Bce, tassi fermi fino a metà 2020 e nuova liquidità alle banche

“Siamo lontani dalla normalizzazione perché le sfide che affrontiamo sono lontane dall’essere normali”. È la sintesi di Mario Draghi nel giorno in cui la Bce prolunga la sua forward guidance anticipando tassi ai minimi storici per altri sei mesi, fino almeno alla metà del 2020 e presenta nel dettaglio la nuova tornata di operazioni di rifinanziamento a lungo termine destinate alle banche (che servirà, molto, anche agli istituti italiani). Al termine di una riunione del consiglio direttivo, spiega lo stesso presidente della Banca centrale europea, nel corso della quale alcuni membri hanno anche voluto discutere di possibili ulteriori tagli dei tassi e di una eventuale ripresa del quantitative easing, il programma di acquisto dei debiti pubblici conclusosi a fine 2018. Francoforte insomma non esiterà a ricalibrare la propria azione se questo servirà a garantire il percorso dell’inflazione verso l’obiettivo del 2%, assai lontano dall’essere centrato. Insomma, per almeno altri sei mesi il successore di Draghi, che lascerà in autunno, avrà la strada segnata. A settembre prenderanno il via le operazioni di Tltro, già annunciate a marzo. Quanto più le banche presteranno, tanto più i tassi saranno per loro bassi: fino a un -0,30%.

“Affare solo per Fiat, bene il no francese”

“Non si trattava di una fusione alla pari. Fca tentava di acquisire tecnologie e chiudere con Renault un’operazione solo finanziaria, come Chrysler”. Sin dall’inizio, Fabien Gâche, segretario del sindacato Cgt in Renault, si è opposto alla fusione. E oggi è soddisfatto.

Per quali motivi?

Tanti. Primo: il valore stimato in Borsa di Renault è stato molto sottovaluto da Fca. Secondo: la spesa di Fca in ricerca e sviluppo è pari al 2,7% del fatturato, Renault ne investe il 5,5% e già questo non è abbastanza. Terzo: Fca non ha una piattaforma elettrica e non fa ricerca sul veicolo autonomo. Quarto: la famiglia Agnelli sarebbe diventata azionista di maggioranza relativa. E conosciamo le sue strategie: con Chrysler hanno conservato solo i marchi reddittizi e buona parte del fatturato di Fca viene da Chrysler con Ram e Jeep. Lancia rischia di scomparire. Maserati produce 35.000 veicoli e anche Alfa Romeo, che è a 120.000, è in forte calo. Le fabbriche italiane soffrono di una cronica insufficienza di investimenti e funzionano al 50% delle loro capacità. Non vedo come in queste condizioni la fusione con Fca sarebbe stata conveniente per Renault.

Il ministro dell’Economia, Bruno Le Maire, aveva posto quattro condizioni. Non erano sufficienti?

No. Con la fusione, lo Stato francese avrebbe perso la minoranza di blocco per opporsi a decisioni unilaterali degli Agnelli, con potenziali effetti negavi sul lavoro in Francia. La promessa di non chiudere le fabbriche non è credibile. Troppe volte in Francia queste promesse sono state tradite, come di recente da General Electric. Sappiamo poi che non chiudere le fabbriche non garantisce il mantenimento degli impieghi e dei volumi di produzione. Il rischio per i lavoratori, anche in Italia del resto, era troppo elevato. Non sarebbe stato possibile anche conservare inalterata l’alleanza Renault-Nissan.

Le Maire ne avrebbe parlato con i vertici di Nissan nei prossimi giorni a Tokyo.

Nissan è stata tenuta fuori dalle discussioni. Per loro è inaccettabile. Il dg Aikawa ha detto al giornale Les Echos che la fusione avrebbe comportato alla revisione dell’alleanza Nissan-Renault.

La Cgt ha avuto un peso sulla scelta del governo di prendere altro tempo?

Premetto che noi sindacati non siamo stati neanche avvisati del progetto di fusione e che lo abbiamo appreso dalla stampa. Ma abbiamo subito comunicato i nostri argomenti, poi avallati da specialisti e anche dall’ex dg di Renault, Patrick Pelata. Il governo si è trovato isolato.

In Italia l’ingerenza politica è stata criticata.

Lo Stato francese è ancora il principale azionista di Renault e deve farlo pesare. Ma riteniamo che non debba comportarsi da volgare azionista, il suo ruolo è un altro. Abbiamo chiesto un incontro su Renault perché venga attuata una strategia non solo finanziaria ma industriale, affinché gli investimenti siano destinati a concepire veicoli che rispondano alla sfida ambientale. Non servono rischiose fusioni per questo. Ma si possono stringere collaborazioni con altri costruttori, compresa Fca.

Soldi, esuberi e il nodo Nissan. Perché Parigi fa scappare Fca

E adesso, pover’uomo? Tutto da rifare, potrebbe dire di John Elkann lo scrittore tedesco Hans Fallada dopo la rottura notturna del “fidanzamento” tra Fca e Renault. Perché al di là del primo giudizio di Borsa (Fca sopra la parità a Milano, Renault con un crollo del 6% a Parigi, Nissan e Mitsubishi punite a Tokyo con un -1,7 e un -5,8), sono proprio il gruppo italo-statunitense e il suo capo, il nipote di Gianni Agnelli, a trovarsi in mezzo al guado del contraccolpo della mancata fusione con i francesi, da cui Fca si è sfilata mercoledì notte. Una situazione resa ancora più simbolica dall’approssimarsi del primo anniversario (il 25 luglio) della scomparsa di Sergio Marchionne, il “demiurgo” dell’acquisto di Chrysler. Elkann deve fare così i conti col fallimento di un azzardo che lascia irrisolti tutti i problemi: la necessità di finanziamenti per i nuovi modelli, il deficit sul mercato europeo e, soprattutto, l’urgenza di rimediare, grazie all’apporto di Nissan-Mitsubishi, al gap tecnologico sul fronte dell’auto del futuro: elettrica e poi a guida autonoma. Ed è proprio nel “non ruolo” di Nissan, e nel contrasto in corso tra i giapponesi e francesi sulla storica alleanza dopo l’arresto a Tokyo dell’ex manager Carlos Ghosn (su cui anche Renault ha chiesto l’intervento della magistratura), che va individuato il vero tallone d’Achille della trattativa. Oltre che nella indubbie pressioni del governo francese (primo azionista di Renault col 15%)

Ma che cosa può essere accaduto? Il duro comunicato finale di Fca, non lascia trasparire nulla se non un esplicito attacco al governo transalpino: “Non vi sono attualmente in Francia le condizioni politiche”. Così come fa anche il messaggio inviato ieri da Elkann a tutti i dipendenti del gruppo: “Ci vuole coraggio per iniziare un dialogo. Quando però diventa chiaro che le conversazioni sono state portate fino al punto oltre il quale diventa irragionevole spingersi, è necessario essere altrettanto coraggiosi per interromperle”. Parole seguite da una rivendicazione della correttezza del proprio comportamento: “La scelta non è stata presa con leggerezza ma con un obiettivo in mente: la protezione degli interessi della società e di coloro che lavorano qui. Persino la miglior proposta ha poche possibilità di successo se le sue fondamenta si rivelano instabili”.

Qualcosa di più filtra invece da Parigi, soprattutto dal ministro dell’Economia Bruno Le Maire, vero artefice della strategia dei “paletti” messi sul terreno da parte francese, e ben oltre le stesse dichiarazioni di “delusione” e di “disappunto” del gruppo automobilistico di Bercy che pare invece quasi rammaricarsi per lo stop subito. In una nota, Le Maire aveva precisato di aver lavorato “in maniera costruttiva”, fissando quattro condizioni: “Il mantenimento dell’alleanza Renault-Nissan, la salvaguardia di posti e stabilimenti in Francia, una governance rispettosa degli equilibri, nonché la partecipazione alla futura società franco-tedesca per le batterie elettriche. Un accordo è stato trovato su tre di esse. Restava da ottenere un sostegno esplicito di Nissan. Lo Stato ha quindi preferito uno slittamento di cinque giorni”. A cui Fca ha detto no.

Anche Le Maire, però, ha omesso di parlare dei problemi più conflittuali sottesi, oltre alla “questione Nissan”, al confronto. A cominciare (un altro scoglio fondamentale) dal concambio tra il valore dei due gruppi destinati a fondersi con un 50% a testa, ma con Fca valutata sul mercato azionario più di Renault e la conseguente necessità di un maxi dividendo di 2,5 miliardi di euro agli azionisti (in particolare gli eredi Agnelli). Nel tira e molla, i francesi avevano replicato con la richiesta di un altro dividendo a proprio favore. Nessuna conferma, invece, ha trovato la voce secondo cui ci sarebbe stata, oltre alla richiesta di una moratoria di 4 anni sulla riduzione del personale, addirittura una penale economica per il gruppo di Elkann in caso di licenziamenti in Francia. L’ultima controversia, quella relativa alla partecipazione di Nissan, è stata poi esplicitata dalla richiesta dei due consiglieri giapponesi in Renault per un prolungamento della trattativa.

Il futuro di Fca per ora è legato solo a ipotesi, alimentate dal bisogno di rispondere alle proprie “debolezze”. Elkann ha dunque un piano B che giustifichi il suo orgoglio di ieri? “Continueremo ad essere aperti a ogni opportunità”, ha spiegato. Qualcuno ha già rispolverato le voci sulla possibilità di accordi con Peugeot: ma anche lì c’è una partecipazione dello Stato francese, oltre ai fondi cinesi.

Resta infine, per l’Italia, il ruolo quiescente del governo Conte, a parte una presa di posizione difensiva di Luigi Di Maio: “L’esito dimostra che quando la politica cerca di intervenire in procedure economiche non sempre fa bene. Se Fca ha ritirato la proposta è perché non ha visto convenienza o per altro che noi non sappiamo”,

Ora Polacchi chiede un risarcimento al Salone del Libro

Dopo l’esclusione dal Salone del Libro di Torino, Francesco Polacchi passa al contrattacco. Il militante di CasaPound – editore di Altaforte e del libro-intervista a Matteo Salvini – è intenzionato a chiedere un risarcimento per “grave lesione all’immagine culturale e commerciale” della casa editrice: “C’è stata un’ingiustizia che non poteva passare inosservata – ha detto Polacchi – perché avrebbe creato un precedente enorme. In seconda battuta abbiamo ricevuto un danno economico. Questo è un libro che poteva sbancare. Sì, ha avuto successo ma il danno c’è stato, soprattutto a causa della censura. Poi abbiamo avuto il rifiuto di alcuni librai di esporlo: 120 librai della Feltrinelli si sono rifiutati di averlo sugli scaffali condizionando anche le vendite di altri nostri volumi”. A occuparsi della richiesta danni di Altaforte sarà Maurizio Paniz, ex parlamentare berlusconiano e già impegnato nei ricorsi contro l’abolizione dei vitalisi. “Avevamo promesso che non avremmo lasciato passare questa ingiustizia e lo abbiamo fatto – ha aggiunto Polacchi –. Abbiamo scelto Paniz perché conosce bene la materia e siamo convinti che con lui si possa aprire una strada che ci porterà a condurre la causa in modo corretto”.

Grillini in psicanalisi collettiva: “Ci siamo fatti fregare da Salvini”

Terni è stata la città dei metalmezzadri. Le acciaierie erano la colonna vertebrale, la carta d’identità di un ceto operaio che veniva dalla terra e alla terra ritornava dopo il lavoro in fabbrica e i turni massacranti alle presse. Rossa così tanto da apparire inespugnabile, stava per finire nelle mani dei Cinquestelle quando, all’improvviso, giunse in città Matteo Salvini. Era esattamente un anno fa. Tutto quel che sarebbe capitato a Luigi Di Maio con il voto di maggio, era già successo ai suoi compagni d’armi ternani, al suo candidato sindaco Thomas De Luca, che ora insieme ai sei consiglieri comunali del Movimento rievoca – in questa seduta un po’ politica e un po’ psicanalitica – quel tempo e offre al capo politico alcune ricette per tentare uscire dalla crisi.

Thomas: “Mettiamo le cose in chiaro: sono attivista da sempre e di sinistra da sempre. Non è che mi sia piaciuto tanto l’accordo con la Lega. Ma avevo la città a cui badare. Pensavo realmente che potesse essere la volta buona di conquistarla dopo tutto l’impegno profuso. Noi abbiamo mandato in crisi il Pd, noi abbiamo aperto le strade alle inchieste giudiziarie e provocato la disfatta a sinistra. Noi abbiamo smosso la città su ambiente e salute. Noi eravamo i favoriti”.

Luca Simonetti: “Poi in un mese è giunto in città sette volte Salvini. Il sindaco sembrava lui”.

Valentina Pococacio: “Infatti sulle schede elettorali qualcuno ha scritto Salvini. La maggioranza ha fatto la croce sul simbolo della Lega. Il candidato sindaco nessuno lo conosceva e a nessuno è interessato sapere chi fosse. Bastava Salvini”.

Marco Cozza: “Vengo da destra, ma certo che mi ha impressionato vedere gli elettori completamente disinteressati ai programmi. Qui si muore di cancro e loro erano ipnotizzati dai migranti e dalla sicurezza”.

Valentina: “Della salute non fregava più a nessuno”.

Thomas: “Ora però non ho fatto mancare il mio sostegno a Di Maio nella votazione online. Che fai, del resto? Però bisogna riorganizzarsi in fretta. Numero uno: è mai possibile che non riusciamo a parlare con nessuno del governo? Per esempio: da tre anni tentiamo di bloccare Acea che vuole acquisire una partecipazione nell’inceneritore. Manca un referente locale che abbia il potere di interloquire con Roma”.

Valentina: “Fare come la Lega. Un commissario che comanda e risponde”.

Thomas: “Ogni città deve avere un solo meet up. Che senso ha questo florilegio di iniziative nelle quali poi ti perdi?”.

Federico Pascoli: “Recuperare le pecore è un po’ più difficile che trovare un pastore”.

Thomas: “Terni ha anticipato il vento. In un giorno, quando Salvini ha rotto il silenzio elettorale sul caso della nave Diciotti, del blocco dei migranti, abbiamo perso secchi dieci punti. Incredibile ma vero”.

Valentina: “La città è sporca con la giunta leghista. Male amministrata. Qualcuno parla? Nessuno”.

Thomas: “C’è un piano di abbattimento degli alberi malati. Con le amministrazioni precedenti ogni taglio era accompagnato da una protesta. Questi nuovi hanno intensificato addirittura i tagli. Sai cos’è accaduto? Campagna di stampa contro i ‘pini killer’. Tutti ad applaudire”.

Luca: “La verità è che abbiamo consentito troppo a Salvini. Troppo. Dicono che la sterzata a sinistra preelettorale ci sia costata tanti voti. Io penso che senza quella sterzata ne avremmo persi molti di più. Altro che!”.

Claudio: “Siamo per la prima volta al governo. Alcune ingenuità, disinvolture, anche fragilità dell’organizzazione dobbiamo scontarle”.

Thomas: “Noi da Terni proponiamo che non possa in futuro essere eletto al Parlamento nazionale chi non abbia almeno fatto un mandato da consigliere comunale. È indispensabile una verifica sul campo. Si dice che le preferenze sono il demonio. Ma io non conosco altro metodo possibile per una selezione che non produca paradossi”.

Valentina: “Si può dire tutto il male del Movimento, ma in un partito come la Lega o il Pd non avremmo avuto nessuno spazio”.

Fabrizio: “Se sono consigliere comunale lo devo al Movimento. Non ha chiesto null’altro che mettere la mia passione e quel poco che so fare a disposizione di tutti”.

Thomas: “Sbagliata anche l’interpretazione dell’uno vale uno. Significa che siamo tutti uguali, non che uno vale l’altro. Esistono le competenze, la dedizione, le capacità”.

Marco: “Qui a Terni sembrava che candidato a sindaco fosse Salvini”.

Luca: “Sì, una trasfigurazione. Salvini era il sindaco delle città che visitava, è divenuto il sindaco d’Italia. Il Capitano, come lo chiamano”.

Thomas: “Di Maio sarà un moderato, avrà tanti difetti, ma il movimento ha scelto di farsi rappresentare al governo da persona qualunque. Dava il senso di quel che intendevamo fare: mettere una zeppa per far andare fuori giri il sistema. Si può dire che ci siamo riusciti”.

Valentina: “A Terni avevamo grandi speranze”.

Marco: “I ternani non sono noti per la perspicacia”.

Thomas: “Dobbiamo alla svelta riorganizzarci. La base deve contare di più, la comunicazione con Roma dev’essere puntuale. Non dobbiamo trovarci nella situazione che abbiamo vissuto. Fossero stati più accorti avrebbero capito un anno fa e non adesso che bisognava cambiare passo”.

Luca: “Adesso che fai?”. Thomas: “Già, adesso devi stringere i denti”.

Fabrizio: “Speriamo”.

Thomas: “Gioca a farci bruciare le dita lasciandoci il cerino acceso in mano”.

Valentina: “Ecco”.

Thomas: “Non facciamoci fregare un’altra volta”.

I lumbard padani alla conquista della giunta sarda

Dall’autonomia regionale al “colonialismo” lombardo? Polemiche per le scelte della giunta regionale sarda che ha nominato tre capi di gabinetto leghisti, tutti di origine padana. Scelti Luca Erba, comasco residente ad Oristano, per i Trasporti, e Alessio Zanzottera, commissario leghista a Corbetta (Milano), per gli Affari generali. Del terzo, candidato a capo di gabinetto della Sanità, invece, ancora non si sa il nome, solo l’origine: lombarda. “La Sardegna non può essere ridotta a un ufficio di collocamento padano”, attacca la capogruppo M5S in Consiglio regionale, Desirè Manca. Sotto accusa l’alleanza di centrodestra del presidente Christian Solinas “dopo una campagna elettorale spesa a tranquillizzare gli elettori sardi – ricorda Manca – sul fatto che la Lega non aveva intenzione di colonizzare le cariche più importanti. Evidentemente non ci sono sardi all’altezza del ruolo”. Ugualmente indignato il Pd: “Se questa è l’idea di autonomia della Lega e del centrodestra regionale c’è proprio di che preoccuparsi – dichiara il capogruppo Gianfranco Ganau –. Forse ora gli assessori inizieranno a proporre leggi direttamente prodotte in Lombardia, con buona pace dei sardi e della loro autonomia”.

Il ministro dell’Interno ci ricasca e annuncia in anticipo due retate

Ci risiamo, il vicepremier Matteo Salvini non riesce a frenare il suo istinto e la sua comunicazione. E così rieccolo ad annunciare – tramite una nota del suo ufficio stampa al Viminale – l’arresto di undici spacciatori che operavano a Varedo nella provincia di Monza e Brianza e di altri dieci cinesi per rissa a Prato, comune toscano dove il vicepremier ieri sera ha tenuto il comizio conclusivo per il ballottaggio. Peccato che l’annuncio sia stato incauto visto che gli arresti erano ancora in corso. Particolare fatto notare dai due procuratori della Repubblica. Insomma un day after incandescente dopo i dossier del Viminale sui magistrati che bocciano i provvedimenti su sicurezza e immigrazione. Tanto che la presidente della Corte di Appello di Firenze, Margherita Cassano, ha parlato di “linciaggio morale” prendendo le difese di Luciana Breggia, presidente della sezione specializzata in materia di immigrazione del Tribunale di Firenze, “colpevole” di non aver accolto un ricorso del Viminale.

Salvini tira dritto. Torniamo all’annuncio del ministro che pare non badare agli equilibri delle inchieste, preoccupato solo di preparare il terreno politico rispetto alle elezioni di Prato. Così Salvini ha anticipato gli arresti per una rissa tra bande cinesi. Con una nota trasmessa stamattina alle 9 e 51 alle agenzie di stampa: “Si erano fronteggiati a Prato con coltelli e pistole per il controllo della prostituzione: dieci cinesi, tra cui sei clandestini, sono stati arrestati. Grazie ai carabinieri. Nessuna tolleranza per i delinquenti: per loro la pacchia è finita!”. Il procuratore Giuseppe Nicolosi si è detto molto “irritato”. Anche perché, è stato spiegato in Procura, “al momento sono solo tre, le misure cautelari eseguite nei confronti di 10 cittadini cinesi”. Dalla Toscana alla Lombardia. “Beccati undici pregiudicati stranieri, quasi tutti irregolari, per tentato omicidio, spaccio, detenzione e porto abusivo di armi. Scatenavano la guerra per il controllo della droga a Varedo: nessuna pietà per i venditori di morte. Grazie ai carabinieri! Pene esemplari ed espulsioni!”. Eccolo il messaggio. Peccato, però, che l’operazione non fosse conclusa. E così all’incauto annuncio del ministro ha replicato il procuratore di Monza, Luisa Zanetti, magistrato tosto e con decenni di esperienza sulle spalle. “L’operazione – ha spiegato il magistrato – è tutt’ora in corso, l’anticipata pubblicazione della notizia espone a rischio il buon esito della stessa, a tempo debito verranno fornite le informazioni del caso”. La nota di Salvini è delle 10 di mattina, la risposta della Zanetti è delle 17.55 sempre di ieri. Una risposta non di poco conto, arrivata da un procuratore della Repubblica nei giorni in cui il ministero dell’Interno ha dato il via a dossieraggi su quei magistrati che bocciano le sue disposizioni in tema di sicurezza e immigrazione.

Insomma la storia si ripete. È infatti l’8 dicembre scorso quando Matteo Salvini alle 8.57 twitta: “Quarantanove mafiosi, colpevoli di estorsioni, incendi e aggressioni, sono stati arrestati poche ore fa dai carabinieri in provincia di Palermo. Le buone notizie non finiscono qui. Altri 15 mafiosi nigeriani sono stati arrestati a Torino dalla Polizia. Grazie alle Forze dell’Ordine! La giornata comincia bene!”.

Annuncio incauto soprattutto per l’inchiesta torinese, tanto che l’allora procuratore Armando Spataro rispose in modo diretto al vicepremier: “Ci si augura che, per il futuro, il ministro eviti comunicazioni simili a quella sopra richiamata o voglia quanto meno informarsi sulla relativa tempistica al fine di evitare rischi di danni alle indagini in corso”. Aggiungerà Spataro: “Coloro nei cui confronti il provvedimento è stato eseguito non sono 15 e le ricerche di coloro che non sono stati arrestati è ancora in corso”. A differenza di ieri, a dicembre Salvini replicò quasi subito a Spataro: “È inaccettabile dire che il ministro dell’Interno possa danneggiare indagini e compromettere arresti. Qualcuno farebbe meglio a pensare prima di aprire bocca. Se il procuratore capo a Torino è stanco, si ritiri dal lavoro: a Spataro auguro un futuro serenissimo da pensionato”. La vicenda finì sul tavolo del Csm che ha archiviato il caso assolvendo Salvini che ieri ci è ricascato con due annunci che hanno messo a rischio gli arresti.

Di Maio e Salvini si vedono e parlano (pure) di poltrone

Aquasi due settimane dalle elezioni europee, e dopo un paio di mesi di gelo vero, ieri Luigi Di Maio e Matteo Salvini sono riusciti a restare nella stessa stanza da soli per un’oretta buona. E poi hanno ricominciato a farsi la guerra un minuto dopo. Perché nonostante il “clima positivo” lasciato filtrare dai corridoi di Palazzo Chigi, i due vicepremier restano sostanzialmente divisi sul punto chiave dell’alleanza gialloverde: chi comanda?

Salvini, come prevedibile, è andato a dire a Di Maio che l’agenda la detta lui, a cominciare dalla flat tax (“prioritario per il rilancio del Paese”) e dalla manovra chiesta dall’Ue (“nessun aumento di tasse”). A differenza di quanto propagandato dal giorno in cui i rapporti di forza tra i due si sono ribaltati, di poltrone si è parlato eccome. Ed è forse questo il risultato più rilevante della chiacchierata tra nemici: aver fissato i paletti dei nuovi pesi.

Primo: servirà un ministro “politico” per rimpiazzare Paolo Savona. Gli Affari europei sono vacanti da quando il professore è andato a guidare la Consob, l’interim lo ha Conte, ma quel ministero fu svuotato fin dalla nascita del governo: Moavero Milanesi, con l’appoggio del Colle, traslocò alla Farnesina deleghe fondamentali come quelle sul Consiglio Affari generali dell’Ue, cioè il posto in cui – tra le altre cose – si preparano le riunioni del Consiglio europeo, l’assemblea dei governi che è il vero centro decisionale dell’Unione. È molto probabile, insomma, che il nuovo ministro – un “politico” appunto – voglia che quei poteri tornino a casa: tanto più che il nome lo deciderà la Lega.

La casella lasciata libera da Savona però non rientra nella partita del rimpasto: quella era vuota, spiegano, e viene semplicemente riempita. I cambi sono altri e ancora vedono come principali indiziati i ministri 5Stelle Danilo Toninelli e Giulia Grillo. Le Infrastrutture e la Sanità sono i due dicasteri che il Movimento potrebbe decidere di sacrificare, con l’obiettivo di cedere pezzi rilevanti di responsabilità all’alleato che finora, nella lettura M5S, se n’è assunte ben poche. Un’idea, quella del rimpasto, che lo stesso Di Maio avrebbe accennato già durante il suo incontro al Quirinale.

L’accordo, ovviamente, è ancora tutto da definire. E la settimana prossima verrà discusso anche con il presidente Conte, che ancora deve sciogliere la riserva annunciata al Paese lunedì. Ieri Di Maio ha provato a stanare l’alleato per capire che intenzioni ha: “Che vuoi fare? – è il senso del ragionamento che ha fatto a Salvini – Dimmi seriamente, io ci sono. Ci servono due o tre punti condivisi, ma devi dirmi se hai voglia”. L’altro gli avrebbe risposto di sì, “andiamo avanti”. Ovviamente non basta per superare i sospetti reciproci. Che rimarranno tali almeno fino a luglio, quando si chiuderà la finestra per andare a votare in autunno.

Putin: “Italia amica, ma sulle sanzioni non ci darà una mano”

Non sono sovranisti,i politici dei movimenti di destra che si stanno affermando in Europa. Almeno secondo il presidente russo Vladimir Putin. Lo “zar” non si sottrae alle domande scomode sull’attualità, nell’incontro con le agenzie di stampa internazionali a San Pietroburgo: “Non sono forze filo-russe, ma sono pro-tedesche, pro-ungheresi o pro-italiane – spiega – Semplicemente credono che le buone relazioni con la Russia soddisfino i loro interessi nazionali e quelli europei”. Nessuna influenza moscovita o sovranismo in Europa o negli Usa, quindi? “I politici di destra che stanno rafforzando la loro posizione nel Parlamento Ue non hanno alcun rapporto con Mosca – assicura Putin – Non abbiamo nulla a che fare con loro, proprio come non abbiamo nulla a che fare con la campagna di Trump”. Il presidente parla anche dell’Italia: “Per la Russia resta un Paese importante, con il quale abbiamo un rapporto speciale. Credo che la nostra collaborazione si svilupperà sempre di più”. Putin non si aspetta, però, aiuti sulla questione delle sanzioni commerciali: “L’Italia fa parte di un contesto internazionale, è Paese membro della Nato e dell’Unione europea, e non penso possa agire indipendentemente”.

Caso Consip al Csm: il Palamara uno e bino contro Woodcock

Nel Csm con Luca Palamara potente consigliere di Unicost c’era un cerchio magico o, come dicono molti consiglieri, un “giglio magico” che andava oltre le correnti e ha dominato in due gangli cruciali del Csm: la sezione disciplinare e ala Prima commissione. La disciplinare processa i magistrati, la Prima li può trasferire e può cambiare la funzione per condotte non dolose.

Palamara filava d’amore e d’accordo in particolare con l’allora vicepresidente Giovanni Legnini, con Paola Balducci, laica di sinistra, con Antonio Leone, laico di Ncd, presidente di fatto della Disciplinare a cui Legnini aveva delegato una gestione discutibile secondo i consiglieri di Area, la corrente progressista. Scrissero persino al presidente Sergio Mattarella. Alla luce dell’inchiesta di Perugia, che vede Palamara indagato per corruzione e che sta attenzionando atti del precedente Consiglio, viene in mente una seduta di Prima commissione, che si intreccia con la Disciplinare. È il 29 marzo 2018 e si parla del pm di Napoli Henry John Woodcock alla presenza legittima ma – secondo ex consiglieri – inopportuna di Palamara. Quel giorno si discute del fascicolo sulla gestione dell’inchiesta Consip, l’indagine passata per competenza da Napoli a Roma, diventata kriptonite perché coinvolge il “giglio magico” di Renzi, da Luca Lotti al padre Tiziano.

Tutto regolare dal punto di vista delle norme. Ogni consigliere, anche se non componente, può partecipare ai lavori di commissione. In quel periodo, però, Palamara faceva parte del collegio disciplinare che stava processando Woodcock e la collega Celeste Carrano proprio per il caso Consip. E, a quella seduta, dicono ex consiglieri, fornisce dei suggerimenti. Per esempio, ricorda un ex Csm, “ci propose di sentire il capo dei gip di Napoli Giovanna Ceppaluni su come funzionava la rotazione dei giudici che dovevano esaminare le richieste di intercettare dei pm”. Tradotto, verificare se Woodcock potesse “scegliersi” il gip a piacimento. Altro suggerimento di Palamara, “fu quello di chiedere l’audizione del procuratore Giuseppe Pignatone”, ci dice un altro ex consigliere. Si sa, dal processo disciplinare, che Pignatone, ascoltato dal pg della Cassazione Mario Fresa, ha dissentito dalla scelta dei colleghi napoletani di interrogare l’ex consulente di Palazzo Chigi Vannoni come testimone e non come indagato. Palamara ha negato qualsiasi interferenza e, mesi fa, ci ha detto di esserci andato perché invitato come ex relatore del fascicolo in Commissione. Non ha pensato, per evitare polemiche, a inviare una nota. Il verbale della seduta, redatto settimane dopo, sintetico, non reca traccia di quegli input di Palamara.

Per capire l’inopportunità di alcune scelte, basta dire che Leone era quasi sempre presidente dei collegi disciplinari e allo stesso tempo componente della Prima commissione, che può esaminare casi comuni, per profili diversi. Di più, nel 2017-2018 Leone diventa il presidente della Prima, nonostante la contrarietà del capo dello Stato, proprio per questo doppio ruolo. Quando Leone diventa presidente della Prima, Palamara lascia per presiedere la Quinta, competente sulle nomine. Al suo posto subentra il fedelissimo Massimo Forciniti, anch’egli, come Palamara, di Unicost. Ed è un fatto assai singolare perché Forciniti è pure in Settima commissione, che ha gli stessi orari della Prima. Dunque, se vuole, può determinare la velocità delle pratiche in entrambe le commissioni per sue presenze o assenze.

Ma è la sezione disciplinare oggetto di scontri riservatissimi dentro al Csm, a partire dalla delicatissima formazione dei collegi giudicanti. Il casus belli finale, con tanto di lettera a Mattarella, è il cambio repentino del collegio per il processo disciplinare a carico di Camillo Romandini, giudice della Corte d’appello di Roma ed ex presidente della Corte d’assise di Chieti finito sotto inchiesta penale e archiviato per una controversa assoluzione-prescrizione per gli imputati al processo per la discarica dei veleni di Bussi, in Abruzzo, la Regione di Legnini. Il disciplinare viene fissato per il 2 marzo 2018: presidente Leone, giudici Antonello Ardituro (relatore) Paola Balducci, Ercole Aprile, Lucio Aschettino e Lorenzo Pontecorvo. L’udienza, però, salta perché il 22 febbraio l’avvocato di Romandini, Gianfranco Iadecola, aveva chiesto un rinvio per motivi di salute del suo assistito. Leone, senza riunire il collegio, rinvia al 10 maggio. Così cambia parte della composizione: via Aprile e Aschettino e al posto di Ardituro diventa relatore Palamara, per decisione di Legnini. Ardituro e Aprile gli inviano una lettera di rimostranza: “È stato violato il principio del giudice naturale”, cioè il giudice precostituito per legge.

Ercole Aprile, a fine 2015 aveva già scritto a Legnini. Segnala quelle che per senso istituzionale chiama “disfunzioni” e “disservizi” nei meccanismi di composizione dei collegi. Chiede nuove tabelle di organizzazione. Invano. Pochi giorni dopo gli scrivono ribadendo il concetto, tutti i togati di Area: Aprile, Ardituro, Aschettino, Clivio, Fracassi, Morosini e Napoleone. Chiedono, tra l’altro, che nei collegi ci sia “un’adeguata rotazione” dei togati, come in passato. Ai consiglieri risponde piccato non Legnini, ma Leone che parla di “insinuazioni”. Altra lettera a Legnini, questa volta solo dei giudici supplenti, Aprile, Ardituro, Aschettino e Napoleone. Protestano per la risposta ricevuta da Leone e non dal presidente della sezione disciplinare, cioè Legnini. E parte la rimostranza al Quirinale. Legnini è costretto a varare nuove tabelle, ma ormai è tardi. Nel 2018 se ne va dalla disciplinare anche il dirigente amministrativo Vincenzo Palumbo. Ha preferito l’Aisi, il servizio segreto interno.

La disciplinare per mesi ha perso anche la mai sostituita Elisabetta Casellati. I franchi tiratori silurano sia Renato Balduzzi (Scelta civica) sia Alessio Zaccaria (M5S). Qualcuno, allora, disse quella che sembrava una pura cattiveria: “Non vogliono estranei al loro cerchio”. Ex post forse non era una battuta così tanto cattiva.