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Il fascismo 2.0, una deriva da fermare al più presto

Abbiamo di fronte un nuovo fascismo. I segnali ci sono tutti: la Digos che entra nelle case dei cittadini; la punizione per la professoressa che ha accostato il decreto Sicurezza alle leggi razziali; la minacciata revoca della scorta ai giornalisti scomodi (Saviano, Ruotolo); la lotta alle mafie solo in favore di telecamera.

Un fascismo 2.0, che usa i social per propaganda, per attaccare i giornalisti (Fazio, Gruber, Saviano, Mentana), per idolatrare il capo come uomo del popolo. La paura dei migranti per legittimare l’uso della forza e la restrizione delle libertà, così come cento anni fa si spaventarono gli italiani col pericolo delle sollevazioni operaie e contadine contro latifondisti e imprenditori.

Si aizzano gli estremisti violenti per creare disordini e aggredire i “nemici del popolo”: rom, immigrati, omosessuali. Stessa identica strategia usata con le squadracce negli anni 20 contro i dissidenti operai, contadini, sindacalisti, giornalisti.

La situazione parlamentare poi è incredibilmente simile: il Pd si dimette dalla lotta politica e si “ritira sull’Aventino”; il M5S continua a sostenere un’alleanza pericolosa; il premier Conte, che, senza peso elettorale, se da un lato resta l’ultimo argine alla brama di potere di Salvini, dall’altro lato risulta ogni giorno più debole.

L’unica opzione è che, in caso di crisi di governo, Pd e M5S inizino a parlarsi, a trovare temi comuni, a governare con metodi democratici. Il mio è un appello: non c’è più molto tempo prima che la corrente fascista diventi troppo forte.

Dario Comegna

 

Conte si fa sentire, ora comincerà a pungere

Salvini e Di Maio dormono adesso fra soffici guanciali? O, piuttosto, l’ago della bilancia rappresentato dal premier Conte potrà diventare un pungiglione? Forse, per scongiurarlo, basta fornirsi di qualche rosario e, gesto caro a boss e padrini, baciarlo con passione devota.

Gianni Basi

 

Ora anche i magistrati finiscono per essere giudicati

Inquietudine e avvilimento: anche i magistrati si sporcano. Ho sempre ammirato la categoria, baluardo di indipendenza e correttezza istituzionale. Ora siamo caduti nel più bieco mercimonio: magistrati che si sarebbero venduti per delle poltrone, per traffici di basso livello, come ometti qualunque!

Dove siamo arrivati?

Nessuna morale, pochissimo senso di appartenenza ad una categoria privilegiata, sogno di tanti laureati in legge, per conto di una probità giusta e sacrosanta, che sfugge a chi ora si fregia di un titolo che forse gli andrebbe tolto!

Quello che emerge in questi giorni a carico dell’organo più rappresentativo dei magistrati atterrisce.

Ma voglio credere che sia solo un abbaglio, e soprattutto sperare che i necessari chiarimenti giungano prestissimo!

Magari con tante doverose scuse.

Susanna di Ronzo

 

Scandalo al Csm: qual è la vera macchina del fango?

Il 4 giugno leggo su Il Fatto, che acquisto quotidianamente dal giorno della sua fondazione:

“Onore al merito, va detto, che sull’inchiesta che vede al centro Palamara, e che sta destabilizzando la nomina di Marcello Viola alla Procura di Roma, Repubblica è dal primo giorno il quotidiano con le informazioni più dettagliate”.

Sollecitata e incuriosita da questo elogio, il giorno successivo acquisto anche Repubblica, su cui, in un articolo a firma di Carlo Bonini, però mi ritrovo a leggere:

“…Luca Palamara, il kingmaker di Unicost che brigava per diventare procuratore aggiunto, annichilire l’indagine per corruzione in cui era indagato a Perugia e spezzare le ossa a Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo, usando i quotidiani La Verità e Il Fatto come macchina del fango”.

Ora, chi è la macchina del fango?

Nicolai Florida

 

Facile additare Donald, se dimentichiamo Rouhani

Se la stretta di mano alla Regina da parte di Trump è un gesto poco rituale, agli smemorati vorrei ricordare che è pur sempre meno maschilista del Presidente iraniano Rouhani, che, nel 2016, in visita di stato in Italia, ha evitato di stringere la mano alle donne, considerate esseri impuri.

E noi ci siamo pure resi ridicoli grazie a Renzi e Franceschini che hanno coperto delle opere d’arte considerate oscene, perchè contenenti alcune scene di nudo.

Quindi prima di giudicare Trump faremmo bene a guardarci nello specchio!

Enzo Bernasconi Vatrese

 

Il bonus della Ferragni: generosità o pubblicità?

Di Chiara Ferragni che elargisce un bonus di 3.400 euro al suo team ne parlano tutti, ma c’è un ragazzo, Massimo Guareschi, che il primo anno di attività della sua società, redBit Games, ne ha dati 10.000 a dipendente, senza trarne vanto alcuno.

L’ha fatto semplicemente “perché il team aveva ampiamente superato gli obiettivi”.

Leggendo del gesto di Ferragni mi è venuto spontaneo il paragone, considerato che il suo fatturato non è neppure paragonabile.
E a differenza della influencer, questo dettaglio Guareschi non l’ha mai reso noto.

Ma essendo la sua una piccola start up non è più degno di fare notizia?

Monika Brzezinska

Debiti dello Stato. Il governo si è mosso, ma è (ancora) solo a metà del cammino

Gentile Redazione, mi chiedevo, alla luce anche di un vostro articolo sul dibattito parlamentare sul pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione, come mai si versano fiumi di inchiostro e infinite parole sulla possibile destinazione di 2 miliardi di euro che avanzerebbero da qualche provvedimento, mentre invece non si parla dei 57 miliardi che le Amministrazioni statali dovrebbero restituire? Da dove li pigliano? Ovviamente, al netto di cose che non conosco (fondi Ue, soldi già stanziati ma fermi per burocrazia, ecc.), uno si domanda il perché di tanta caciara su 2-3 miliardi, che diventa tragedia sul 23% dell’Iva, ma non si sente nulla o quasi su quei 57 miliardi…

Un caro saluto e grazie per la quotidianità,
Francesco Ferdico

 

Gentile Francesco, i debiti della Pubblica amministrazione non sono fondi che devono essere restituiti, ma i pagamenti alle aziende che sono già contabilizzati nel bilancio statale ma, non essendo pagati ancora – per ritardi, inadempienze, difficoltà di cassa – risultano appunto come debiti. Gli ultimi aggiornamenti si trovano sul sito approntato dallo stesso ministero delle Finanze (http://www.mef.gov.it/focus/). Al 5 ottobre 2018 risultano pagati ai creditori 45,5 miliardi, a fronte di un finanziamento complessivo ai debitori di 47,3 miliardi. “Rispetto al picco del debito commerciale – si legge sul sito – stimato dalla Banca d’Italia a fine 2012 in circa 91 miliardi, risulterebbe quindi assorbita dagli enti debitori una somma corrispondente al picco di debito considerato scaduto e in ritardo di pagamento (secondo la Banca d’Italia ‘poco più della metà’ del debito complessivo)”. Insomma, rispetto al picco del debito, metà di quella somma è stata versata e dovrebbe essere finita alle aziende. Occorre anche considerare il fatto che i debitori vi hanno potuto fare fronte con le proprie risorse ordinarie, oltre che con i finanziamenti del governo. Le risorse necessarie alle Pubbliche amministrazioni per accelerare il pagamento dei debiti pregressi sono state assicurate dal governo, attraverso il ministero dell’Economia e delle Finanze, con diverse modalità: risorse finanziarie, anticipate direttamente dal Tesoro ovvero attraverso la Cassa Depositi e Prestiti; concessione di spazi di disponibilità finanziaria sul patto di stabilità interno; attribuzione di risorse per accelerare i rimborsi fiscali; possibilità per i fornitori di compensare debiti e crediti. Insomma, il governo si è mosso, ma è solo a metà del cammino.

Salvatore Cannavò

Chiude la Maggi Catene: 53 dipendenti lasciati a casa

Ancora un’azienda che chiude i battenti. Ieri è stata la volta della Maggi Catene, storica impresa di Olginate (Lecco) specializzata in catene da neve per le auto, che è stata dichiarata fallita. Lo hanno reso noto i sindacati sottolineando che “i 53 dipendenti sono stati letteralmente allontanati dall’azienda senza che venisse loro spiegato nemmeno bene il motivo” e che “perdiamo un altro pezzo di industria mentre prosegue il letargo del Governo, l’incompetenza non è una scusa per fuggire dalle proprie responsabilità”.

“La Maggi era già in procedura concorsuale e come sindacato ci eravamo dovuti attivare per tutelare in più occasioni per tutelare i diritti dei lavoratori – hanno spiegato Andrea Donegà, segretario generale Fim Lombardia, ed Enrico Vacca segretario Fim Monza Brianza Lecco -. Quando parliamo dell’urgenza di interventi per l’industria ci riferiamo a queste situazioni. Senza una seria politica per rilanciare gli investimenti e il lavoro il nostro Paese sarà condannato al declino industriale e sociale. Non possiamo permettercelo. Il Governo, invece, pare continuare a dormire beato”.

Il viceministro e la vendita beffa: indagato

La Lega lo ha voluto a Roma col refrain del buongoverno lombardo. Massimo Garavaglia, promosso di recente viceministro dell’Economia, la prossima settimana rischia una condanna a due anni per turbativa d’asta ma da ieri è indagato anche dalla Corte dei Conti per la svendita di Palazzo Beretta, storica sede dell’Asl nel cuore di Milano. L’immobile, 14mila metri quadri a due passi dal Duomo, è stato venduto nel 2014, quando era assessore regionale all’economia, per 25 milioni di euro alla Cassa Depositi e Prestiti, e da questa rivenduto subito dopo a Beni Stabili per 38, con una plusvalenza superiore al 50%. Il tutto per lasciare poi gli uffici dell’Asl nello stesso palazzo di Corso Italia 19, ma in affitto. L’operazione, secondo i magistrati, è stata guidata “secondo irrazionali logiche economiche”. Il danno erariale contestato è tra 2 milioni e 13 milioni riferiti alla vendita e pari a 9,5 milioni per il danno da locazione. Della vicenda si era interessata la Procura di Milano ma il procedimento è stato archiviato, diversamente da quella contabile che a seguito della chiusura indagini ha recapitato l’invito a dedurre al viceministro dell’Economia insieme ad altri tre dirigenti lombardi. Garavaglia, in particolare, avrebbe avuto un “ruolo propulsivo” e di “regia”.

La Corte scrive che pur non avendo deleghe in materia – in capo all’ex assessore alla Salute Mario Mantovani – esercitava “l’impropria interferenza personale ed istituzionale nel procedimento contrattuale con l’esercizio di una forte pressione per l’accelerazione della vendita del palazzo”. Quel che aveva, però, è un “palese e macroscopico conflitto di interessi”: all’epoca della vendita era anche consigliere per la gestione patrimoniale della Cassa Depositi e Prestiti, favorita dall’operazione ai danni dell’ente pubblico. Una condotta “consapevolmente illegittima”, si legge nella contestazione, per un’operazione in rosso ma tutta verde, giacché a caldeggiarla furono pezzi da novanta del Carroccio. “È un’operazione tutta in casa Lega”, scriveva il Corriere della Sera nel 2016, sollevando per la prima volta il caso, “persino il líder máximo Matteo Salvini si spende più volte a favore del trasloco”.

Tra gli indagati dalla procura contabile figurano infatti Guido Bonomelli, ex vicedirettore generale di Infrastrutture Lombarde, l’allora direttore generale dell’Asl, Giacomo Locatelli, e l’omologo al Welfare di Regione Lombardia, Walter Bergamaschi.

Garavaglia, contattato dal Fatto, si limita a dire “certe cose non si commentano mai”. Silenzio anche tra i banchi del governo e in zona Cinque Stelle, probabilmente in ossequio alla pace armata per ragioni di governo. Dopo i casi Siri e Rixi, questo può assumere un peso proporzionale al potere che Garavaglia esercita sugli indirizzi di governo. Tra le sue deleghe, c’è il “pacchetto regioni” che si porta dietro 114 miliardi del fondo sanitario, e nelle sue mani passano anche molti dossier su cui gli alleati fanno a pugni come fisco, crescita, cantieri, Tav.

Il silenzio precede forse la tempesta: giusto la prossima settimana, Garavaglia rischia una condanna a due anni per turbativa d’asta per un’altra vicenda legata alla sanità lombarda e sempre nei panni di assessore all’Economia: oggetto della contestazione è una gara da 11 milioni di euro per il trasporto dei dializzati che, insieme ad altre, nel 2015 costò l’arresto a Mantovani. Se a Roma tutto tace, a Milano Fabio Pizzul (Pd) parla di “svendita” e “prova dell’inaffidabilità della Regione nella gestione del patrimonio dei lombardi”. Il M5S chiede all’assessore al Bilancio di riferire con urgenza sul “caso Garavaglia”.

L’acrobata leghista: è ai domiciliari, ma “torna” sindaco

Indagato e con un’ordinanza di arresto ai domiciliari, il sindaco leghista di Legnano ritira le dimissioni e torna in sella. La scelta è arrivata ieri dopo che il Tar ha bocciato la richiesta di sospensiva di tutti gli atti comunali a partire dal 27 marzo scorso. Si tratta di una vicenda complicata che già allora portò il comune sull’orlo del commissariamento dopo le dimissioni di 13 consiglieri. Eventualità scongiurata con operazioni giudicate irregolari dalla minoranza. Il motivo della mancata sospensiva è legato al fatto che Fratus si è dimesso. Dunque partita chiusa? Affatto, perché pochi minuti dopo la sentenza, il sindaco, scampato il pericolo, ha annunciato di ritirare le sue dimissioni e di tornare in sella.

La comunicazione è arrivata dalla sua casa di Legnano dove si trova ai domiciliari dal 16 maggio scorso. L’ordinanza di arresto nei suoi confronti è stata emessa per diversi reati, tra questi la turbativa d’asta. Fratus è anche indagato per corruzione elettorale. Accusa che la procura di Busto Arsizio contesta solo a lui, mentre la turbativa è condivisa con il vicesindaco Maurizio Cozzi di Forza Italia e l’assessore all’urbanistica Chiara Lazzarini. L’annuncio di Fratus è stato poi seguito dal plauso dei vertici nazionali del Carroccio. “Non sarebbe giusto un passo indietro, neppure nei confronti dei cittadini di Legnano, non possiamo aspettare i tempi della giustizia”, ha detto il segratario nazionale della Lega Paolo Grimoldi. Fratus fa sapere che la sua decisione è dettata dalla piena fiducia nella giustizia. In realtà, il sindaco ha atteso la decisione del Tar di Milano. Il 27 marzo scorso, infatti, 13 consiglieri si sono dimessi. Dimissioni in massa che avrebbero dovuto mettere la parola fine alla giunta. Così non è stato allora grazie all’intervento del difensore civico della Regione e così continua ad essere, visto che Fratus non può tornare in comune solo perché ristretto ai domiciliari. Nell’ordinanza si racconta di come lui, assieme a Cozzi e Lazzarini pilotassero le nomine nelle partecipate. Il giudice scrive di “una gestione” della cosa pubblica “inspirata alla collocazione nei vari settori di persone gradite e manovrabili in quanto asservite alle loro direttive, e riconoscenti in futuro”. Emerge dalle indagini che nel 2017 per vincere ai ballottaggi, Fratus chiuse un accordo corruttivo con Luciano Guidi il rappresentante di una lista civica. Voti in cambio di un nomina, quella della figlia, in una partecipata. Ruolo che non prevedeva stipendio ma che è stato remunerato con un bonus di mille euro.

Intercettata con Lazzarini dirà Martina Guidi: “ Volevo chiederti una serie di cose perché io non le capisco, ho provato a leggerle ma non mi è chiara la tempistica (…). Ho paura di dire delle cazzate”. La corruzione elettorale o comunque l’accordo per il ballottaggio è poi una dinamica ben conosciuta dai vertici nazionali di Lega e FI. Dirà Lazzarini, riportando le parole di Fratus: “ Ha detto: io siccome negli accordi elettorali che ho preso con Guidi per il ballottaggio (…) accordi che ha preso a livello regionale con Guidi, Alli (…) come si chiama Musella, Salvini”. Non solo, dopo le dimissioni in massa dei consiglieri, Fratus, Cozzi, Lazzarini inizieranno un giro di contatti con i livelli nazionali dei due partiti per evitare il commissariamento. Cosa che avverrà.

Stefanel in crisi, salta il concordato. Lavoratori a rischio

Va verso la resa anche un’altra storica azienda veneta della moda: il cda di Stefanel ha avviato le procedure per l’amministrazione straordinaria dichiarando uno stato di insolvenza e rinunciando così alla procedura di concordato preventivo ottenuta a gennaio che gli aveva dato tempo fino a metà giugno per presentare un piano di risanamento. “La scelta migliore – spiega l’azienda – per garantire continuità e sviluppo del marchio“ e che si è resa necessaria per “l’assenza di altri interlocutori e per l’impossibilità di reperire risorse per un rafforzamento patrimoniale” con l’indebitamento arrivato a superare i 90 milioni di euro. La crisi riguarda circa 200 dipendenti della sede centrale, che si trova a Ponte di Piave in provincia di Treviso, e il personale nei negozi in tutta Italia. L’azienda è detenuta dai due fondi Oxy Capital e Attestor, mentre Giuseppe Stefanel, figlio del fondatore Carlo, ne controlla il 16,4 %. In base alla situazione finanziaria al 30 aprile, tra i creditori ci sono Intesa Sanpaolo (26,5 milioni), Unicredit (19,9 milioni), Mps (22,5 mln), Banco Bpm (8,3 milioni), Bnl (3,6), Mediocredito Friuli Venezia Giulia (4 milioni). In Borsa intanto il titolo (quotato dal 1987) resta sospeso a tempo indeterminato.

Sempre più azzardo. Punti e vinci prima che finisca la partita

Dopo un lungo sonno durato un anno durante il quale si era tenuto prudentemente alla larga dalle faccende del gioco che almeno in teoria gli competono, d’improvviso il ministro del Tesoro, Giovanni Tria, si è svegliato. Non per risolvere i mille guai che affogano il settore, un tempo macchina da soldi senza freni e oggi, invece, assai in confusione, soprattutto sul piano delle regole. Ma solo per incrementare le scommesse sia in termini di quantità di gioco sia per numero di puntate.

Non è chiaro chi gli abbia dato il fatidico bacio del risveglio sulla fronte. Le lobby nazionali del settore giurano di essere rimaste spiazzate pure loro dal cambio di passo ministeriale. Tria ha firmato a sorpresa un decreto ministeriale in cui introduce quello che in termini tecnici gli appassionati chiamano il cash out. La possibilità cioè di puntare più volte sullo stesso evento, incassando in anticipo parte delle vincite e continuando a puntare. Una manna per chi gode dell’azzardo, uno sberleffo alle ludopatie e un bel business per le due aziende inglesi presenti in Italia specializzate in quel tipo di gioco: Betfair e Bet 365.

La novità è stata inserita da Tria con tre righe: “Il concessionario ha facoltà di proporre al partecipante (il giocatore, ndr) il pagamento anticipato della scommessa a quota fissa, anche parziale, prima che l’ultimo degli eventi pronosticati si realizzi, pari a un importo di vincita offerto al partecipante e da esso accettato. Tale importo può essere inferiore all’importo scommesso”. In pratica chi scommette, per esempio, sul risultato di una partita di calcio, può decidere di non aspettare la fine del secondo tempo, ma dopo il primo tempo passare all’incasso. E può decidere di continuare a puntare sulla stessa partita utilizzando la somma incassata, se vuole. Della serie: vinco poco, ma rigioco. È una specie di moltiplicazione dei pani e dei pesci oppure, detto in altri termini, un’istigazione all’azzardo.

Ci sono due tipi di cash out, totale e parziale. Il cash out parziale permette al giocatore di incassare una vincita nel corso dello svolgimento dell’evento oggetto della scommessa. Se lo fa, poi può continuare a giocare con un nuovo biglietto a un nuovo prezzo e con un nuovo importo di vincita. Con il cash out totale il giocatore può invece decidere se riscuotere o meno una vincita inferiore alla potenziale vincita finale. Se al giocatore va bene, la sua puntata viene pagata con il messaggio “Cash out totale”. In pratica si ritira dalla scommessa accontentandosi a metà strada di una quota più bassa.

È facile prevedere che il nuovo sistema di scommesse avrà successo.

Nel frattempo restano, però, irrisolti i mille problemi che ingarbugliano il settore. In cima alla lista c’è la confusione delle norme, soprattutto per quel che riguarda gli orari di gioco e le distanze tra un punto e l’altro.

Grazie anche al mancato intervento di riordino di cui Tria avrebbe dovuto essere l’artefice, i giocatori e le aziende sono costrette allo slalom tra indicazioni diverse, in alcuni casi opposte, tra Regione e Regione e a volte tra Comune e Comune. In uno, per esempio, si può giocare fino alle 22 di sera, nel Comune accanto a quell’ora ti fanno la multa e così via. Ci sono Comuni che hanno imposto divieti di gioco assoluti nel raggio di centinaia di metri dai luoghi sensibili come scuole e ospedali. E altri che si dimostrano, invece, più tolleranti. È una Babele che non fa bene a nessuno.

Il governo passato era stato molto più pronto. Il sottosegretario Pier Paolo Baretta (Pd) aveva raggiunto un accordo con i concessionari incardinato su due punti. Il primo era la diminuzione delle macchinette mangiasoldi da 420 mila a 265 mila, che è stata fatta. L’altro punto avrebbe dovuto essere proprio il riordino complessivo del settore con nuove norme che attenuassero la confusione imperante. Sarebbe toccato a Tria occuparsene, ma probabilmente, preso da altre mille urgenze, non l’ha fatto.

Via libera del Senato al testo dopo l’accordo sul codice degli appalti

Il Senato ha approvato il decreto sblocca cantieri con i 142 voti a favore di Lega e M5S (contraria l’opposizione) dopo che hanno trovato l’accordo sul codice degli appalti che Salvini chiedeva di sospendere mentre Di Maio frenava. Il testo passa ora alla Camera per l’approvazione definitiva che deve avvenire entro il 17 giugno. Durante l’esame del Senato il testo è stato modificato. Oltre alle modifiche e alle sospensioni di alcune norme del codice degli appalti (nessuno stop completo), altre novità introdotte riguardano le amministrazioni pubbliche che non dovranno più selezionare i commissari di gara all’interno di un albo costituto dall’Anac. È previsto il ritorno degli appalti integrati: le amministrazioni non dovranno più fare i progetti esecutivi prima di affidare i lavori alle ditte vincitrici dell’appalto, ma saranno queste ultime a occuparsene, dalla progettazione all’esecuzione. Via libera alla nomina di due commissari per il completamento delle dighe del Mose di Venezia e per il Traforo del Gran Sasso in Abruzzo. Inserito poi uno scudo contabile per i funzionari pubblici che firmano l’eventuale cessazione anticipata per le concessioni autostradali. L’indiziato è Atlantia cui fa capo il 100% di Autostrade.

Enti bilaterali, la tassa occulta sui lavoratori

Stesso ufficio in centro a Milano, sei targhe, un solo citofono. “Ebrl” sta per Ente regionale lombardo delle agenzie viaggio e aziende ricettive all’aria aperta. Altri cinque enti sono appoggiati alla stessa sede di una palazzina in Corso Buenos Aires 77. Solo in Ebrl siedono un presidente, il suo vice e due co-direttori. Cinque membri dell’assemblea, 4 del comitato direttivo e 6 di quello scientifico. Per finire, i tre del collegio sindacale. In tutto: 22 poltrone. Per quanti dipendenti? Zero. Sui suoi conti e sui compensi delle cariche nulla si può sapere. “Dobbiamo rispondere solo ai nostri associati, sindacati e parte datoriale”, risponde Luigi Maderna, 82 anni, presidente della Fiavet Lombardia, l’associazione degli agenti di viaggio. Se venissimo lì con un lavoratore che di tasca sua ci mette i contributi, magari senza saperlo? “Vi pare che possa perdere la giornata per uno che versa qualche decina di euro l’anno?”.

Comincia così il viaggio di FQ MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez in edicola da domani, nel mondo opaco degli “enti bilaterali”, organismi paritetici fra sindacati e datori di lavoro previsti dalle centinaia di contratti collettivi finanziati con una trattenuta automatica dalla busta paga dei dipendenti. Piccole cifre che fanno milioni di euro e su cui nessun ente terzo esercita controlli. È solo una delle inchieste e degli approfondimenti del numero dedicato alla crisi dei sindacati, sempre più aziende di servizi – con contorno di privilegi e cooptazioni politiche – sempre meno rappresentanza di lavoratori.

In teoria gli enti bilaterali dovrebbero erogare ai lavoratori servizi di welfare complementare: per esempio, rimborsi per occhiali e il nido, forme di integrazione al reddito, corsi di formazione. Il problema, documenta il mensile, è che nella maggior parte dei casi lavoratori e imprenditori neppure sanno di quel prelievo e delle prestazioni gratuite cui avrebbero diritto. “Se solo potessi andare dieci minuti a Porta a Porta, a dire ai lavoratori “chiedeteci i servizi”, sbotta Marco Palazzo, direttore generale dell’Ente bilaterale Veneto e Friuli-Venezia Giulia, organismo del settore del commercio e turismo (Ebvf). Cosa succederebbe? “Tanti scoprirebbero che sono iscritti a un qualche ente senza saperlo e di avere diritto ai rimborsi per servizi che pagano da anni”. Palazzo ha 32 mila iscritti ma ne conosce solo 10 mila, due terzi non sa neppure chi siano perché, spiega, “emergono solo quando usufruiscono di un servizio”. Così il contributo per un po’ di welfare in più si trasforma in una tassa occulta sul lavoro, che finisce per mantenere una miriade di poltrone e, spesso, prestazioni non proprio risolutive: corsi di ikebana, bon ton, rimborso di concerti (per esempio Vasco Rossi all’Arena di Verona). Quando non si arriva a vere e proprie malversazioni con intervento della magistratura.

Non basta. Oggi nessuno sa quanti siano questi enti e quanto riscuotano. FQ MillenniuM ha contattato ministero del Lavoro, ministero dello Sviluppo economico, Inps e Agenzia delle Entrate. Nessuno è stato in grado di fornire dettagli. L’ultima ricerca sul fenomeno risale al 2013, con un aggiornamento nel 2016 che fissava il numero degli enti bilaterali a quota 436. Poi più nulla, perché quella ricerca era finanziata da fondi europei. Proprio così: per sapere quanti enti bilaterali ci sono Italia si è dovuto chiedere all’Europa.

Lo Sblocca-cantieri rischia di sbloccare solo le tangenti

Bisogna allentare le regole sulle gare per far ripartire il settore degli appalti pubblici? La risposta dell’Autorità anticorruzione (Anac) guidata da Raffaele Cantone, nella sua relazione annuale al Parlamento è negativa. Allentare le regole serve solo ad aumentare il rischio di corruzione e a far lievitare i costi per lo Stato. “Il settore degli appalti ha assoluto bisogno di stabilità e certezza delle regole, e non di continui cambiamenti”, dice Cantone.

Le sue parole arrivano come una chiara bocciatura della legge Sblocca cantieri, ora in discussione in Senato, e che parte proprio dal presupposto che in Italia ci sia una paralisi tale da legittimare qualche deroga e la sospensione per due anni di parte del codice degli appalti. I numeri di Cantone dicono il contrario: nel 2018 il valore degli appalti pubblici di importo pari o superiore a 40.000 euro è stato pari a 139,43 miliardi di euro. È il valore più alto di sempre e in decisa crescita rispetto al 2017, quando l’ammontare complessivo era di 132,36 miliardi. È ormai chiaro che i problemi riscontrati nel 2016 al momento dell’approvazione del codice degli appalti erano passeggeri, il sistema ha dovuto adeguarsi: quell’anno gli appalti sono scesi da 121,3 miliardi del 2015 a 102 miliardi. Ma già l’anno successivo il livello era tornato alla normalità.

Se poi si guarda la scomposizione per settori, si vede che anche i lavori per le opere (infrastrutture incluse) che tutti pensano paralizzati continuano a crescere: nel 2018 addirittura del 37,8 per cento, fino al record di 32,3 miliardi, e proprio grazie a 3 miliardi di appalti per la costruzione di linee ad alta velocità.

La legge Sblocca cantieri prevede che nella fascia di appalti di valore tra 40.000 e 150.000 euro basti consultare tre aziende, mentre finora serviva una procedura negoziata con dieci imprese. Ridurre la concorrenza (e quindi far potenzialmente lievitare i costi per lo Stato) è inevitabile per far ripartire i lavori? Dai numeri dell’Anac non sembra proprio: il valore in euro degli appalti in quella fascia di importo è cresciuto da 5,3 miliardi del 2017 a 5,4 miliardi nel 2018. Nella fascia appena superiore, tra 150.000 e 1 milione di euro di importo, il valore è passato da 14 miliardi a 16,1. Il blocco a cui rimediare sacrificando controlli e gare proprio non si vede.

C’è un solo dato che parrebbe giustificarlo: negli ultimi tre mesi del 2018 all’improvviso l’importo globale degli appalti banditi è crollato del 21,4 per cento. Come ha lasciato intendere Cantone ieri, però, la spiegazione potrebbe essere paradossale: proprio il dibattito sulla riforma del codice degli appalti può aver spinto diverse stazioni appaltanti a rinviare i bandi in attesa del decreto Sblocca cantieri promesso (la prima versione è stata approvata a marzo).

La legge Sblocca cantieri, nella versione approvata al Senato, rende anche più facili i subappalti: l’affidamento può arrivare ora al 40 per cento dell’importo complessivo dell’opera, mentre prima il tetto era al 30 per cento. Questo, secondo Cantone, crea rischi notevoli. C’è una storia istruttiva a questo proposito in cui si è imbattuta l’Anac. Il Nucleo speciale anticorruzione ha analizzato un appalto della Regione Campania sullo smaltimento delle eco-balle (rifiuti). Ha scoperto che uno degli amministratori di un consorzio titolare di subappalti era stato destinatario di misure cautelari da parte della Procura di Napoli per un’inchiesta su una associazione a delinquere nel campo dei rifiuti.

Un’altra azienda che aveva ottenuto subappalti per la rimozione dei rifiuti nel Comune di Villa Literno (Caserta) aveva una interdittiva antimafia. Dopo le segnalazioni di Guardia di Finanza e Anac, la Regione ha revocato l’autorizzazione al subappalto. Ma con lo Sblocca cantieri in vigore sarà più difficile prevenire questi casi.