pagare servizi che erano prima gratis. La difesa del welfare e del modello sociale connesso è il minimo comune denominatore dei successi delle socialdemocrazie nordiche. Il centro-sinistra svedese ha conservato il potere propugnando una riforma che garantisca le tutele sociali. E i socialdemocratici finlandesi hanno vinto di stretta misura impegnandosi ad aumentare le tasse per aumentare i livelli di spesa sociale.

“Maria”, i generali fanno boom

Cosa hanno in comune l’ex generale ed ex premier Ehud Barak, l’ex comandante dell’Aviazione Ido Nehushtan e Yaakov Peri, ex capo dello Shin Bet, lo spionaggio interno israeliano? Sono alla guida delle tre principali aziende che trattano e commercializzano cannabis medica. Il settore in Israele sta avendo un vero e proprio boom. L’azienda di cui Barak è presidente – la Cannaboc/Intercure – dopo la quotazione alla Borsa di Tel Aviv è schizzata a +40 per cento, gli ordinativi del 500 per cento. Le aziende israeliane – una sarà presto quotata al Nasdaq di New York – prevedono un’espansione del mercato annuale mondiale di oltre il 150 per cento ampliando la rete dei Paesi acquirenti. È un business che attrae anche molti investitori stranieri.

“Non ho familiarità con la cannabis, non ho mai fatto un tiro in vita mia, né ho mai mangiato cookie né messo gocce sotto la lingua”, spiega l’ex primo ministro Barak, “ma ho studiato il problema, ho letto materiale e capito che la cannabis per uso medico è qualcosa di reale, con un grande impatto potenziale”. Conosciuto più come soldato e come premier, Barak – che però può vantare un Master in Economia a Stanford e una laurea in Fisica all’Università di Gerusalemme – rivela che secondo le proiezioni della sua Company “il mercato mondiale della cannabis che è ora di 17 miliardi di dollari l’anno crescerà fino a 150 miliardi nei prossimi 5 anni”. L’azienda che presiede si sta preparando: oltre a gestire una struttura in crescita nel Nord di Israele sta aprendo un nuovo impianto nel Sud per aumentare la produzione di cannabis medica – cioè privata del principio attivo Thc – fino a 100 tonnellate l’anno.

Un tempo quando i generali israeliani andavano in pensione aprivano Compagnie di sicurezza, Recovery Data System, agenzie di investigazioni, protezione di Vip e obiettivi sensibili (per esempio Costa Crociere e Carnival per la sicurezza delle loro navi nel mondo si affidano a una compagnia di sicurezza di Herzilya fondata da ex uomini del Mossad e dello Shin Bet.). Oppure aziende impegnate nella collaborazione alla sicurezza nei grandi aeroporti – specie negli Usa e in Europa.

Quando un ex premier ed ex comandante militare come Barak diventa l’oratore principale in un meeting a Tel Aviv sui benefici della cannabis medica lo stesso giorno in cui Israele depenalizza l’uso ricreativo, si capisce che in Terra Santa qualcosa sta cambiando. Gli israeliani sono gran fumatori di marijuana come ha rivelato un sondaggio nel 2017 – il più alto tasso del mondo – e adesso le pene sono state sostituite con una ammenda. Per questo non è insolito passeggiare in downtown Tel Aviv la sera fra i tavolini dei caffè e dei tapas bar sulla Rothschild o sul Lungomare e trovarsi avvolti da una nuvola dall’aroma pungente.

Ma è nella marijuana medica che Israele spera davvero di emergere come leader mondiale. “I cannabinoidi”, spiega Barak, “possono migliorare la qualità della vita, rallentare lo sviluppo dei sintomi di varie malattie e in alcuni casi anche curarle”. In Israele la cannabis medica è ampiamente usata da dieci anni, anche negli ospedali pubblici con programmi ad hoc, specie nelle cure post cancro. Ma anche ampiamente utilizzata per lenire gli effetti devastanti del Parkinson e dell’Alzheimer. Al momento sono oltre 35 mila i pazienti trattati con cannabis in sostituzione dei farmaci tradizionali. Un tempo solo psichiatri e oncologi potevano prescrivere l’erba per alcune sindromi e malattie. Ora è il medico di base che può prescriverla per 45 tipologie diverse di “malanni”: dalla psoriasi all’insonnia, dall’ansia ai disturbi alimentari, dallo stress all’ipertiroidismo. E con grande risparmio nella Sanità, perché un paziente trattato con cannabis medica costa 180 volte meno di uno curato con le medicine tradizionali prodotte da BigPharma. C’è anche la semplicità di fruizione, basta aghi o siringhe o flebo, che costringono il paziente a tornare frequentemente presso l’ospedale. La cannabis medica può essere inalata, usata come tisana o persino trasformata in caramelle, come all’ospedale Ein Keren Hadassah di Gerusalemme – il policlinico più importante di Israele – dove viene somministrata sotto questa forma ai piccoli pazienti oncologici per stimolarne l’appetito dopo la terapia. “Circa 40 Stati hanno già legalizzato la marijuana per uso medico e altri anche per quello ricreativo”, ha spiegato recentemente Barak a un meeting fra produttori a Davos in Svizzera, “il futuro appartiene ai giocatori più grandi, veloci e assertivi che entreranno nei nuovi mercati e l’industria israeliana della cannabis sarà certamente tra questi giocatori”.

Realiti, nell’era “tutti fenomeni” sperimentare non rende

Nel disperato tentativo di concepire qualcosa di nuovo – c’è una strana maledizione che incombe su tutto ciò che è nuovo – la Rai2 di Carlo Freccero si è affidata a Enrico Lucci. Impeccabile, sulla carta. Tuttavia Realiti ha debuttato fuori tempo massimo, insieme all’anticiclone africano, e fuori tempo massimo è parso anche l’esperimento. Lucci ha imbandito una multiparodia dell’attuale marmellata: talent, reality, talk, iene. Un po’ di Chiambretti e un po’ di Funari. Televoti senza frontiere: sfida all’ultimo cuoricino tra Salvini, Di Maio, Marco Carta, i Ferragnez… “Siamo tutti protagonisti”; ma questo, ahinoi, lo sapevamo già. Realiti dura troppo e vuole essere troppe cose per esserne una sebbene la volontà innovatrice sia fuori discussione, anche nella scelta dei tre giudici supremi. Luchè è l’ultimo rapper che mancava all’appello in tv (oggi se canti o sei un rapper o non sei nessuno); Asia Argento ci tiene a far vedere che ha studiato, se si parla di cessi cita subito Duchamp; lo scrittore Aurelio Picca appartiene alla scuola dei duri – duri televisivi – e esibisce pregevoli basette di design. Ma dopo Sgarbi, Busi e Pinketts épater le bourgeois è diventata durissima. Il momento migliore è stato “l’intervista esclusiva” a Francesco Salemme, esilarante presa in giro dello stile Non è la D’Urso, che però su Canale 5 ha fatto il pieno di ascolti mentre l’esordio di Realiti è stato un sonoro flop. Proprio perché siamo tutti protagonisti conviene rimanere se stessi.

Care Iene, da voi nessuna lezione di giornalismo

Ieri Le Iene, dal loro sito, hanno criticato il Fatto Quotidiano e il direttore Marco Travaglio per l’articolo di Selvaggia Lucarelli pubblicato ieri: “Azouz è tornato e concede le interviste (a pagamento)”. Selvaggia Lucarelli ha replicato sulla propria pagina Facebook e su quella delle Iene. Pubblichiamo anche qui sul giornale la sua risposta.

Amici delle Iene, le vostre lezioni di giornalismo mi regalano sempre squarci di buonumore, dunque vi ringrazio per avermi regalato un sorriso anche oggi. Lezioni da parte di chi firma l’inchiesta su Erba, ovvero Antonino Monteleone e udite udite… Marco Occhipinti, già autore di tutta l’inchiesta sul caso Stamina, per giunta. Sebbene abbiate cercato di coinvolgere il mio direttore Marco Travaglio in questa letterina piccata su quante bugie racconti il Fatto Quotidiano a proposito delle vostre accurate inchieste su Erba, mi tocca prendervi per mano e spiegarvi, io, autrice dell’articolo sul vostro amico Azouz e le richieste economiche per sue eventuali interviste, quello che dice l’articolo. Del resto, nella materia “comprensione del testo” sembrate avere qualche lieve problema.
L’articolo non dice che voi avete proposto soldi ad Azouz. L’articolo riporta un virgolettato dell’incaricato dell’avvocato di Azouz alle mediazioni economiche il quale dice: “ Le Iene hanno chiamato direttamente Azouz, hanno detto siamo amici, siamo venuti a Tunisi, mettiamoci d’accordo tra di noi”. Quindi il signore dice che voi avete proposto ad Azouz un’intervista in amicizia, non fa alcun riferimento a cachet e ad accordi economici presi. Del resto, il vostro rapporto “speciale” è ampiamente documentato dallo spazio che avete dato a questo galantuomo affidabilissimo nella vostra “inchiesta”. Ah, la telefonata è registrata, non sia mai che dubitiate. Vi avrei dovuto chiamare per “verificare”, dite. Non c’era nulla da verificare. E poi Le Iene che parlano di verifiche, certo… Le iene che permettono di far dire in televisione all’assassina Rosa Bazzi: “Pietro Castagna deve sedersi a tavola con me e vedere chi è colpevole di noi due”. Accuse fondate e verificate, certo.

Riguardo invece alle imprecisioni da me riportate sulla vostra intervista a Pietro Castagna, è vero, non siete stati aggressivi o scorretti. Lo avete soltanto chiamato fingendovi una ragazza interessata ad arredare una villa a Como, gli avete dato un finto appuntamento a cui si è presentato Antonino Monteleone, il quale lo ha poi intervistato con microfono e telecamera nascosta come se anziché una vittima della strage Pietro Castagna fosse un personaggio losco, a cui carpire chissà quali dichiarazioni. E, infine, avete mandato in onda l’intervista rubata con l’inganno, oltre a diverse puntate in cui avete gettato ombre ignobili sui fratelli Castagna.
Infine, vi ricordo che Azouz ha accusato Carlo Castagna di essersi appropriato dell’eredità che gli spettava. Non solo, ebbe a lamentarsi pure del fatto che il povero Castagna ritirò una moto intestata alla moglie Raffaella (moto abbandonata da un meccanico con un fermo per una tassa rifiuti non pagata e delle riparazioni eseguite e mai pagate. Debiti che pagò Carlo Castagna). È tutto ampiamente documentato, solo che voi non ve ne siete accorti, troppo presi a scrivere letterine a Marco Travaglio gnegnegnè-allora-io-lo-dico-al-tuo- direttore.
Cari saluti, come sempre.

Presidente, perché premia gli incapaci?

Al Capo dello Stato Sergio Mattarella

Signor Presidente, noi italiani abbiamo tanti motivi di gratitudine verso di Lei. Dall’equilibri e la saggezza con i quali esercita la più alta carica della Nazione. Al signorile riserbo del quale circonda ogni suo atto e gesto. Alla Sua cultura ricca di studia humanitatis, come può cogliere chi L’abbia ascoltata discorrere in pubblico e in privato. Tutto ciò è incontestabile.

A questo desidero aggiungere una privata espressione di gratitudine; che diventa pubblica data la mia qualità di napoletano. Il 2 giugno, a Napoli, Ella ha nominato Grande Ufficiale la signora Rosanna Purchia, soprintendente del Teatro San Carlo. L’ultima impresa di costei, che si aggiunge a lunghi anni di benemerenze al servizio del suo dante causa Salvo Nastasi (dall’aver orgogliosamente accettato di presiedere a un teatro l’acustica del quale venne dal Nastasi distrutta, dall’aver abbassato il livello artistico di uno dei più importanti teatri del mondo al di sotto di ogni tollerabile decenza, all’ospitare fieramente le regie della figlia del m° Muti, etc), è stata quella di onorare l’ospite re di Spagna con l’esecuzione dell’inno franchista: presente, sempre, il Capo dello Stato; il quale ha dovuto porgere al collega Capo di Stato scuse ufficiali. Se ciò fosse avvenuto per nostalgia politica, sarebbe l’espressione di un’opinione. Ma è avvenuto semplicemente perché la predetta rag. Purchia, né l’intero staff alle sue dipendenze, hanno mai in vita loro inteso parlare del fatto che in Spagna ci fu una guerra civile, che al termine di essa sorse un regime clerico-fascista retto dal Caudillo, il generale Francisco Franco, e che poi lo stesso Franco transitò la Nazione verso la democrazia monarchica che attualmente la regge. Onde, pure, il cambiamento dell’inno nazionale.

Ma, sempre la predetta, è molto più democratica di me: infatti non fa differenze. Anche se le chiedeste chi siano Omero, Lucrezio, Virgilio, Bach e Beethoven, non saprebbe rispondere. Forse solo Dante lo conosce: perché quando Raffaella Carrà si è recata a Ravenna a intervistare il m° Muti e consorte in televisione, mostrando più cultura di tutta la famiglia Muti (sono cinque, più annessi e connessi), prima ha fatto il bellissimo gesto di rendere omaggio alla tomba del Poeta che ha creato la lingua della nostra Patria. Di certo un soggetto come la rag. Purchia, che sul proprio “whatsapp” reca il manifesto “Muti torna!” (non terza persona dell’indicativo, bensì seconda dell’imperativo), questa trasmissione se l’è imparata a memoria.

Le sono dunque grato, signor Presidente, di non avermi fatto nemmeno cavaliere. (Ricorda Totò? “Come, Lei non è commendatore? Ma la faranno!”). Sotto l’Italietta umbertina, celebre motto era: “Un sigaro e una croce di cavaliere non si negano a nessuno”. Le sono in debito per non aver pensato di offrire a me il sigaro, perché non fumo, e la croce, che non ho mai chiesta. Grazie di non propormela in futuro: alla stregua di ciò, non accetterei mai alcuna onorificenza di Stato. Anche Verdi, in analoga circostanza, restituì nel 1868 la commenda al ministro della Pubblica Istruzione Broglio. Ben vero, io sono un microbo; so di esserlo. E sto a Verdi come la rag. Purchia sta a me. Mi permetto altresì ricordarLe, signor Presidente, che ci sono tanti altri soprintendenti aventi causa dal Nastasi, da Chiarot di Firenze, che su tutti eccelle, in giù, i quali della croce hanno diritto quanto la Purchia e non hanno minori demeriti. Perché stabilire disparità? Todos caballeros per aver dato l’ultimo colpo di piccone a quello che fu per cinque secoli uno dei predominî culturali della nostra Patria, la musica.

Caso Palamara: siamo al “marasma senile”

Il Fatto ha dato un grande spazio allo scandalo che per comodità chiameremo “Palamara” ma che in realtà coinvolge l’intero sistema giudiziario. Ed è comprensibile per l’importanza che hanno in uno Stato di diritto l’indipendenza e la credibilità della Magistratura che la nostra Costituzione, dopo l’esperienza fascista, volle indipendente da ogni altro potere. Per non farne però un organo lontano dalla società i nostri Padri costituenti vollero che il Csm, da cui dipendono “le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”, fosse composto per due terzi da giudici ‘togati’, cioè da magistrati, e per un terzo dai cosiddetti ‘laici’ scelti dal Parlamento fra “professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio”. Furono ingenui i nostri Padri costituenti perché non potevano immaginare la presa che i partiti avrebbero assunto nella società per cui questi stessi partiti immisero nel Csm ‘laici’ non per la loro esperienza in campo giudiziario ma per la loro dipendenza dall’una o dall’altra formazione politica. E questo è stato il primo tarlo che ha cominciato a corrodere la Magistratura italiana nell’era repubblicana.

E qui bisogna fare un passo indietro. La storia della nostra Magistratura dopo l’unificazione del Paese è, sostanzialmente, una buona storia. I magistrati erano talmente gelosi della propria indipendenza, considerando il loro lavoro più che una professione una vocazione, che il fascismo non riuscì a piegarli ai suoi fini e dovette ricorrere ai Tribunali Speciali. Erano altri tempi. Altri uomini. Mi ricordo un bell’articolo di Salvatore Scarpino dove raccontava l’isolamento dei magistrati nella cittadina dove era nato, Cosenza, che limitavano al massimo le proprie frequentazioni sociali per non dare adito a dubbi sulla loro attività.

Nel dopoguerra, dopo una prima fase di euforia generale dovuta alla ricostruzione e con uomini politici di notevole spessore perché forgiati da quel conflitto, la nostra classe dirigente comincia a corrompersi e per uscire indenne dalle proprie malefatte cerca di mettere le mani anche sulla Magistratura. Tentativo in buona parte riuscito. Tutti ricordiamo che il Tribunale di Roma, cui erano affidati i processi più scottanti, era chiamato “il porto delle nebbie” per la sua abilità nell’insabbiarli. Ma attraverso l’istituto dell’avocazione, cioè la possibilità del Procuratore capo da cui dipendono i Pubblici ministeri, molte istruttorie venivano tolte ai titolari perché non ficcassero troppo il naso in vicende delicate. E questo accadeva non solo a Roma ma in Procure di città anche meno importanti. Di fatto la classe dirigente, politica e imprenditoriale, si era assicurata, salvo rari casi, l’impunità. Il momento del riscatto venne con Mani Pulite. Mani Pulite è frutto di un avvenimento storico estraneo al nostro Paese ma che vi ha inciso profondamente: il collasso dell’Unione Sovietica. I voti dei cittadini non più costretti a votare Democrazia cristiana perché il pericolo comunista non esisteva più (il “turatevi il naso” di Montanelli) si diressero verso un movimento nuovo e sostanzialmente antipartitocratico, la Lega di Umberto Bossi. Cioè nasceva finalmente un vero partito di opposizione, in quanto quello ufficiale, rappresentato dal Pci, si era consociato con la Dc e ne condivideva sostanzialmente gli interessi, anche nell’ambito dell’autodifesa della classe dirigente dalla Magistratura. Con la Lega simili sporchi giochetti non erano più possibili. La Lega liberò le mani ai magistrati milanesi che per la prima volta nella storia repubblicana poterono richiamare la classe dirigente, politica e imprenditoriale, al rispetto di quella legge cui noi cittadini, diciamo così, normali, siamo obbligati. Non ci furono e non ci sono ombre sui componenti di quel formidabile pool, dal Procuratore capo Francesco Saverio Borrelli a Ilda Boccassini a Piercamillo Davigo a Gherardo Colombo e allo stesso Antonio Di Pietro, particolarmente bersagliato, soprattutto dal mondo berlusconiano allora vincente, e sottoposto a sette processi da cui è uscito regolarmente assolto. Fu l’ultima stagione in cui noi cittadini, perlomeno quelli, diciamo così, normali, potemmo avere piena fiducia nella Magistratura. Ma l’illusione durò poco.

Nel giro di pochissimi anni, con l’appoggio dell’intera stampa nazionale, e non solo di quella berlusconiana, i magistrati divennero i veri colpevoli e i ladri le vittime e spesso, proprio attraverso il Csm zeppo di politici mascherati da professionisti dello iure, giudici dei loro giudici. Fu un segnale. Decisivo per la nostra storia successiva. Era un ‘liberi tutti’ per la corruzione di lorsignori che poi, discendendo giù per li rami, ha finito per coinvolgere anche noi cittadini, diciamo così, normali. Inoltre la corruzione, morale e non solo, si è incistata negli altri corpi istituzionali, non solo nella Magistratura, finendo per sfiorare anche le Forze Armate dove circola un’aria di insubordinazione. Non si era mai visto che un ministro della Difesa, in questo caso Elisabetta Trenta, fosse messo sotto accusa da importanti generali che sia pur da poco pensionati evidentemente respirano qualche cosa che bolle in pentola nelle nostre Forze Armate. Non si capisce come il nostro Paese possa uscire da una simile confusione generale che assomiglia molto a quello che in termini psichiatrici si chiama “marasma senile”.