Emma Fighetti addio a 108 anni. Fu la sarta dei partigiani a Milano

Nel 2016, quando di anni ne aveva 105, dopo aver ricevuto un’onorificenza dal prefetto di Milano si era messa a ballare e a cantare Bella ciao. Con Emma Fighetti, scomparsa ieri a 108 anni, se ne va un pezzo straordinariamente significativo della Resistenza, non solo milanese. Era chiamata “la sarta” della Resistenza perché il suo laboratorio era diventato una base per l’attività antifascista e antinazista. Nell’ottobre del 2016, le furono conferiti dal ministero della Difesa la medaglia e il diploma di partigiana. E fu in quell’occasione che Emma intonò Bella ciao. Di lei si ricorda il comizio che tenne dalla finestra della Casa del Popolo di Baggio, dove viveva, subito dopo la Liberazione, davanti alla popolazione del quartiere tra cui anche molte donne. Le stesse dei “Gruppi difesa della donna” che con lei poi furono protagoniste di un corteo in bicicletta, Emma avvolta da una bandiera rossa ricavata da pezzi di stoffa del suo laboratorio.

Lei e le altre avevano dato rifugio ai partigiani braccati, ai renitenti alla leva dopo l’8 settembre, avevano fatto da staffetta, portando messaggi tra i componenti delle brigate. Fino all’ultimo ha cucinato per figlie e nipoti e si arrabbiava anche se non mangiavano.

Lucchese, ultimo match a Bisceglie La trasferta la pagano tutta i tifosi

Sarà l’ultima colletta di questa travagliata stagione. Poi da lunedì il futuro della Lucchese passerà nelle mani del giudice del Tribunale di Lucca che dovrà decidere sulla procedura di concordato preventivo presentato dalla società per evitare il terzo fallimento in undici anni. Ma prima di allora, sabato sera, ci sarà da combattere l’ultima battaglia: la squadra toscana si gioca la permanenza in Serie C a Bisceglie (Barletta) nel ritorno dei play-out contro la squadra locale. Problema: da febbraio la società non paga più gli stipendi ai suoi dipendenti e non ci sono nemmeno i soldi per organizzare le trasferte di campionato. Così i giocatori da marzo si comprano autonomamente le bottigliette d’acqua, fanno i turni per tagliare l’erba dello stadio Porta Elisa e per lavare e stirare le magliette. E le trasferte, compresa quella di sabato a Bisceglie, sono state finanziate con una colletta di tifosi e imprenditori lucchesi particolarmente affezionati alla squadra: 50 mila euro circa negli ultimi tre mesi per il viaggio, il vitto e l’alloggio di giocatori e dirigenti. Ieri sera in un famoso bar del centro, i supporter rossoneri hanno anche organizzato un aperitivo per raccogliere gli ultimi soldi e finanziare la trasferta della squadra. Non solo: i tifosi della Lucchese si stanno mobilitando in massa per andare a sostenere l’undici toscano nonostante i 1.400 chilometri di distanza. Due pullman sono già stati riempiti e molto probabilmente si arriverà a tre, ma molti tifosi si organizzeranno autonomamente con le proprie auto o i voli aerei. Sabato sera dovrebbero essere 300 i sostenitori che da Lucca sbarcheranno in Puglia. L’obiettivo è quello di difendere l’1-0 dell’andata al Porta Elisa per salvare una stagione che, comunque vada, ha fatto battere molti cuori in città: salvarsi con 23 punti di penalizzazione e senza più l’acqua e il gesso per il terreno di gioco, sarebbe davvero un’impresa.

Il direttore dell’Ospedale ordina: “Crocifisso obbligatorio nelle stanze di degenza”

L’oggetto della circolare era chiaro: “Posizionamento crocifissi in stanze degenza”. Con questa comunicazione una settimana fa, il direttore facente funzioni dell’ospedale di Chivasso (Torino) Alessandro Girardi ha informato il personale e i funzionari che “a partire dal giorno 10 giugno e a seguire verranno posizionati presso tutte le stanze di degenza del presidio i crocifissi”. Per questo raccomanda a medici, infermieri e personale la disponibilità “massima” per consentire ai manutentori di “svolgere in tempi brevi il compito”. La foto del documento ha cominciato a circolare sui telefoni fino a quando non è arrivata a Silvio Viale, esponente dei Radicali a Torino e medico ginecologo: “C’è sempre qualcuno più salviniano di Salvini – ha polemizzato su Facebook – Chissà se farà mettere anche un rosario appeso ai letti”.

Anche il consigliere regionale del Piemonte di “Liberai uguali verdi”, Marco Grimaldi, ricollega l’iniziativa a uno spirito “salvinista”: “Ciò che è penoso è questo meccanismo. Bacia il rosario, appendi il crocifisso e, il giorno stesso, magari spiegaci anche che la colpa di questa crisi è di chi scappa dalla guerra e dalla miseria”.

Lorenzo Ardissone, direttore generale dell’Asl Torino 4 sotto la cui competenza ricade anche l’ospedale di Chivasso, ridimensiona tutto: “I crocifissi ci sono sempre stati. In alcune stanze erano rotti e mancavano, per cui ho dato disposizione che fossero rimessi – spiega tramite l’ufficio stampa –. Se qualche paziente non lo volesse, lo faremo togliere”. Una risposta che non piace a Viale: “Pensa che ci sia ancora una religione di Stato che imponga i crocifissi e che la laicità sia una stravaganza”. I crocifissi, dice il radicale, “se possono non dar ‘fastidio’ quelli rimasti, decidere di metterli ha tutt’altro significato”.

Bimbo morì per un’otite curata con l’omeopatia: patteggiano i genitori, il medico va a processo

Bambino morto a 7 anni per un’otite non curata, rinviato a giudizio il medico omeopata. Dopo la condanna a tre mesi, pena sospesa, per i genitori del bambino, residenti a Cagli nel Pesarese, ieri è arrivata la decisione del gup di Ancona: il dottor Massimiliano Mecozzi andrà a processo, il via il prossimo 24 settembre. Il piccolo Francesco Bonifazi fu portato d’urgenza all’ospedale pediatrico “Salesi” di Ancona pochi giorni prima della sua morte, avvenuta il 27 maggio 2017. Il suo trasferimento al centro d’eccellenza regionale si era rivelato tardivo oltre che inutile. Il medico di famiglia dei Bonifazi aveva scelto una cura omeopatica per curare una grave forma di otite trasformata poi in una encefalite batterica che non ha dato scampo al bambino. Una vicenda drammatica che all’epoca tenne col fiato sospeso l’opinione pubblica. Francesco rimase in coma farmacologico per diversi giorni, senza mai riprendersi, fino al giorno della morte. L’indagine partì all’istante e portò all’accusa nei confronti dei genitori di Francesco che hanno patteggiato la pena a tre mesi per l’accusa di concorso in omicidio colposo aggravato. Ora si attende il processo all’omeopata. La colpa del papà e della mamma di Francesco, secondo l’accusa, è stata quella di affidarsi al dottor Mecozzi e alle sue cure omeopatiche per risolvere una fastidiosa otite che col tempo è peggiorata fino a provocare un danno cerebrale irreversibile. I genitori del bimbo si sono difesi affermando di essere preoccupati, all’epoca, per le continue cure antibiotiche a cui Francesco era stato sottoposto. Cure omeopatiche al contrario, secondo la coppia, da cui il bambino in passato aveva tratto beneficio. Le altalenanti condizioni di salute del bambino nelle settimane precedenti alla morte avrebbero creato confusione e provocato la scelta della famiglia di cambiare tipologia di cure.

Lo storico Palazzo Nardini resta vincolato e non potrà diventare albergo di lusso

Palazzo Nardini, splendido edificio quattrocentesco a pochi passi da piazza Navona, sede del governatore dello Stato Pontificio tra Sei e Settecento, della Pretura negli anni 30 e Casa delle donne fino al 1984, non passerà nelle mani della famiglia Armellini per diventare un hotel o abitazioni di lusso. Con un sentenza arrivata ieri, il Tar del Lazio ha respinto il ricorso presentato da Regione Lazio e Invimit sgr (società che gestisce fondi immobiliari pubblici, di proprietà del Mef) contro il vincolo di interesse storico artistico apposto dalla Soprintendenza di Roma che ne sancisce l’inalienabilità. “Risalta in modo chiaro – scrive il Tar – la rilevanza del bene sotto il profilo non solo culturale e artistico, ma anche di collegamento identitario”.

Il complesso, 6500 metri quadri provvisti di torre, cortili e pareti affrescate, era stato venduto alla fine del 2017. Con una perdita erariale di quasi 15 milioni di euro (non bastava la trasformazione in residenza di lusso?). Già perché il Nardini, prima del Comune, poi ceduto alle Asl regionali era stato acquistato dalla stessa Regione (nella cui competenza ricadono per l’appunto le Asl) per 37 milioni e mezzo di euro all’epoca di Storace. In stato di abbandono, nel 2004 viene finanziata una sua corposa ristrutturazione che costò alle casse pubbliche cinque milioni e mezzo per un totale, tra acquisto e restauro, di 43 milioni di euro. Ma quando la Regione lo conferisce alla Invimit per la vendita, la base d’asta è di 18 milioni. Ad aggiudicarselo a fine 2017 la Lemon Green della famiglia Armellini (che i romani ricordano per le “case di sabbia”, alloggi popolari costruiti a Ostia quarant’anni fa) per un prezzo che si aggirerebbe intorno ai 28 milioni. Quindi l’intervento della Soprintendenza di Roma (nonostante il Mibac nel 2016 avesse autorizzato l’alienazione) e due ricorsi di Invimit e Regione che il Tar prima accorpa e poi, ieri, respinge.

È lo stesso governatore del Lazio, a ottobre del 2018, che autorizza la procedura (con la Lemon Green come parte cointeressata). Uno strano giro di boa perché a gennaio dell’anno scorso proprio Nicola Zingaretti scriveva a Repubblica per difendere le scelte in merito alla “valorizzazione” – tradotto dal lessico regionale vuol dire spesso vendita – dei suoi immobili specificando che “sul palazzo storico resterà sempre, ovviamente, il vincolo d’interesse storico-artistico-culturale”. È vero, così com’era il palazzo abbisognava di qualche ritocco perché da anni, nonostante il costoso restauro, era stato lasciato a se stesso, con finestre rotte o schermate da veli di plastica. Anche se i soffitti da mille chili, la parte più costosa del restauro, realizzati perché sostenessero la Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte del Mibac come da progetto iniziale, resistono ancora indomiti. Eppure l’Invimit sul suo sito suggeriva destinazioni alberghiere che poco hanno a che vedere con storia e cultura della capitale. Che adesso, a meno di ulteriori battaglie al Consiglio di Stato, se lo riprende.

Anzaldi (Pd): “Maglie svela trame gialloverdi Prendete il filmato!”

“Le rivelazioni della giornalista Maria Giovanna Maglie alla trasmissione Belve di Francesca Fagnani, in onda domani (oggi, ndr) sul Nove, scoperchiano un quadro di pesante ingerenza politica intorno alla striscia che le era stato proposto di condurre dopo il Tg1. Ingerenza che arriva ai massimi vertici del governo. Maglie parla dell’interessamento diretto del vicepremier Salvini, dell’interlocuzione avuta con il presidente della Rai Foa, dell’opposizione dell’altro vicepremier Di Maio. Non spetta a Foa reclutare conduttori, né ai vicepresidenti del Consiglio dare il loro benestare o stoppare un’assunzione”. Lo scrive il deputato Pd e membro della commissione di Vigilanza sulla Rai, Michele Anzaldi, dopo aver letto le anticipazioni dell’intervista. “Il presidente della Vigilanza Barachini valuti di chiedere alla giornalista Fagnani e al canale Nove la possibilità di mettere a disposizione della commissione il filmato integrale dell’intervista”. Fagnani – che conduce il programma prodotto da Loft, piattaforma della società editrice del Fatto – l’ha buttata sull’ironia: “L’unica volta che mi chiesero (anzi sequestrarono) il filmato integrale di un’intervista il tema era Mafia capitale e a chiedermelo erano i Ros. Giudicate voi”.

Quando Lo Voi perse e vinse col trucco del Colle

E ora sta a Sergio Mattarella battere un colpo dopo lo scandalo che ha travolto il Csm. E non solo perché Matteo Salvini ieri lo ha incalzato senza farne mistero: “Il presidente della Repubblica dirà o farà qualcosa, visto che è supremo garante del Csm: la situazione è preoccupante”, ha detto il leader del Carroccio in pressing sul Colle nel momento in cui a Palazzo dei Marescialli si cammina sulle uova, oltre che su un crinale molto pericoloso.

Perché il disvelamento degli incontri fuori dalle sedi istituzionali di quattro togati del Consiglio con Luca Lotti e Cosimo Ferri del Pd e Luca Palamara, indagato per corruzione nell’ambito della stessa inchiesta che è costata le dimissioni ad un altro magistrato eletto nell’organo, hanno fatto salire il Guardasigilli Bonafede, salito al Colle dal presidente della Repubblica.

Per la verità questo inatteso rimescolamento di carte a qualcuno non dispiace affatto. Francesco Lo Voi, ad esempio, che coram populo era largamente accreditato come il successore naturale di Pignatone e che, invece, si era visto scavalcare da Marcello Viola ed ora torna a sperare. Anche perché è abituato ai colpi di scena e ai ribaltoni: tutti finora a suo favore. Nel 2014 la commissione incarichi direttivi del Csm a guida Michele Vietti, ormai in scadenza, si era già pronunciata lasciandogli poche speranze di ottenere l’incarico di procuratore a Palermo. Ma poi Giorgio Napolitano aveva invitato Palazzo dei Marescialli a rinviare, in modo che fosse il nuovo plenum a decidere. E nella consiliatura 2014-2018, evidentemente, gli equilibri erano mutati all’interno del nuovo Csm, che infatti scelse proprio Lo Voi, con buona pace delle ambizioni dei candidati che, solo pochi mesi prima, erano stati valutati più meritevoli per il posto: Guido Lo Forte e pure Sergio Lari avevano poi fatto ricorso, ritenendo il loro profilo di capi procura incomparabili rispetto a Lo Voi che proveniva da un incarico fuori ruolo a Eurojust e non aveva mai diretto un ufficio giudiziario. E al Tar avevano pure vinto.

Ma poi il Consiglio di Stato aveva ribaltato la decisione, confermando Lo Voi a Palermo con una sentenza del collegio presieduto da Riccardo Virgilio e di cui era stato estensore Nicola Russo, magistrati entrambi finiti poi nei guai nell’inchiesta di Roma per una presunta compravendita di provvedimenti giudiziari con la regia di Pietro Amara.

Prima che si pronunciasse il Consiglio di Stato, il Tar invece aveva ritenuto che qualche motivo di irragionevolezza vi fosse stata da parte del plenum incaricato da Napolitano di scegliere il nuovo procuratore. E Lo Voi aveva certo goduto di sponsor d’eccezione: a essere incaricata del ruolo di relatrice di quella pratica delicatissima, Maria Elisabetta Alberti Casellati, allora consigliera laica e oggi presidente del Senato. Che per un intero pomeriggio si era sgolata contro quanti si ostinavano a sostenere che il magistrato fosse meno titolato per l’incarico rispetto ai due suoi concorrenti. Volarono pure parole grosse quel 17 dicembre. E alla fine, quando Lo Voi venne nominato procuratore a maggioranza, il vicepresidente Giovanni Legnini si dovette incaricare di porre un freno alle polemiche negando qualunque interferenza di Napolitano.

Non prima che, nel pieno del dibattito che aveva preceduto il voto, l’aria si facesse irrespirabile: specie quando Ercole Aprile di Area tirò fuori la citazione del Berretto a sonagli di Pirandello. Quel “pupo io, pupo lei, pupi tutti” fu un cazzotto nello stomaco. Perché quel rinvio chiesto e ottenuto dal Capo dello Stato aveva fatto deflagrare i sospetti che si volesse a Palermo un procuratore in grado di raffreddare il protagonismo dei magistrati impegnati nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Sospetti, ora come allora, manco a dirlo velenosissimi

Bonafede va da Mattarella: “Ora riscriviamo le regole”

L’incontro lo ha chiesto perché “serve una reazione”. Di fronte allo spettacolo non edificante offerto dal Consiglio Superiore della Magistratura sulle trame per la nomina del nuovo capo della Procura di Roma, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha deciso che fosse il caso di salire al Quirinale. E ieri, per una trentina di minuti, ha espresso al presidente della Repubblica Sergio Mattarella tutta la sua “preoccupazione” per quello che sta accadendo nell’organo di autogoverno della magistratura.

Ma al di là dello sgomento, quello di cui si è discusso al Colle è anche il “piano di riforme”, che è già allo studio di via Arenula e su cui il Guardasigilli auspica che “le istituzioni siano compatte”. Non ci sono solo i due punti già previsti dal contratto di governo gialloverde. Perché se nel testo firmato un anno fa, al capitolo dedicato al Csm, si riteneva soltanto “opportuna” una “revisione del sistema di elezione” in modo “da rimuovere le attuali logiche spartitorie e correntizie”, oggi quel bisogno è diventato una necessità. Così come non è più derogabile, alla luce dei giorni nostri, rinviare la chiusura delle “porte girevoli”: “Il magistrato che vorrà intraprendere una carriera politica – si legge nel contratto – deve essere consapevole del fatto che, una volta eletto, non potrà tornare a vestire la toga”, né come giudice né come pubblico ministero.

Ma, ragionano in via Arenula, l’inchiesta di Perugia sui magistrati romani impone altri anticorpi. Dalle modalità di denuncia di eventuali illeciti fino alle misure “anti-spartitorie”, passando per i paletti “meritocratici” da rafforzare nella carriera dei magistrati. Il punto, adesso, è chi la fa, questa riforma.

Perché nel ragionamento del ministro Bonafede si fa esplicito riferimento alle “istituzioni compatte” che devono lavorare insieme: bisognerà trovare, in sostanza, l’equilibrio tra un intervento che non appaia come un commissariamento della politica sulla magistratura ma nemmeno venga affidato esclusivamente all’autonomia delle toghe in un momento a così alto tasso di fragilità.

Più o meno lo stesso bivio a cui il titolare della Giustizia si trova di fronte adesso. Dopo aver attivato gli ispettori, già nei primi giorni di maggio, ora deve decidere se far partire l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati coinvolti o se attendere l’iniziativa della Procura generale della Cassazione. In ogni caso, si tratterà praticamente di un unicum nella storia del Consiglio superiore della magistratura.

Le uniche “macchie” della sua storia, finora, avevano visto protagonisti due membri laici: il professor Ugo Zilletti, vicepresidente del Csm costretto alle dimissioni per lo scandalo P2 e l’avvocato Matteo Brigandì, leghista, autore del dossieraggio ai danni della pm Ilda Boccassini.

Sgominato il feroce clan di San Severo in affari coi camorristi

“Si devono mettere in testa che non sono al sicuro da nessuna parte… perché questo è il paese nostro”, dicevano i mafiosi di San Severo pianificando pestaggi, spartendosi i traffici illeciti e dando vita a nuovi feroci clan autonomi e indipendenti dalla Società Foggiana. Dopo tre anni di indagini, la Dda di Bari con 49 arresti per mafia, droga, armi, estorsioni e agguati, ha dimostrato che quel paese, invece, è dei cittadini. Solo nell’ultimo anno sono stati arrestati più di 800 criminali. Quello che emerge dal blitz di ieri, eseguito dalla polizia in tutta Italia con centinaia di uomini e anche un drone che ha consentito di individuare due piantagioni di marijuana, è che a San Severo le famiglie facenti capo a Franco Nardino e a Giuseppe La Piccirella avevano messo in piedi due distinti clan che si contendevano il controllo dei traffici illeciti in città. Le indagini di mobile e Sco hanno raccolto intercettazioni telefoniche di 168 utenze, ambientali in auto, in abitazioni e colloqui in carcere. Sono così stati accertati i rifornimenti di droga dall’Olanda, i contatti con la Camorra campana, le estorsioni a imprenditori “con la modalità tentacolare tipica della mafia foggiana di avvolgere la vittima”.

Grillo: “Nessun taglio alla salute, la clausola non si applicherà mai”

Per tuttala giornata di ieri, la circolazione della bozza del nuovo Patto per la Salute (2019-2021) ha scatenato i sindacati dei medici e anche il Pd: il testo, infatti, all’articolo 1 nel confermare gli stanziamenti del fondo sanitario nazionale previsti per i prossimi anni ipotizza su di essi una modifica “in relazione al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e a variazioni del quadro macroeconomico”. Anche se gli attacchi sono arrivati pure da Maurizio Martina e dal Pd, in realtà si tratta della stessa dicitura che era presente nel Patto per la Salute 2014-2016 e che alla fine aveva ridotto la dotazione per la sanità di circa quattro miliardi di euro (da 115,5 a 111). L’allarme, in questo caso, è anche giustificato dal fatto che la bozza sia circolata nelle ore dell’annuncio della procedura di infrazione di Bruxelles: “In queste ore sta circolando una bozza del Nuovo Patto per la salute – ha detto ieri la ministra della Salute Giulia Grillo – . Questa clausola per me è inaccettabile e voglio precisare che è stata voluta dagli uffici del Mef. La sanità ha già dato tutti i contributi che poteva dare. Dalla sanità non è più possibile prendere un centesimo. Questo automatismo io non lo condivido”.